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Lo scacchiere dopo la caduta di Kabul di Niccolò Rosi
lo scacchiere dopo la caduta di Kabul
La fase finale del ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan si è dipanata secondo circostanze che ovviamente hanno acceso un dibattito condiviso dalla maggioranza degli osservatori internazionali, ed i cui punti possono essere brevemente sintetizzati nei sei a seguire. In primis: il neo insediato presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è dimostrato decisamente inadeguato e la sua amministrazione del tutto impreparata ad affrontare i postumi di una situazione che era facilmente ipotizzabile, fatto che certamente concorre a screditare le capacità dei servizi d’intelligence statunitensi; Secondo: sempre il neo eletto presidente Biden ha fatto calare il sipario su di un certo immaginario collettivo dichiarando che il suo Paese non combatterà più “le guerre degli altri” , ammettendo, dunque, in buona sostanza, la fine della superpotenza Usa, e dimostrando come l’Occidente non sia più all'altezza di fare i conti con le tragedie interne insite ad ogni conflitto armato; Terzo: l’Europa deve trarre un insegnamento concreto da questa lezione e organizzarsi prontamente per la creazione di una difesa comune, capace di difendere gli interessi dell’Unione nelle aree di crisi, anche indipendentemente, e anzi, senza l’intervento degli Stati Uniti Quattro: Russia e Cina trarranno vantaggio del vuoto geopolitico seguito al ritiro occidentale, imprimendo definitivamente la propria sfera di influenza in Eurasia Cinque: nonostante 20 anni di coabitazione, l’Occidente non è riuscito ad imporre il proprio modello di democrazia inAfghanistan. Per questo ci sono mille ragioni di tipo etno - antropologico, ma basterebbe anche riconoscere che, molto semplicemente, si tratta di un principio impraticabile e per certi aspetti del tutto ingiusto. Sei: la presenza di un certo Occidente in Afghanistan aveva come fine il controterrorismo più che l’azione politico - umanitaria della ricostruzione. Proprio su quest'ultimo punto vale la pena soffermarsi. Partita come guerra al terrorismo, la missione afghana si è presto trasformata in un goffo e malcelato tentativo di “nation building” e d’imposizione della democrazia. O meglio, di un modello di democrazia inesportabile in quella
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Situazione attuale durate il regime talebano
complessità etnica e sociale. E tuttavia, seppur l’Alleanza non abbia mai lasciato intendere di voler restare nel Paese per sempre, allo stesso tempo non ha mai favorito né istruito il governo locale, che è rimasto senza poteri chiari, né legittimazione. Al contempo, la struttura multietnica e tribale del Paese non ha mai consentito la creazione di Forze armate unitarie, con una cultura della difesa condivisa. Con ogni probabilità, l’Occidente avrebbe compiuto la sua missione, e sarebbe rimasto fedele ai suoi principi se avesse lasciato l’Afghanistan all’indomani dell’ingresso a Kabul dell’esercito dell’Alleanza del Nord, garantendo allo stesso tempo a quest’ ultima una presenza stabile nel governo nazionale, e strutturando nel Paese presidi militari sufficientemente forti da intimorire i talebani. Si tratta tuttavia di supposizioni senza certezza. L’ unica certezza è infatti la drammaticità dello status quo, dei diritti calpestati, degli omicidi efferati, della mortificazione della donna. A onor del vero, gli analisti ritengono alquanto improbabile tuttavia che i talebani possano avere nuovo interesse ad offrire rifugio a gruppi terroristici come al Qaeda o ISIS, consentendo loro di colpire l’Occidente come in passato. E se anche i talebani fossero tentati da una simile prospettiva obnubilati dai fumi del loro oltranzismo, è quasi certo che ii loro stessi protettori dal Pakistan interverrebbero per dissuaderli, temendo di rompere definitivamente le relazioni con gli Stati Uniti. E questo nonostante Islamabad, che un tempo era più strettamente legata a Washington, si sia progressivamente allontanata dalla protezione Usa, confidando piuttosto nell’alleanza con Pechino ed innescando un lento processo di avvicinamento degli Usa all’India. Ciò non vuol dire che l’Afghanistan sia pacificato, affatto. In nessuna direzione. Di fatto, nel Panshir la resistenza dei tagiki fa da catalizzatore ad una nuova Alleanza del Nord che potrebbe dare filo da torcere ai talebani, se sostenuta da qualche partnership esterna. Torniamo un passo indietro, è chiaro come il ritiro degli Stati Uniti rappresenti un importante vantaggio per Cina e Russia. Le posizioni dei due Paesi, però, non sono affatto univoche, anzi, divergenti. L’intelligence russa ha sempre mantenuto una presenza sensibile nel Paese, ma la sua influenza, ad oggi, è limitata. Certo, Mosca può contare sulle minoranze uzbeka, tagika e hazara, per impedire che i talebani prendano pieno controllo dell’Afghanistan, ma è proprio a questo fine ed in nome di questa consapevoelzza che, ancor prima di occupare i capoluoghi Kabul, le milizie talebane hanno preso il controllo dei va-
lichi di frontiera con Uzbekistan e Tagikistan. Ecco perché il ritiro delle forze Nato dall’Afghanistan può provocare un ulteriore rafforzamento dell’influenza della leadership cinese di Xi Jinping in Asia Centrale, ed in particolare nelle repubbliche ex sovietiche che vengono considerate da Mosca come “l’estero vicino”: uno spazio d’importanza strategica vitale per la sicurezza del proprio Paese, e forse addirittura per la sua integrità territoriale. A questo fine, il governo russo ha tenuto aperti sia l’ambasciata a Kabul, sia un canale di comunicazione con la leadership dei talebani. Questi, tuttavia, sono stati insediati, armati e addestrati con il lavoro incessante dei servizi d’intelligence pachistani, che da sempre è il principale alleato asiatico della Cina. Non è un caso dunque, se i toni usati dalle diplomazie di Mosca e Pechino, nei confronti dei talebani, siano sostanzialmente differenti. Il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ricevendo a Pechino una delegazione dei talebani già lo scorso luglio, ha assicurato sostegno, sviluppo, infrastrutture e ha ottenuto in cambio la garanzia che l’Afghanistan non permetterà infiltrazioni islamiste nello dello Xinjiang, lungo la via della seta. Non solo, i grandi gruppi industriali cinesi hanno ottenuto importanti concessioni minerarie e favoritismi economici di diversa scala. Non è un caso dunque, se la Cina, utilizzando la distensione dei rapporti con la leadership afghana, coltivi l’intento di costruire un’area di influenza favorevole alla pressione sui governi delle repubbliche centrasiatiche: Uzbekistan, Tagikistan, Turkestan e soprattutto Kazakhistan; e se, a questo scopo, abbia recentemente firmato un accordo per collegare con un cavo in fibra ottica Afghanistan, Kirghizistan e Tagikistan. I Russi non hanno certamente usato gli stessi toni, e anzi, hanno dovuto ingoiare l’innaturale apertura con la leadership cinese, che presenta pure molti vantaggi di politica interna, ma che comunque propone un disegno espansionistico che Putin dovrà affrettarsi ad ostacolare cercando un accordo strategico con i nemici di un tempo, l’altra faccia della moneta durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti. Tuttavia, nonostante il lavorio diplomatico con i talebani volto ad un rafforzamento della propria libera influenza in Asia centrale, il governo di Pechino ha accolto con un certo rigore il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan, intraprendendo una serie di contromisure non dichiaratamente difensive, ma in realtà addirittura molto aggressive, anche dal punto di vista simbolico. Emblematica è infatti la celebrazione del centenario della Repubblica popolare, a cui Xi Jinping si è presentato vestito come Mao Tse Tung, tuonando che chiunque tenterà di fare il gioco duro con la Cina si schianterà contro la “Grande Muraglia d’acciaio costruita con il sangue e la carne di 1,4 miliardi di cinesi” . Lo sforzo
Il sogno occidentale
muscolare di Xi Jinping non era rivolto ovviamente solo agli avversari esterni, ma anche a quella che il Quotidiano del popolo, organo del Partito comunista, definisce “la quinta colonna” , ovvero una forma di resistenza a cui l’Occidente statunitense punterebbe per provocare una rivoluzione colorata in Cina, sulla scia delle molte che hanno attraversato gli stati post sovietici negli anni 2000, traendo guida ed ispirazione dai grandi imprenditori del Paese. Tra di essi infatti, è da tempo crescente il malcontento per la vigorosa politica espansionista di Xi, e le tensioni che ne derivano con le potenze occidentali e asiatiche. E non solo questo, di fatto il suo governo impone severi limitazione alle libere attività all’estero dei colossi cinesi, particolarmente i tecnologici, al punto da metterne a rischio la quotazione in Borsa a New York. Questa incertezza a sua volta ha pesanti ripercussioni sulle piazze finanziarie locali di Hong Kong e Shanghai, dove si è assistito ad un brusco arretramento di tutti gli indici settoriali, non solo tecnologici. Secondo la USChina Economic and Security Review Commission, sono almeno 248 le compagnie cinesi quotate in uno dei tre principali listini della Borsa di New York, per una capitalizzazione complessiva pari a 2.100 miliardi di dollari. Alibaba, il colosso del commercio elettronico fondato da Jack Ma, è stato già costretto nel novembre scorso a limitare la sua quotazione in Borsa e a corrispondere una multa all’Antitrust cinese di 2,5 miliardi di dollari oltre che una tassa di 15,5 miliardi di dollari al nuovo “Fondo per la prosperità condivisa”: un veicolo statale di recente definizione dagli intenti ancora poco definiti, ma con ogni probabilità volti alla militarizzazione dell’area intorno a Taiwan. Al contempo, lo stesso Biden, prima e di fronte a tale esercizio di virilità, non ha revocato alcune delle misure introdotte da Trump per limitare il surplus commerciale cinese. Ciò significa che il principale motore dell’economia cinese, ossia il commercio estero è fortemente a rischio, e potrebbe indurre un brusco calo delle entrate dello Stato e, dunque, anche della capacità del governo centrale di ridistribuire la ricchezza alle regioni più arretrate, conformemente al modello ideologico di appartenenza. In quelle regioni infatti vivono una massa di lavoratori privi dei diritti sociali, come ad esempio l’assistenza medica, costretti a condizioni miserevoli, gravemente sfruttati. Lo shock economico delle tecnologiche, in grado di condizionare il 30% del PIL del Paese, potrebbe lasciare molti di loro senza lavoro, e senza sussidi finanziari. Finora il Partito comunista è riuscito a garantire la pace sociale proprio grazie a questi ultimi e ciò nonostante, ogni anno, nel Paese vengono registrate decine di migliaia di rivolte contadine. Si tratta di una gatta da pelare dunque, anzi di molte, e condivise fra i molti che si augurano di dissetarsi nell’abbeveratoio afghano. In questo scenario, alcune nuove necessità si impongono al Vecchio Continente. In primis un maggiore ruolo ed una leadership più autonoma nello scacchiere geopolitico. Il nostro presidente Sergio Mattarella, ha già dichiaratamente espresso un auspicio a favore di una difesa comune europea, e lo stesso ha fatto il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Posizioni simili sono state condivise da altri leader, fra cui Breton che però estremizza spingendo per “ una vera dottrina europea della sicurezza e della difesa” che preveda interventi autonomi rispetto alla Nato. Si tratta di una visione molto estrema e non condivisa in toto dagli altri commissari europei. Borrel, infatti, la mitiga, insistendo sulla necessità di “rafforzare la relazione transatlantica, rendendola più equilibrata” , e propone, per questo, una forza d’intervento di base, costituita da un contingente di circa cinquemila uomini. Tuttavia, come dimostra la vicenda infausta del ritiro dall’Afghanistan, cinquemila uomini non sono sufficienti nemmeno a mettere in sicurezza l’aeroporto di una città come Kabul. L’impressione è dunque che si tratti di una visione ancora embrionale, ma che un rafforzamento delle capacità militari dell’Unione sia fra i desideri degli Stati Uniti, desiderosi di rendersi indipendenti dagli interminabili conflitti mediorientali, emorragici di consistenti risorse economiche, per concentrare piuttosto l’attenzione dell’amministrazione su quella che è l’ unica potenza temibile per l’establishment, ovvero la Cina. Stiamo forse assistendo ai prodromi di una seconda guerra fredda?
NICCOLO’ROSI