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TRASCINATI DAL VENTO .................................................................................................................... pag

TRASCINATI DAL VENTO

di Giovanni Badino

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Erano passati due anni: ora le sorgenti di Boy Bulok le vedevo dentro un mirino, accanto all'immagine del mio piede appoggiato su un cordino, sul vuoto. La gola in cui l'acqua del Meandro Senza Fine (o quasi) tornava alla luce era schiacciata nell'immagine accanto alla scarpa, più di due chilometri sotto di me. Volavamo.

Vastissime regioni semi desertiche erano sfilate sotto di noi spazzate da un calore mozzafiato. Quassù era più fresco e soprattutto vedevamo avvicinarci le pareti del Sur Khan Tau e del Baisun Tau, con la sola fatica di sopportare il fracasso del motore e la puzza del carburante.

Quelle grandi pareti si avvicinavano sopra le nebbie ondeggianti dell'enorme calura del deserto, le dominavano, alte e sterminate, fresche di neve. Di colpo ci eravamo trovati in mezzo ai primi strapiombi, quelli del Chul Bair, e allora i nostri movimenti per prepararci alle operazioni di filmare sospesi sul vento si erano fatti febbrili, quasi che ogni immagine, ma soprattutto ogni sensazione, fosse da riprodurre per farla rivivere la settimana dopo ai nostri compagni. Eravamo in prespedizione, dovevamo dunque fare in modo che anche gli altri vivessero quella sensazione che si andava formando in noi, un senso di onnipotenza geografica che ci stava dando il volo con il grande elicottero.

Un'astronave che volava su un pianeta mal noto.

I nostri movimenti si erano fatti febbrili, il baratro sotto di noi ci mostrava dispiegate tutte le geometrie che si erano andate evolvendo da quando quelle paludi antiche avevano abbandonato i dinosauri che le percorrevano e si erano spinte verso l'alto, conservandone solo, qua e là al sole, delle orme. Fissavamo le immagini con un'ansia che nascondeva il fatto che in realtà volevamo fissare sensazioni che le macchine da presa, purtroppo, non potevano registrare.

La parete del Sur Khan Tau appare, la mitraglio con la telecamera cercando di assorbircela dentro, sospeso nel vento. Subito scompare dietro di noi, il baratro si riapre, stiamo varcando la valle che separa i due massicci, fra pochi minuti apparirà Hodja Gur Gur Atà, cioè il tratto centrale di Baisun Tau.

L'eccitazione aumenta, ognuno di noi ricontrolla gli strumenti di cui dispone per assorbire la parete, che non falliscano. Sporgendomi fuori dalla porta la vedo che avanza nell'aria verso di no L

Il suolo è lontanissimo, ha forma di valle pietrosa, vasto letto di arido torrente, sassi rotondi. L'avevamo percorsa tutta due anni fa, ritirandoci per la via direttissima dal campo di Hodja: fu un calvario. Ricordo che eravamo in otto, esattamente, perché a metà della camminata divisi tutto il nostro cibo, una scatoletta di carne, piccola, e notai che era assai facile: tre soli tagli

36 perpendicolari, un rapido boccone per stuzzicare la fame e poi basta, ancora nella pietraia per ore interminabili con zaini impossibili, attendendo il villaggio dopo ciascuna delle numerose svolte della valle. Al tramonto lo raggiungemmo, infine, trovando una donna misericordiosa che ci offrì cibo e un giardino nel quale sedere, affranti, sulle stuoie.

Ora quello spazio che allora ci osservava dall'alto lo solchiamo in pochi secondi, la valle appare essere una serpentina disegnata nel mirino: la filmo, incredulo.

Il suolo da laggiù comincia d'improvviso ad alzarsi verso di noi, prati e pietraie che ci sono terribilmente note balzano in alto e quando ci stanno per raggiungere l'elicottero vira superando d'un balzo la parete. Ora scorrono sotto di noi dei pianori; forzo lo zoom a grandangolare ma non riesco ad inghiottirli, l'idea delle dimensioni ce la dà una mandria che fugge spaventata dalla macchina che vola, puntini neri sul grigio maculato di verde.

Nuova virata, la parete inizia a scorrerei sotto, io la guardo nel mirino. È a balze, neanche molto alta. Assurdamente penso che è diversa, molto meno imponente di come la ricordavo: sono un po' deluso.

Ma è questa l'Hodja che sognavamo da due anni? No, ne è la propaggine meridionale.

La parete e l'elicottero svoltano di colpo e nel mirino appare il nastro grigio, infinito, strapiombante della parete. Muzzafar, il grande pilota, ce la fa scorrere di fronte, immensa, lentamente.

Un frammento della luce che riflette, greve di dati sulla sua superficie, viene proiettato da vetri ottici su un frammento di silicio dentro l' apparecchio che reggo nel vento: gli impulsi che ne escono sgorgano su una testina magnetica che li fissa su un nastro. Anche il frastuono; non, purtroppo, le sensazioni: il vuoto, la realizzazione del sogno di vedere di colpo tutta la parete senza le mostruose camminate sulle ripide pietraie sottostanti.

Quel giorno e i successivi li passeremo sospesi nell'aria dinanzi a pareti senza fine, a volte liscie e compatte, a volte strutturate anche in ingressi di grotte che ancora adesso ci aspettano inesplorate.

Credo sia stata la prima volta che una spedizione speleologica ha utilizzato così sistematicamente l'elicottero, sia per mettere basi esplorative in posti remoti e sia soprattutto per spazzolare centinaia di chilometri quadrati di calcare alla ricerca di forme carsiche che suggerissero la presenza di strutture interne.

I nostri occhi erano già abituati alla ricerca di grotte, ma passeggiando sulle superfici carsificate: bisogna essere attenti a vallette cieche, a inspiegabili forme rocciose; bisogna aggirarsi fra quelle strutture in cerca di canalicoli, di affioramenti di roccia. Cercare buchi nella neve, in primavere alpine, cercare ombre profonde in inverni di foreste brasiliane: il guaio è che ovunque si stia, a terra, a fare ricerca di grotte ci si trova frammisti al paesaggio, se ne vedono i dettagli ma l'insieme va pazientemente ricostruito su mappe che poi mostrino la montagna vista dall'alto. È come leggere un libro al microscopio.

Dall'aria ora invece i nostri occhi andavano facendosi esperti, via via che ci abituavamo a vedere le zone carsiche già in visione sintetica: già dall'alto. Imparavamo a riconoscere strutture rilevanti, attorno alle quali roteare dopo pochi secondi con la gigantesca macchina, ad escludere le trappole: ad estrarre insomma la gran messe di informazioni sulle sue forme interne che la superficie del monte dice abitualmente solo alle nuvole.

Ma in questa spedizione l'elicottero, oltre all'averci permesso di mettere a punto la tecnica di sorvolo di territori carsici in cerca di grotte, ci ha portato numerose, un po' folli esperienze.

La vastità, la relativa povertà e la carenza di infrastrutture che caratterizzano la situazione di queste zone ha fatto sì che l'elicottero vi abbia assunto un ruolo fondamentale: molti dei servizi statali sono fatti con questi mezzi di trasporto la

In alto: la ricognizione con elicottero ha consentito un prezioso sguardo d'insieme su un territorio vastissimo. Sopra: l'elicottero riparte dopo aver scaricato un gruppo al campo avanzato di Ulugh Eeg.

38 cui qualità è eccezionale, così come quella di Al decollo Alì (persona ragionevole messa alcuni dei loro piloti, abili come da noi i migliori con Muzzafar, per giusta scelta dell' Aeroflot, a che fanno soccorso in montagna. Anche la popo- fargli da contrappeso) ci dice di non fare foto e lazio ne delle valli, molto povera e il cui mezzo di non fare film, e anzi di tenere tutto chiuso negli trasporto principale è l'asino, ha gran confidenza za1n1. con gli elicotteri MI8 che portano medici, mae- Ahi. "Là" dove? strie offrono lunghi passaggi a chi vuole, o deve, andare in città.

Abbiamo impiegato pochissimo a fare amicizia coi piloti tagìchi, soprattutto con quello più abile e temerario fra di loro, Muzzafar: amicizia.

Tanto che una mattina degli ultimi giorni della prespedizione ...

Stiamo volando sull'elicottero vuoto, sopra il deserto. Non sappiamo dove stiamo andando; ogni tanto controllo la direzione sulla base della posizione del sole: è sempre pieno Sud, verso l'Afganistan. Tono ed io ogni tanto ci guardiamo increduli. Pochi minuti fa, entrati per primi nell'aeroporto, stavamo aspettando i compagni impegnati in pratiche burocratiche. Il programma prevedeva che saremmo andati tutti insieme nel punto fissato per il campo, dove due di noi si sarebbero fermati per esplorarne le caratteristiche mentre gli altri due sarebbero rientrati nella calura di Dushambè per accogliere, due giorni dopo, tutta la spedizione. Aspettavamo accanto all'elicottero, con Muzzafar e Alì, il suo secondo. Muzzafar aveva scoperto fra i nostri bagagli un trombone (!) che Tono aveva comprato al mercato. Si era subito entusiasmato e messo a suonarlo: bene, fra l'altro. L'avevo filmato (nell' aeroporto: vietatissimo) mentre suonava "When the saints go marching in". Poi si era stufato, era andato a parlare con la torre di controllo; poco dopo ci aveva detto di caricare i bagagli: l'avevamo fatto, per accorgerci un istante dopo che iniziava le procedure di decollo, senza i nostri compagni! In faticoso russo, nel frastuono delle turbine, gli avevo spiegato che non doveva farlo.

Lui mi aveva fatto capire che dovevano fare una missione brevissima, che ci portava via per mezz'ora, che così filmavamo e facevamo foto anche là. Là dove? Sto cercando di ricordare quanto dista da Dushambè il confine afgano: un centinaio di chilometri, mi sembra, vietatissimi. Ora è da mezz'ora che voliamo a S: se l'Afghanistan non è già sotto di noi certo è là davanti. Atterriamo in un villaggio, vicino ad un fiume (sarà l' Amu Darja?). Salgono due tipi, ripartiamo, verso E, ora. Sorvoliamo valli e vallette, poi ci troviamo a volteggiare su pendii pietrosi cercando non sappiamo che cosa. Uno dei tipi guida la ricerca sui pendii parlando in tagìco a Muzzafar che fa volteggiare questo mostro di elicottero come se fosse un giocattolino. Prendiamo terra, nella calura, i due si allontanano, Muzzafar ricomincia a suonare "Oh when the saints" io finalmente riesco a capire da Alì che abbiamo caricato dei medici, e che ora quelli sono andati a curare un pastore. N o, non era Afghanistan; mi mostra sulla carta che eravamo ancora a ben una decina di chilometri scarsi dal confine. Gli altri tornano, noi siamo più rilassati e dimentichi di U go e Simone che in quel momento, coi russi, stanno cercando di capire all'aeroporto dove siamo spariti: senza riuscirei. Ancora un villaggio: mentre i medici vanno a lavorare, i locali fanno sedere noi e i piloti su delle stuoie con gli anziani; ci danno da mangiare. Siamo completamente increduli della sequenza di eventi che ci hanno portato sin lì. La mezz'ora intanto si è già trasformata in tre ore. Un'ora dopo scarichiamo i medici al villaggio di confine, carichiamo altra gente e ridecolliamo. Qui vedo quanto questa gente ha confidenza con l'elicottero, ma perdo l'occasione di filmarlo. Accade questo: al decollo una gran quantità di bambini si piazza accanto alla macchina; Alì mi

dice di stare attento, e anche lui si piazza a guardare dall'oblò. Muzzafar sta al gioco e aumenta molto lentamente la portanza, e quindi l'enorme vento che soffia sui bimbi. Uno dopo l'altro, ad iniziare dai più piccoli, rotolano via sulla polvere: chi cade ha perso, si rialza e corre via. Quando finalmente ne rimane solo uno in piedi, stoico, inclinato a occhi chiusi nel vento sabbioso e furibondo dell'elicottero il gioco è finito e Muzzafar può riportare la macchina nel cielo, verso N questa volta.

Verso Dushambè, verso i nostri amici assetati in attesa da molte ore; verso altre ore di volo e verso il Baisun Tau, a proseguire questa spedizione che, a volte, ci è apparsa una scusa per farci trascinare dal vento, come bimbi tagìchi.

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