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Another brick in the wall

Another brick in the wall

Ècontroverso e affascinante parlare di un avvenimento come la Caduta del Muro di Berlino quando il focus dell’articolo dovrebbe essere un qualche conflitto sperduto nel pianeta. Perché parlare di una pace realizzata, perché raccontare di un mondo che non ha agganci con la nostra realtà, con il nostro modo di dividere o unire geopoliticamente i paesi? Realmente con quel Muro sono crollati i punti cardinali per come erano conosciuti dalla generazione che ha preceduto la nostra. Era tutto facile. C’era l’Ovest dei liberal-democratici che stavano con gli Stati Uniti. C’era l’Est dei social-comunisti alleati dell’Urss. Poi c’era il Nord ricco e industriale che sfruttava il Sud povero o in via di sviluppo dopo la colonizzazione. Era lineare, era semplice: quattro punti cardinali, quattro configurazioni per il Pianeta. Impossibile provarci ora: il Nord continua a sfruttare, ma ci sono terre – a Nord – che vengono sfruttate e colonizzate da economie più forti. Al Sud, alcuni sfruttati si sono trasformati in sfruttatori: Sud Africa, Brasile, India, ad esempio. Applicano ad altri Paesi le medesime politiche – e creano le stesse ingiustizie – di chi li sfruttava fino a qualche decennio fa. A Est c’è ancora la Russia, ma soprattutto c’è la Cina, che ha ripreso con fermezza il posto che aveva avuto per secoli: quello di nazione più avanzata del Mondo. Già nel 1850, durante la guerra dell’oppio contro gli inglesi, Pechino controllava da sola il 33 per cento del commercio mondiale. E’ solo tornata lì, dopo un secolo e mezzo di crisi. Dunque, tutto questo c’è da quando il Muro di Berlino non c’è più. Sebbene il muro di Berlino non ci sia più. Quando è caduto in cocci sotto mille picconate ci si aspettava una vita nuova, una nuova libertà. In realtà, il Mondo si è semplicemente trasformato, modificando le proprie ingiustizie. Delocalizzandole. Dopo la caduta del Muro, ci sono state le guerre della ex Jugoslavia, quelle in Africa – basti pensare al Rwanda e alla Repubblica Democratica del Congo -, c’è stato il terrorismo islamico con i suoi attentati, le guerre del Vicino Oriente, ad esempio in Siria e nello Yemen. Anche la bomba atomica, grande paura di quegli anni di Guerra Fredda attorno al Muro, è ancora lì. Ce ne sono meno di prima, ma sono pur sempre quasi 20mila quelle pronte ad esplodere. Ci sono infinite zone del pianeta nel quale ancora si combattono conflitti che non emergono nemmeno agli onori della cronaca. In Camerun, lo scontro tra esercito e movimento separatista ha provocato ventidue vittime una manciata di giorni fa, mentre nel resto del pianeta si festeggiava San Valentino, ma secondo le forze governative si è trattato di uno “sfortunato incidente” causato da un’esplosione di carburante. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha dichiarato giovedì scorso che quasi 8mila persone sono fuggite in Nigeria dal Camerun nelle due settimane precedenti alla strage del 14 febbraio per sfuggire ai combattimenti, portando il numero di rifugiati a quasi 60mila. Circa 800mila bambini hanno dovuto abbandonare la scuola.

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El Salvador, domenica scorsa. Il presidente Nayib Bukele è arrivato all’Assemblea legislativa con un gruppo di soldati in uniforme con armi automatiche. L’intento era di forzare il parlamento, nel quale non ha la maggioranza, ad approvare un prestito da 109 milioni di dollari della Banca centrale per acquistare elicotteri e sistemi di videosorveglianza, in breve attrezzature paramilitari, per combattere la criminalità organizzata. Benché nominalmente sotto la presidenza di Bukele il tasso di omicidi risulti decresciuto da più di 8 al giorno a meno di 3 (El Salvador ha poco più di 6 milioni di abitanti), esiste la concreta possibilità che ciò derivi da accordi segreti con le gang, le famigerate maras che costituiscono un governo parallelo, più che dal risultato dell’azione delle forze dell’ordine. Era già avvenuto nel 2012. Una interessante e approfondita inchiesta del “The Guardian”, dal titolo “Perché temiamo l’esercito più delle gang” rende con efficacia come si svolga la vita quotidiana dei salvadoregni e in quale drammatico stato si trovi la società di tutto il Centro America. Da questa situazione fuggono i migranti che, in carovana o isolati, cercano di raggiungere gli Stati Uniti. Sì, ma cosa trovano ad attenderli? Tijuana. A Tijuana io ci sono stato che ero ancora un bambino. C’è un muro, che a volte è muro, a volte filo spinato, a volte fila di immigration patrol armati, a volte esercito schierato in muta e bombole sotto le onde di San Diego. E’ un altro muro, lungo oltre 1000 km. Spostiamoci ancora più a sud. Sud Sudan, un paese perduto. Un territorio dove si è consumata la più grande delusione africana. Dal dicembre 2013 ci sono stati oltre sessantamila morti e sono finiti in carta straccia e al vento una ventina di accordi di tregua o cessate il fuoco. Sono saltati altrettanti negoziati, abortiti ancora prima di entrare nel vivo delle questioni. Il motivo è che la guerra in questo paese è praticamente scivolata sul piano di un conflitto etnico e la divisione del territorio, in tali circostanze, è il primo oggetto di trattativa. Questo “ordigno sociale” ha la caratteristica che una volta innescato è quasi impossibile da gestire, anche in caso di accordi pacificatori. L’avvio di una trattativa non può fare a meno di tenerne conto e questo rappresenta uno dei principali handicap di un processo che, peraltro, in Sud Sudan non è nemmeno ancora concretamente cominciato. Potremmo parlare poi del caso Kabul, perché l’inquinamento in Afghanistan è risultato essere persino più mortale della sua guerra. Non ci sono statistiche ufficiali su quanti afgani muoiano per malattie legate all’inquinamento, ma il gruppo di ricerca State of Global Air ha rilevato che nel 2019 potrebbero esserci stati attorno ai 26mila decessi. Kabul è diventata una delle città più inquinate del mondo, classificandosi in cima alla lista tra le altre capitali inquinate come Nuova Delhi o Pechino. L’inquinamento è riconosciuto come conseguenza diretta della guerra che ha distrutto le infrastrutture della città e causato ondate di sfollati. Decenni di guerra hanno aggravato i danni all’ambiente afgano, e la gravità della cosa è

tanto più evidente se si considera che le questioni ambientali, non sono certo la priorità per un governo alle prese con problemi di sicurezza di base, corruzione dilagante e un’economia precipitata. La guerra, è evidente, comporta inevitabilmente la distruzione dell’ambiente: nella Striscia di Gaza, ad esempio, i grandi attacchi militari dal 2008 ad oggi , hanno preso di mira il trattamento delle acque reflue e le strutture elettriche, lasciando il 97 per cento dell’acqua dolce di Gaza contaminata da soluzione salina e fognaria, e quindi inadatta al consumo umano. Oltre alla guerra aperta, dunque, c’è da considerare un altro tipo di conflitto che minaccia gli ecosistemi e che è sempre portato avanti dagli stati o dalle loro forze militari e paramilitari: le comunità che lottano per proteggere terre e villaggi da trivellazioni petrolifere, compagnie minerarie e allevamento intensivo sono con regolarità vittime di violenza in certe aree del pianeta. Un esempio ci porta in Amazzonia, dove gli indigeni vengono da tempo immemore uccisi nel tentativo di fermare i tagli e l’incenerimento della foresta. Nel 2019 ci sono stati 164 casi documentati di uccisione di cosiddetti ecoterroristi in tutto il mondo, mentre erano 207 nel 2018. Il cambiamento climatico inoltre, in quello che, solo apparentemente, potrebbe sembrare un ennesimo volo pindarico laddove il focus esclusivo

dovrebbe essere sui conflitti dimenticati, è un “moltiplicatore di minacce” perché aggrava situazioni sociali e politiche già pericolose. In Siria, ad esempio, la peggiore siccità degli ultimi anni ha portato ai fallimenti delle colture, che a loro volta hanno esacerbato la disoccupazione e i disordini politici. Crisi climatiche simili hanno scatenato conflitti in altri paesi del Medio Oriente, dallo Yemen alla Libia. Con l’aumento delle temperature globali gli osservatori rilevano che ci saranno più disastri ecologici, più migrazioni di massa, più guerre etniche, più scontri armati interni. Eppure esiste forse un conflitto tanto globale e misconosciuto quanto quello della rivoluzione climatica in atto? Fatta eccezione per le recenti mobilitazioni studentesche, gli innumerevoli proclami, progetti in progresso, soluzioni dedicate, con quale forza e con quali risultati la questione, estremamente complessa, ha ottenuto risposte realmente efficaci dai grandi player internazionali? Non voglio risultare scontato, torniamo dunque al muro da cui siamo partiti. Secondo il rapporto Building walls. Fear and securitization in the European Union, pubblicato lo scorso anno da Transnational In- stitute (TNI), i muri eretti all’interno dell’ Unione Europea, ammontano a oltre 1000 km, sei volte tanto quello di Berlino. Alcuni di questi sorgono addirittura in zone di confine in piena area Schengen. A Calais, estremo limite nord-occidentale del continente, sulla sponda sud del Canale della Manica. 3 km di cemento, tra Austria e Slovenia. 13 km di filo spinato, fra Grecia e Turchia. Barriere e recinzioni, poi, sono state sparse a cascata un po’ in tutto il mondo a partire proprio dagli anni immediatamente successivi alla caduta del muro. Ve ne sono vari in Africa – al confine tra

Marocco e Spagna, all’altezza dell’enclave di Melilla in funzione antimigranti, sempre in Marocco, ma al Sud, per marcare con mine la frontiera con la ‘calda’ regione del Sahara Occidentale, tra Botswana e Zimbabwe ecc. ‒, in Asia, tra India e Bangladesh e tra vari altri Stati. Come, però, spiega un altro rapporto, The business of building walls, pubblicato l’estate scorsa, è importante considerare che i muri non sono solo blocchi di malta e cemento. Le moderne barriere antimigranti sono piuttosto le innumerevoli forme che la tecnologia mette a disposizione dei governi: sistemi radar, droni,

camere di sorveglianza o biometria. «Alcuni dei muri più pericolosi – sostiene l’autorevole centro di ricerca – non sono fisici né su terra. Le navi, gli aerei, i droni utilizzati per pattugliare il Mediterraneo, ad esempio, hanno alzato una barriera marittima e generato un cimitero a cielo aperto per migliaia di migranti che non hanno vie di accesso legale per esercitare il loro diritto di ricerca di asilo». A guardare le immagini dei ragazzi increduli che sciamavano da una parte all’altra del muro di Berlino sgretolato nel 1989, si è quindi quasi presi da un senso di inquietudine, più che di euforia. Quel muro sembra infatti aver partorito infiniti altri muri, muri diversi. Qualcuno dice ve ne siano quasi 80 nel Mondo. Sono nati – come a Berlino – per impedire alle persone di muoversi liberamente. Sono stati creati per ridurre i diritti degli esseri umani. E quando non sono barriere fisiche, sono barriere ideologiche altrettanto invalicabili. Sono il simbolo di una opportunità perduta, un sogno infranto che era il cambiamento come si aspettavano sarebbe stato i nostri coetanei di 30 anni fa e sono la forza generatrice di una mole indiscussa di guerre e conflitti di vario ordine, a molti dei quali ci siamo purtroppo tristemente abituati, dimenticandocene. NICCOLÒ ROSI

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