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CIÒ CHE È IN BASSO ............................................................................................................................. pag

Ciò CHE È IN BASSO

di Antonio De Vivo

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La Calata di N adi a è il nome di un' impressionante discesa su corda realizzata per raggiungere l'ingresso della grotta di Ulugh Beg.

L'ingresso si trova a quota 3750 metri, oltre l 00 metri sotto il bordo del muro calcareo di Baisun Tau, a 300 metri dalla sua base. Dal ciglio del muro alla grotta la parete strapiomba di una trentina di metri: sono stati impiegati quasi 30 tasselli per attrezzare lo strapiombo e raggiungere l'ingresso in quattro discese successive.

Calarsi lungo una corda in grotta è una cosa.

Lo si fa sempre.

Calarsi lungo una corda lungo una parete per raggiungere una grotta è un'altra cosa. Lo si fa molto di rado.

Calarsi lungo una corda in un vuoto abissale, per tentare di raggiungere una grotta, a 400 metri d'altezza dai primi inclinati pendii di sfasciumi, è un'altra cosa ancora. Non lo si fa quasi mai.

Perché non sono molti i luoghi, su questa zolla orbitante nell'universo, dove lo si può fare. Credo anzi che di Baisun Tau vi sia solo questo, increspato sipario calcareo lungo più di 40 chilometri.

Una serie casuale di circostanze ha fatto sì che le paludi marine di 150 milioni di anni fa si elevassero fino a 4000 metri d'altezza; che le fratture esistenti nella roccia, il clima, l'acqua, permettessero la formazione, nella montagna, di quei vuoti che chiamiamo grotte; che il tempo, la neve, il freddo e il caldo intensi abbiano consumato un versante della montagna, mettendo in comunicazione i vuoti sotterranei con l'esterno; che dopo molti milioni di anni sia apparsa sulla terra una specie animale molto curiosa; che questa curiosità si sia rivolta anche verso quei luoghi bui e freddi del sottosuolo; e che infine tra questi curiosi, gli speleologi, ci siamo noi.

Sì, se siamo qui è proprio un caso ...

. .. È il l O agosto. L'aria è tersa, come al solito, quassù, a questa quota in estate. Rumori, solo il vento che si scontra con il grande muro e così si innalza, fino a superarlo e scivolare lungo il piano inclinato della monoclinale che scende dolce sul versante opposto. E il rumore dei nostri passi e dei bastoncini, che a volte battono sulla roccia calcarea, a volte scricchiolano sui frammenti rocciosi, testimoni della continua consunzione della neve, del vento, del tempo.

Camminiamo lungo il bordo del muro, sotto c'è solo vuoto, per 400 metri, fino ai ghiaioni che scendono verso valle.

Stiamo cercando una grotta, vista dall' elicottero durante i tanti sorvoli. Per cercarla ci siamo spostati, in pochi, in questo settore remoto della catena; il campo base ora non è più un piacevole riferimento per la sera, è solo un punto geografi-

50 co, distante molte ore di cammino nella nostra mente.

La grotta è una grossa frattura verticale, nel bel mezzo della parete. A dire la verità non possiamo neppure affermare che si tratti di una grotta. Sappiamo solo che c'è una frattura, una staffilata nera nel grigio del calcare. Ma gli speleologi sono abituati a cercare ciò che non si vede, dipendenti da una forma mentis che non li abbandona mai, e li spinge a credere che la grotta ci sia; se poi non c'è, e succede spesso, vivono il fatto come delusione solo per un breve periodo, perché questo è il gioco, queste sono le regole: esplorare significa entrare nel territorio per conoscerlo e capirlo, non per accettarlo solo quando risponde ai nostri desideri. È un po' la differenza esistente tra un viaggiatore e un turista. E poi noi stiamo cercando di capire una montagna, non una grotta.

Comunque ora che la grotta ci sia è più di una speranza, è quasi una convinzione. Il problema è trovare il punto giusto in questa parete sterminata. Da quassù la grotta non la si può vedere, nascosta com'è da quinte di roccia e strapiombi.

Ma un tetto gigantesco la sovrasta, ed è proprio questo carattere morfologico, che sembra contrastare con le leggi della fisica, ad aiutarci, impressionato in una foto Polaroid scattata dall'elicottero. Abbiamo studiato questo tratto di parete anche grazie alle riprese video, e riconosciamo ormai tratti e caratteri di questa montagna austera un po' come si riconosce una persona dai passi, senza che parli o si faccia vedere.

Il tetto è veramente grande, e il confronto con la foto non lascia dubbi. Continuo a salire sulla cresta verso quella che sembra essere la verticale della grotta, grazie alle indicazioni, sempre più rarefatte dal vento, dell'amico Pasha, che mi urla in russo dali' ultimo punto in cui il tetto è ben visibile.

Pasha mi raggiunge mentre sto iniziando ad attrezzare la discesa. Resistiamo entrambi alla tentazione di parlare, e il silenzio resta complice di questo momento magico. Ma non è un problema di lingua. Pasha è abituato ai lunghi silenzi, fanno parte di questo piccolo uomo asiatico dal grande cuore; io ascolto il rimbalzare del martello, il tintinnare dei moschettoni, come fossero un preludio da non disturbare. O forse perché non c'è semplicemente nulla da dire.

Inizio la calata, dopo pochi metri Pasha scompare dietro il bordo del muro. Il mio orizzonte cambia, diviene pura verticalità, vuoto e confine del vuoto. Attrezzo la discesa, trapano a batterie e tasselli collegano la corda alla parete.

Scendo fino al bordo del grande tetto, sotto i miei piedi la parete si allontana in un gigantesco strapiombo.

Attrezzo, scendo ancora. Ora la grande frattura si lascia vedere, una cinquantina di metri più in basso. La corda esce contorta dal sacco, così la libero tutta nel vuoto. Il vento la fa dondolare, culla anche me, ma è difficile lasciarsi andare, farsi prendere dalla sua infinita dolcezza, non provare paura.

La paura diventa una costante, una parte di te, con la quale sei costretto a fare i conti. Anche perché sei solo. Tutti i miei compagni, quando passeranno qui, saranno soli. E probabilmente proveranno paura.

La corda inizia a girare, e io con lei. Cerco di non pensare, di concentrarmi su altro, perché lo stordimento è davvero profondo, somiglia a quella strana sensazione chiamata dai subacquei ebbrezza da profondità.

Scendendo lentamente per non surriscaldare il discensore (ma non è facile, la corda ha un diametro di 9 millimetri, è nuova ed asciutta) raggiungo l'ingresso. "Raggiungo l'ingresso" è un eufemismo, nel senso che l'altezza è la stessa, ma 20 buoni metri di vuoto ci separano.

Risalgo, col fiato grosso per l'altitudine e forti dolori all'inguine e ai fianchi, doni dell'imbragatura e ore di appensione baricentrica. Esco dalla parete, l'orizzonte si placa su altopiani scoscesi e catene in lontananza. Ritrovo i compagni, scendiamo assieme al "campo degli Elfi", dove un pastore tagìco divide con noi un the

In alto: il tratto di parete in cui si apre l'ingresso di Ulugh Beg; è la grande fessura verticale visibile nella zona gialla sotto il grande tetto. Sopra: sul bordo del muro gli esploratori si preparano a scendere per raggiungere l'imbocco della grotta, un centinaio di metri più in basso.

52 caldo e frutta secca preparati da Michi, tempora- improvvisa, troppa per essere digerita. Da quasneamente azzoppato da una brutta storta alla sù si vedono bene anche i resti dell'aereo delle caviglia. Linee Aeree Indiane schiantatosi sulla parete,

Pasha ha contrattato una cena a base di peco- proprio in questo punto, nel1960, durante il volo ra, e così scendiamo al campo dei pastori dove, Mosca-Delhi. I soccorsi non riuscirono a ragalle ultime luci del giorno, fr~si in un idioma a noi giungerlo a causa della neve, e solo nella primaignoto ci accolgono, e la pecora viene sgozzata e vera successiva fu possibile avvicinarsi al relitto scuoiata; una cena inaspettata in questo luogo del velivolo. Crea ordini di grandezza, è una magico, con uomini solitari e amici abituati a passare mesi in compagnia di pecore e muli.

Lasciamo le morbide coperte dei pastori per risalire al campo degli Elfi alle luci delle lampade frontali. 11 agosto: scendo una seconda volta lungo la grande parete, seguendo un diverso itinerario, per aggirare il tetto ed "entrare" sotto lo strapiombo. La sensazione di vuoto allo stomaco tende a ripetersi, nonostante l'abitudine fatta ieri la paura non sfuma in colorazioni più tenui.

Ogni volta che guardo in basso, la corda sembra non arrivare mai alla parete, e l'immagine della valle mi si stampa addosso sempre presenza inquietante. Risalgo per riposare un po' le reni e parlare via radio con Tullio, al campo base. Mi rendo conto che sarà necessario molto materiale per raggiungere l'ingresso, e spero in fondo che mi dica di non continuare, che altri compagni abbiano scoperto nuove vie e nuove grotte; so che non è molto dignitoso, ma in questo momento tutto mi appare veramente gigantesco. La parete, il vuoto, la calata di corda, la stessa mia paura. E tutto inutile. Una breve conversazione al campo base, poi torno con pazienza all'ultimo chiodo. Lavoro finché le batterie del trapano si esauriscono. È un'altra sera, un'altra notte cala su questa

parete ancestrale, impassibile ai nostri sforzi e ai assieme ripuliamo la cengia di tutto ciò che si nostri umori e forse, proprio per questo, amica. muove. Tonnellate di pietre.

12 agosto: Pasha ieri se n'è andato per tornare dalla moglie che sta per partorire. Con le lacrime agli occhi ci ha salutato, combattuto tra sentimenti troppo intensi per essere spiegati con l'uso del dizionario.

L'elicottero ha portato viveri e compagni per dare una mano, sia per la calata che per il rilievo topografico del muro che Giovanni e Michele stanno lentamente realizzando.

Scendo, per la quarta volta. Ancora chiodi, sempre più sotto il grande strapiombo; i compagni mi urlano che ormai la corda tocca una cengia inclinata la quale giunge fino alla sommità della frattura.

Sento le loro voci solo in calma di vento, per il resto solo suoni lisi e stracciati. Raggiungo la cengia, un piccolo intralcio roccioso in questo vuoto abissale. Tra blocchi pericolanti pianto un chiodo e urlo a Leo di scendere. Mi raggiunge con occhi stralunati ed entusiasti, lo tiro dentro e

Una traversata al cardiopalmo mi porta fino all'ingresso; aria fresca ci accoglie tra massi di frana sospesi nel vuoto sui quali, guardinghi, avanziamo. Come sempre, davanti al nero dell'ingresso, al freddo dell'aria, all'odore della grotta, torniamo bambini entusiasti, inguaribili.

Il vuoto del meandro inizia a scendere verso valle, senza soluzione di continuità. È strano come il vuoto, l'assenza, riempia così tanto il nostro cuore. Le ore scorrono veloci, e i compagni, al campo avanzato degli Elfi, ora di Ulugh Beg, non cederanno al sonno fino al nostro ritorno.

Quando usciamo è già notte.

Risalgo, sotto le stesse stelle che un tempo riempirono le notti di Muhammad Taragay, Ulugh Be g.

Il silenzio è rotto dal respiro. Il buio dalla luce della carburo. Questo è il nulla. Questo è il vuoto.

Per chi non è poeta, le parole faticano a parlare di assenze.

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