Tesi_Fin dove si vede. Viabizzuno headquarters a Bentivoglio (Bologna)

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Fin dove si vede Nei luoghi dove è originaria la malinconia Viabizzuno headquarters a Bentivoglio (BO)


Prefazione Traversata delle pianure Tagliando per i campi

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Costellazioni

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L’occupatore

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In una giungla di cemento Case sparse

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Sotto questo cielo metallico

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Tra tecnica e linguaggio

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Università degli Studi di Firenze DIDA | Scuola di Architettura Laurea Magistrale a ciclo unico in Architettura anno accademico 2019-2020 Relatore Prof. Fabrizio F.V. Arrigoni Correlatore Prof. Giovanni Cardinale


Enrico Lanfredini


Ringrazio l’azienda Viabizzuno per la sensibilità e la serietà messe a disposizione durante l’intero lavoro.

Via Luciano Romagnoli, 10 40010 Bentivoglio BO +39 051 890 8011


Fin dove si vede


Viaggiando nelle periferie della valle padana è difficile non sentirsi stranieri. Appena fuori dalle città finisci in un paesaggio anonimo che per trasformarsi in industria ha furiosamente svenduto se stesso. Al mattino in queste pianure la luce è completamente assorbita dai colori del suolo. C’è un vapore azzurrino che fa svanire le distanze, e oltre un certo raggio si capisce che le cose sono là, disperse nello spazio. Ciò che più di tutto sorprende è questo nuovo genere di campagne, dove si respira un’aria di emarginazione urbana. Qualcosa che assomiglia all’attraversamento di una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni. Ogni momento in avanti è spazio vuoto, tempo vuoto da colmare, riempito da un numero sconfinato di cartelli pubblicitari, da nomi di località inesistenti e da molto cielo, un cielo larghissimo sopra la distesa di appezzamenti a rettangolo, tagliati da fossi e ampie carreggiate. Interminabili rettifili ad alta velocità di scorrimento mettono in comunicazione le principali città emiliane, mentre tutto intorno piatte campagne, case, alberi e campanili affiorano, molto bassi sul fondo, lontani e dispersi nello spazio. L’autostrada Bologna-Padova è una marea di traffico pesante, incessante rumore di camion che passano e aria che vibra. Una costellazione di fabbriche e capannoni industriali. Nella grigia giungla di cemento dell’area produttiva Castello-Bentivoglio, a pochi chilometri a nord di Bologna, la nuova fabbrica esprime il linguaggio dell’architettura rurale. Il padiglione produttivo, insieme al centro ricerca, lo showroom e il teatro disegnano una corte intorno alla quale si articola e si distribuisce l’intero sistema, diffidente verso ciò che esternamente lo circonda. La torre, insieme a un filare di pioppi cipressini trasforma per un istante l’interminabile autostrada in una qualunque strada di campagna.


Traveling in the suburbs of the Po valley it is difficult not to feel foreigners. Just outside the cities you find yourself in an anonymous landscape that has furiously sold itself out to become an industrial area. In these plains, the morning light is completely absorbed by the colours of the ground. A light blu vapor hides distances vanish, and beyond a certain range it is clear that things are there, scattered in the space. But what is most surprising is this new kind of countryside, where you can smell an air of urban marginalisation. It is something that feels like crossing some kind of desert of solitude, which is, however, everyday life. Every moment is empty space, empty time to fill, completed by an infinite number of signboards, names of unreal places and sky, a wide sky above the expanse of rectangular plots, cut by ditches and wide roadways. Endless highspeed roads connect the main cities of Emilia together, while flat countrysides, houses, trees and bell towers emerge all around, low on the background, far and lost in the distance. The Bologna-Padua highway is full of heavy traffic, the sound of trucks passing trough and the air is vibrating. A constellation of factories and industrial warehouses. The new factory expresses the rural architecture language in the gray concrete jungle of the Castello-Bentivoglio production area, wich is located a few kilometers north of Bologna. The production pavilion, together with the research center, the new office block, the showroom and the theater draw a courtyard around which the entire system is structured and distributed, wich appears suspicious of what surrounds it externally. The tower, with a row of italian poplars, turns the endless highway into a common country road for a moment.



“Se hai la sensazione di capire tutto, passa la voglia di osservare.”


Traversata delle pianure


Tagliando per i campi La pianura del Po potrebbe delineare la terra di confine materiale e ideologico tra il mondo centroeuropeo e il mondo mediterraneo. In verità nell’immenso spazio che abita questo confine si sviluppa una realtà che Cesare Zavattini definisce generatrice di malinconia, un cortocircuito tra natura e sfruttamento della natura e persone che ci vivono. L’estensione e la continuità del paesaggio, con il ripetersi di acqua, tralicci, condomini, alberi, case rurali, chiese e la più generale assenza della figura umana, provoca in chi percorre, ma più di tutti in chi abita questi luoghi, un conflitto viscerale combattuto tra la sensazione di più sperduta solitudine e la convinzione che ha chi viaggia di essere l’unico a coordinare lo spazio con un progetto. La bassa padana è un territorio ben poco definito. Come la nebbia che spesso d’inverno la pervade, non presenta confini chiari. E non ha un’organizzazione interna riconoscibile, con una precisa gerarchia di luoghi: è una vasta distesa di terre di pianura interrotte ogni tanto da qualche paesino che sembra più un’isola che un paese. Lungo le strade di campagna i colori sono tutti smorzati, sfumature di ocra e seppia, il colore del mattone vecchio in una chiesa, il grigio polveroso dell’acciottolato fino in fondo alla strada, gente pallida che sta quieta in un bar aspettando che il tempo passi. La cosa che sorprende maggiormente anche di fronte all’inquinamento del Po, agli alberi malati, alle puzze industriali, allo stato d’abbandono in cui volge tutto quanto non ha a che fare con il profitto, è la sensazione di attraversare luoghi dove nessuno vuole abitare perché non succede mai niente. Per chi vive qui la linea di terra dell’orizzonte, lontana e senza ondulazioni, diventa confine tangibile e sancisce per alcuni la fine inafferrabile e offuscata dalla nebbia della malinconia, per altri invece disegna un limite troppo lontano, per quelli che sono troppo uguali a questi luoghi, per cercare altro.

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Fermo immagine del videoclip Coma_Cose-Mancarsi, Crooner Films, 2019.

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Le campagne sono là, solcate da schemi geometrici ad ampie maglie di vie carrabili e campestri, per la maggior parte sconosciute ai più; così comincia il cammino lungo queste terre. Quando percorri queste strade senti chiaramente che il ritmo del viaggio rallenta per sincronizzarsi con quello della vita che c’è qui. Per sincronizzarsi al vento leggero sugli alberi, all’attesa dei pescatori, alla concentrazione degli aironi, alle nuvole immobili. La sistemazione del suolo, dominato da lisce superfici di arativa piattezza, inciso in modo uniforme da una griglia regolare di fossi di drenaggio, ha raggiunto un tal peso da costituire una tra le caratteristiche più importanti del paesaggio. Nella grande piana, senza alcun tipo di ondulazioni, non esistono più fontane lungo le vie suburbane e gli stradoni tutti dritti non accorciano proprio un bel niente. Le strade a scacchiera immutabili per trenta o quaranta chilometri, i sentieri su e giù dagli argini dei canali, i solchi di diverse colture, hanno tutti una linearità che sembra convergere in prospettiva verso lo stesso punto d’orizzonte. Zone così piatte e uniformi che tutto compare ad altezza d’occhio, si sente quasi nostalgia di un punto un po’ sopraelevato per guardarsi attorno. Quando viaggi sembra di avanzare di pochi centimetri l’ora anche perché la scena resta fissa per un lungo arco di tempo e l’orizzonte dice sempre che sei disperso in un punto qualsiasi sulla linea della terra, come le cose che si vedono in distanza, come i campanili lontani che fanno asse con chi cammina per un bel pezzo. Bisogna cercare un altro punto con cui fare asse, e immaginare che ci si arriverà una volta o l’altra. Sotto questa interminabile distesa di cielo tutto è immobile, grigio, tranquillo. Qualsiasi cosa sviluppi maggiormente la dimensione verticale diventa allora autorevole: rivela un singolare episodio di sospensione in tutta questa piattezza.

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Foto di “La bassa padana. Sparse per la pianura nella provincia bolognese”, Enrico Lanfredini, 2019.

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In contrapposizione al dominio incontrastato del piano orizzontale che dà luogo a un generale disorientamento, qui la verticalità costituisce quasi un ideale architettonico. Il campanile, la torre si manifestano come una costante del paesaggio padano, elemento costruito presente in forma diffusa su tutto il territorio. Nella bassa si parla generalmente di torre rurale circoscrivendola all’ambito extraurbano e sottolineando il suo stretto legame con l’agricoltura. La torre può essere considerata come dispositivo esterno all’insediamento agreste in quanto traccia appartenente e ordinatrice del paesaggio. Era principalmente usata per essere visti più che per guardare: erigere la colombaia era un diritto di prestigio, in quanto concesso alla famiglia richiedente in funzione del rango di appartenenza e della proprietà terriera posseduta. Lo spostamento della riflessione sul piano verticale pone immediatamente l’attenzione lungo i fiumi, dove filari di salici, olmi e pioppi disposti su linee scalate, formano insieme agli argini un ordine spaziale che esiste soltanto da queste parti. Alberi e torri svettano eccentrici in mezzo alla generale uniformità del paesaggio. È immediato il confronto e al tempo stesso la relazione che si instaura tra il costruito e gli elementi verticali della campagna antropizzata, in un rapporto quasi paritetico tra artificio e natura. Di fianco a questa analogia file interminabili di pali della luce sorprendono con la loro volgare verticalità, come altissimi crocefissi. Un’esagerazione di fili per decine e decine di chilometri che avvolgono le campagne con un rumore continuo. I piloni dell’alta tensione si susseguono a distanza regolare, proseguono nei campi a perdita d’occhio e distruggono per un istante il precario equilibrio dimensionale della pianura. “E poi alla fine, dico anche, nelle fotografie i pali e i fili della luce rovinano sempre le inquadrature.”

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Foto di “La bassa padana. Sparse per la pianura nella provincia bolognese”, Enrico Lanfredini, 2019.

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Costellazioni Ad un certo punto anche la trigonometria delle torri e degli alberi perde importanza; la presenza di casolari, stalle e ruderi semi-abbandonati costringe a posare lo sguardo sugli insediamenti rurali ogni volta che attraversi in auto queste strade. Molto distanti tra loro, ciascuna fabbrica conquista più tempo per essere guardata, contemplata come punto di riferimento in un paesaggio che, nel suo grigiore, si sottrae all’attenzione di chi osserva, definendo una cornice metafisica. Un arcipelago di punti in uno spazio dove le distanze, per chi vive questi casolari, adesso acquisiscono senso e proteggono. Da quando l’agricoltura è soggetta a forme di gestione industriale, che hanno sovvertito completamente il rapporto uomo territorio, gli insediamenti rurali hanno perso in gran parte il loro significato originario. Oggi gli abitanti di questi sistemi corali sono andati tutti a vivere nelle villette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni. Sono rimasti soltanto solitari gruppi di costruzioni a quadrato con cortile interno e ingresso ad arco, dove la linea dei tetti a volte culmina nella guglia di una chiesetta incorporata nella corte. In alcuni di questi cortili ci sono ancora gli strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Si presentano solitamente alla fine di un viottolo poderale avvolte dalla vegetazione, cinte da grandi arbusti di rovi e robinie che le nascondono, tranne sul lato frontale. Un cimitero di corti deserte. La presenza uniforme dell’edilizia agricola in tutta la bassa padana è certamente dovuta all’evoluzione economica che ha avuto luogo in questo territorio nel periodo compreso tra gli ultimi venti anni del diciannovesimo secolo e il primo quarto del ventesimo. Il settore primario si è sviluppato in senso capitalistico: la diretta connessione con l’economia industriale, la generalizzazione della fittanza, l’incremento dell’allevamento, l’introduzione

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Foto di “La bassa padana. Sparse per la pianura nella provincia bolognese”, Enrico Lanfredini, 2019.

di nuove colture e dell’agronomia come disciplina moderna e specialistica si confrontano con modelli costruttivi portatori di più aggiornati saperi tecnologici, non disgiunti da istanze sul piano linguistico orientate a definire un carattere nazionale dell’architettura. Anche per merito dell’apporto teorico garantito dalla manualistica che ha guidato l’azione di proprietari, tecnici e costruttori, tutta la produzione di edilizia rurale esibisce uno straordinario carattere di unità. Gli splendidi esiti di questa architettura, dove il laterizio è presenza esclusiva o incontrastato protagonista che subordina a sé il legno, la pietra, il ferro, si ritrovano nei tipi della corte chiusa lombarda e piemontese, nei complessi rustici dei caseifici ottagonali del piacentino, nelle cascine a porta morta parmensi e reggiane, negli alti portici a pianta quadrata del ferrarese. Solitamente questi fabbricati si presentano come un complesso isolato, senza accostamenti con altre costruzioni. Sono quasi in osmosi con il territorio che li circonda, sembrano quasi nascere dalla terra. La casa agricola, quella della pre-industrializzazione e dell’esodo dalle campagne, avvenuto in modo traumatico negli anni Cinquanta, contava, entro il suo perimetro, anche un centinaio di persone. Tra queste, all’interno di una gerarchia ben definita c’erano: il proprietario o il fittabile, il fattore, i bifolchi, i cavallanti, i salariati, i braccianti e numerosi altri specializzati. L’impianto, pur assumendo caratteristiche particolari a seconda dei casi, conserva sostanzialmente, per gli edifici fondamentali, il medesimo schema distributivo: ogni costruzione è organizzata intorno ad un grande spazio centrale, vero e proprio fulcro dell’attività del complesso rurale. Quest’ultimo, delimitato da edifici ha, molto spesso, due possibilità di comunicazione con l’esterno, costituite da un ingresso principale e da uno secondario in direzione dei campi. I fabbricati che perimetrano l’intero organismo sono infatti tutti rivolti verso la grande aia, lasciando al di fuori muri quasi completamente privi di aperture. Ogni costruzione trova in questi impianti una sua precisa

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Foto di “La bassa padana. Sparse per la pianura nella provincia bolognese”, Enrico Lanfredini, 2019.

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collocazione dettata da esigenze strettamente legate alla vita agricola che hanno condizionato, oltre che le scelte distributive, anche quelle costruttive. L’ottimizzazione nella distribuzione dello spazio, concepita per rispondere nel migliore dei modi alle varie esigenze funzionali, si traduce, in ogni singola parte della fabbrica, nell’adozione di una particolare tecnica costruttiva. Ciò è evidente nei fabbricati destinati, al piano terreno al ricovero di animali e al piano primo all’immagazzinamento del fieno. Alle massicce strutture voltate della stalla si contrappongono infatti lo slancio degli archi dei fienili e del portico e il sottile gioco delle capriate e delle coperture. In tutti gli edifici rurali emerge, per dimensioni e caratteristiche, la casa padronale, collocata in posizione centrale e immediatamente riconoscibile da chi accede attraverso l’ingresso principale. Talvolta una piccola cappella votiva rappresenta il punto di collegamento fra interno ed esterno. Posta per lo più di fianco all’accesso principale, consente la partecipazione alle funzioni religiose anche a coloro che non risiedono nel complesso. Gli studi più precisi e integrali sulla tipologia della casa rurale della bassa pianura padana sono certamente quelli portati avanti da Lucio Gambi e Mario Ortolani sulla casa rurale della Romagna e su quella della pianura emiliana pubblicati dal CNR rispettivamente nel 1950 e nel 1953. La grande piana dell’Emilia Romagna è stata suddivisa, per alcuni secoli, tra vari stati e staterelli. Luoghi geograficamente anche molto vicini hanno subito diversi condizionamenti culturali. Ciò ha avuto ricadute anche sull’architettura degli insediamenti rurali che, in un’area relativamente piccola, si sono conformati con chiare differenze. La classificazione proposta dall’Ortolani per le case rurali della pianura emiliana si articola in tre classi: • forme complesse a elementi separati o case a corte aperta • forme complesse a corte o case a corte chiusa • forme a elementi giustapposti o case a blocco a elementi trasversali

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Nelle case a corte aperta gli elementi costitutivi classici dell’insediamento rurale, e cioè l’abitazione, la stalla-fienile, i pro-servizi ed eventuali altri contenitori per i prodotti o per gli attrezzi dell’azienda, sono separati gli uni dagli altri e sorgono in mezzo a un ampio cortile. Nelle case a corte chiusa gli elementi costitutivi si ordinano regolarmente, secondo una tendenza del tutto naturale, intorno ad una corte quadrangolare che, per essere circondata dagli edifici, o semplicemente da un muro di cinta, viene appunto definita chiusa. Nelle case a blocco, i soliti elementi costitutivi subiscono un’aggregazione parziale e cioè l’abitazione, la stalla-fienile e il portico vengono riuniti in vario modo in un unico edificio che può contenere o no anche i pro-servizi, o alcuni di questi: la posizione del portico connota in maniera diversa le case di questa classe tipologica nelle varie aree geografiche in cui si articola la regione. La pianura emiliana viene suddivisa generalmente in pianura ferrarese, bolognese, modenese, reggiana, parmense e piacentina, quella romagnola invece in pianura a est del fiume Savio fino a Cattolica, forlivese, faentino-imolese e di recente formazione tra i fiumi Reno e Savio. Nella pianura ferrarese prevale la tipologia di edifici a corte aperta, che prevedono ben distinte la destinazione residenziale da quella produttiva. Gli edifici sono collocati in una corte lineare, disposti in sequenza, allineati anche se distinti e separati; lo scopo della voluta separazione è essenzialmente l’impedimento della propagazione di eventuali incendi. L’abitazione ha la pianta rettangolare e copertura a capanna, senza sporto. Il vano di ingresso taglia la casa in senso trasversale e consente di uscire sul retro. La stalla-fienile invece è un edificio di dimensioni maggiori, a pianta rettangolare, suddiviso longitudinalmente in tre fasce: quella centrale è la stalla, quelle laterali sono i veri portici.

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Nella pianura bolognese sono presenti soltanto le case a corte aperta e le case a blocco. Le case a corte aperta sono costituite da abitazione, stalla-fienile, pro-servizi e casella. Gli edifici sono disposti con una certa libertà: in linea, a scacchiera, a squadro oppure contrapposti, all’interno di una specifica area di pertinenza, mai recintata se non da elementi di vegetazione. La casa a blocco invece prevede l’accostamento laterale dei tre elementi costitutivi: l’abitazione, la stalla e il portico. I manufatti rurali modenesi hanno un rapporto stretto di parentela con l’impianto urbanistico bolognese o ferrarese. La casa modenese si differenzia dalle precedenti dal numero di piani fuori terra, tre anziché due. Inoltre la casa bolognese è quasi sempre coperta da un tetto a padiglione, mentre quella modenese sembra molto più alta anche per la presenza del tetto a capanna. L’abitazione presenta un piccolo vano d’ingresso, niente a che vedere con la loggia bolognese o con il portico ferrarese. La stalla-fienile è un edificio a pianta rettangolare, chiuso su tre lati e solitamente aerato da un portico o da un grigliato di mattoni. È molto frequente qui, più che nelle altre aree della regione, la presenza della torre colombaia. Nella pianura reggiana le tre classi di cascinali rurali sono tutte presenti anche se la tipologia di quelli a blocco sono i più diffusi e si articolano in diversi sottotipi: l’edificio con rustico, porta morta e tetto a colmo differenziato e la tipologia classica a porta morta con prospetto unitario e tetto a colmo indifferenziato. Quest’ultima presenta gli stessi elementi della casa a blocco della pianura bolognese, ma raggruppati in modo diverso. Il portico è posto al centro, tra abitazione e stalla e qui prende il nome di porta morta. La casa colonica nel parmense è organizzata prevalentemente a blocco con abitazione, grande portico centrale e il rustico posti in sequenza lungo un asse longitudinale. Qui gli elementi presentano sempre coperture, e in alcuni casi anche strutture, indipendenti. Ciò fornisce all’edificio un profilo

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volumetrico movimentato; l’Ortolani infatti scrive che la casa rurale parmense appare una casa d’architettura vivace, a notevole movimento di masse. Il portico qui viene utilizzato sul lato maggiore della stalla, rivolto a sud, o sul lato maggiore di tutto l’edificio. È curioso il dettaglio della copertura del portico che si attacca alla muratura esterna della stalla qualche centimetro più in basso della linea di gronda della stessa. La tipologia delle case a corte aperta è quella che caratterizza maggiormente la provincia di Piacenza: gli edifici sono organizzati intorno a un’aia rettangolare centrale. Le corti chiuse di questi luoghi sono cinte da mura e presentano due punti di accesso; spesso vengono caratterizzate da torri colombaie che uniscono alle funzioni connesse con l’allevamento dei colombi, quelle più guerresche di osservazione e di difesa. Nella pianura romagnola a sud-est il tipo edilizio di riferimento è una costruzione a pianta rettangolare a due piani, inserita quindi nella tipologia delle case a blocco. L’elemento caratteristico di queste costruzioni è il portico, con una larghezza media di quattro metri. Le case rurali della pianura forlivese hanno solitamente pianta rettangolare con la parte centrale a due piani, ma scompare del tutto il portico sulla facciata sud. La forma rettangolare di questi edifici ha per lo più proporzioni di uno a uno e mezzo. Occorre dividere l’area della pianura faentino imolese in due sottozone: una compresa tra il fiume Montone e Santerno, l’altra dal Santerno verso occidente, verso il Sillaro. Nella prima zona il modello tipologico di riferimento è la casa a blocco di forma rettangolare a due piani, con rapporti di uno a due, invece che di uno a uno e mezzo come nel caso delle costruzioni della pianura forlivese. Nella seconda zona è presente un tipo morfologicamente diverso da quello precedentemente descritto: la forma in pianta dell’edificio è quadrata e il tetto è a quattro falde, caratteristica ereditata

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dall’adiacente tipo bolognese. In generale nella casa faentino-imolese assumono notevole rilevanza i pro-servizi, che in parte sono congiunti alla casa e in parte isolati e ubicati marginalmente alla corte. Presso Lugo, sul fianco della stalla, in confino si trova un locale rettangolare, normalmente a un piano che viene utilizzato come ricovero di utensili e carri. Un altro annesso comune a queste zone è quello in cui trova collocazione il forno con la stanza per gli equini, i suini e il pollaio. Qui prevale una tipologia a pianta quadrata e di dimensioni ridotte, preceduta da una loggia e sormontata da una copertura a quattro falde. Nella pianura romagnola tra il Reno e il Savio grazie alla bonifica avvenuta nei primi anni del Novecento sono sorte numerose boarie, così definite dal Gambi. La boaria comprende vari edifici in muratura notevolmente ampi, ariosi, sani e posti, come tutte le case rurali, attorno a una corte, cinta frequentemente da salicacee o tamerici o da biancospino. In questa corte c’è, regolarmente, una costruzione di maggiore entità, a due piani, in cui si ricavano le stanze di abitazione riservate alle famiglie del boaro, e altri edifici, uniti o meno a quella costruzione e che servono di ricovero al bestiame o per deposito dei prodotti. Il fabbricato rurale deve oggi porsi al servizio di un’economia profondamente diversa da quella per la quale era stato costruito. Ciò comporta mutamenti vistosi all’interno delle sedi agricole. Dove persiste il settore primario compaiono grandi silos, vengono annessi nuovi magazzini per più moderni allevamenti e grandi coperture in acciaio per la custodia delle macchine. Le tempestose novità della civilizzazione hanno accelerato, negli ultimi decenni, il ritmo della sua espansione. Il primo risultato è stato un esodo massiccio delle popolazioni rurali verso i grandi centri abitati. Attraverso questa strada la città ha invaso la campagna e il paesaggio rurale si è impregnato delle novità urbane che l’industrializzazione ha inevitabilmente imposto.

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Foto di “Da qualche parte nel nord Italia” Fabrizio Vatieri. Reportage prodotto da Davide Coppo, 2018.

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L’occupatore “Sta preparando l’occupazione e la sottomissione definitiva dei quartieri oltre il fiume, ancora in rivolta. Detta ordini ai suoi ufficiali e manda messaggi ai capi dell’organizzazione; il suo esercito dovrà irrompere in vari punti nella zona oltre il fiume, fare evacuare donne e bambini, sequestrare le armi degli insorti, bruciare e radere al suolo molte case.” Nella seconda metà del Novecento le spinte innovative che hanno portato a una rapida evoluzione del sistema produttivo hanno contribuito alla crisi del settore agricolo. Le leggi plurisecolari legate ad un sistema di tipo padronale soccombono alla logica della società industriale, determinando, come detto precedentemente, un considerevole abbandono delle campagne. Ad esso si è accompagnato un inurbamento della popolazione agricola alla ricerca di benessere economico e condizioni di vita migliori. Allo sviluppo incontrollato della periferia urbana, per mezzo del quale viene sacrificato prezioso terreno precedentemente dedicato all’agricoltura, corrisponde un progressivo cambiamento del paesaggio e delle tipologie residenziali legate alle attività rurali. Nelle campagne sono introdotte nuove forme di conduzione che richiedono l’inserimento di tipologie le quali non sempre riescono a correlarsi con il paesaggio preesistente. L’azienda agricola allora cambia aspetto e si adatta, attraverso molteplici modifiche, alla logica produttiva che impone la realizzazione di spazi destinati ad attività redditizie. Da quest’ultime nascono nuove esigenze che si traducono nell’aggiunta di volumi alle strutture originarie, lasciate nella maggior parte dei casi in condizioni di sottoutilizzo e oggetto, quindi, di lento e inesorabile degrado. Tale problema diventa più grave in quelle parti del complesso destinate ad abitazioni, edifici ormai in abbandono, divenuti in molti casi depositi, e non più interessati da alcun intervento a carattere manutentivo.

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Svincolato dalla modernizzazione e dall’adeguamento delle case rurali al mercato corrente, si sviluppa un cambiamento nei metodi di produzione in direzione di una quasi totale meccanizzazione del lavoro. Si tratta di un processo graduale, in cui le spinte innovative, sia tecniche che organizzative, hanno convissuto a lungo con le forme produttive tradizionali. Questo fenomeno ha generato cambiamenti, a volte accelerati, altre volte più lenti, che si sono sviluppati a macchia di leopardo in gran parte della regione. Da qui deriva la compresenza per molto tempo, in quasi tutto il territorio, di metodi produttivi moderni, con economie di trasformazione tradizionali. Solo successivamente l’irrobustirsi dei primi ha determinato a cascata il diffondersi di effetti imitativi nei territori limitrofi a quelli in cui il cambiamento era nato. Si è manifestato, gradualmente e a volte molto lentamente, il declino e poi la scomparsa delle precedenti forme di produzione. La superficie agraria nella pianura padana è andata così progressivamente diminuendo, fagocitata dall’estensione delle nuove aree urbane e industriali. L’espansione crescente e incontrollata di quest’ultime ha sbiadito i confini delle città. Non è più facilmente comprensibile leggere dove finiscono i centri abitati: quartieri e quartieri, sensi unici e semafori, rallentare e accelerare secondo il traffico; dove finisce una città e inizia la campagna non è più un limite territoriale, ma un cambiamento nei movimenti di guida, in attesa di venire consegnati ognuno alla proprie destinazioni. Per certi versi oggi le campagne non sembrano più campagne, tutte invase, a intermittenza, da capannoni industriali, traffico ed erbe selvatiche che occupano dovunque i terreni vaghi, arbusti che vivono nella fuliggine delle fabbriche, piante che si arrampicano sugli alberi malati per le piogge acide; danno l’assalto a colate di calcestruzzo, e crescono anche lì più rigogliose che mai. Fuori dalle città finisci in un paesaggio anonimo che, per trasformarsi in

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industria ha furiosamente svenduto se stesso. Qualcosa che assomiglia all’attraversamento di una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni. Ogni momento in avanti è spazio vuoto, tempo vuoto da colmare, riempito da un numero sconfinato di cartelli pubblicitari, da nomi di località inesistenti e da molto cielo, un cielo larghissimo sopra la distesa di appezzamenti a rettangolo, tagliati da fossi e ampie carreggiate. Questo nuovo genere di distese coltivate, dove si respira un’aria di emarginazione urbana è stato prodotto da una drastica rottura della continuità del paesaggio, dovuta alla costruzione sconsiderata di strade, edifici e capannoni. Lungo le strade provinciali compaiono sfilate di fabbriche in un numero quasi infinito. Mentre il paesaggio attorno è gremito di villette e palazzi condominiali sono poche le case coloniche ancora visibili dalla strada. Le costruzioni agricole, abbandonate in mezzo ai campi e molto distanti tra loro, sono affiancate e soffocate da immense zone industriali, costellate da pilastrini con molti nomi di fabbriche, ciminiere, file di cisterne, fasci di tubi e ponteggi sospesi tra le torri, dove ci si perde come nella periferia di una metropoli. I capannoni, solitamente prefabbricati e privi di un qualsiasi legame con il contesto nel quale si inseriscono, legittimano la loro presenza radunandosi in cittadelle industriali. Circoscrivono delle parvenze di conglomerati urbani, affollati quotidianamente soltanto per l’arco di una giornata lavorativa e disabitati nei giorni di riposo. Imponendo all’intorno il loro carattere industriale, diametralmente opposto a quello della campagna, e accostandosi, ad armi impari, alle costruzioni agricole con una scala dimensionale del tutto diversa, mettono in crisi i rapporti di quest’ultime con il paesaggio. Lo sfondo agricolo è stato violentemente trasformato a causa di un’industria radicalizzata su gran parte del territorio che sembra, in certe circostanze, non ammettere più del tutto le cascine.

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“Kühe an der Ruhrmündung”, Duisburg-Ruhrort. Albert Renger-Patzsch, 1930.

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In una giungla di cemento


Case sparse L’insediamento sparso, nella pianura emiliana, trova le proprie origini già nell’organizzazione etrusca suddivisa in pagus e vicus, ma inizia ad affermarsi soprattutto in epoca romana. Proprio a causa delle sue antiche origini, la casa sparsa si è solitamente sviluppata in relazione ad uno schema organizzativo più ampio. Da sempre mantiene come riferimento, nella dislocazione dei poderi e delle relative case, le vie di comunicazione e la scelta del sito della centuriazione romana. L’insediamento rurale nella bassa pianura padana rivela una generale uniformità che è frutto delle grandi operazioni di prosciugamento delle aree inondate e palustri, intraprese agli inizi del XVI secolo e continuato assiduamente fino a metà del XX. Operazioni grazie alle quali il volto topografico di queste aree si è radicalmente trasfigurato con la creazione di quadri paesistici adatti ad accogliere lo sviluppo agricolo. Proprio in questo arco di tempo si registra in tutto il territorio della pianura, ma in quello della bassa bolognese in particolare, il momento di massima espansione delle architetture rurali distanti dagli aggregati urbani principali, seppur sempre affiancati all’insediamento accentrato. La diffusione di questo tipo di abitazioni è direttamente proporzionale allo sviluppo della forma di contratto definita mezzadria. Secondo quest’ultima il proprietario, di solito borghese o nobile cittadino, concede terreno e abitazione con i relativi edifici annessi al mezzadro, che oltre ad avere l’obbligo di abitare sul fondo, deve al padrone la metà dei prodotti coltivati e la prestazione di altri servizi. Con la diffusione dell’insediamento sparso iniziano a delinearsi i tratti tipici del modello di architettura rurale prevalente nel bolognese, del suo podere e della sua corte, codificato definitivamente, agli inizi del XVIII secolo, dall’architetto Carlo Francesco Dotti.

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Cartina costruita per “L’atlante fisico-economico d’Italia”. Renato Biasutti, 1940.

Mantova

Cremona Castel S. Giovanni Piacenza

Rovigo Suzzara Firenzuola

Guastalla Bondeno

Mirandola

Fidenza

Capparo Ferrara

Codigoro

Parma Carpi Cento Reggio Nonantola

Portomaggiore

Portomaggiore

Modena

Comacchio

Argenta

Bologna Lugo

Ravenna

Imola

1. Forme complesse a elementi separati

3. Forme a elementi giustapposti

2. Forme complesse a “corte”

4. Casa di struttura elementare

Suzzara Ariano

Gonzaga Guastalla Novi

Mirandola

S. Felice

Correggio

Copparo

Bondeno

Finale

Codigoro

Ferrara

Carpi

Migliarino Cento S. Pietro

Portomaggiore

Nonantola S. Giovanni

Modena

Argenta Castelfranco

Scandiano

Budrio

Sassuolo Bologna

Medicina

1. Casa a elementi separati delle terre vecchie ferraresi

3. Casa a elementi separati del tipo bolognese

2. Casa a elementi separati delle bonifiche ferraresi

4. Casa a elementi separati del tipo modenese

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Comacchio


L’edilizia agricola bolognese appare abbastanza uniforme nelle sue tipologie e con caratteristiche proprie ben definite, simili ma non uguali a quelle di altre zone. Si notano infatti alcune differenze estetiche e funzionali tra il tipo di corte bolognese e quello modenese, tra il reggiano e il ferrarese. La diversità delle costruzioni rurali deriva in parte dalla maggiore o minore estensione del fondo e dalla sua redditività, dalla capacità di ospitare una famiglia più o meno numerosa, dal tipo di coltivazioni prevalentemente praticate, dalla possibilità di allevare più o meno bestiame e dalla disponibilità dei materiali edilizi nella zona. La cascina bolognese si sviluppa attorno all’aia centrale, come una sorta di piccola azienda estremamente organizzata, in cui ogni singolo elemento ricopre un ruolo preciso, privo di casualità. Ciò che più di tutto caratterizza infatti la corte rurale è la forte relazione che lega i singoli elementi tra loro, con l’estensione del podere e con i riferimenti del territorio naturale e centuriato in cui si colloca. Gli edifici si dispongono rispettivamente nei punti strategici dell’antica maglia ortogonale romana e la stessa collocazione e costruzione tiene in considerazione i materiali a disposizione sul territorio. La peculiarità principale della corte rurale bolognese sta nell’utilità che contraddistingue ogni suo singolo fabbricato e nell’individuazione dell’adeguatezza della tipologia architettonica all’uso preposto, senza mai abbandonare però la volontà di costruire edifici non solo fruibili, ma anche architettonicamente rilevanti. Nel bolognese, dal XVI secolo, questa particolare forma di architettura si stabilizza in due formule principali: la casa a elementi separati, detta anche a corte aperta e la casa a elementi giustapposti, detta anche casa a blocco. Alle due forme non corrispondono modalità differenti di coltivare o lavorare il terreno, poiché entrambe si sviluppano sui terreni organizzati per

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Elementi di un insediamento tipo a corte aperta. Monografia del podere bolognese, 1881.

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Gli elementi caratteristici di un insediamento tipo a corte aperta (da Comizio Agrario di Bologna, Monografia del podere bolognese, Bologna, 1881). 1. Piante dell’abitazione: a) loggia; b) cucina; c) magazzino; d) cantina ; e) sala; f) granaio; g) camera da letto 2. Pianta della casella: a) magazzino; b) portico 3. Pianta dei pro-servizi: a) forno; b) porcile 4. Pianta della stalla-fienile: a) stalla bovini; b) portico

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appoderamento, anche se il primo tipo risulta avere una diffusione maggiore rispetto la seconda tipologia e viene associato a terreni di più grande estensione di quanto non avvenga per la casa a blocco. La dimensione del fondo è vincolata in un’estensione pari alla capacità di una famiglia di lavorarlo e di ricavare dal terreno, che di solito copre un’area compresa tra i cinque e i venti ettari, il massimo della rendita. Suddiviso in morelli, ovvero in gruppi di campi orientati nella stessa direzione, il fondo è regolato da una rete ortogonale di siepi, filari, fossi, scoline che ricalcando l’antico tracciato della centuriazione, definiscono i confini tra una proprietà e l’altra e permettono di mantenere i campi liberi dalle acque, convogliandole ai collettori e da qui ai corsi d’acqua principali. In tutte le costruzioni rurali, ma soprattutto nella tipologia a corte aperta, il cortile assume un ruolo fondamentale. Oltre a definire l’ordine insediativo di tutte le costruzioni, costituisce lo spazio verso il quale si rivolgono gli edifici utili alla vita contadina e separa la dimensione abitativa da quella produttiva. È molto frequente in queste costruzioni anche la presenza di una colombaia, ossia di una torre rurale, non troppo alta, che assume nel tempo funzione di ricovero dei colombi, di attrezzaia e deposito e, in alcuni casi, diventa anche componente della dimora padronale. La caratteristica più evidente di una casa a corte aperta è che, in questa tipologia architettonica, tutti gli elementi che la compongono sono gli uni staccati dagli altri, ma mantengono uno stretto legame nella loro disposizione all’interno della corte. I quattro elementi fondamentali che definiscono questo sistema sono la casa, la stalla-fienile, i pro-servizi e la casella. La casa, solitamente a pianta quadrata con tetto a padiglione, è collocata al centro del cortile e la facciata principale, resa riconoscibile dal portale d’ingresso, orientato a sud e posto sull’asse centrale, si rivolge quasi sempre alla strada o ai campi coltivati. È attraversata da una loggia, che può essere

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Foto di “La bassa padana. Sparse per la pianura nella provincia bolognese”, Enrico Lanfredini, 2019.

passante, se taglia l’intero edificio fino a permettere l’uscita da una porta speculare a quella d’ingresso, oppure chiusa se il suo ruolo è essenzialmente quello di dividere e di permettere l’accesso agli ambienti del piano terra, assumendo la stessa funzione di un corridoio. L’altezza della porta principale deve essere tale da consentire il passaggio dei carri e degli attrezzi agricoli, così da permetterne il ricovero entro la casa stessa. Al piano terra, entrando sulla destra, si trova la cucina con il suo grande camino e il basso recinto in muratura per la legna, mentre l’acqua del secchiaio, nel sottoscala retrostante la cucina, viene scaricata direttamente nel giardino tramite una tegola. Altri locali collocati sempre allo stesso piano sono i magazzini dove vengono riposti gli attrezzi e la cantina, spesso collocata ad un livello più basso degli altri ambienti. Al piano superiore si accede mediante una scala posta al centro della loggia. Qui si trova in certi casi, nello spazio corrispondente a piano terra all’ingresso, una sala che distribuisce al granaio, a tutte le camere da letto e alla stanza con il filatoio. La distinzione appena fatta in realtà è abbastanza labile, perché gli ambienti non hanno una suddivisione precisa a priori, ma vengono identificati in base alle funzioni cui sono preposti. La facciata della casa prevede di solito tre oppure cinque file verticali di finestre e quelle al piano più basso sono solitamente più piccole rispetto a quelle del piano superiore, mentre la porta segue una forma ad arco talvolta decorata da mensole. Tutte le stanze si affacciano sul verde del prato che circonda l’abitazione, altro aspetto questo che distingue la casa a corte aperta dalle altre tipologie di case rurali. La casa si rapporta con l’altro elemento fondativo, la stalla-fienile, detta anche teggia, attraverso diverse soluzioni: l’una di fianco all’altra, con i due fronti principali rivolti verso la strada o verso i campi; l’una dietro l’altra, sul medesimo asse dove le facciate dunque si fronteggiano o si susseguono;

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la facciata della stalla dirimpetto ad un lato della casa o ancora i due edifici posti a squadra. La stalla-fienile nella casa a corte aperta è dunque un edificio a sé stante. Generalmente a pianta quadrata, o tendente al quadrato, si sviluppa su due livelli, con copertura a quattro falde, scandita in tre fasce. Le due più esterne sono riservate solitamente a portico a tutta altezza, mentre quella centrale contiene la stalla al primo livello, appoggiata a settentrione e servita da un terzo portico sul lato sud. Sopra la stalla viene organizzato il fienile, nel quale ricorrono spesso dei motivi decorativi ricavati dalla libera disposizione dei mattoni, per garantirne una corretta aerazione. La facciata principale si riconosce grazie all’ingresso incorniciato da due pilastri binati. La versatilità del portico antistante la stalla, costituente in alcuni casi anche un fienile aggiuntivo, permette di utilizzarlo in diversi modi a seconda delle esigenze legate alle varie stagioni. Con l’introduzione della coltura industriale della canapa, cominciano a trovare spazio, nei cortili delle case rurali, edifici appositi, chiamati caselle, adibiti al ricovero e alla lavorazione di questa fibra. Sono costituite da un porticato a tutta altezza aperto su due o tre lati, con i restanti tamponati e la copertura a doppia falda. Con il declino della canapa, la casella perde nel tempo la propria originale funzione, per diventare un deposito per il fieno e il foraggio o come magazzino per gli attrezzi. Nel cortile della casa a corte aperta troviamo i pro-servizi, una costruzione a pianta quadrata adibita a forno, pollaio o porcile, con le varie funzioni suddivise da muri interni e da un piccolo portico che introduce al forno. Fondamentale è infine la presenza del pozzo, che a differenza della casella e dei pro-servizi che non hanno una posizione fissa nella dislocazione degli edifici entro la corte, si trova di solito tra la stalla e la casa. Sia le formule più antiche, a bilanciere, che quelle più recenti con carrucola e secchio in rame, sono di solito coperti da un piccolo tetto a due falde.

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Foto di “La bassa padana. Sparse per la pianura nella provincia bolognese”, Enrico Lanfredini, 2019.

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Sotto questo cielo metallico Il rapporto tra industria e assetto urbanistico e territoriale ha subito nel tempo profonde modifiche. Dalla prima rivoluzione industriale, fino all’inizio del XX secolo, le fabbriche e le residenze coesistono, soprattutto sotto forma di quartieri operai, all’interno o ai margini delle città. Le attività industriali soppiantano progressivamente quelle agricole. Quelli che prima erano castelli, pagliai, fienili e stalle, diventano capannoni industriali e aggiungono a sé la ciminiera, simbolo ossessivo e prepotente del loro nuovo status. All’interno di un calderone stilistico eclettico, che contiene ogni cosa e il suo contrario, si sviluppa una preferenza per il neoromanico o neomedievale, per il gusto cioè del massiccio e del monumentale, del solido. Spesso, in questo intervallo storico, l’industria stessa assume il compito di elemento ordinatore dello spazio, vista la sua necessità di localizzarsi nei pressi delle vie di comunicazione principali o delle fonti di materie prime. Attorno a essa trovano collocazione tutte le altre funzioni e nascono numerosi centri urbani generati dall’insediamento degli stabilimenti industriali. Nella città però, la concentrazione di più fabbriche in zone limitate ha generato l’aumento sia dell’inquinamento che della distanza nei confronti del terreno non urbanizzato, considerato soltanto come fonte di approvvigionamento e come un serbatoio di rifiuti. Il disegno modernista della città sancisce, agli inizi del Novecento, con la città industriale teorizzata da Garnier, la chiara suddivisione degli spazi in base alle diverse attività: abitare e lavorare. La caratteristica predominante di questo travagliato periodo è la contrapposizione e la convivenza difficile tra il polo dell’utopia e quello del realismo, riguardanti i principi di zonizzazione che vengono poi sviluppati dai maestri del razionalismo. Questo determina, in senso pratico, la concentrazione della produzione in aree monofunzionali, con gli scarti di un sistema progredito in un’inarrestabile

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“Ancient and modern towns compared”, da Contrasts. Augustus W.N. Pugin, 1841.

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polverizzazione, un sistema in cui a una singola proprietà corrisponde un’attività produttiva e anche quel filamento di città necessario a connetterla. A partire dalla seconda metà del Novecento il problema del rapporto tra città e industria si muove verso il fronte del confronto con il territorio. Inizia una fase di divaricazione, in cui alla ricerca di una coerente forma urbana si comincia ad affiancare l’obiettivo della valorizzazione del territorio. Si passa dalla polarizzazione, dall’economia della città fabbrica, a un’economia che si esternalizza, delocalizzandosi in una pluralità di piccole e medie imprese. Le politiche di sviluppo territoriale rimangono mirate principalmente al miglioramento del benessere sociale ed economico, mentre l’attenzione per il paesaggio, nel quale si inserisce il nuovo sistema industriale, interviene a posteriori, secondo un approccio prettamente curativo. Il decentramento, ovvero il fenomeno di migrazione delle attività produttive in aree maggiormente appetibili per accessibilità e prossimità a specifici servizi, ha causato l’affermarsi in molte regioni del paese dei distretti produttivi. Insieme a un sostenuto allontanamento residenziale, questi mutamenti hanno prodotto un radicale cambiamento nelle politiche di localizzazione dei siti industriali, organizzati adesso in filiere produttive decentralizzate, contribuendo così alla formazione di zone di margine tra i centri urbani e il territorio agricolo e generando impatti significativi soprattutto sul sistema paesaggistico. Nella maggior parte di queste realizzazioni è riconoscibile una diffusa propensione a non farsi carico del rapporto con l’intorno e a lavorare in una logica introversa e decontestualizzata. Molti interventi recenti, infatti, tendono a caratterizzarsi per una scarsa attenzione alle relazioni territoriali ostentando spesso un’architettura sgraziata e totalmente prefabbricata. Gli esempi sono molteplici: capannoni inutilizzati, periferie inabitabili, interi territori violentati e inquinati, paesaggi letteralmente sconvolti e cementificazione ovunque.

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L’intero territorio della pianura padana, soprattutto lungo le principali vie di comunicazione, è disseminato di stabilimenti produttivi geograficamente molto concentrati, di piccole o medie dimensioni. Il distretto industriale trova luogo in un disegno che ha conquistato in modo violento la periferia, a causa anche di architetture degli spazi del lavoro che rimandano a un’idea di territorio che progressivamente svanisce. La città infinita è satura di aree industriali, piattaforme produttive, assi attrezzati, infrastrutture pesanti. Poichè proprio lontano dai centri urbani si genera il nuovo, è utile prestare attenzione a quello che si muove al suo interno e interrogarsi su quale sia la direzione da seguire. La distribuzione urbana di certe aree industriali nasce senza ordine, ma ciò nonostante sovverte e rende obsolete in pochi decenni le regole insediative e spaziali che per secoli hanno misurato l’organizzazione dei suoli. Nonostante la natura reticolare dei distretti e delle loro strutture organizzative favorisca una fiorente crescita e lo sviluppo di tutto il sistema produttivo a livello economico, resta il fatto che chi vive nel quotidiano questi luoghi si trova di fronte a grigie astronavi posate nel centro dell’Emilia. L’area produttiva Castello-Bentivoglio, a cavallo dell’autostrada Bologna-Padova, sorge a pochi chilometri a nord del capoluogo emiliano e ricalca la situazione appena descritta riguardante sia il disordine di aggregazione che l’alienazione sociale dei distretti produttivi. Il ritmo incalzante e accelerato del lavoro che anima questi luoghi svanisce alla fine della giornata lavorativa e non resta che un agglomerato di capannoni, un’isola deserta di cemento, impregnata da un senso di solitudine. Il progetto per il nuovo stabilimento della Viabizzuno si pone come fine principale quello di trovare, in mezzo alla nebbia della pianura, un punto di incontro tra architettura industriale e caratteri propri del territorio, in di-

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Planivolumetrico del progetto, area produttiva Castello-Bentivoglio.

rezione di un obiettivo che travalica la sola qualità estetica del progetto, ma guarda alla dignità delle relazioni definite dall’intero sistema col contesto. Alla nuova fabbrica, e a un gruppo consistente di stabilimenti del distretto produttivo, si accede esclusivamente tramite via Romagnoli. Il nuovo impianto, oltre ad avere dimensioni più significative rispetto alla maggior parte degli altri insediamenti, occupa l’angolo a sud-est di una delle quattro porzioni in cui può essere suddivisa l’intera area produttiva. Le caratteristiche tecniche che avrebbe dovuto avere la nuova fabbrica sono state indicate dagli architetti interni alla Viabizzuno. Il lavoro sviluppato, quindi, tiene in considerazione la necessità dei processi produttivi e delle dinamiche organizzative che l’azienda deve avere: una porzione consistente di servizi dedicati al cliente costituiti dal teatro-scuola, dallo showroom commerciale, dalla fondazione e da una piccola struttura ricettiva; un sistema gestionale definito dal centro ricerca, da uffici amministrativi e tecnici e da un considerevole archivio di materiale e dati; uno spazio principale di grandi dimensioni destinato alla produzione e allo stoccaggio, all’interno del quale un’area minore è destinata alle lavorazioni secondarie; infine un’autorimessa per dipendenti e clienti, da circa centocinquanta posti auto. La posizione del sito rispetto alla strada di accesso è rilevante nella scelta insediativa della nuova fabbrica. Questa è costituita da volumi tra loro collegati, che seguono l’andamento dell’area di intervento a eccezione del fianco a nord. Come detto poco sopra, chiunque acceda all’area produttiva è obbligato ad attraversare via Romagnoli; qui il muro parallelo alla strada piega leggermente, per accompagnare il percorso verso l’ingresso e definire una pertinenza adeguata all’accesso principale. La direzione diagonale della parete in mattoni scaturisce una tensione con i volumi che si sviluppano al di sopra di essa. Questi lavorano collettivamente in direzione opposta rispetto all’andamento del muro, ma guadagnano singolarmente una

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Rappresentazione della vista d’ingresso su Via Romagnoli.

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Rappresentazione della vista dall’autostrada Bologna-Padova.

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Planimetria piano terra.

propria autonomia dovuta soprattutto al materiale utilizzato per il rivestimento esterno. In un impianto che tende a chiudersi, anche con una certa diffidenza nei confronti del contesto, gli elementi iconici e maggiormente distinguibili nei lineamenti della fabbrica sono senza dubbio i volumi, rivestiti in policarbonato, del padiglione produttivo e della torre della fondazione. Certamente la torre, all’interno di un complesso che predilige la distribuzione orizzontale, è il soggetto che assume il ruolo più importante nella dicotomia delle due realtà con le quali deve confrontarsi. Sul fronte fiacco e monotono del distretto produttivo, svetta come unico elemento verticale, come episodio singolo che sopravvive all’anonimato delle scatole edilizie che caratterizzano la più parte delle fabbriche circostanti. Insieme all’inclinazione del muro, catalizza la distribuzione verso l’ingresso principale e diventa segno iconico che denota un significato e determina un comportamento. Sul retro, nel confronto dinamico ed essenziale con l’autostrada, assume un valore più alto nel momento in cui, non solo veste un organismo funzionale, ma ne amplifica le possibilità comunicative suggerendo un diretto collegamento con le torri e i campanili disseminati nella pianura. L’edificio industriale si trova qui immerso nella vegetazione, che il progetto coinvolge e arricchisce nella sua articolazione, amplificandone i caratteri e accompagnandone i movimenti, in modo analogo a quanto avviene nello scenario agricolo. Così il paesaggio della pianura, fortemente compromesso in prossimità delle aree produttive, torna ad assumere un ruolo espressivo e la visione della fabbrica si eleva in rispetto alla bellezza propria di questi luoghi. Insieme a un filare di pioppi cipressini, la torre trasforma, per un istante, l’infrastruttura più ambita dall’industria in una qualsiasi strada di campagna.

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Esploso assonometrico.

Il vago sospetto, comune al modo di fare emiliano, e la considerazione degli interessi interni dell’azienda definiscono il disegno di un recinto protettivo. L’impianto a corte esprime, concretamente e simbolicamente, le stesse radici comuni delle case rurali della pianura emiliana, di quella bolognese in particolare. Quattro elementi, che accolgono le principali funzioni indicate dall’azienda e rimandano all’essenza delle unità compositive della casa agricola bolognese: casa, stalla-fienile, pro-servizi e casella, si avvolgono intorno a una corte centrale. Se la sua forma chiusa indica l’atto di difendere lo spazio contenuto, la struttura baricentrica della fabbrica, come il grande cortile agricolo, assume il compito di armonizzare e definire un’intervallo collettivo tra destinazioni d’uso molto distanti tra loro, ma soprattutto di determinare una sensazione di conforto a chi, nello spazio del proprio lavoro, si confronta con lo scenario del paesaggio circostante. I volumi del padiglione produttivo, degli uffici, del teatro-scuola e dello showroom commerciale emergono dalla piastra basamentale, rivestita in laterizio, che disegna i confini dell’impianto e garantisce una distribuzione continua tra i vari ambienti. L’unico momento in cui il recinto lascia spazio a un dialogo con l’esterno è nella relazione instaurata dal basamento con la torre della fondazione. Questa, insieme al muro che la collega all’intero sistema, delimita una piazza, uno spazio collettivo che accoglie le funzioni più pubbliche dell’azienda. Qui si affacciano l’ingresso principale e quello della fondazione, il teatro scuola e un archivio fotografico liberamente consultabile. L’ultimo elemento, essenziale per l’equilibrio totale, è quello più indefinito, costituito dai due filari di pioppi cipressini. Se da un lato svolgono esclusivamente funzione protettiva rispetto al contesto e all’autostrada, dall’altro trasportano la fabbrica nel bel mezzo della campagna bucolica.

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Il distretto produttivo nel quale si inserisce la nuova costruzione è disseminato di aree di sosta più o meno organizzate e a disposizione dei lavoratori delle varie aziende. Questo determina però una certa confusione nella definizione delle pertinenze di ogni singolo capannone. Il disegno di un nuovo percorso, accessibile pubblicamente, lavora per marcare i confini del progetto e garantire i servizi necessari a chi inevitabilmente raggiunge l’azienda con i propri mezzi di trasporto. La strada, che disegna un tracciato circolare lungo l’intero perimetro dell’area di intervento, permette una totale accessibilità ai vari brani della fabbrica. La volontà di separare il flusso pubblico costituito da clienti e ospiti, da quello di servizio dei dipendenti e dei fornitori, definisce inevitabilmente una porzione principale e una secondaria della nuova via carrabile. Lungo la prima sono disposti, in prossimità dell’ingresso, solamente alcuni parcheggi di rappresentanza e l’imbocco del parcheggio sotterraneo. Questo, dedicato per lo più ai clienti, ma accessibile anche ai dipendenti, è collocato al termine di via Romagnoli ed è in comunicazione direttamente con le due hall di ingresso, una per i clienti e l’altra per il centro uffici. La maggior parte degli stalli dedicati al personale, invece, sono organizzati nelle vicinanze del padiglione produttivo. Anche l’area di manovra dei mezzi impegnati nel carico e scarico merci è collocata lungo la porzione più di servizio del percorso, sul retro della fabbrica. Questa trova spazio in uno scarto planimetrico del lotto, in prossimità del magazzino e diametralmente contrapposta all’ingresso principale. La chiara separazione dei flussi e la scomposizione dei vari servizi si rispecchia anche nell’impianto planimetrico. Seppur distinti e indipendenti dalle altre funzioni, i singoli volumi entrano in relazione gli uni con gli altri per mezzo di un sistema di percorsi, interni ed esterni, e di destinazioni d’uso intermedie che riescono a cucire i vari ambienti in un sistema totale.

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Le hall d’ingresso, una cardine dell’accesso per i clienti e l’altra accessoria, dedicata al centro uffici e alla foresteria, sono disposte in asse tra loro e sono rivolte rispettivamente una verso il fronte principale, l’altra verso quello secondario della strada di servizio alla fabbrica. Il primo ingresso costituisce la vera e propria accoglienza, l’altro invece, è un passaggio freddo coperto, che raccoglie il flusso del personale, non necessariamente filtrato dalla hall principale. Nella loro contrapposizione tagliano trasversalmente l’impianto e richiamano il disegno dell’ingresso passante che caratterizza gran parte degli accessi alle case rurali. Come la loggia nelle abitazioni agricole, così la sistemazione dei due ingressi è sufficiente a definire la direzione di sviluppo dei movimenti interni dell’azienda. Da un lato tutti i reparti amministrativi destinati alla produzione e alla vendita, dall’altra una serie di funzioni indirizzate alla cura e alla considerazione dei rapporti con ospiti e clienti. Dalla hall d’ingresso su via Romagnoli è possibile accedere direttamente allo showroom commerciale. Un primo ambiente ricettivo, nel quale sono sistemati due uffici vendite, introduce alla galleria fotografica. Questa ospita, insieme a una serie di espositori, alcuni prototipi studiati nelle varie collaborazioni e accompagna la visita ai tre volumi destinati ad accogliere la mostra dei più recenti prodotti dell’azienda. A conclusione del percorso espositivo è sistemato un deposito per il materiale d’archivio prodotto per fiere ed eventi. Accessibile agli ospiti in visita allo showroom, diventa esso stesso parte dell’esposizione. Allo stesso tempo svolge quindi la funzione espositiva insieme a quella più pratica di semplice appoggio sia per lo showroom, che per il magazzino di produzione. Tramite questa cerniera, lo showroom e il padiglione produttivo stabiliscono un punto di contatto attraverso una terza funzione. La stessa situazione si verifica nella connessione intermedia tra il settore produttivo e il blocco

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direzionale. Il centro uffici si sviluppa parallelamente allo showroom e, accessibile dall’ingresso secondario, ospita i settori amministrativi necessari all’azienda. Distribuiti su due livelli, qui trovano posto gli uffici della direzione, gli architetti interni, i grafici, i laboratori tecnici e gli illuminotecnici. In una rigida e ben definita organizzazione degli spazi e delle mansioni è di nuovo l’elemento di connessione tra due volumi ciò che scaturisce una tensione. Alla fine della distribuzione longitudinale di questo volume è collocata un’area di collaborazione e interscambio di idee tra progettisti e tecnici. Qui trova luogo, insieme alle camere climatiche necessarie allo svolgimento dei test sui prodotti finiti, un’aula attrezzata dedicata a incontri e riunioni tra i vari ambiti produttivi dell’azienda. Sia lo showroom commerciale che il centro uffici lavorano come sistemi subordinati al padiglione produttivo e viceversa; si instaura così una relazione dinamica di partecipazione, che permette il continuo confronto di idee e una catena produttiva ininterrotta tra i vari settori. Lo spazio destinato alla produzione è esaltato volumetricamente, rispetto agli altri corpi di fabbrica, dalla copertura a falde, che richiama alla mente l’andamento delle coperture delle cascine disseminate nella pianura. La struttura interna, costituita dalla ripetizione dell’allineamento in serie di pilastri ad albero collaboranti, settorializza l’ambiente interno adibito in parte a deposito e in parte organizzato e attrezzato per le lavorazioni. Nella triplice separazione dell’impronta a terra, che ricorda la suddivisione della stalla-fienile in stalla vera e propria e portici laterali, anche il padiglione produttivo è accompagnato sui fianchi da una serie di servizi minori che accolgono gli spogliatoi, i laboratori chimici e di cartongesso, la minuteria e materioteca e le lavorazioni private di Hermès. Questi spazi trovano posto lungo il perimetro del progetto, rivolti verso

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Rappresentazione della vista d’ingresso al padiglione produttivo.

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Planimetria piano primo.

l’esterno. Costretti ad aprirsi, per permettere l’adeguata illuminazione e aerazione degli spazi di lavoro interni, si relazionano con il contesto in modo completamente diverso rispetto a come si rivolgono gli altri ambienti verso il giardino privato. La piastra del basamento rivestita in mattoni e i volumi che si elevano al di sopra di essa mantengono un carattere complessivamente introspettivo, in linea con l’idea insediativa. Questi elementi, chiari nella loro definizione e separazione, rinnegano un confronto diretto con l’esterno e si presentano come entità completamente cieche. Oltre a mostrare il carattere riservato del progetto, la scelta di non rivolgersi mai verso la situazione esterna pallida, disordinata e confusionaria garantisce, a chi quotidianamente frequenta questi spazi per lavoro, un affaccio su un quadro più silenzioso e misurato. Il piano superiore del centro uffici, nel quale è organizzato il gruppo gestionale dell’azienda, si articola intorno a tre piccole corti, ciascuna delle quali caratterizzata da diverse dimensioni e gradi di aggregazione. La più grande garantisce una pertinenza esterna attrezzata per la sala da pranzo e per l’aula magna, verso quella più intima e ridotta, invece, si affacciano gli uffici dei preventivi speciali e su misura. Nell’insieme assumono le sembianze di una nuova corte, ridotta e secondaria rispetto a quella centrale del progetto, dedicata soltanto agli ambienti gestionali. L’idea di inserire altri giardini, dedicati ciascuno a determinate porzioni di progetto, torna in più episodi, soprattutto per garantire agli ambienti a livello stradale una maggiore riservatezza. Sono utilizzati nel fronte a sud degli uffici, per schermare quelli rivolti verso la strada del piano terra; in adiacenza alle camere della foresteria, per garantire una pertinenza totalmente privata; negli spazi intermedi tra i volumi dello showroom, adatti anche a ospitare esposizioni esterne.

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Il basamento, nel momento in cui, come in queste occasioni è costretto a concedere degli spiragli di dialogo al contesto, è continuamente mediato da un grigliato in laterizio. La gelosia, disegnata dalla disposizione dei mattoni a losanghe, filtra le connessioni tra le due realtà e riporta al disegno e alla funzione della parete forata spesso utilizzata nell’ambiente agricolo per l’aerazione dei fienili. Il carattere fortificato, messo in mostra nei confronti del distretto produttivo, è ribaltato all’ombra della pensilina che cinge internamente la corte. Il grande giardino centrale, separato ed esaltato per mezzo di un piccolo scarto di quota dal percorso che lo avvolge, è il nucleo centrale dell’organizzazione delle funzioni che si rivolgono verso la pertinenza privata dell’azienda. Un interno riparato e comune, che valorizza lo spazio aperto con nuove qualità. Un affaccio quieto e appartato che determina le norme di distribuzione dei locali della fabbrica, privilegiandone un’intima internità. La corte, in un sistema come questo, dove convivono destinazioni d’uso e funzioni molto distanti tra loro assume quindi un ruolo aggregativo. Diventa emblema di collettività, il denominatore comune e il fine ultimo verso cui tendono tutti i vari ambienti che si relazionano con il giardino. La galleria fotografica nella sua interezza, la distribuzione al piano terreno del centro uffici, il teatro-scuola e in parte anche il padiglione produttivo, filtrato dall’utilizzo della solita gelosia, si affacciano ed entrano in relazione con la corte per mezzo di grandi vetrate continue. Prende forma così un’atmosfera interna mediata e scollegata dalla frenesia degli edifici industriali circostanti. Con l’intenzione di dar vita a situazioni di conforto anche nei luoghi di lavoro, la corte interna rimanda alla quiete bucolica della campagna e riconosce nell’equilibrio del paesaggio rurale, ormai troppo distante da quello dei distretti produttivi, una delle sue manifestazioni più convincenti.

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Rappresentazione della vista sulla galleria fotografica nella corte interna.

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Rappresentazione della vista all’interno della hall d’ingresso alla fondazione.

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La condizione di industria autostradale, dovuta alla posizione della fabbrica opportunamente dislocata in prossimità della direttrice Bologna-Padova, impone un confronto diretto con la grande arteria a scorrimento veloce. La constatazione ovvia che le autostrade siano un grande vettore di traffico e di scambi internazionali, di uomini e di merci, svela il motivo preferenziale per cui le industrie scelgano di installarsi in prossimità di queste infrastrutture e tendano, in qualche modo, a distinguersi rispetto ad altre diversamente collocate. Oltre il complesso industriale, avvolto come un unico elemento intorno alla corte, si staglia la torre della fondazione. Leggermente isolata dalla costruzione principale, si tratta di un intervento che mira ad assumere un valore avanzato in fatto di ricerca sull’immagine aziendale e sull’autopubblicità, attento all’aspetto semantico, coerente con l’intero progetto. La torre prende forma ricalcando le proporzioni non troppo slanciate dei campanili e delle torri rurali sparse nella pianura. È il solo elemento, dei diversi volumi costituenti la fabbrica, che insieme al filare di pioppi cipressini, si rivolge all’autostrada. Tenendo conto della reperibilità fugace del messaggio pubblicitario su questo fronte, il binomio architettura e natura diventa la sintesi di un linguaggio complesso, fortemente legato al carattere del territorio, il landmark della lettura e interpretazione del paesaggio. La fondazione assume un ruolo pubblico, indirizzato a definire un luogo coinvolgente e attrattivo, svincolato dagli interessi prettamente produttivi dell’azienda. Al suo interno, l’ambiente a tutta altezza della hall d’ingresso esalta le forme plastiche della scala, che permette l’accesso ai vari livelli dedicati all’esposizione degli allestimenti temporanei. “Un impianto ben fatto, esteticamente non meno che tecnicamente, è la maggior pubblicità che possa fare un’azienda, poiché torna a onore dell’amministrazione e dà le prime garanzie per una produzione scelta e accurata.”

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Tra tecnica e linguaggio L’approfondimento dell’aspetto costruttivo e tettonico trova ragione nella finalità di utilizzare l’occasione progettuale per una riflessione sul rapporto, non soltanto tra architettura e ingegneria, ma specialmente tra tecnica e linguaggio. La possibilità di aprirsi a flussi esterni e rendere eclettico il lavoro tecnico suggerisce come i criteri architettonici possano essere di grande aiuto e significato anche per l’aspetto più ingegneristico. Il problema non viene affrontato soltanto dal punto di vista costruttivo, di particolari tecnologici, ossia di traduzione in termini tecnici di un’idea di architettura elaborata precedentemente. È piuttosto la continua interazione e dialettica tra tecnica e linguaggio che definisce i caratteri del progetto, dove la tecnica, al di là della risoluzione di un problema costruttivo, diventa chance per ampliare la gamma delle modalità espressive e linguistiche. L’intenzione, quindi, è quella di sfruttare certi pretesti dati dai manufatti rurali per compiere delle scelte di architettura: il profilo volumetrico diversificato, la torre colombaia, il portico d’ingresso, le coperture a falde, la porta morta. In questo modo anche i caratteri dei singoli elementi tecnici si trasformano in idee per il progetto di architettura, con la volontà di connotare positivamente l’infrastruttura e il paesaggio in cui va a inserirsi. L’esperienza maturata con la ricerca analitica condotta sulle case rurali della pianura emiliana, in particolare quelle del bolognese, ha accompagnato la concezione del progetto durante tutto il suo evolversi. Concezione intesa come idea basilare, programma-guida, progetto mentale. Analizzando l’aspetto costruttivo dei fabbricati agricoli è evidente come le tecnologie impiegate sono state quasi sempre una risposta sapiente e intelligente alla mancanza di risorse e ai limiti imposti dalle condizioni climatiche, caratterizzate da frequenti precipitazioni e umidità. L’utilizzo del mattone pieno è dovuto al fatto che le zone circostanti sono ricche di argilla

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e che questo possiede ottima resistenza meccanica, coibenza termica, comodità di trasporto e messa in opera. Le strutture in laterizio, di regola, assolvono sia alla funzione di chiusura dell’ambiente dall’esterno, sia a quella statica di sostegno delle strutture dei solai e delle coperture generalmente realizzate in legno. Specialmente nella stalla fienile si nota una più dedicata espressione ed attenzione nella struttura. A differenza di altre aree territoriali, anche prossime per ragioni geografiche, questo tipo edilizio nella realtà agricola della pianura bolognese è rimasto inalterato nell’organizzazione logica e costruttiva, dalla sua codificazione nella prima metà del Settecento. Lo schema insediativo presenta, nella sua semplicità, la massima rispondenza alle esigenze funzionali originarie e ciò ne ha decretato il suo successo. Nel tempo sono stati costruiti edifici, destinati alla singola funzione di accogliere il bestiame, delineati da una grande dignità architettonica e quindi divenuti saldamente tipici della tradizione costruttiva bolognese. La struttura, in certi casi forte e massiccia per la presenza dei pilastri in mattoni, in altri esilissima e aerea per l’utilizzo del calcestruzzo armato, determina i caratteri di un edificio a pianta libera, articolato sotto una grande copertura dalla geometria regolare e dalla forma molto compatta. Questa è definita da un’orditura primaria che può essere costituita da capriate, o più comunemente da un sistema misto di travi e colonnelli, che spesso sostengono una seconda corona più interna, fino a reggere il colmo che è sempre privo di diretti sostegni verticali. I tetti sono sempre realizzati in legno e le essenze maggiormente utilizzate per la grande orditura sono il pioppo, l’abete e il rovere, con netta prevalenza per la prima in quanto facilmente reperibile sul posto. I caratteri strutturali, soprattutto per la scelta dei materiali utilizzati nella costruzione di questo determinato tipo edilizio, hanno definito i sistemi

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tecnologici adottati per la nuova fabbrica. La realizzazione dell’edificio è basata su tutto il corpo di fabbrica ancorato a fondazioni continue del tipo a cordolo. Queste si estendono per l’intera lunghezza dei muri in elevazione, dei quali costituiscono un costante appoggio. Le fondazioni di questo genere permetto una corretta distribuzione dei carichi della struttura verticale, sono realizzate in calcestruzzo con sezione rettangolare e hanno una larghezza leggermente superiore a quella delle pareti sovrastanti. Le chiusure perimetrali della fabbrica sono posate in opera con il sistema costruttivo definito climablock. Questo consente di realizzare pareti in cemento armato in grado di integrare le capacità di resistenza meccanica del calcestruzzo con le capacità di isolamento termico del polistirene. Tramite blocchi, collegati tra loro per mezzo di un incastro guidato, realizzano una casseratura in EPS atta a ricevere il getto e a portarlo a maturazione. I casseri rivolti verso l’esterno hanno uno spessore di 9 cm, quelli sul fianco interno del getto invece di 6 cm. Esternamente le pareti sono rivestite con mattoni faccia a vista del tipo corso CR001 ISC. Si tratta di un formato inedito, con dimensioni 50x4x10 cm, realizzato dalla fornace Sant’Anselmo con sede in provincia di Padova. Rispetto al mattone bolognese, più tozzo nelle sue proporzioni, questa tipologia conferisce allo sviluppo fortemente longitudinale dei prospetti una maggiore qualità estetica, riprendendo però la colorazione rossa, tipica del mattone tradizionale. L’azienda garantisce inoltre anche la fornitura degli elementi necessari per il montaggio della gelosia. Questa è realizzabile con la stessa tipologia di mattoni utilizzati per il rivestimento esterno, posati direttamente in opera, con il semplice taglio degli angoli in modo da ridurre il giunto di malta e garantire maggiore stabilità.

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Dettaglio costruttivo.

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Rappresentazione della vista all’interno dell’arena del teatro-scuola.

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Il motivo decorativo, che assume dimensioni anche rilevanti, è reso stabile al ribaltamento grazie all’utilizzo di malta additivata con colla. Nei casi in cui è necessario garantire maggiore stabilità alla struttura è opportuno disporre i corsi orizzontali su due file di mattoni e alloggiare l’armatura nel giunto di malta tra questi elementi. Le chiusure orizzontali, interne ed esterne, sono realizzate con travi alveolari e travetti in acciaio. La definizione di due diverse tipologie di solaio è necessaria per risolvere il problema della copertura in episodi che presentano caratteristiche dimensionali diverse. In alcuni ambienti, anche se in numero ridotto, il passo strutturale risulta essere maggiore di 6,50 metri, mentre per il resto della costruzione l’interasse tra gli appoggi non supera questa distanza. Naturalmente le due coperture differiscono soltanto per l’utilizzo di sagome diverse. Nel primo caso sono impiegati profili IPE600 per le travi alveolari e IPE330 per i travetti, nell’altro invece rispettivamente IPE300 e IPE160. Le installazioni e le infrastrutture tecniche, quali gli impianti di aerazione e illuminazione che offrono le condizioni ideali per lo svolgimento delle diverse attività, sono integrate in modo organico nel progetto della struttura, oppure inserite nell’intercapedine del controsoffitto che definisce le varie altezze dei locali interni. La carpenteria è completata da serramenti e rivestimenti interni in legno, l’altro materiale da costruzione derivato dallo studio morfologico delle cascine. È soprattutto negli elementi strutturali realizzati con l’utilizzo di questo materiale che si nota una certa corrispondenza con le costruzioni rurali. La pensilina, che si sviluppa sui quattro lati della corte e offre riparo al percorso esterno lungo tutto il suo perimetro, interpreta il portico tradizionale con un linguaggio contemporaneo. Consiste di una soletta in calcestruzzo armato di 18 cm di spessore ed è sostenuta da travi in legno lamellare di pioppo aventi altezza 60 cm e spessore 7 cm. Queste hanno sempre due punti di

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appoggio a distanza variabile compresa tra i 2,00 m e i 4,20 m e aggettano anche in questo caso con dimensioni diverse comprese tra i 4,00 e i 7,00 metri. La trama delle travi portanti viene poi infittita per mezzo della ripetizione degli stessi elementi con un ritmo più serrato, per contrapporsi allo sviluppo longitudinale del percorso esterno di collegamento tra le varie funzioni della fabbrica. La struttura portante lignea torna anche nella copertura del teatro-scuola, necessaria per superare una luce di circa 10 m. Internamente la doppia orditura di travi a vista definisce un cassettonato a compartimenti quadrati che caratterizza l’arena espositiva e prevede l’alloggiamento dei vari strumenti di illuminazione, necessari per lezioni ed esposizioni. Ma è soprattutto nello scheletro puntiforme del padiglione produttivo che il tema delle strutture in legno trova la sua manifestazione massima. Un ampio spazio libero a sezione variabile, che raggiunge l’altezza minima indicata dall’azienda di dieci metri, è scandito dalla triplice ripetizione dell’allineamento di quattro pilastri ad albero collaboranti. Questi costituiscono la struttura portante e il carattere più espressivo del capannone dedicato alle lavorazioni interne dell’azienda. Ogni pilastro è ancorato al proprio plinto di fondazione, adeguatamente dimensionato, tramite un elemento prefabbricato in calcestruzzo. Alla base di questo componente sono predisposte delle scarpette HCC, mentre gli ancoraggi HAB, profondi 70 cm, sono posizionati nella fondazione opportunamente distanziati da una dima metallica. Durante il montaggio questi pezzi sono connessi tramite dadi. Successivamente lo spazio rimanente tra la fondazione e il pilastro viene riempito con malta ad alta resistenza a ritiro compensato, per garantire una connessione rigida alla struttura. I singoli elementi in legno lamellare di pioppo che, insieme al componente prefabbricato, costituiscono il pilastro ad albero vero e proprio, hanno

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Dettaglio costruttivo.

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Rappresentazione della vista all’interno del padiglione produttivo.

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ciascuno sezione 40x60 cm. La connessione dei singoli elementi che compongono il pilastro avviene per mezzo di una forcella con fori asolati. Tramite ancoranti a vite e connettori portapilastro in acciaio al carbonio è garantita la prestazione della struttura. A questo sistema si sovrappone la copertura degli oltre 3000 mq del padiglione produttivo. La membratura del tetto è costituita da un’orditura principale di travi binate in legno lamellare di pioppo aventi sezione 120x18 cm, e da una trama secondaria di travi, anch’esse in pioppo, aventi sezione 40x18 cm. Per la chiusura della copertura viene utilizzato un tavolato maschiato in pioppo, che definisce il piano di appoggio per la sovrapposizione dei vari strati di isolanti e impermeabilizzanti, completati dal rivestimento esterno costituito da una lamiera in zinco-titanio. Nell’intercapedine tra le travi binate principali viene integrato il sistema d’illuminazione artificiale. Per quanto invece riguarda l’illuminazione naturale degli ambienti di lavoro, che prediligono una luce diffusa e omogenea, questa è garantita dal rivestimento in policarbonato opale che trova posto, appena sopra il piano terra destinato ai laboratori tecnici, lungo tutto il perimetro del padiglione. La struttura intelaiata costituita da montanti e lastre di irrigidimento in legno, aventi sezione 23x23 cm, permette la corretta posa in opera dei pannelli alveolari in policarbonato con spessore di 2 cm. A conclusione del discorso costruttivo è opportuno specificare che la costruzione, per garantire una corretta adempienza alle norme antisismiche in vigore, è suddivisa in strutture minori. L’introduzione di giunti sismici, in corrispondenza delle connessioni tra i diversi fabbricati garantisce una risposta autonoma delle strutture e impedisce la propagazione degli effetti. Nei punti di taglio è necessario considerare la realizzazione di nuove pareti di bordo, che devono mantenere tra loro una distanza non inferiore a 1/100 dell’altezza della costruzione con sviluppo verticale maggiore.

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Mauqette in scala 1:500.

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Maquette in scala 1:500.

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Maquette in scala 1:50.

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Dettaglio della posa in opera.

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Dettaglio della posa in opera.


Pattern dei materiali.

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Bibliografia Stanford Anderson, Peter Behrens. 1868 1940, Electa, 2002 Giacomo Becattini, Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di un’idea, Bollati Boringhieri, 2000 Attilio Bertolucci, Le poesie, Garzanti, 2014 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibiltà tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, 2014 Hélène Binet, Vincent Van Duysen. Works 2009-2018, Thames & Hudson, 2018 Davide Bregola, La vita segreta dei mammuth in Pianura Padana, Avagliano, 2017 Vasco Brondi, Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero, Baldini+Castoldi, 2018 Vasco Brondi, Massimo Zamboni, Anime galleggianti. Dalla pianura al mare tagliando per i campi, La nave di Teseo, 2016 Federico Bucci, L’architetto di Ford. Albert Kahn e il progetto della fabbrica moderna, Città Studi, 1991 Casabella n. 651-652, Le fabbriche del Novecento, Electa, dicembre 1997 Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, 2018 Gianni Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, 2018 Comizio agrario Bologna, Monografia del podere bolognese, Compositori, 1881 Jurg Conzett, Architettura nelle opere di ingegneria, Umberto Allemandi & C., 2007 Costruire in Laterizio, n. 47, Di Baio Editore, settembre ottobre 1995 Charles Dickens, Tempi difficili, Einaudi, 2014 Carlo Ferrari, Lucio Gambi, Un po’ di terra. Guida all’ambiente della bassa Pianura padana e alla sua storia, Diabasis, 2005 Giorgia Foschi, Le fotografie del silenzio. Forme inquiete del vedere, Mimesis, 2015 Luigi Ghirri, Pensiero Paesaggio, Silvana, 2016 Le luci della centrale elettrica, Terra. Diario di lavorazione, 2017 Roberto Masiero, Nel - il +. Livio Vacchini. Disegni 1964-2007, Libria, 2016 Armando Melis, Gli edifici per le industrie, Lattes, 1953 Antonio Monestiroli, La metopa e il triglifo, Laterza, 2002 Mario Ortolani, La casa rurale nella pianura emiliana, Centro di studi per la geografia etnologica, 1953 Giuseppe Pagano, Guarnero Daniel, Architettura rurale italiana, Hoepli, 1936 Roberto Parisi, Fabbriche d’Italia. L’architettura industriale dall’Unità alla fine del secolo breve, Franco Angeli, 2011 Raffaele Raja, Architettura industriale. Storia, significato, progetto, Dedalo, 1983 Paolo Rumiz, La secessione leggera. Dove nasce la rabbia nel profondo Nord, Feltrinelli, 2016 Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2017 Pier Vittorio Tondelli, Altri libertini, Feltrinelli, 2019 Livio Vacchini, Capolavori, Libria, 2017 Robert Venturi, Denise Scott Brown, Learning from Las Vegas. The Forgotten Symbolism of Architectural Form, Quodlibet, 2018 Cesare Zavattini, Viaggetto sul Po, in Straparole, Bompiani, 2018 Peter Zumthor, Pensare architettura, Electa, 2003 Peter Zumthor, Atmosfere. Ambienti Architettonici. Le cose che ci circondano, Electa, 2007


Filmografia

Michelangelo Antonioni, Gente del Po, 1947 Michelangelo Antonioni, Il grido, 1957 Bernardo Bertolucci, Novecento, 1976 Bernardo Bertolucci, Strategia del ragno, 1970 Bernardo Bertolucci, Tragedia di un uomo ridicolo, 1981 Gianni Celati, Case sparse. Visioni di case che crollano, 2003 Luigi Comencini, Delitto d’amore, 1974 Francesco Conversano, Nene Grignaffini, Viaggetto nella pianura, 2012 Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome, 2017 Ugo Gregoretti, Omicron, 1963 Alberto Lattuada, il mulino del Po, 1949 Mario Monicelli, I compagni, 1963 Giuliano Montaldo, Una bella grinta, 1965 Giuseppe Morandi, Il colore della bassa, 2008 Ermanno Olmi, L’albero degli zoccoli, 1978 Ermanno Olmi, Lungo il fiume, 1992 Elio Petri, La classe operaia va in paradiso, 1971 Dino Risi, Il sorpasso, 1962 Roberto San Pietro, Il vegetariano, 2019 Alessandro Scillitani, Il risveglio del fiume segreto. In viaggio sul Po, 2012 Luchino Visconti, Ossessione, 1943


Referenze fotografiche Coma_Cose: pp. 10 Fabrizio Vatieri: pp. 24 Albert Renger-Patzsch: pp.28 Renato Biasutti: pp. 32 Comizio Agrario di Bologna: pp. 34 Augustus W.N. Pugin: pp. 41 L’autore resta a disposizione degli aventi diritto per le eventuali fonti iconografiche non individuate.



Fin dove si vede Nei luoghi dove è originaria la malinconia enrico lanfredini 02.03.1994 lanfredinienrico@gmail.com +39 392 9389109


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