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MENSILE A SFONDO SOCIALE DI PUBBLICA UTILITÀ
BUON ANNIVERSARIO
La PDC compie 20 anni!
Nata come un semplice foglietto colorato, è diventata un po’ alla volta un vero e proprio giornalino che dal 2013 è redatto da Blog Territori e Paradossi. Neppure il Covid ci ha fermati e siamo decisi a continuare con il ritmo consueto. Riconosciamo le difficoltà per la stampa di cui si fa carico l’Auser “IL Gabbiano” con dispendio economico e di energie umane, che ringraziamo assieme a tutti i collaboratori e agli inserzionisti che con il loro contributo ci permettono di vivere.
ESODO E FOIBE
lingua italiana e di origine veneta vivevano, soprattutto lungo le coste, fin dai tempi della Repubblica di Venezia, erano stati annessi all’Italia dopo la Prima guerra mondiale, mentre la Dalmazia era stata annessa a partire dal 1941.
Il 10 febbraio 2023 si commemora il Giorno del Ricordo per "conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Si stima che furono entinaia di migliaia le persone che lasciarono l’Istria e gli altri territori, perdendo le loro proprietà e ritrovandosi esuli in Italia nel Dopoguerra.
La data del 10 febbraio per il Giorno del Ricordo è stata scelta perché proprio in quel giorno del 1947 fu siglato il trattato di Pace di Parigi che assegnava l’Istria, il Quarnaro, Zara e parte del territorio del Friuli Venezia Giulia alla neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. La decisione definitiva sul territorio di confine risale tuttavia al 1954, dopo nove anni di amministrazione internazionale della città di Trieste e di una fascia di territorio conteso. I territori dell’Istria, dove popolazioni di
A partire dalla firma italiana dell’armistizio (8 settembre 1943) in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito iniziarono operazioni di rappresaglia e vendetta nei confronti sia di chi, nella popolazione slava, veniva considerato un oppositore, sia della componente italiana, in particolare dei rappresentanti del regime fascista. Il regime infatti tra le due guerre mondiali aveva promosso una politica di repressione nei confronti di comunisti e antifascisti e aveva costretto all'italianizzazione forzata le popolazioni slave locali. I componenti dell’amministrazione fascista ma anche gli italofoni considerati borghesi e non comunisti furono presi di mira. Si stima che già in queste fase vennero torturate e gettate nelle foibe, insenature naturali formate da grandi caverne verticali tipiche del territorio dell’Istria e del Friuli Venezia Giulia, circa un migliaio di persone.
Con il ritorno dei territori alla Jugoslavia, le rappresaglie colpirono sempre più duramente la popolazione italiana: oltre a coloro che scomparvero nelle foibe ci furono carcerazioni e internamenti in campi
di lavoro forzato, con ulteriori vittime indicate dal governo De Gasperi «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».
Le foibe sono insenature naturali formate da grandi caverne verticali presenti in Istria e Friuli Venezia Giulia, nella zona del Carso. Il nome "foiba" deriva da un termine dialettale dell'area giuliana, che deriva a sua volta dal latino fovea (fossa, cava). Nella foiba la cavità si restringe man mano che si scende in profondità per poi riallargarsi in un bacino: la forma rende difficoltosa la risalita e i soccorsi, motivo per cui spesso le vittime venivano gettate vive o ferite nelle cavità e vi morivano. La conformazione delle foibe ha reso in seguito difficile il recupero e l’identificazione delle vittime. Alcune "foibe" erano in realtà cave o miniere: una delle più importanti per la storia degli eccidi, la Foiba di Basovizza, nei pressi di Trieste, è ad esempio il pozzo abbandonato di un'antica miniera, quindi una cavità artificiale. Per esodo giuliano-dalmata s’intende l’abbandono forzato, da parte della quasi totalità del gruppo nazionale italiano, del suo territorio d’insediamento storico in Istria, a Fiume ed a Zara, passate dopo la seconda guerra mondiale dalla sovranità italiana a quella jugoslava. Il termine esodo, scelto all’epoca dei fatti dai profughi stessi per sottolineare la dimensione biblica della loro tragedia, è diventato nel corso dei decenni una formula adottata
dagli storici per definire una particolare tipologia di spostamento forzato di popolazione, diverso nella forma ma non nei risultati, dalle deportazioni e dalle espulsioni. Sulle sue dimensioni reali è regnata a lungo l’incertezza;in tempi recenti, fra gli studiosi si registra una certa convergenza sull’ordine di grandezza di circa 300.000 persone che nel corso del dopoguerra avrebbero abbandonato quei territori. In stragrande maggioranza si trattava di italiani, ma erano presenti anche nuclei sloveni e croati. L’esodo è stato un fenomeno lungo, durato oltre 10 anni, attraverso fasi diverse. Le fughe avvennero con continuità, per terra e per mare, lungo tutto il periodo e non sempre ebbero esito positivo: molte infatti furono le vittime per mano dei militari jugoslavi. Gli esodi di massa invece avvennero in genere quando le comunità italiane si convinsero che la dominazione jugoslava era diventata irreversibile. Una volta arrivati, più o meno fortunosamente, in Italia, gli esuli ci si trovarono inizialmente assai male. Alle gare di solidarietà promosse da enti locali e soggetti privati, in particolare cattolici, si accompagnarono forme di rifiuto antropologico nei confronti di italiani così diversi (ma sono austriaci o slavi?) ed anche politico da parte comunista nei confronti di chi fuggiva dalla Jugoslavia socialista e quindi non poteva che essere fascista. Inoltre, il Paese era stremato dalla guerra e senza
risorse per far fronte alle esigenze di grandi masse di sinistrati, profughi dalla Venezia Giulia o rientrati dalle colonie. Gli esuli giuliano-dalmati quindi vennero sventagliati in un gran numero di Centri raccolta disseminati in tutta Italia, dove le condizioni abitative e sociali lasciavano molto a desiderare. Per un verso, il governo fu in grado di avviare un massiccio programma di assistenza, comprendente sussidi, collegi per minori, riserve di posti nella pubblica amministrazione ed ampio piano di edilizia popolare, che consentì ad esempio la realizzazione di veri e propri quartieri giuliano-dalmati
in 42 città italiane. Per l’altro verso, il boom economico favorì la collocazione degli esuli nel mercato del lavoro, tanto che si arrivò rapidamente ad una piena integrazione sociale. Rimase però la ferita della memoria, ché il prezzo dell’integrazione, in un’Italia che voleva gettarsi alle spalle i brutti ricordi della guerra e del dopoguerra, passò anche attraverso il silenzio e la rimozione dell’esperienza dello sradicamento. Quella ferita sarebbe stata sanata soltanto con il pubblico riconoscimento ottenuto nel 2004 con l’istituzione del Giorno del Ricordo.
QUARESIMA
Immediatamente dopo il periodo di carnevale, periodo dedicato alla sospensione e al sovvertimento della realtà quotidiana, il nostro calendario, frutto di una curiosa commistione tra tempo laico e tempo religioso, pone l’inizio della Quaresima, che costituisce per le chiese cristiane la preparazione all’evento pasquale, centro dell’organizzazione temporale delle confessioni che si riconoscono nella figura di Gesù Cristo.
Il termine Quaresima identifica infatti il periodo di quaranta giorni (quadraginta in laltino, da cui il nome attuale) nei quali il fedele prepara la celebrazione della Pasqua, nella quale si fa memoria della risurrezione del Cristo.
A partire indicativamente dal IV secolo dopo Cristo nel rito romano si affermò la consuetudine di fissare l’inizio della Quaresima con il rito delle ceneri del mercoledì antecedente la prima domenica, mentre per il rito ambrosiano l’inizio decorre ancora oggi dalla prima domenica.
Paolo VI, con il motu proprio “Misterii paschalis” del 14 febbraio 1969, stabilì che il tempo di Quaresima “decorre dal mercoledì delle ceneri fino alla messa In coena domini esclusa”. Con quest’ultima celebrazione, quella del giovedì santo, inizia invece il Triduo Pasquale, che costituisce in effetti un’unica grande celebrazione culminante nella domenica
di Pasqua.
Il periodo di quaranta giorni richiama l’episodio, narrato dai Vangeli, dell’esodo di Gesù nel deserto e delle tentazioni cui lo stesso fu sottoposto dal demonio, tutte rifiutate dal Cristo, al cui termine inizia il periodo pubblico della vita del nazareno. In quanto tempo forte, il tempo quaresimale è contraddistinto dal colore liturgico viola, che richiama il significato dell’attesa.
Come richiama suggestivamente il rito delle ceneri, il tempo di Quaresima è scandito dalla preparazione alla Pasqua, una preparazione vissuta secondo una prospettiva penitenziale, che coinvolge il cristiano nella sua interezza di persona.
Da qui deriva la prescrizione, durante la quaresima, del digiuno nelle due giornate del mercoledì delle ceneri e del venerdì santo, e dell’astensione dalle carni negli altri venerdì di questo tempo.
Il solo digiuno però, non completa l’itinerario di preparazione del cristiano, ma deve essere accompagnato dalla preghiera, intensa come intenzione di conversione a Dio, e dall’esecuzione delle opere di carità verso i fratelli, a testimoniare appunto la dimensione integrale dell’esperienza di penitenza e di preparazione.
In particolare, la pratica del digiuno accomuna il cristianesimo anche agli altri monoteismi, in quanto esercizio di ascesi e rinuncia a sé stessi in favore di Dio.
Particolarmente noto è il mese del
digiuno rituale musulmano, cioè il Ramadan, che celebra la prima rivelazione del Corano a Maometto.
Durante il Ramadan, che cade il nono mese del calendario lunare islamico, il credente deve astenersi dall’assumere cibi, bevande, fumare a avere rapporti sessuali dall’alba al tramonto, Anche in questo caso il digiuno deve essere accompagnato dalla lotta contro i cattivi pensieri e la azioni malvage.
Infine, anche l’ebraismo associa la pratica del digiuno ad alcune festività, tra cui la più importante è lo Yom Kippur, il “giorno dell’espiazione”, menzionato quattro volte nella Torah, durante il quale alle prescrizioni tradizionali dello shabbath si aggiungono l’astensione dai cibi e dalle bevande. Yom Kippur completa il periodo di dieci giorni di penitenza iniziato con il capodanno ebraico, Ros hasShana.
Anche nel caso del digiuno, come di altre attività umane, è stato operato da parte delle religioni un interessante processo di rielaborazione che, da abitudine alimentare originata inizialmente dalla scarsità di risorse alimentari, ha integrato questa pratica all’interno di orizzonte di significato più ampio, che ricomprende più in generale la “messa alla prova” dell’uomo in connessione con l’attesa dell’evento salvifico.
VENEZIA E IL CARNEVALE
Conoscere la storia del Carnevale di Venezia e le sue curiosità, significa intraprendere un bellissimo viaggio nelle usanze e nei costumi che regnavano secoli addietro nel nostro Paese. L’origine viene fatta risalire al Medioevo. Compare per la prima volta in un documento del Doge Vitale Falier nel 1094. La storia del Carnevale di Venezia come festa pubblica ufficiale, inizia solo nel 1296, quando un editto del Senato della Repubblica dichiara festivo il giorno precedente l’inizio della Quaresima.
L’origine e il significato del Carnevale prendono spunto da due tradizioni antichissime. Dai Saturnali dell’antica Roma; in questo giorno gli schiavi e i liberi cittadini si riversavano nella città per far festa con musica e balli sfrenati. Dai culti Dionisiaci greci che prevedevano l’uso delle maschere e di rappresentazioni simboliche il cui motto era “una volta all’anno è lecito non avere freni”.
Venezia ha quindi reinterpretato le antiche feste greche e romane. I Dogi furono abili a promuovere il Carnevale per concedere alla popolazione, in particolare ai ceti più umili, un periodo dedicato al divertimento e alle feste.
Nel Carnevale di Venezia le maschere garantivano il totale anonimato. Questa festa rappresentava uno sfogo per le tensioni e i malumori che andavano a crearsi a causa dei
rigidi limiti imposti dalla morale e dall’ordine pubblico della Repubblica di Venezia.
A differenza di quanto accade oggi, il Carnevale di Venezia iniziava la prima domenica di ottobre, per poi intensificarsi dopo l’Epifania ed “esplodere” nei giorni precedenti la Quaresima.
Nel Settecento, il suo secolo d’oro, il Carnevale di Venezia si concentrava in sei settimane, dal 26 dicembre al Martedì Grasso.
Durante il Carnevale lo spazio era riservato a festeggiamenti, divertimenti e spettacoli che venivano allestiti in tutta la città. In particolare in Piazza San Marco, lungo la Riva degli Schiavoni e in tutti i principali campi di Venezia. Il massimo splendore, il riconoscimento internazionale, la commedia dell’arte e le maschere, l’atmosfera trasgressiva e bizzarra, la Casa da Gioco Pubblica rendono Venezia “La calamita d’Europa”. Era la Venezia affascinante di Casanova e Goldoni.
Le maschere erano utilizzate anche nelle feste ufficiali. Negli eleganti palazzi venivano organizzati sfavillanti balli in maschera segnando l’inizio della lunga e affascinante tradizione delle feste mascherate di Venezia.
In questo periodo mette le radici lo stretto rapporto tra il Carnevale di Venezia e il teatro. Inizialmente le piccole rappresentazioni teatrali
venivano organizzate nelle case private.
Queste raggiunsero un enorme successo tanto da sviluppare una categoria di professionisti.
Aprirono i teatri e con l’aumento delle compagnie teatrali si svilupparono le attività legate all’artigianato dei costumi e delle maschere. A teatro si assisteva a opere raffinate e complesse.
La definizione di “commedia dell’arte” nacque proprio a Venezia attorno al 1750, grazie a Carlo Goldoni e al suo teatro comico. Il Carnevale e il teatro di Goldoni andavano di pari passo. Le sue opere venivano rappresentate durante il Carnevale di Venezia e ne riprendevano un divertimento semplice.
Fu così che le opere della commedia dell’arte veneziana sono considerate una preziosa fonte documentaria sulla festa del Carnevale a Venezia.
Dopo lunghi anni di eccessi e stravaganze, con la caduta della Serenissima, il Carnevale subì un periodo di declino. Infatti, durante il periodo di dominazione austro-francese erano consentite solo le feste private nei palazzi veneziani e il “Ballo della Cavalchina” alla Fenice.
L’ultimo Carnevale storico di Venezia è del 1797.
Bisognerà aspettare il 1967 per poter riorganizzare le prime feste con sfilate di maschere e costumi, riportando in vita le tradizioni del Carnevale di Venezia.
Il Gabbiano
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“D” COME DONNA
Il mese di Marzo è uno di quei mesi speciali che vanno ricordati. Questo è l’intento delle associazioni del territorio di Campalto, Blog Territori e Paradossi e Amici di Oliviero Lèssi in collaborazione con la Municipalità di Favaro Veneto, ovvero, ricordare quanto siano importanti il senso di equità, giustizia e rispetto verso il prossimo.
Sin dai tempi antichi la donna veniva associata a figure diaboliche e tentatrici. Da Eva alle streghe dell’inquisizione per le figure femminili non v’è stata pace. Sempre a doversi giustificare per qualcosa e a lottare per ciò in cui credevano. Le donne associate a danno o trattate con inferiorità e sufficienza hanno subito, nel corso della storia antica e contemporanea, tutta una serie di abusi e soprusi da non potersi descrivere tutti in un articolo solo. Perché poi, mi chiedo, ci si debba ricordare delle donne e di quanto hanno sofferto solo il 25 novembre. Perché dobbiamo ancora ribadire, al giorno d’oggi, che la violenza
contro le donne è sbagliata? Perché una donna non può indossare ciò che le pare senza essere giudicata o fischiata per le strade? Perché per fare carriera le donne devono subire battutine sconce o peggio subire mobbing e molestie? È importante che le generazioni future non commettano più errori di questo tipo. Non bisogna sottovalutare le donne, deprezzare il loro sforzo o mercificare il loro corpo. Bisogna rispettare il prossimo a prescindere che sia uomo, donna o altro.
È con l’informazione che si debella l’ignoranza, sì, quell’ignoranza o terribile indolenza nei confronti di chi ci chiede aiuto per far rispettare i propri diritti.
Avverrà con Marzo Donna a Campalto, all’interno del progetto del Comune e con la nostra Municipalità. È da qui che si riparte e che si cambia la storia di una comunità e perché no, della nostra civiltà affinché diventi un po’ più giusta, un po’ più in rosa.
Cristina PappalardoINSIEME PER CRESCERE
A Campalto, e nel territorio circostante in generale, le associazioni svolgono un compito importante per la diffusione di temi ambientali e storico culturali.
Da molto tempo ormai vivono sul volontariato di poche persone, spesso avanti con gli anni. Nonostante gli sforzi, rimane difficile recuperare forze giovani , sia per un appiattimento dell’interesse verso questi temi, sia per difficoltà legate al lavoro o alle esigenze famigliari. Una soluzione, a questo punto, può essere muoversi in sinergia. “Blog Territori e Paradossi” e “Gli Amici di Oliviero Lessi” hanno da tempo intrapreso questo percorso. Pur mantenendo la loro identità hanno progettato esperienze comuni per promuovere la crescita culturale del nostro territorio.
Ricordiamo le iniziative di ottobre
“Campalto DonNa Cultura”, il concerto di Natale al Villaggio Laguna,
il ricordo del “Giorno della Memoria” nella chiesa parrocchiale e l’incontro con l’autore per la presentazione del nuovo romanzo di Cristina Pappalardo “Mille e una Lei”. Altre importanti iniziative sono pronte per marzo nel mese dedicato alla donna; tornerà dopo la pausa determinata dalla pandemia la “Serata della Poesia”, che tanto risalto aveva avuto nelle precedenti edizioni, mentre si sta tentando di riallacciare i rapporti con la scuola. Come si può notare, è un programma ricco di proposte: chi si sentisse in grado di dare una collaborazione, o semplicemente conoscere di più le associazioni, ben vanga.
Può rivolgersi direttamente a “La Pagina di Campalto” che sarà ben lieta di fare da tramite alle associazioni interessate. Un cordiale saluto da parte dei presidenti.
Le storie raccolte in questo volume sono una vera e propria dichiarazione d'amore verso il nostro Paese. Con i suoi racconti, Massimo Cannoletta dimostra che sapere è divertente e lo fa con uno stile semplice, coinvolgente, affabile e appassionato, come l'amico che con gli occhi che gli brillano ti dice: «Ma sai cos'ho scoperto?» E accompagna le sue parole con tante immagini a colori scelte appositamente per farci scoprire il particolare nascosto, la curiosità imperdibile, il dettaglio rivelatore. Un libro per tutti, amichevole, pieno di curiosità e, diciamolo anche, ottimista. Esattamente come
il suo autore. Sapevate che il baccalà è stato scoperto grazie a un terribile naufragio? E che Keith Haring ha scelto Pisa per la sua ultima opera pubblica? E che il primo re d'Italia ha combattuto contro tutto e tutti per proteggere la donna che amava? L'Italia è un Paese relativamente piccolo, ma il suo patrimonio artistico e culturale è enorme ed è conosciuto in tutto il mondo. Sotto di esso, però, se ne cela un altro, assai meno noto: un patrimonio composto dalle vite di uomini e donne che l'Italia l'hanno popolata, amandola o odiandola, che l'hanno arricchita di arte e scienza, che l'hanno lasciata ma anche che l'hanno voluta raggiungere da molto lontano, che ne hanno fatto la Storia con la loro umanità, il loro coraggio, la loro unicità. L'Italia è così: dietro un monumento, un oggetto che usiamo tutti, una semplice targa su un muro spesso si nasconde un grande personaggio e dietro un grande personaggio c'è una storia che aspetta di essere raccontata. Questo libro è il frutto naturale di un amore per il sapere che si è manifestato in un'attività divulgativa ventennale, cominciata facendo conferenze in giro per il mondo e approdata in televisione, dove l'autore ha conquistato e messo d'accordo milioni di italiani. Con l'entusiasmo, la passione e l'intuizione che lo contraddistinguono, Massimo Cannoletta ci dimostra che la curiosità è il motore della conoscenza e che le storie sono l'anima della vita. E ora è pronto a raccontarcele.
Ca’ Solaro: è stata quasi completata la stesura del sedime lungo il lato destro della carreggiata (uscendo da Favaro); non ci sono notizie però in merito al completamento degli interventi. Una volta completati i lavori sarà possibile raggiungere con più tranquillità Carpenedo e, percorrendo strade con poco traffico, la zona del Terraglio. Lascia non poco amaro in bocca il fatto che il progetto di collegarsi con via Indri, passando dietro la chiesa di Sant’Andrea, sia stato accantonato quando ormai sembrava in dirittura d’arrivo. Mah, che anche qui c’entri la politica…?
Via Triestina: il tratto dal centro di Favaro fino a via Piovega è quasi ultimato; da lì a Tessera i lavori dovrebbero iniziare a breve. Lascia qualche dubbio la scelta di proseguire lungo la strada con la necessità di spostare il sedime in alcuni punti come avvenuto in prossimità di Dese mentre si sarebbe probabilmente potuto tagliare quella doppia
curva passando all’interno fino alla Torre di Tessera.
San Giuliano: da notizie pervenute direttamente dal Consorzio Acque Risorgive, entro marzo saranno terminati i lavori “alle Rotte” con conseguente riapertura del tracciato verso Passo Campalto. In contemporanea prenderanno il via gli interventi lungo l’Osellino.
Da notizie giunte direttamente dagli assessorati comunali, una cospicua cifra, circa tre milioni, dovrà essere impiegata a breve termine per la ciclabilità cittadina. Sembra che ben poco o quasi nulla verrà investito nel nostro territorio. Benché ci fosse un progetto di massima lungo via Orlanda, non è stato ritenuto di importanza prioritaria… zero per la manutenzione del poco che esiste in via Gobbi. Avremo cura di tenere informati i nostri lettori sugli sviluppi futuri, anche attraverso la nostra pagina Facebook.
LA PAGINA DELL’ARCHEOLOGIA
MONTE DELL’ORO L’isola del tesoro ai confini della Laguna
Un isolotto di soli 13 ettari (per la precisione 1.296 metri quadrati, secondo il il Comune di Venezia, anche se vari siti internet parlano, senza peraltro indicare la fonte, addirittura di 4.000 o 4.200 metri quadrati di cui 1.500 ricoperti da uno stagno). Una macchia verde lasciata incolta che si eleva sulle acque della parte settentrionale della Laguna Veneta, totalmente al di fuori delle normali vie di comunicazione, molto vicina alla terraferma. Questo è Monte dell’Oro, il cui nome, un tempo, riportava anche il termine “Ridotto”, in quanto era sede di un fortino militare, costruito nel 1848 ai tempi dell’insurrezione di Venezia contro gli Austriaci. Una costruzione con funzione di difesa,
attualmente ridotta al semplice rudere di un bastione dopo essere stata ampliata con il ritorno del dominio austriaco e utilizzata dal nostro esercito fino ai tempi della Prima Guerra Mondiale come batteria militare (una postazione di artiglieria) presidiata da una cinquantina di militari e protesa strategicamente verso il Sile e il Piave. La nostra isola, o meglio, isolotto, è situata in prossimità della gronda lagunare, a nord-ovest dell’isola di Sant’Ariano, “l’ossario” dei veneziani, e della contigua isola de La Cura, a nord di Torcello, lungo il canale Siloncello, alla confluenza di questo nel canale Silone, nel margine settentrionale della Palude della Rosa. Essa ha un nome che è
tutto un programma. Infatti, gli deriva da un’antica leggenda, riportata da Ermolao Paoletti nel suo libro “Il fiore di Venezia. Ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi veneziani” (uscito in prima edizione nel 1837) secondo la quale Attila, il famoso e famigerato re degli Unni, dopo aver distrutto Altino (452), sarebbe rimasto impantanato, inseguendo gli Altinati in fuga, nelle barene lagunari, perdendo così i suoi tesori, frutto dei bottini e delle razzie accumulate durante i saccheggi nella sua calata in Italia. Tesori che erano custoditi in carri per l’appunto sprofondati nel fango delle barene e delle velme lagunari assieme, secondo una delle tante versioni di questa leggenda, all’arco personale di Attila, pure quello in oro. Naturalmente, anche qui la leggenda si accompagna, come in altre dello stesso tipo, alla morte violenta di cui sarebbero state vittime, in passato, tutte quelle persone che avrebbero cercato di recuperarlo o fossero riuscite a sottrarre parti di esso. Un “tesoro maledetto” vegliato dagli spiriti degli Unni o dal diavolo in persona, a seconda delle versioni, come raccontano vari blog e post rintracciabili in rete che, sullo stile del mito creatosi attorno all’isola di Poveglia, citano pescatori di Burano che di notte avrebbero veduto queste presenze soprannaturali aggirarsi per l’isola. Lo stesso Paoletti scriveva che “quel dosso guardasi pure con ribrezzo dal volgo stimandolo posseduto dal
demonio”. Aggiungendo però subito dopo che “è strano per verità che tante fole si narrino su quell’ignobile dosso quando per maggiori ricchezze andavano celebri un tempo le altre isole”. Sta di fatto che, casualità o meno, tre bricole, poste lungo il canale, poco al largo dell’isolotto, portino incise nel legno l’una una croce e le altre due rispettivamente un volto di santo e uno di santa. Una funzione apotropaica? Venendo alla realtà dei fatti, questa zona remota fu abitata dai profughi dell’entroterra, giunti da Altino seguendo il vecchio corso del Sile che proprio qui arrivava in Laguna dapprima lungo il Canale di Santa Marta e quindi il già citato Canale Siloncello. I discendenti degli altinati vi avrebbero poi eretto, sempre secondo quanto scrisse Paoletti nel libro precedentemente citato, un monastero benedettino, che seguiva la rigida regola cluniacense, e una chiesa, dedicata a San Cataldo. Vi era inoltre presente, sempre secondo tale autore, anche il seminario dell’antica diocesi di Torcello i cui resti, così come quelli del monastero, in parte ancora affioranti dall’acqua, vennero rilevati nel 1971 dal famoso e appassionato archeologo lagunare Ernesto Canal (19242018). A tutt’oggi, le rilevazioni di Canal sono le uniche ad essere state condotte, scientificamente parlando, sull’isola. Nonostante la valutazione, contenuta nella “Variante al Piano Regolatore per la Laguna e per le isole minori”, pubblicata sul numero
86 del Bollettino Ufficiale della Regione Veneto del 23/11/2010, che testualmente riporta, nella scheda dedicata al nostro isolotto, “è però prevedibile che una accurata campagna archeologica possa portare alla luce interessanti resti”. Un auspicio che le istituzioni preposte possano recepire quanto prima. Come tutta l’area della Laguna Nord, anche questa zona attraversò grandi mutamenti dovuti sia a cambiamenti geo-morfologici naturali che indotti dall’azione dell’uomo, decadendo nel tardo medioevo, dopo che il progressivo mutamento del livello delle acque aveva fatto inabissare i centri abitati di Costanziaco e Ammiana che si trovavano in questa e soprattutto nelle isole vicine (Sant’Ariano e La Cura). Un lento ma inesorabile impaludamento che continuò a ridurne l’estensione e a modificarne l’aspetto anche rispetto alla pur vicina a noi, temporalmente parlando, età napoleonica. Monte dell’Oro venne quindi utilizzata, dopo un lungo periodo di abbandono, come sempre si riscontra anche in altre isole lagunari
dalla caduta della Serenissima in poi, per costruirvi quelle postazioni militari, citate in precedenza, inserite nel sistema ottocentesco dei forti posti a difesa di Venezia e della sua laguna, i cosiddetti “ridotti”. In sostanza, il ridotto del Monte dell’Oro era una postazione intermedia tra i punti fortificati principali, creato, come gli altri della stessa tipologia, per controllare anche i canali secondari di accesso alla laguna. Coevo e collegato con le relativamente vicine batterie di Tessera e Carbonera, sulla terraferma, oltre che con il fortino posto sul canale di Campalto. Attualmente l’isola è di proprietà demaniale e si presenta con la forma di un dosso tondeggiante su cui spicca, come detto all’inizio, il rudere, ormai eroso dall’azione del tempo, del bastione, ultimo resto del ridotto militare ottocentesco, mentre non vi è più alcuna significativa traccia visibile di ulteriori edifici, sia di carattere religioso o civile, che l’isola aveva in passato ospitato.
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