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PAESAGGI
B2 PAESAGGI
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COI PASTORI IN SARDEGNA Negli ovili conducevano una vita quasi eremitica, seguendo il gregge e le stagioni
di Giulia Castelli Gattinara
In Sardegna vengono allevati oltre 3 milioni di pecore (ovini) e di capre (caprini) che producono una varietà di formaggi stagionati, genericamente chiamati pecorini, di qualità eccellente. Pochi però sanno che la maggior parte del latte dell’isola è utilizzata per produrre il cosiddetto pecorino “romano”, il più diffuso in Italia e all’estero. Si tratta di un formaggio che raramente troverete nelle tavole sarde, perché qui si preferisce finire il pasto con un pezzo di “fiore sardo” della
Barbagia o un’altra caciotta stagionata che le famiglie, se possono, comprano direttamente dal pastore. L’Ogliastra è una delle zone montuose più remote dell’isola, con una forte tradizione pastorale ancora viva, soprattutto tra le persone anziane. Il suo Supramonte (letteralmente: sopra il monte) è una vasta area intorno agli 800 metri di quota, compresa tra i comuni di Dorgàli, Baunèi, Olièna, Orgòsolo e Urzulèi (gli accenti sono posti a indicare la pronuncia, ndr), formata da aridi altopiani di calcare, gole, boschi di lecci e ginepri, dove la pastorizia è stata per secoli l’unica forma di sussistenza. La Cooperativa di pastori di Dorgali raccoglie quasi 200 produttori di latte e numerosi premi per il suo formaggio. Baunei è il tipico paese di pastori a 500 metri di quota, che da solo conta 120 ovili. Qui le greggi sono prevalentemente di capre, che meglio
si adattano all’ambiente roccioso. Fino agli anni Settanta i pastori del Supramonte di Baunei conducevano una vita isolata, quasi da eremiti. Vivevano nel proprio ovile per gran parte dell’anno
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e raramente scendevano in paese dalla propria famiglia, distante molte ore a piedi. Era più facile che un familiare, spesso il figlio maggiore, si recasse di tanto in tanto all’ovile del padre per portargli viveri, vestiti e altre necessità. Oggi tutti i pastori in attività hanno un fuoristrada e gli ovili che non sono raggiungibili tramite una strada sterrata sono stati abbandonati. Visitarli significa scoprire un affascinante mondo arcaico che sta scomparendo.
Ma che cos’è un ovile? Innanzitutto ogni pastore ne possedeva minimo due: quello invernale, situato in un luogo più riparato e affacciato verso sud, e quello estivo, disposto su un’altura più aperta e panoramica.
Benché al singolare, l’ovile, che i sardi chiamano cuile o pinnettu, è in realtà formato da un insieme di elementi architettonici. Gli edifici principali sono l’abitazione del pastore, con il caratteristico tetto di tronchi di ginepro a forma di cono, e il recinto delle capre. L’apparente semplicità di queste due costruzioni rivela una straordinaria capacità di adattamento dell’uomo a un ambiente povero di risorse, adattamento che si è protratto per secoli, a cominciare dall’utilizzo del ginepro, un legno durissimo, impermeabile e inattaccabile dagli insetti.
La casa del pastore è costruita su una struttura portante formata da quattro pali di ginepro conficcati direttamente in terra, alti circa tre metri e convergenti verso l’alto, che formano un cono simile a una tenda indiana sioux. Spesso in cima al tetto veniva posta una pietra, nascosta fra i tronchi, come ulteriore protezione contro la pioggia. All’esterno, la capanna circolare è protetta da uno spesso e basso muro di pietre a secco. Il pastore sceglieva un tronco particolarmente bello da posizionare come architrave all’ingresso. Dentro, al centro del pavimento di pietra, si nota il buco che accoglieva il focolare, sul quale veniva sospesa una mensola dove il pastore metteva il formaggio a essiccare. Per riscaldare il latte cagliato si usava una pietra vulcanica rotonda che ancora oggi spesso si vede vicino agli ovili. La pietra (un basalto poroso) veniva arroventata sul fuoco e poi inserita dentro al secchio del latte che, essendo di sughero (la quercia da sughero è molto diffusa sull’isola), non poteva essere messo direttamente sul fuoco come una normale pentola di alluminio. ►
si recasse would visit viveri provisions fuoristrada off-road vehicle raggiungibili reachable strada sterrata dirt tracks affacciato facing altura high ground insieme collection tetto roof tronchi trunks recinto enclosure a cominciare da starting with inattaccabile resistant portante load bearing pali posts conficcati driven in cima al at the top capanna hut spesso thick muro a secco dry stone wall pavimento floor accoglieva housed focolare fireplace mensola shelf essiccare to dry cagliato curdled arroventata red-hot secchio bucket sughero cork
UN PASTORE, IL PAESAGGIO E UN OVILE IN OGLIASTRA (SARDEGNA)
scalatrici climbers angusto narrow giacigli beds trama weave aia threshing floor grano grain sovente often pozzo well appartenevano belonged genero son-in-law anfratto nook and cranny si raduna are gathered together Altro elemento architettonico interessante è il recinto invernale delle capre, chiamato corte. Oggi è raro trovare dei recinti ancora in piedi, da quando i pastori non li mantengono più. La corte era formata da una palizzata di tronchi inclinati verso l’interno a formare una cupola aperta. Questa soluzione serviva per evitare che le capre, abili scalatrici, scappassero via.
L’inverno è anche il periodo in cui nascono i capretti. Osservando con attenzione, si notano sempre all’interno della corte, nel lato più angusto, delle minuscole porticine che introducono in piccoli giacigli. Sono le celle preparate dal pastore per i capretti appena nati. Tutto, come sempre, era realizzato con una trama di tronchi di ginepro.
Oltre a questi due edifici principali, all’ovile potevano aggiungersi altri elementi come il recinto per i maiali, che veniva messo a una certa distanza, e l’aia per battere il grano. Vicino all’ovile vi sono sovente un grande albero di leccio o di carrubo per ombreggiare e una sorgente d’acqua o un pozzo naturale di raccolta dell’acqua piovana.
Esistono, poi, dei rari esempi di “ovili doppi”: due ovili vicini, ciascuno con la sua corte per le capre. Questi ovili appartenevano a due uomini della stessa famiglia, padre e figlio o padre e genero, che in questo modo potevano aiutarsi. LA COOPERATIVA DI DORGALI La storia dei pastori sardi è antica e affascinante e fa sorgere anche la curiosità di provare il cibo di questa terra di pascoli e profumi di arbusti mediterranei. Alcuni produttori di Dorgali si sono riuniti in cooperativa e, oltre a vendere in loco, provvedono anche alla spedizione dei loro prodotti, formaggi e molto altro.
Per informazioni: www.dorgalipastori.it
sorgere arise | arbusti bushes | in loco locally | provvedono arrange
A parte questi casi, l’ovile è sempre stato il centro gravitazionale della vita di un unico pastore e comprende un territorio molto ampio di cui egli è il custode e il padrone assoluto, di cui conosce ogni pietra, ogni pianta, ogni anfratto.
Una mentalità che sopravvive ancora oggi, benché il fuoristrada abbia reso possibile rientrare la sera a casa e dormire su un comodo letto.
Il ciclo lavorativo di un pastore comincia in autunno, quando si raduna il gregge
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LA CHIESA DI SAN PIETRO AL GOLDO; NELLA PAGINA A SINISTRA: UN ASINELLO E UNA CAPRA
che per mesi è stato lasciato libero al pascolo. Le femmine sono gravide e il pastore prepara e ripara l’ovile dove trascorrerà l’inverno, sistemando i giacigli per i futuri capretti. La nascita è un momento cruciale per la crescita e il rinnovamento del gregge e un bravo pastore sa indovinare il giorno in cui una capra partorisce e seguirà il piccolo per proteggerlo da volpi o altri predatori. Le nascite cominciano a dicembre, dopo cinque mesi di gestazione. I capretti vengono chiusi all’interno del recinto e solo due volte al giorno possono avvicinarsi alla madre per essere allattati. Quando i capretti hanno circa un mese e mezzo il pastore decide quale tenere e quale vendere o macellare per farne cibo pregiato per le feste. A febbraio i capretti rimasti possono unirsi al gregge dei grandi. Questa iniziazione avviene solo di martedì o venerdì con una cerimonia particolare che prevede gesti rituali e preghiere. Viene liberato un primo capretto e fatto pascolare con le mamme, se la sera torna all’ovile insieme al resto del gregge, il giorno dopo saranno liberati anche i suoi coetanei. A marzo la nuova generazione, insieme al resto del gregge, affronta la prima transumanza verso l’ovile primaverile. Per il pastore cominciano giornate di intenso lavoro: ogni sera richiama le capre per la mungitura. Ai capretti viene messo un piccolo morso in bocca per evitare che si attacchino alle mammelle della madre durante la giornata. A partire dal mese di maggio il gregge viene munto due volte al giorno, mattina e sera, e tutto il latte viene utilizzato per fare il formaggio. Tutto questo si protrae fino alla fine di giugno. A luglio il pastore compra le nuove campane da mettere al collo dei capretti, ormai svezzati, e si trasferisce all’ovile estivo. Il gregge viene lasciato libero, senza essere richiamato la sera all’ovile per la mungitura. L’estate è il momento in cui le capre devono mangiare e ingrassare per prepararsi alle nuove gravidanze e ricominciare il ciclo delle nascite.
I figli del pastore, che in estate non vanno a scuola, possono raggiungere il padre sul Supramonte, trascorrere le giornate all’aria aperta e imparare un mestiere che, in questo modo, siètramandato per secoli. n
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C1 A TAVOLA E DINTORNI
L’ALLEGRIA POPOLARE DEI CASTELLI ROMANI Vini e cibi schietti, tipici della cucina romana
di Martina Liverani
Dici “Castelli romani” e allegria joy immediatamente immagini schietti straightforward gita fuori porta day trip meta destination prediletta favourite la gita fuori porta e la voglia di prenderti il giusto tempo da dedicare alla accoglienza welcome conoscenza degli artigiani aria di festa party atmosphere del cibo e del vino che hanno reso questa terra meta prediletta di evasione culinaria. Dici “Castelli romani” e già ti inebri del vino che amichevolmente si lascia chiamare “… dei Castelli” e in bocca senti quei sapori schietti, semplici, rurali, sorprendenti ma familiari, che ti portano in posti che conosci, celebrati dalla storia, dal cinema, dalla letteratura e dalla canzone. Una popolarità diffusa, un’accoglienza semplice e un’aria di festa: come se qui fosse sempre domenica, sempre una gita, sempre una scoperta.
Per verificare se è proprio vero che “er [il] vino de li [dei] Castelli è mejio [meglio]
I DUE LAGHI, DI NEMI E CASTEL GANDOLFO (ANCHE DETTO DI ALBANO) E UNA BOTTEGA DI PRODOTTI TIPICI
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de [di] questa sozza società”, come recita una nota canzone popolare, il consiglio è di provare un calice di Frascati Docg. Dal colore paglierino e dal caratteristico profumo delicato, è un ottimo aperitivo, ma anche un fedele accompagnatore della migliore cucina romana a tutto pasto. È il più celebre tra i vini dei Castelli e viene prodotto in diverse tipologie: normale, superiore, novello, spumante e cannellino. Se è vero che in ogni viaggio, anche nelle gite fuori porta, quel che fa la differenza è la compagnia, il Frascati va a nozze con le “coppiette” di maiale che si accoppiano — si perdoni il gioco di parole — magnificamente con il vino dei Castelli e fungono da straordinario “spezzafame”. Le coppiette sono gustose strisce di carne di maiale essiccata e insaporita da spezie. Servite a coppie (da qui il nome), sono il risultato di una lavorazione che prevede la scelta dei migliori tagli di carne, ridotti a listarelle, insaporiti con sale, semi di finocchio, peperoncino, vino o altre spezie, a seconda della ricetta del norcino, e poi fatti essiccare. La coppietta va addentata senza esitazione e senza prescrizioni di bon ton, proprio come facevano gli antichi frequentatori delle taverne, appassionati di questa semplicissima ricetta fatta di carne, sale e spezie, o i soldati legionari per i quali costituiva un ottimo cibo conservabile da sgranocchiare e rimettere in bisaccia. Oggi si mangiano prima, durante, dopo i pasti, al ristorante o passeggiando per strada e sono uno sfizio a cui è difficile resistere.
Non è un caso se il condimento più usato nella preparazione dei piatti tipici della cucina locale sia l’olio d’oliva: da queste ►
sozza filthy dirty calice glass paglierino (of) straw accompagnatore companion a tutto pasto throughout the meal va a nozze con goes to marriage (lit.) / marries well with si perdoni pardon fungono are used as spezzafame hunger breaker (lit.) / snacks strisce strips essiccata dried insaporita flavoured prevede involves tagli cuts listarelle strips finocchio fennel norcino pork-butcher va addentata (should) be bitten frequentatori regulars conservabile easily stored sgranocchiare to chew on bisaccia knapsack sfizio treat condimento dressing
sentori hints dedite dedicated allevamento breeding pastorizia grazing pasta dura hard (paste) grattugiare grate scaglie flakes mirabilmente wonderfully antenato ancestor caglio rennet carciofo artichoke cardo selvatico wild cardoon spessore thickness buccia rind amarognolo bitter vale la pena it is worthwhile maniera way scotta (it) is hot ciotola bowl coccio earthenware sazi full indugio delay ciambelle rings celeberrima celebrated elenco list bomboniera wedding favours grado di parentela relationship comare di cresima confirmation sponsors
parti gli ulivi non solo abbelliscono il panorama, ma da secoli producono un gustoso e raffinato olio, l’extravergine “Castelli romani”. Ottenuto dalle olive di specie Carboncella, Frantoio, Itrana, Leccino, Moraiolo, Pendolino e Rosciola, l’olio extravergine di oliva dei Castelli romani ha un aspetto limpido e lucente, un colore che va dal giallo al verde chiaro e un sapore dolce e fruttato con leggeri sentori di mela o mandorla, specie se novello.
Gli amanti dei formaggi saranno sorpresi e rassicurati da quanto si produce in questa zona. Tanto antico quanto queste terre, dedite all’allevamento e alla pastorizia delle pecore, il pecorino romano DOP, ottenuto esclusivamente con latte di pecora, è un formaggio a pastadura, dal colore pallido che si può grattugiare o mangiare a scaglie. In un caso o nell’altro non si può sbagliare: grattugiato è l’ingrediente principale della perfetta pasta condita alla “cacio e pepe”, ossia formaggio pecorino e pepe; a scaglie si accompagna mirabilmente con le fave fresche e un calice di vino bianco dei Castelli.
Il caciofiore è un antenato del pecorino romano, da cui si differenzia perché nel procedimento di produzione si utilizza un caglio vegetale ottenuto dal fiore di carciofo o dal cardo selvatico. Si presenta in forme quadrate (di circa 10 centimetri di
lato e cinque di spessore), ha una buccia giallognola e la sua pasta è morbida e cremosa. Il sapore non tradisce l’ingrediente selvatico vegetale: intenso e leggermente amarognolo, proprio come un carciofo.
Potreste non averlo mai sentito prima e invece vale proprio la pena provarlo: si chiama scottone ed è un formaggio che va servito caldo. Per assaggiarlo bisogna arrampicarsi fino a Rocca Priora, perché è qui che ancora si produce lo scottone: un formaggio semiliquido, simile alla ricotta, ottenuto da una doppia ebollizione del latte di pecora, che si gusta bollente. Da qui il nome, che indica appunto la maniera di gustarlo quando ancora scotta, servito in una ciotola di coccio.
Se ancora non siete sazi di sorprese vi consigliamo di dirigervi senza indugio a Rocca di Papa. In questa cittadina i matrimoni si celebrano con le ciambelle. La celeberrima ciambella degli sposi di Rocca di Papa (dichiarata nel 2011 prodotto tipico della Regione Lazio e inserita nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani) è un dolcetto legato alle feste matrimoniali e utilizzato come bomboniera edibile. La tradizione vuole che se ne regali un numero preciso a seconda del grado diparentela con gli sposi: 24 ciambelle alla comare di cresima, 18 alla comare di battesimo, 12
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per nonni e zii, 6 per amici e vicini di casa. Di forma rotonda e con il buco al centro, la ciambella degli sposi di Rocca di Papa è fatta con ingredienti semplici — farina, zucchero, uova, liquore, scorza di limone, olio extravergine di oliva e lievito — ed è poi decorata con variopinte granelle dizucchero. La buona notizia è che non serve un matrimonio per gustarle: i fornai di Rocca di Papa ne sfornano a profusione durante la stagione dei fiori d’arancio e in occasione della Festa della Ciambella degli sposi. Dicono che siano di buonaugurio per vivere sempre felici e contenti. E anche sazi di ciambelle, evidentemente. Micamale.
La sentite quest’aria di svago, divertimento, irriverenza e goliardia? È la brezza tipica dei Castelli, e allora Venghino siori, venghino [vengano signori vengano] ad assaggiare un fantasioso e goliardico biscotto dalle sembianze di una donna con tre mammelle, detta pupazza frascatana. Questi biscotti a base di farina, miele e aroma di arancia sono nati negli anni Sessanta quasi per scherzo, ma sono poi diventati un irrinunciabile prodotto tipico della zona di Frascati. Ma perché tre mammelle? La risposta è molto semplice: due per il latte e una per il vino. Quello dei Castelli, ovviamente.
Che il vino faccia parte tanto del paesaggio quanto delle ricette della tradizione dei
Castelli romani lo si capisce assaggiando le ciambelle al vino, dolcetti semplici di origine contadina con cui finire il pasto. La loro ricetta prevede ingredienti poveri come farina, uova, zucchero, scorza di limone, olio extravergine, vaniglia, sale e vino bianco dei Castelli. Dall’impasto si ottengono delle striscioline che poi vengono unite a creare la tipica forma circolare e cotte in forno. Profumate e croccanti, una tira l’altra.
La tradizione deriva — come sembra — da un’invenzione ben riuscita. Da queste parti l’inventiva non manca, soprattutto in cucina: con la farina, lo zucchero e le uova si può dare vita a formidabili opere d’arte culinaria, come prova il giglietto di Palestrina. La storia di questo dolce inizia nella Parigi del Seicento all’epoca di Luigi XIV, il cui emblema regale era il Giglio di Francia. Qui si erano rifugiati i Barberini, principi di Palestrina — un antico comune lungo la via Prenestina ai piedi del Castelli romani — portando con sé l’intera corte, pasticceri compresi. Nelle cucine parigine i cuochi dei Barberini impararono la difficile arte di preparare il giglietto e, una volta tornati in patria, lo fecero diventare uno dei dolci simbolo della tradizione gastronomica prenestina. Oggi sono pochissime le famiglie che possiedono le doti manuali necessarie per tramandare questa tradizione e di conseguenza i giglietti si possono acquistare solo in alcuni forni ►
scorza zest lievito yeast variopinte multicoloured granelle di zucchero hundreds and thousands / sprinkles fornai bakers buon augurio auspicious mica male not bad svago recreation goliardia lightheartedness mammelle breasts pupazza dolly irrinunciabile must-have contadina peasant impasto dough croccanti crunchy una tira l’altra one leads to another manca (is not) lacking giglio lily pasticceri pastry cooks doti manuali manual dexterity tramandare to hand down
LE CALDARROSTE, O CASTAGNE ARROSTITE, E FORME DI PECORINO CON DIVERSE STAGIONATURE
ghiottonerie delicacies mosti wine must cremosi creamy sapidi tasty passita raisin wine scorpacciate feasting castagna chestnut pregiata prized sbucciata peeled essiccatoi dryers vengono affumicate are smoked sottoposte subjected battitura beating priva (it) strips allungata elongated striature stripes racchiude encloses imperdibili not to be missed di Palestrina e Castel San Pietro o assaggiare in occasione della Sagra del giglietto, insieme ad altre ghiottonerie dei Monti Prenestini. Il prodotto è tutelato da un presidio Slow Food.
Cosa manca per la perfetta domenica primaverile? Un gelato. Da queste parti non aspettatevi un gelato “semplice”: il maestro gelatiere di Frascati, Roberto Troiani, ha inventato una linea di gelati ai vini dei Castelli. Usando i mosti locali, ha ottenuto golosi gelati gastronomici da gustare a passeggio o a tavola. I “gelati DiVini” — questo il nome della linea — sono cremosi, dolci e sapidi, caratterizzati da note acide bilanciate dalla fragranza e dai profumi ricchi e consistenti del vino. Ce ne sono per tutti i gusti: il cannellino (crema, cannellino, cannella e mandorle); crema al passito (malvasia passita, crema e cannella); Frascati superiore (Frascati Docg, crema di latte e mela verde) e molti altri.
Se invece state pianificando una gita autunnale, protagonista delle vostre scoperte e scorpacciate nei Castelli sarà la castagna. Sui Monti Prenestini, precisamente a Capranica Prenestina, hanno il proprio spazio circa duecento ettari di castagneti: è qui che nasce la “mosciarella” di Capranica Prenestina, pregiata e rara castagna che si gusta essiccata e sbucciata secondo un’antica usanza locale. Proprio nei castagneti si trovano le tipiche “casette” in pietra, veri e propri essiccatoi dove le castagne vengono affumicate prima di essere sottoposte alla battitura che le priva della buccia secca. La mosciarella ha la forma allungata che termina con una deliziosa punta e il suo sapore è particolarmente dolce. Tradizionalmente si usa per la preparazione di minestre o si gusta bollita in acqua e spezie o nel latte. Il “marrone” di Rocca di Cave, invece, è stato per secoli l’alimento principale per la popolazione di Rocca di Cave e dei territori circostanti sui Monti Prenestini. Oggi è un frutto pregiato utilizzato per la preparazione di dolci e anche dei piatti tradizionali più originali, come l’abbacchio ripieno di castagne o le fettuccine di farina di castagne. È caratterizzato da una dimensione particolarmente grande, la buccia di colore marrone chiaro con striature scure che racchiude una polpa interna molto tenera. Per queste sue doti ebbe decenni di splendore agli inizi del Novecento quando veniva esportato in tutto il mondo e in special modo a Parigi, dove veniva trasformato in un golosissimo marron glacé. Sia alla mosciarella che al marrone di Rocca di Papa sono dedicate imperdibili sagre autunnali.
Se andrete in gita ai Castelli siamo certi che rientrerete con la bella sensazione di esservi arricchiti di un’esperienza fatta di incontri, sapori, paesaggi ed emozioni da conservare fino alla prossima partenza. n