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Anche quest’anno di N.H. Gabriele Ascione
Anche quest’anno
Anche quest’anno abbiamo occupato,
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“se semo presi scola” . Ne è valsa la pena? Non lo so. Abbiamo sbagliato a farlo? Non credo. Le tradizioni, specie nella nostra cultura, sono una parte fondamentale del nostro essere sociale, senza quelle le giornate perdono il ritmo e i mesi non si distinguono l’ uno dall’altro se non per la temperatura che c’è fuori.Tradizione (una parola che qui, anche se non proprio correttamente, sto usando come sinonimo di rito) non significa solo andare dai nonni per Pasqua o festeggiare gli anniversari. Le tradizioni sono parte di tutti gli aspetti della nostra vita. Ci sono le tradizioni piccole, personali e quotidiane: non pestare le righe tra le mattonelle della strada, prendere un caffè al bar sedendosi sempre nello stesso posto , prendere il giornale sempre nella stessa edicola. E ci sono tradizioni particolari, per le quali ci si prepara in anticipo e che accadono soltanto in determinati momenti. Possono essere farsi una foto a ogni inizio di anno scolastico, come può essere fare a ogni Halloween un costume di gruppo, come può essere occupare la scuola ogni anno. Mi rendo conto che alcuni potrebbero sentirsi offesi all’idea che il loro strumento di protesta preferito sia ridotto a una tradizione studentesca. Ma chiamare l’occupazione per quello che è non significa sminuirne il valore, anzi, significa dargli una ragione più profonda di quello che il Collettivo o la preside possano dargli. Sono certo che tra gli studenti, specie tra quelli che hanno brandito il megafono, c’è sicuramente qualcuno che crede fermamente che quest’occupazione, come le altre, sia stata efficace e necessaria per la difesa della libertà e dei diritti studenteschi. Ma questo è solo un aspetto parziale della questione, in quanto, l’ utilità dell’occupazione e le sue ripercussioni possono essere valutati in maniera soggettiva e avere effetti diversi da persona a persona. L’ unico aspetto oggettivo del “prendersi scola” è la ritualità che quest’atto comporta. Ci sono pochi altri eventi capaci di unire emotivamente un gruppo di adolescenti come la partecipazione a un’esperienza del genere; e qui non si tratta soltanto di un gruppo di amici sgangherati che creano profondi legami tra loro, ma di un liceo intero. Se chiedessi a ogni manariota, o almeno a quelli dell’epoca pre-covid, qual è stato il momento che lo ha più di tutti legato al nostro liceo o fatto sentire un tutt’ uno con i suoi compagni di scuola, per quanto qualcuno possa dire “la notte bianca” o “il vitamina day ” , sono sicuro che la maggior parte di noi citerebbe una qualche occupazione (specie, e sempre, quelle più vecchie, “che si facevano mejo di queste”). Le norme codificate del nostro rito sono semplici. Il collettivo a Valle non è che una vigilia del grande evento, è il momento nel quale si ufficializza la legittimità dell’azione, e si stabilisce il modello da seguire. “Alzatevi e votate: di qua per occupare, di là per non occupare” , ma lo sanno tutti che saranno in quattro da un lato e in cento e passa dall’altro. Non si tratta di un voto reale, ma della dimostrazione che è il Manara a volerlo. Non c’è più lo studente, né la classe, né tantomeno il Collettivo, c’è solo la volontà del Manara ora, un unico grande organo che prende decisioni per se stesso e conosce la sua strada. Ogni elemento contrario al volere dello spirito manariota non è che una piccola acciuga che si è staccata dall’immenso
banco, che si muove ugualmente deciso anche senza di lei. Ma ci soffermeremo su questo più avanti. Un altro elemento fondamentale per la ritualità dell’evento è la partecipazione collettiva e, benché il “ voto” del collettivo sia una forma di partecipazione, la più importante è certamente il canto. In una serie di studi sugli effetti della “reattività musicale” , due ricercatori americani hanno verificato che questa influenza i processi di appartenenza a un gruppo, il creare legami positivi con i membri del gruppo, il ridursi dei pregiudizi verso questi e verso il tipo di reazioni che si hanno quando il gruppo è minacciato (Chris Loerch e Nathan Arbuckle, “Unraveling the mystery of music: Music as an evolved group process” in American PsychologicalAssociation, 2013). In un altro studio pubblicato sull’Huffington Post dai ricercatori Idil Kokal,Annerose Engel, Sebastian Kirschner e Christian Keysers, si dimostra come, con il coordinamento attraverso la musica, si possa aumentare il nostro senso di comunità e il livello di socialità con chi canta insieme a noi. Il vantaggio evolutivo di un comportamento simile è evidente: un gruppo che si unisce attraverso il canto collabora meglio e raggiunge risultati più efficaci, sia che si tratti di abbattere un mammut nel Paleolitico sia che si tratti di costruire delle barricate con i banchi di scuola nel XXI secolo. Il nostro “Manara tornerà” , con la sua struttura “a botta e risposta” , basata su una melodia familiare e semplice da ricordare, non solo assicura la creazione di legami forti tra chi la canta, ma permette anche di individuare facilmente i membri del gruppo a cui si deve fare riferimento, sia per ripetere la strofa cantata sia per avvertire dell’arrivo della polizia davanti scuola (quindi fondamentalmente andando a delineare una chiara gerarchia all’interno dell’organizzazione). Inoltre è il canto che dà al Collettivo la sua individualità, distinguendolo da quello di tutti gli altri licei (chiunque sia mai stato a una manifestazione sa bene come ogni liceo non vede l’ora di cantare il suo inno sopra quello di tutti gli altri). Il canto manariota è il vero “elemento trascendentale” del Collettivo, più dei suoi simboli e dei suoi slogan. Una volta che il ciclo scolastico degli studenti che componevano il Collettivo di prima finisce, e che la direzione di quest’organo passa alla nuova generazione, l’ unico filo che realmente lega questi due gruppi e che ai nostri occhi li rende uno solo, è proprio “Manara tornerà” e le sue note immortali. Aquesto punto, una volta che il voto-non voto ha espresso il volere “ unanime” del liceo si passa al prossimo elemento del rituale: il segreto comune.
“I ragazzi occuperanno?” è la domanda sulla bocca di tutti i professori. Ufficialmente nessuno di loro dovrebbe saperlo, anche se in realtà qualche simpaticə leccaperineo finisce sempre con il dirglielo. Ma comunque, tra chi ha votato nell’assemblea a Valle si crea un senso di intesa e di complicità, dati dalla comune partecipazione a un segreto. Lo psicologo sociale Michael Slepian in un suo articolo pubblicato su Journal of Experimental Social Psychology (Vol. 78, 2018) descrive come il mantenere un segreto possa creare un forte legame e un ampliato senso di intimità tra le persone coinvolte. Questo concetto può applicarsi a due amici così come a un gruppo. C’è da dire comunque che il segreto qui è a più livelli, in quanto non tutti sono a conoscenza della data esatta in cui l’azione prenderà piede. Di nuovo, il segreto, come il canto, aiuta a definire la gerarchia del Collettivo, tra coloro che partecipano ma non sanno, e coloro che realmente partecipano e sanno. Per diversi giorni tutti gli studenti sono presi da uno stato di trepidazione e eccitata attesa, solitamente accompagnata dalla speranza che l’occupazione cada il giorno di una verifica o di un’interrogazione. Si promulgano teorie su quale giorno della settimana sarebbe il più conveniente per agire; chi può assedia gli amici vicini al Collettivo con domande e interrogativi, ma solitamente non ne esce mai fuori nulla di concreto. Poi una sera sul tardi ecco il segnale: il giorno è domani.Tutti si preparano: si va a dormire presto, si mette la sveglia alle sei, si prepara il necessario. Ma nessuno dorme subito quella notte: tutti sono svegli con gli occhi aperti nel buio in preda all’eccitazione per quello che avverrà il giorno seguente. Ovviamente questo non riguarda i veri e propri occupanti, quelli che stanno davanti al cancello di scuola nel cuore della notte, che in fretta e in furia scavalcano e barricano l’edificio. Ma questi non sono che strumenti attraverso cui l’occupazione si compie, essi diventano mezzi dello spirito manariota. Qualcuno potrebbe obiettare che no, il Collettivo, l’Occupazione, sono il risultato delle azioni di singoli, “di quelli che vanno alle quattro” , di quelli che tengono in mano il megafono (uno strumento che ricorda terribilmente la conchiglia de “Il Signore delle Mosche”) e non di un non meglio identificato gruppo che prende decisioni proprie. Per contro, vorrei richiamare LevTolstoj, fautore dell’idea che non siano i “capi” a guidare i movimenti, ma che siano le masse stesse a guidarsi verso la direzione che hanno scelto, e di lasciare il potere a chi lì porterà in quella direzione. Scrive
infatti Tolstoj in Guerra e Pace: “Negli avvenimenti storici gli uomini cosiddetti grandi sono etichette che danno il titolo all’avvenimento e, come le etichette, meno che mai hanno rapporto con l’avvenimento stesso. Ogni loro azione, che a essi sembra volontaria, nel senso storico è involontaria, e si trova legata a tutto il corso della storia ed è determinata da sempre” . Sono gli individui stessi che nel perseguire i propri fini guidano le redini della storia quindi, scrive sempreTolstoj, “In ogni uomo vi sono due aspetti della vita: la vita personale, che è tanto più libera quanto più astratti sono i suoi interessi, e la vita elementare, la vita di sciame, dove l’ uomo obbedisce inevitabilmente a leggi che gli sono prescritte. L’ uomo vive consciamente per sé, ma serve come uno strumento inconscio per il conseguimento dei fini storici dell’ umanità in generale. […] La storia, cioè la vita incosciente e comune, la vita di sciame dell’ umanità, si avvantaggia per sé di ogni momento della vita dei re, come di un mezzo per raggiungere i propri fini” . I fini che portano lo studente a occupare possono essere vari: la protesta, il divertimento, la verifica del giorno dopo, la noia, l’erba, gli amici, gli amori, e ancora. Sono stati i ragazzi con il megafono a svegliare il singolo manariota alle sei per portarlo a scuola? Certo loro hanno occupato, hanno rovesciato i banchi e legato le sedie, ma lo sanno tutti che un’occupazione a cui nessuno partecipa è destinata a morire. Se non c’è l’approvazione dello spirito del Manara (che a questo punto tanto vale equiparare al “Mandato Del Cielo” dell’Impero Cinese) allora i capi stessi dell’occupazione diventano le acciughe smarrite fuori dal banco. Chi ha guidato un’occupazione arriva a guidarla solo perché sono stati i manarioti stessi a dargli il potere di farlo, e non viceversa. Chi sta sopra le scale anti-incendio in cortile ad arringare gli studenti, si trova là sopra per il solo motivo che c’è qualcuno che lo sta ad ascoltare da sotto. O, per usare ancora una volta le parole dello scrittore russo “Il potere è la somma di tutte le volontà delle masse, trasferito per consenso esplicito o tacito sui governanti scelti dalle masse. Alla condizione che quella data persona esprima le volontà di tutti gli uomini. Insomma il potere è il potere“ . È ovvio che poi ogni occupazione è diversa da quella precedente. Ciò che accade dentro la scuola durante l’occupazione dipende davvero da chi la organizza, da chi ne detta le regole e da chi tenta di farle rispettare. Un esempio perfetto di ciò sono “gli esterni”: necessari per far numero, terribili per la stabilità del liceo occupato. Per ogni Collettivo la gestione degli esterni è forse tra gli elementi più compless da regolare in questo evento: essi si presentano sia come uno strumento necessario ai fini della riuscita dell’impresa, ma allo stesso tempo sono visti dal gruppo degli occupanti come una possibile minaccia che il più delle volte finisce per creare più danni di quanti ne possano fare “ee guardie” . Ogni occupazione ha la sua storia di disordini e violazioni perpetrate da personaggi estranei al liceo, ma allo stesso modo ogni occupazione ha escogitato (o ha dimenticato di farlo) un metodo per controllarne il movimento e per reprimerne le azioni più turbolente. Ma in fin dei conti queste non sono che sottigliezze: una volta che “se semo presi scola” , il rituale è fondamentalmente già compiuto, ora c’è solo da tenere duro il più a lungo possibile, da mediare con la preside, e da fare servizio d’ordine chiacchierando con gli amici. Dopo qualche giorno le cose torneranno alla normalità.Aparte qualche nuovo disegno sui muri e qualche porta sfasciata tutto sarà uguale a prima. Eppure qualcosa dopo l’occupazione cambia sempre. Non è nulla di evidente, non si può vedere da fuori. Ma c’è sempre una nuova luce in chi ha preso parte al rituale. Dopo che sei scappato da una guardia scavalcando il muretto, dopo che hai visto l’alba dal tetto della scuola, dopo che ti sei baciato con “quaa pischella carina” mentre facevi servizio d’ordine in palestra; dopo tutto questo non puoi non guardare a quel grigio palazzo di cemento con occhi diversi. Il rituale ha portato i suoi frutti: ora quello non è più solo un liceo, ma è anche una casa.
N.H. GABRIELEASCIONE