Tesi_ Se non nelle cose. Vaselli headquarters a Rapolano Terme (Siena)

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Se non nelle cose Vaselli headquarters a Rapolano Terme


Prefazione Tempi stretti Il materiale umano Nello sciame

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Sinergie Di terra e di pietra

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L’elogio della mano

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La questione della tecnica

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Tracce

Bibliografia

Università degli Studi di Firenze DIDA | Scuola di Architettura Laurea Magistrale a ciclo unico in Architettura anno accademico 2020-2021 Relatore Prof. Fabrizio F.V. Arrigoni Correlatore Prof. Giovanni Cardinale


Valeria Fruzzetti


Ringrazio l’azienda Vaselli marmi per la sensibilità e la serietà messe a disposizione durante l’intero lavoro.

Loc. Sentino, Rapolano Terme Siena, Italy +39 0577 704109


Se non nelle cose


Fortunato è il viaggiatore che si accomoda dentro il silenzio di queste terre. Terre così fatte, nelle quali domina l’argilla intumescente, che si restringono nel paesaggio fino a schiantarsi in cretti, frane e rovine. Camus scrisse nei suoi Taccuini :“Ma soprattutto, soprattutto, rifarei a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, vorrei costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli”. Il paesaggio delle crete senesi è quello della Toscana senza dolcezza d’alberi, dove il verde muta lentamente in una macchia cupa, quasi violacea, del terreno preparato per la sementa; è il deserto che cinge Siena da meriggio. Una regione di terra e di pietra, e un popolo che fin dagli albori si fermava volentieri nei luoghi in cui riscontrava la presenza di rocce superficiali lavorabili, e che ha saputo legare indissolubilmente la propria cultura del lavoro al travertino. La storia della famiglia Vaselli racconta di un tenace legame con il territorio di Rapolano, scegliendo questi luoghi come sede della propria azienda. È nel luogo di confine fra distretto industrale e brulle colline che si radica la nuova fabbrica, in un paesaggio plurimo tra il rettifilo a scorrimento rapido, prettamente industriale, e la contemplativa strada di campagna. La molteplicità del paesaggio si dispiega nella duplice percezione data dalle diverse velocità di percorrenza, lenta e veloce, che modella l’immagine iniziale del progetto. Un giano bifronte che asseconda autoreferenzialmente la linearità del lato auotostradale, sfaccettandosi solo nel dialogo più intimo e discreto con il territorio nascosto alla vista dei più.


La verticalizzazione dei due silos, scarni e volutamente essenziali, definisce il ruolo paesaggistico dell’azienda, veicolando una potente immagine di riconoscibilità nel panorama, visione unitaria da cogliere nella lontananza del punto di vista. La fabbrica diviene la miglior vetrina di se stessa. Il dualismo accompagna la ricerca progettuale, la convivenza tra le esigenze proprie di una realtà aziendale in espansione e un modus operandi che rispecchia la vita nella bottega artigiana, dove regna il ben fare ed è temuto il disagio dell’abbondanza. Nella fabbrica-bottega si rifuggono i “tempi stretti” descritti da Ottieri a favore dei tempi dilatati di quello che si può definire il ritmo proprio dell’artigiano, cui l’azienda principalmente ambisce. In questa sinergia fra maniera e prestazione, appaiono di buon auspicio le parole del poeta William Carlos Williams, secondo il quale non ci sono “idee se non nelle cose”, affermazione che porta a chiedersi se non sia questo, da sempre, il credo dell’artigiano.



“Le fabbriche sono nate dai prati, dalla terra; ma la campagna distrutta, debole e pallida come il cielo sembra che non si difenda e che non la rimpianga nessuno.”


Tempi stretti


Il materiale umano Il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica. Fabbriche che spesso ci appaiono come imperscrutabili contenitori dell’attività umana, oggi così lontane dall’immagine romantica e sublime, che ad esempio poteva suscitare la vista dell’Albion Mill, primo mulino a vapore di Londra, sorto e morto sulle sponde del Tamigi più di due secoli fa. Fin dagli albori della società industriale se ne riconosceranno le più urgenti contraddizioni sviluppate dal suo modello, prevedendo gli effetti del lavoro di fabbrica sulla società contemporanea. A posizioni favorevoli se ne affiancano altre, dubbiose, che tentano di proporre modelli di vita altri, rilevando punti di crisi presenti nello sviluppo industriale, como lo scardinamento del tessuto sociale agricolo e la sua incapacità di rimpiazzarlo con un modello alternativo. Si tratta dell’opera dei “socialisti utopici”, chiamati così da Marx, come Fourier e Saint-Simon, che sostenevano la prospettiva di riorganizzare la società su nuove basi, da cui il modello industriale era, quasi sempre, escluso. Ne “Le nouveau monde industrielle”, del 1929, Fourier indaga la possibilità di far leva sull’attrazione universale, quella legge che regola le relazioni fra uomini e ricchezza, per compiere “una riforma sociale senza rivoluzione”. Il falansterio del filosofo, nucleo della sua teorizzazione di modello produttivo e sociale, è situato in campagna, ospita cellule abitative e produttive per 1600 persone e garantisce la libertà delle passioni, nella scelta delle mansioni lavorative e relazioni interpersonali. La centralità dell’uomo che tentava di rivendicare la sua posizione in una società ormai in corsa venne scansata del tutto e in alcuni casi addirittura ribaltata, se pensiamo alle tensioni create dall’avanguardia futurista, alla sua ideologia meccanizzata, che toglieva di mezzo le apirazioni dell’uomo, subordinato alla macchina ma affascinato da essa e dai misteriosi ambienti industriali, ancora così troppo estranei al quotidiano.

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Robert Barker, Albion Mills, 1792.

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La visione del mondo industriale diviene dunque acritica, simbolo di nuova morale totalmente in positivo. Distaccandosi dall’aggressività avanguardista, anche Emil Rathenau, direttore dell’Aeg, si mostra specchio fedele dei tempi, ribadendo il concetto di centralità del processo di meccanizzazione, ma lasciando all’uomo il suo posto privilegiato, essendo la macchina la sua creazione, dunque massima dimostrazione dell’abilità umana. Questo lo spirito che accompagnerà dagli anni ‘30 la società e l’estetica industriale. Presto la cultura della macchina rompe gli argini e al singolo non è più concesso astrarsi dalle leggi dell’industria. La grande mole di merci viene assorbita da una popolazione in perenne aumento, avida del possesso di prodotti, e del loro continuo ricambio. Gli stessi prodotti industriali, mancando la componente propria dell’artigianalità, stancano, diventando facilmente sostituibili. Lo scenario diventa quello di una fabbrica che, dopo un lungo periodo di fascinazione, rivela la sua imbiguità e incapacità di relazione con l’uomo, cui impone un pensiero di ordine meccanicistico che si traspone negli altri aspetti della vita. La fabbrica rincorre un tempo, che non sempre coincide con quello dell’uomo. Chiarificatori, nella loro estrema attualità, del mondo industriale, si rivelano gli scritti di Ottieri e Volponi pubblicati per la collana Enaudi Gettoni di Vittorini, tra il 1951 e il 1958. L’analisi di Ottieri mise in luce le contradizioni proprie della produzione industriale, difficili da sradicare anche nella fabbrica illuminata olivettiana. A fare da sfondo ai suoi romanzi, che porta un titubante Calvino a riflettere sulla troppa “tristezza operaia” del libro al momento della pubblicazione, il ritmo folle delle macchine, lo stridore della fatica, che più di appagare un bisogno di modernità, riferiscono un’idea eloquente di quel sentimento malinconico e incolore. Se Volponi si concentrerà sulla malattia fisica, per Ottieri la malattia dell’operaio, il morbo dell’homo industrialis ha altre manifestazioni, come la noia e la depressione.

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Fotogramma da “La classe operaia va in paradiso”, Elio Petri, 1971.

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L’angoscia del tempo ossessiona i personaggi di questi romanzi, un tempo che si discosta totalmente dal ritmo dell’artigiano, teorizzato da Sennet. Paradossalmente, anche un tempo più improduttivo, dato che prevale un senso di monotonia e ripetitività che allontana gli uomini dal lavoro, anzichè avvicinarli. L’artigiano differentemente deve essere paziente, lento, evitando le scorciatoie e le soluzioni di ripiego, puntando alla perfezione insita nel suo essere; l’operaio è soggetto all’ottundimento nella fabbrica, costretto a ripetere la medesima attività giorno dopo giorno, ora dopo ora. Può non pensare; è il divorzio tra mano e testa. “Nel movimento dell’andare mio verso l’oggetto e del tornarmene da esso a me, si insinua una frattura tra me e l’oggetto”. E’ solo facendo scattare la consapevolezza di se che il lavoratore è spinto a fare meglio, solo dilatando questi tempi stretti. Nel giro della produzione, il movimento non va da nessuna parte, il montaggio è continuo, non è ancora finito il primo atto che sulla sua scia già inizia il secondo. Un tempo non solo dell’operaio, ma che lo si può leggere nella visione stessa della fabbrica, spesso essenzialmente effimera in quanto specchio fedele dei tempi e dei luoghi, alla forsennata ricerca del proprio spazio di pertinenza nel dominio del paesaggio.

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Foto di “Fabrik”, Jakob Tuggener, 1936.

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Nello sciame La stessa questione paesaggistica si presta a diverse interpretazioni. La bellezza naturale, come voleva Hegel, può suscitare stati d’animo, ma al di la di essa, la sua immagine si offre a rovesciarsi, a fungere da punto di riferimento spaziale, a -nel caso del paesaggio industriale- espressione di valori economici. Una visiona semplicistica inscriverebbe il paesaggio nel singolo dominio del naturale, quando esso è una componente a fianco della presenza umana, che assume un ruolo altrettanto incisivo. L’innesto degli artefatti architettonici imprime il campo percettivo con l’idea dell’evento, della temporalità propria della presenza umana. Ciò porta alla questione della convivenza tra natura e architettura, paesaggio incontaminato e antropico, che per la tenacia dell’impronta umana spinta da valori industriali interessa particolarmente la periferia urbana. Il modello classico di saturazione della periferia resta quello inglese: la razionalizzazione dei metodi di coltivazione della terra, la conseguente scomparsa degli open fields, lo spopolamento delle campagne, l’esodo verso i centri industriali in crescita costituirono fattori concomitanti per la trasformazione della città e del territorio. La scomparsa del produttore radicato nella terra e nella tradizione locale, porta ad una conseguente trasformazione dell’ambiente. Apparvero quindi le prime costruzioni industriali, destinate a segnare, con il loro manufatti rigorosamente tecnici, una frattura all’interno dell’indifferenziata continuità della natura in periferia. L’aspetto miserabile dei luoghi fu la prima conseguenza di questa trasformazione. La massima espressione di questo processo risulta essere il distretto industriale, che l’Italia conobbe a seguito dell’industrializzazione diffusa sviluppatasi nel dopoguerra, diventando un sistema economico con una notevole diversità strutturale e territoriale, e caratterizzato dalla presenza di molteplici specializzazioni localizzate.

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Mario Sironi, Paesaggio urbano, olio su tela, 1930.

Il termine distretto industriale nasce con Marshall e con i suoi studi inizia ad essere considerato un concetto socio-economico. Marshall aveva notato come la co-presenza di imprese operanti nello stesso settore e nella stessa area creasse un’ “atmosfera industriale” in grado di sostenere e favorire il rafforzamento dell’industria locale. Questo lo spinse a ritenere che la dimensione locale avesse un ruolo fondamentale sull’organizzazione dell’industria e nello sviluppo economico. La situazione quindi divenne quella di un territorio con un’elevata densità di imprese di piccola dimensione, operanti in uno stesso settore produttivo, realizzati troppo spesso senza una progettualità sul versante architettonico. “Le fabbriche sono nate dai prati, dalla terra; ma la campagna distrutta, debole e pallida come il cielo sembra che non si difenda e che non la rimpianga nessuno”. Le parole di Ottieri ci restituiscono scenari di una periferia divorata dalla civiltà urbana, accompagnata spesso da un’architettura senza razionalità insediativa. La spinta alla velocità che è propria del mondo della macchina sembra sottintendere una società che tende alla percezione veloce, quasi frettolosa, del sensibile; questo fa propendere per un’architettura costituita da grandi superfici lisce e volumi imperscrutabili. L’attenzione alle forme e allo spazio dei luoghi del lavoro produttivo deve essere fondata sulla consapevolezza della presenza di un ideale superiore e comune, che permetterà il raggiungimento di condizioni di benessere diffuso. L’intervento progettuale dovrebbe quindi favorire lo sviluppo industriale, nel momento in cui permette di stemperare le tensioni sociali da sempre insite nella produzione meccanizzata e agisce da potente e duraturo richiamo pubblicitario. L’architettura industriale ha un doppio fine, etico ed estetico, ovvero di restituire dignità culturale al lavoro manuale subordinato: la forma del costruito è un’idea che è di bellezza e di correttezza insieme, che deve soddisfare l’animo nella sua interezza.

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Disegno di Guido Canali per la fabbrica Prada a Valvigna (AR)

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Nello sciame ingombrante dei distretti industriali l’architettura deve essere la spinta per la ricerca di un godimento che equilibri il disagio dell’intorno, per non ritrovarsi insensibili alla bellezza. L’architettura industriale può affermare le sue capacità di accoglienza dell’attività umana riprendendo forme dell’architettura domestica. Un’architettura a misura d’uomo assurge a una garanzia di qualità del prodotto. Nell’immaginario collettivo influenzato da testimonianze giunte a noi dal medioevo, il laboratorio è, per l’artigiano, la sua casa. Un tempo egli conduceva la propria esistenza domestica nei luoghi dove svolgeva il proprio lavoro; la scena è chiara: una piccola bottega con un uomo circondato dai suoi arnesi e dai suoi apprendisti, in cui l’ordine regna sovrano. L’ambiente è piccolo, ben distante dall’immagine dei moderni stabilimenti, pensati per accogliere centinaia di persone. Il fascino romantico del laboratorio-casa prende le mosse dai primi socialisti nell’avvento della società industriale. Uno spazio da perseguire, in cui il lavoro si svolge in condizioni umane, e lavoro e vita si mescolano in rapporti diretti. Ad oggi i moderni laboratori scientifici, ad esempio, sono strutturati sul modello di bottega artigiana, nel senso che sono luoghi di lavoro di piccole dimensioni, in cui vige la relazione faccia a faccia. Per quanto concerne l’umana individualità, l’artigiano ne è l’emblema, colui che trae forza dal valore positivo posto nelle variazione, sui difetti e sulle irregolarità del lavoro fatto a mano. Tendendo alla volontà di coinciliare il bisogno di solitudine con un forte spirito comunitario, la fabbrica potrebbe essere intesa come un arcipelago di laboratori, la casa dell’homo faber. L’uomo, a quel punto, può trovarvisi davanti libero e sereno.

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Alessandro Rinaldi, Stradivari nella sua bottega, 1886.

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Sinergie


Di terra e di pietra Fortunato è il viaggiatore che si accomoda dentro il silenzio di queste terre. Terre così fatte, nelle quali domina l’argilla intumescente, che si restringono nel paesaggio fino a schiantarsi in cretti, frane e rovine. Il paesaggio delle crete senesi è quello della Toscana senza dolcezza d’alberi, dove il verde muta lentamente in una macchia cupa, quasi violacea, del terreno preparato per la sementa; è il deserto che cinge Siena da meriggio. Camus scrisse nei suoi Taccuini :“Ma soprattutto, soprattutto, rifarei a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, vorrei costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli”. Dentro a questo paesaggio sembrerebbe quasi che l’assurdo dell’esistenza, l’incolmabile distanza tra l’uomo e la realtà, possa prodigiosamente risolversi. Sulle falde dei colli le viti si avvicinano ai pioppi e agli smilzi ulivi, effondendo un colore grigiastro, interrotto soltanto dai poderi sparsi, figli del paesaggio governato dalla mezzadria. Nelle crete senesi la trama è quella dell’insediamento rurale sparso, con casolari spesso in laterizio, accompagnati da fienili e stalle traforati di grandi dimensioni, lungo una viabilità interpoderale molto rara. Decine di poderi formano questa distesa di terre; dopo una zona di folti vigneti cominciano degradando verso la pianura delle terre rugose coltivate a grano o a pastura. Sui contrasti del paesaggio di creta si soffermò Tasso durante il suo soggiorno in un monastero locale, contrapponendo l’immagine aspra e desolata delle balze argillose che dominavano la scena, all’amenità dei terreni tufacei più elevati :”Non è dove il terren si innalzi o inchini, che giammai dei suoi frutti ivi mancando, non verdeggi o risplenda, o non s’infiori, frondosa oliva entro la chiostra o fuori”.

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Foto di “Di terra e di pietra” Valeria Fruzzetti, 2020.

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Foto di “Di terra e di pietra” Valeria Fruzzetti, 2020.

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L’avversità delle colline aride, portò fin dagli albori un popolo a fermarsi volentieri nei luoghi in cui riscontrava la presenza di rocce superficiali lavorabili, e che ha saputo legare indissolubilmente la propria cultura del lavoro al travertino. La presenza degli Etruschi come primi escavatori è storia ormai accertata dai resti archeologici di tombe a camera e urne cinerarie, che denunciano la presenza di una vasta necropoli nei dintorni del territorio di Rapolano. Il travertino “ben serrato e bianco” conobbe poi la sua fortuna grazie all’utilizzo che ne fece l’artigianato senese a partire dal tredicesimo secolo, trovando largo impiego soprattutto per la costruzione di chiese. Fino alla metà dell’800 l’attività estrattiva rimase piuttosto contenuta, saltuaria e limitata a poche importanti realizzazioni architettoniche. Questo impedì di fatto la nascita di una struttura produttiva articolata e amministrata da operatori locali, tanto che per le commesse più impegnative veniva impiegata manodopera proveniente da altre regioni. Numerosi contadini della zona, in cui era ormai radicata la cultura del travertino, si dedicavano saltuariamente al mestiere di scalpellino, ma il carettere discontinuo e intermittente del lavoro li fece propendere per una maggiore dedizione verso il settore agricolo. L’abbattimento delle barriere doganali conseguente all’unità del paese, rese questa pietra molto competitiva a livello nazionale. Lo sviluppo edilizio rese possibile la nascita di una prima filiera di produzione legata all’attività estrattiva, che conobbe un ristagno con lo scoppio della grande guerra, portando inevitabilmente ad una rarefazione e rincaro della manodopera, dovuta al richiamo alle armi di molti operai. Con la depressione del ‘29 la sitazione peggiorò, a causa delle scoraggianti esportazioni estere, e si risolleverà solo dopo un ventennio, grazie alla ricostruzione post bellica. Si sviluppa in pochi anni una reta produttiva che segna il passaggio da una piccola realtà di artigiani ad un sistema di produzione industriale proiettato

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Foto di “Di terra e di pietra” Valeria Fruzzetti, 2020.

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Foto di “Di terra e di pietra”, Valeria Fruzzetti, 2020.

verso i modelli delle regioni del nord. Alle imprese con una tradizione ormai consolidata si affiancano nuove aziende, il mercato torna ad essere florido. Le relazioni tra aziende sono improntate alla concorrenza tra soggetti che svolgono lo stesso lavoro e alla cooperazione tra coloro che operano a diversi livelli della produzione. Accanto al tessuto dell’artigianato crescono imprese locali di maggiori dimensioni che sviluppono sinergie produttive e rapporti di subfornitura, consentendo alle più piccole realtà di ampliare il proprio campo di azione potendo attivare linee di produzione propria. Coesistendo forme di collaborazione e di concorrenza, l’attivazione di forme di coordinamento è incoraggiata, e ciò è in grado di favorire la formazione di una professionalità specializzata e fortemente ancorata all’identità locale. La favorevole piega presa dall’industria lapidea, sostenuta da queste realtà fortemente collaborative, porta alla naturale formazione di destretti industriali, situati lungo le principali infrastrutture di questo territorio. Nonostante il pregio economico occorre ricordare come spesso la distribuzione urbana delle aree industriali nasca senza ordine, coinquistando in modo violento la periferia, prendendo possesso di un territorio che progressivamente svanisce, mettendo da parte le regole insediative che lo hanno governato per secoli. La mano dell’uomo in questo territorio, da sempre schiva e nascosta ma non per questo meno adeguata, viene elusa dall’incalzante architettura del distretto, da una fabbrica che in questi territori desolati dimentica il ruolo che potrebbe assurgere a elemento regolatore dello spazio.

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Foto di “Di terra e di pietra”, Valeria Fruzzetti, 2020.

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Foto di “Di terra e di pietra”, Valeria Fruzzetti, 2020.

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Foto di “Di terra e di pietra”, Valeria Fruzzetti, 2020.

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L’elogio della mano Avvicinandoci al territorio delle cave notiamo come i distretti produttivi, prima singoli punti geograficamente distanti tra loro nel territorio delle crete senesi, si intensifichino, conquistando in modo violento la periferia di Rapolano. Lo scenario che si presenta agli occhi del viaggiatore che si trova a percorrere la località industriale del Sentino, è quello di un disordine aggregativo di grigi capannoni, con il rumore del lavoro e delle infrastrutture che cade addosso come una doccia. Bisogna aspettare per sentire il rumore degli uomini. La storia della famiglia Vaselli racconta di un tenace legame con il territorio di Rapolano, scegliendo questi luoghi come sede della propria fabbrica. Nel caos incessante del distretto, il luogo stabilito dell’azienda come fulcro della propria produzione, si ritaglia un fortunato spazio di pertinenza. È infatti nel luogo di confine fra distretto industrale e brulle colline che si radica la nuova fabbrica, in un paesaggio plurimo tra il rettifilo a scorrimento rapido, prettamente industriale, e la contemplativa strada di campagna. Certamente il raccordo autostradale della Siena-Bettolle, che accompagna un intero lato del lotto, permette di soddisfare le ambizioni pubblicitarie di un’azienda in crescita, motivo per cui l’autostrada rimane l’infrastruttura più ambita da questo tipo di attività. Dall’altro lato vi si legge la componente di radicamento nel territorio, nel senso anche meno metaforico del termine, essendo a ridosso di una strada di campagna conosciuta come strada delle cave, utilizzata fin dal principio come collegamento alle aree estrattive, di estrema importanza per l’azienda. La lettura di questa molteplicità del paesaggio, dispiegata nella duplice percezione data dalle diverse velocità di percorrenza, è stata necessaria per il principio insediativo del progetto. Un giano bifronte che asseconda autoreferenzialmente la linearità del lato autostradale, sfaccettandosi solo nel

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Rappresentazione della vista sulle torri d’acqua.

dialogo più intimo e discreto con il territorio nascosto alla vista dei più. Il progetto per il nuovo stabilimento della Vaselli marmi si pone tra i suoi fini quello di trovare, in mezzo a un territorio di cretti ulteriormente mangiato dalla produzione, un punto di incontro tra caratteri del territorio e architettura industriale. Il dualismo accompagna la ricerca progettuale, la convivenza tra le esigenze proprie di una realtà aziendale in espansione e un modus operandi che rispecchia la vita nella bottega artigiana, dove regna il ben fare ed è temuto il disagio dell’abbondanza. Un luogo di sinergia tra maniera e prestazione. Il rapporto, necessario e cercato, con l’autostrada, definisce un prospetto in cui regna l’orizzontalità, adatto per essere percepito ad alta velocità di percorrenza, interrotto dallo svettare delle due torri d’acqua. L’accenno alla torre è indicativo, esso sancisce la preminenza del paesaggio urbano su quello naturale, imprimendo identità sociale al luogo. La verticalizzazione definisce il ruolo paesaggistico dell’azienda in quanto la innalza a sfondo, scenario, visione unitaria da cogliere nella lontananza del punto di vista. I silos binati, scarni e volutamente essenziali, generano una tensione che trascende la loro funzione diventando essi stessi un simbolo all’interno del distretto e veicolando nel panorama un’immagine potente di riconoscibilità aziendale. La fabbrica diviene la miglior vetrina di se stessa. Guardando verso il fronte collinare, vediamo riflessa nel progetto la dicotomia insita in questo lembo di terra. I volumi si sfalsano, sporgendosi, cercando il rapporto con il paesaggio. Questo conferisce alla fabbrica una dimensione più umana, riuscendo a dare una misura rispetto al lungo prospetto autostradale. Qui la lisca di pesce rivela il suo potenziale di fondamento dell’architettura, di trama primordiale e archetipica. La suggestione richiamata è quella della cava, dei bianchi volumi generati dal distacco della bancata, con gli angoli netti e puliti delle linee di incisione della massa litica.

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Planivolumetrico del progetto, località industriale del Sentino.

La volontà di tenere separati i due flussi necessari per l’azienda si legge chiaramente dall’impianto planimetrico. Verso il fronte bucolico, i mezzi pesanti provenienti dalla cava, trovano accesso direttamente ad un piazzale pensato per facilitare il processo di carico e scarico del materiale. I marmi lasciati all’esterno, come si usa in queste realtà, riportano ad una suggestione figurativa d’impatto, perciò il piazzale è a vista verso la strada di campagna. Qui solo pochi parcheggi, disposti per gli artigiani operanti nel padiglione produttivo. Tutt’intorno alla fabbrica corre un anello carrabile per consentire una miglior percorrenza dei mezzi, utilizzato per distribuire le pesanti masse di travertino all’interno degli ambienti che lo necessitano, come lo showroom. Al cliente spetta un diverso ingresso, e all’interno di un assetto volumetrico che predilige la distribuzione sul piano orizzontale, le due torri assumono l’importante ruolo di riconoscibilità, sfruttato per catalizzare la distribuzione verso l’ingresso principale. Dal parcheggio una lunga vasca d’acqua accompagna il percorso verso l’entrata. Ad equilibrare l’insieme un filare di cipressi corre lungo il percorso pedonale, di cui, in una visione distante, i silos sembrano l’artificiale prosecuzione. La linea dei cipressi prosegue idealmente all’interno della spina dorsale del progetto, il grande distributivo lineare, che collega tutti gli ambienti ospitando il giardino d’inverno. Un locus amoenus impregnato della capacità dell’uomo di organizzare la natura, simbolo dell’antica inclinazione a un’esistenza lontana dalle turbolenze della vita cittadina, attiva, incalzante, dispersiva. Il giardino, in questo sistema che accoglie destinazioni d’uso diverse tra loro, diventa emblema di aggregazione, il fine verso cui tendono tutti i vari volumi che si relazionano con esso. Trasporta in un’atmosfera altra, protetta esternamente dal ritmo incessante dei listelli in legno, scollegata dalla frenesia del lavoro.

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Planimetria piano terra.

Dal giardino la visione è lineare e permette di cogliere la distribuzione dei volumi che compongono la fabbrica. Verso il lato autostradale si stende la lunga superficie dello showroom commerciale, un volume che non necessita di contatti con l’esterno, e rimane chiuso a tutelarsi dallo stancante paesaggio industriale. Il percorso, atto a condurre il cliente alla conoscenza dei prodotti dell’azienda, si articola in una successione di stanze adatte all’allestimento; la più vicina all’ingresso è uno spazio totalmente dedicato all’ospite, in cui viene offerta la possibilità di un contatto diretto con i prodotti. La stasi volumetrica dello showroom viene movimentata dalle tre marmoteche, nella figura di volumi a tutta altezza, che intervallano le stanze dedicate all’allestimento. La casa della cultura materiale, in cui svetta una parete di marmi e travertini dalle diverse finiture, illuminata stavolta dalla luce naturale. Nel distributivo, volgendo lo sguardo dall’altro lato, i volumi sfalsati delimitano inquadrature verso la valle. Qui il tema è quello degli spazi segreti, introversi. Il blocco vicino all’ingresso è quello degli uffici più utili al cliente, l’ufficio vendita e l’ufficio commerciale. A fare da ingresso la hall a tutta altezza, che collega agli uffici e alla caffetteria. Un’altra hall, accessibile anche esternamente e in orario di chiusura dell’industria, conduce alla foresteria del piano superiore, pensata per ospitare i clienti durante gli eventi di presentazione dei prodotti. L’auditorium accoglie gli ospiti con un foyer, che nasconde la platea, un’architettura dentro l’architettura. La scelta dell’impianto a pettine rivela la sua efficacia in questi volumi seperati, che permettono ai prospetti laterali di aprirsi l’uno verso l’altro, facendo entrare con discrezione l’esterno, ma offrendo tranquillità. A giovarne sono gli ambienti del lavoro, soprattutto degli uffici, non turbati da quel che accade intorno, lungo le strade rumorose. Con la hall posta in contatto con il giardino d’inverno, il blocco uffici si presenta come uno spazio libero

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Esploso assonometrico.

da vincoli murari interni, in cui è l’arredo a offrire privacy alle diverse aree di pertinenza. Nel blocco centrale prendono posto i servizi ed i distributivi verticali. Al piano terra si trova la mensa aziendale, con la sua cucina, e gli uffici adibiti al rapporto con il pubblico, come l’ufficio ricerca del personale e l’ufficio amministrativo. Il gruppo gestionale è organizzato al piano superiore, è lo spazio della mente; qui si trovano gli uffici di progettazione, l’ufficio di architettura, l’ufficio grafico e l’ufficio del titolare, collegati ad una grande sala riunioni. Come sempre il verde distributivo aiuta a collocare gli spazi di questa grande azienda di cui l’ultimo volume, oltre alla filiera produttiva, è la scuola delle maestranze, che completa il profilo lineare dello showroom. Collocata in un punto strategico, tra il prodotto grezzo figlio dell’artigianalità del padiglione produttivo, e prodotto finito del volume commerciale di dominio del design, la scuola richiama alla mente le strutture di questo tipo sorte in altri tempi in concomitanza con lo sviluppo della produzione lapidea. Lo scopo è quello di pensare uno spazio in cui si incontrino le sapienze artigiane e il progetto vero e proprio del prodotto industriale, per una conoscenza a tutto campo, dal progetto alla messa in opera. La scuola è organizzata come gli uffici, un volume libero da murature interne, in cui sono gli elementi d’arredo, tende o librerie, a fare da divisorio. All’interno di essa trovano luogo laboratori e aule per le lezioni frontali, una biblioteca ed un’aula magna, in corrispondenza con l’ingresso alla filiera produttiva. Il cuore pulsante dell’industria, il padiglione produttivo, è organizzato anch’esso in due volumi separati, derivanti dalla divisione del processo produttivo, e tenuti insieme da un’unico tetto. Il tema della grande copertura richiama alla mente quando le operazioni di lavorazione della pietra, ancora eseguite a mano, prendevano luogo in laboratori solitamente allestiti all’aperto, sotto enormi tettoie. Il pregio dell’ambiente coperto, risultante

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Rappresentazione della vista dal raccordo autostradale.

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Rappresentazione della vista dai campi.

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dallo sfalsamento dei volumi della filiera e del magazzino, è quello di poter effetture le operazioni di carico e scarico del prodotto in uno spazio riparato. Il blocco lapideo entra lateralmente, passa dal primo taglio delle frese, passando alla zona delle lavorazioni più minuziose, dove è disposta l’area di posa e montaggio, le macchine per la lucidatura e per la finitura dei travertini, e la cabina per la tinteggiatura. Sul fondo del padiglione prendono posto le macchine per la prova del materiale; l’oggetto può essere assemblato e passare al deposito del prodotto finito. Al centro del sistema si trova la zona di studio della lastra, simbolo del carattere artigianale dell’azienda, il cuore della bottega; prima di procedere alle operazioni che portano allo sviluppo del prodotto, ogni lastra viene esaminata, per consentire di effettuare lavorazioni che la valorizzino. Ogni manufatto risulta quindi essere un pezzo unico. L’azienda sceglie di lavorare essa stessa gli altri materiali che vanno a comporre il progetto dei loro elementi d’arredo, come le finiture in legno, per una progettazione totale; trovano posto quindi nel volume del deposito, gli spazi per la lavorazione del legno. I due volumi si presentano esternamente impenetrabili, aprendosi solo nel dialogo tra loro stessi, tramite due pareti completamente vetrate, ad evidenziare la concomitanza tra i processi di lavorazione, e superiormente con i lucernari in copertura. Nelle due spalle chiuse in testa agli edifici trovano posto gli uffici per il comando delle macchine a controllo numerico, una minuteria per le operazioni di assemblaggio, gli spogliatoi al piano di sopra e, nel volume del deposito, il locale impianti. La volontà di evitare il confronto con lo stancante paesaggio industriale, è messa in luce dall’aspetto esterno degli edifici, con profili volumetricamente compatti e chiusi. Nel momento in cui si debba concedere un dialogo diretto con il contesto, come nel caso della scuola, esso è mediato da un grigliato di mattoni, riportando alla mente i caratteri propri dell’architettura rurale toscana. I trafori in laterizio, utilizzati nei fienili, permettevano il passaggio dell’aria,

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strumentale all’essiccagione del fieno stipato. Per quanto concerne l’aspetto degli altri prospetti, è stato decisivo l’orientamento della fabbrica, disposta precisamente in direzione nord-sud. Nei padiglioni degli uffici il profilo meridionale è schermato da una trama di lastre in travertino verticali, che esternamente, a seconda del punto di vista, mantengono intatta la compattezza dell’edificio. A nord le grandi vetrate rimangono a vista, avendo le tende a fare da unica schermatura. Il volume dell’auditorium, non necessitando di particolare luce naturale, si offre al dialogo con il contesto tramite la trama forata delle gelosie, tema a questo punto ricorrente.

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Profili.

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Profili.

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Rappresentazione della vista all’interno della marmoteca.

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La questione della tecnica Ogni occasione progettuale, indipendetemente dal tema o dallo scala, può essere motivo di una riflessione concettuale sul rapporto tra tecnica e linguaggio. La tecnica, al di la della risoluzione di un problema costruttivo, diventa possibilità di ampliamento di una varietà espressiva e linguistica. L’intenzione è quella di trasporre in progetto, le sinergie tra macchinismo industriale e bottega, con uno sguardo sempre costante all’eredità del luogo, intesa soprattutto dal punto di vista dei materiali di queste terre, e dai caratteri tipologici delle costruzioni qui stanziate. La tipologia insediativa a pettine del progetto, che porta a volumi di dimensioni diverse a dialogare tra loro, è unificata dal sistema costruttivo utilizzato in ogni ambiente, ad eccezione della filiera produttiva che parla un linguaggio tecnico a se stante. Il sistema è quello puntiforme, con pilastri in calcestruzzo armato, determinando i caratteri di edifici a pianta libera, che trova la sua applicazione nei blocchi amministrativi. Il tamponemento della struttura per le chiusure verticali è stato pensato con i blocchi di tipo gasbeton, un tipo di calcestruzzo aerato autoclavato, che offre un’ottima risposta alla questione dell’isolamento termico. Sistema di chiusura è anche quello vetrato, elemento a se stante, distante di pilastri di 40 cm. A completamento del telaio strutturale vi è il sistema delle coperture, realizzate con solaio in calcestruzzo armato, e coronate dalla stratificazione del tetto verde. La scelta di questa tipologia di manto di copertura va letta principalmente nell’ottica di dialogo con l’ambiente collinare adiacente al progetto, che porterebbe alla visione della fabbrica da un punto di vista soprelevato, facendo quindi da mediatore con la natura. Il manto affonda le proprie radici in un substrato terroso di dimensioni ridotte; viene innaffiato periodicamente dalle precipitazioni meteoriche, ma è stato previsto un sistema di irrigazione.

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Dettaglio costruttivo.

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Rappresentazione della vista all’interno del giardino d’inverno.

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Dettaglio costruttivo.

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Rappresentazione della vista all’interno del padiglione produttivo.

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Espoloso assonometrico della struttura del padiglione produttivo.

Il passo dei pilastri è ripreso nel giardino d’inverno, che si distacca da tutti i volumi come spina portante dell’intero progetto. Per garantire la giusta adempienza alle norme antisismiche il progetto, seguendo la sua tipologica conformazione, è suddiviso in strutture minori, e ciò si riscontra anche nella stecca distributiva, separata dai volumi ad essa collegati. Il linguaggio costruttivo qua cambia, tutto è portato da triliti lignei, con montanti binati e travi in legno lamellare. La chiusura verticale prevede grandi vetrate, necessarie all’esistenza del giardino invernale; il sistema è di tipo 4F1, con telaio in acciaio zincato e pannelli fissi in vetro stratificato. La chiusura termina agganciando i listelli di legno, che fungono da schermatura. La tecnologia costruttiva in legno torna nel padiglione produttivo, sorretto dalla selva di pilastri binati e travi; l’effetto monumentale del ritmo e dell’elemento ripetuto è legge antichissima. A questo sistema si sovrappone quello della copertura, in legno anch’essa, sormontata dalla lamiera di colmo in zinco-titanio, interrotta dai due grandi lucernari con infisso in profilati di alluminio e vetrocamera. Il sostegno dello sbalzo ad angolo di questa grande copertura è garantito dall’utilizzo di due travi alveolari in acciaio congiunte ad angolo retto, ed una terza collegata a loro diagonalmente, a supportare il carico nell’angolo svuotato tra i due volumi. Le chiusure esterne sono risolte con le testate dei due blocchi piene realizzate in calcestruzzo armato, per far fronte alle questione antisismiche. Le murature, sul lato che guarda verso l’esterno, vanno invece a smaterializzarsi nelle trafori delle gelosie, differenziandosi dalla tenacia strutturale delle due testate. Internamente l’uso di grandi vetrate come sistema di chiusura verticale, permette un dialogo continuo tra i due blocchi produttivi. L’utilizzo del legno come materiale da costruzione richiama quella componente più intima, quasi domestica, all’interno di un ambiente industriale,

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Rappresentazione della vista all’esterno del padiglione produttivo. Pagina a fianco assonometria e nodi costruttivi.

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governato dalla precisione meccanica. Precisione che, a livello dimensionale, ha raggiunto da anni anche il legno, grazie alla collaborazione tra legno e acciaio. Nel padiglione gli elementi strutturali sono realizzati in legno lamellare di abete rosso. I pilastri binati si ancorano a terra tramite una lamiera in acciaio, che permette al legno di mantenere un’accurata distanza dal suolo, collegata agli elementi con perni filettati e scanalati ad elevata resistenza all’estrazione, il tutto reso più stabile dal blocco di legno duro posto tra i pilastri. Le travi principali sono alloggiate tra i due pilastri binati, poggiando su adeguate scanalature, e ancorate tramite perni filettati. L’aggancio con il sistema di travi secondarie è risolto tramite nodo ad incastro incrociato, con vite da legno. Il legno è utilizzato anche per le finiture esterne, come i listelli che corrono lungo tutto il volume distributivo, stavolta preferendo legname di latifoglie, più adatto all’esterno perchè contenente meno resina. L’aspetto dei volumi esterni, dei bianchi blocchi litici, rimanda alla tradizione millenaria che lega questa terra alla sua pietra, il travertino. Un legame che rimanda direttamente anche all’azienda, in quanto i listelli progettati per il rivestimento, con dimensioni 160x12 cm, vengono garantiti direttamente dalla propria filiera produttiva. Per concludere la questione della tecnica, è necessaria una nota sulle due torri d’acqua, che oltre al loro indubbio ruolo simbolico, si fanno carico del sostentamento idrico della fabbrica. Questo settore necessita di un continuo ricambio d’acqua, soprattutto nella prima fase di taglio del materiale di cava. Uno dei due silos ospita al suo interno un impianto di chiarificazione delle acqua proveniente dalle filiera, separando gli interti che vengono ridotti in fanghi, utilizzati nel settore dell’edilizia. L’acqua chiarificata dalle polveri viene conservata nella vasca a cielo aperto alla base delle torri, e mandata direttamente alle frese, tramite pompe dosatrici. L’altro silos si fa

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Sezione dei silos.

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deposito del materiale risultante dal processo di chiarificazione, disponibile al ritiro. Grandezza e tecnica dei due silos fanno intuire una tenace volonta di durata. Il serbatoio interno, dettato dalle esigenze idriche, è in sottile lamiera d’acciaio, dimensionata per resistere alle pressione dell’acqua. Alle esigenze del rivestimento si presta l’uso del calcestruzzo ad elevatissime prestazioni, l’UHPC. Si caratterizza come un materiale a base cementizia fibro-rinforzata, che presenta un’accresciuta resistenza meccanica a compressione e una notevole duttilità. Queste prestazioni sono ottenute dalla diversa composizione dei componenti rispetto a quella dei calcestruzzi ordinari, per l’alto contenuto di cemento, per il bassissimo rapporto a/c, e per l’utilizzo di fibre metalliche, rendendo questo materiale perticolarmente adatto alla realizzazione di esili membrature o rivestimenti. Per quanto riguarda le fondazioni, sono pensate come un grande bastione circolare in calcestruzzo armato, ancorato a terreno tramite pali di fondazione di 60 cm di diametro.

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Mauqette in scala 1:500.

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Mauqette in scala 1:500.

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Maquette in scala 1:100.

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Maquette in scala 1:100.

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Maquette in scala 1:100.

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Maquette in scala 1:100.

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Tracce


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Bibliografia

Stanford Anderson, Peter Behrens. 1868 1940, Electa, 2002 Franco Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Mondadori, 2012 Giacomo Becattini, Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di un’idea, Bollati Boringhieri, 2000 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibiltà tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, 2014 Hélène Binet, Vincent Van Duysen. Works 2009-2018, Thames & Hudson, 2018 Remo Bodei, Le forme del bello, il Mulino, 2016 Federico Bucci, L’architetto di Ford. Albert Kahn e il progetto della fabbrica moderna, Città Studi, 1991 Albert Camus, Taccuini, Bompiani, 2018 Casabella n. 651-652, Le fabbriche del Novecento, Electa, dicembre 1997 Casabella n. 591, Guido Canali, Electa, giugno 1992 Casabella n. 367, Ettore Sottsass, Il pianeta come festival, Electa, maggio 1972 Jurg Conzett, Architettura nelle opere di ingegneria, Umberto Allemandi & C., 2007 Costruire in Laterizio n. 47, Tipologie rurali in Lombardia, Emilia Romagna e Toscana, Di Baio Editore, settembre ottobre 1995 Costruire in Laterizio n. 87, Guido Canali, Di Baio Editore, maggio giugno 2002 Gillian Darley, Fabbriche, origine e sviluppo dell’architettura industriale, Pendragon, 2007 Charles Dickens, Tempi difficili, Einaudi, 2014 Giorgio Giorgetti, Le crete senesi nell’età moderna, Leo S. Olschki, 1983 Roberto Masiero, Nel - il +. Livio Vacchini. Disegni 1964-2007, Libria, 2016 Armando Melis, Gli edifici per le industrie, Lattes, 1953 Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, Garzanti, 2004 Ottiero Ottieri, Tempi stretti, Einaudi, 1957 Roberto Parisi, Fabbriche d’Italia. L’architettura industriale dall’Unità alla fine del secolo breve, Franco Angeli, 2011 Raffaele Raja, Architettura industriale. Storia, significato, progetto, Dedalo, 1983 Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2017 Federigo Tozzi, Le Novelle, Rizzoli, 2002 Mario Tronti, Operai e capitale, Derive approdi, 2012 Livio Vacchini, Capolavori, Libria, 2017 Robert Venturi, Denise Scott Brown, Learning from Las Vegas. The Forgotten Symbolism of Architectural Form, Quodlibet, 2018 Maurizio Vitta, Il paesaggio, Einaudi, 2005 Paolo Volponi, Memoriale, Einaudi, 2018 Peter Zumthor, Pensare architettura, Electa, 2003 Peter Zumthor, Atmosfere. Ambienti Architettonici. Le cose che ci circondano, Electa, 2007 Peter Zumthor, Buildings and projects, Verlag Scheiddeger and Spiess, 2014


Filmografia

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Referenze fotografiche Robert Barker: pp. 10 Jakob Tuggener: pp. 14 Mario Sironi: pp.17 Guido Canali: pp. 18 Alessandro Rinaldi: pp. 20 L’autore resta a disposizione degli aventi diritto per le eventuali fonti iconografiche non individuate.



valeria fruzzetti 04.05.1994 fruzzettivaleria@gmail.com +39 334 3781995


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