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Francesca Cinone, Simone Martuscelli, Francesco Paolo Savatteridi Brexit poll

Brexit poll -------------------------------------------------------------------------------------------------------- Boris Johnson ha ottenuto un risultato storico alle elezioni del 12 dicembre. Ma non è tutto merito suo.

Val più un paziente che un forte Sono le 23.25 del 12 dicembre, e sugli account social di Boris Johnson compare una foto: vi è ritratto il Primo Ministro inglese insieme a un gruppo di uomini in tuta da lavoro, e uno di loro regge un cartello con la scritta in rosso “We love Boris”. Questa immagine sarebbe emblematica dei cambiamenti in corso in Regno Unito negli ultimi tempi, e in particolare in occasione delle ultime elezioni. Ma per capirla bisogna fare un passo indietro di circa tre anni e mezzo, tornando al giugno del 2016. Il Regno Unito vota a sorpresa per lasciare l’Unione Europea, e David Cameron si dimette dall’incarico di Primo Ministro. Per la successione, gli occhi sono tutti su Boris Johnson, l’eclettico ex sindaco di Londra e fervente sostenitore della Brexit. Ma a tre ore dalla chiusura delle candidature, Johnson viene “pugnalato alle spalle” da Michael Gove uno dei suoi principali sostenitori della vigilia, il quale annuncia di voler partecipare alla corsa al ruolo di leader dei Conservatori e, quindi, di Primo Ministro. A questo punto “BoJo” decide di ritirare la sua candidatura, facendo la scelta che oggi, a più di tre anni di distanza, spiega più di tutte il suo recente successo elettorale. Innanzitutto, Boris ha dimostrato di saper aspettare. Il Regno Unito nel 2016 era un paese che mostrava i ripensamenti tipici di chi prende una decisione epocale, per di più con una maggioranza esigua e frastagliata al suo interno: le posizioni radicali di Boris Johnson, inevitabilmente, spaventavano l’elettorato e la classe dirigente britannici. Oggi, invece, il paese di Sua Maestà appare logorato da anni di dibattito politico occupato in maniera totalizzante dalla Brexit, che altro non ha fatto che rassegnare i cittadini ad un’uscita dall’Unione Europea vista ormai come inevitabile e da mandare in porto nel tempo più breve possibile. Boris Johnson ha lavorato la nazione ai fianchi: nominato ministro degli Esteri nel nuovo governo di Theresa May, più per tenerlo impegnato e lontano da Londra che per effettivi meriti o competenze, si dimette nel luglio 2018 per preparare al meglio il suo “ritorno in campo” e per lasciare che il governo May vada a sbattere su una Brexit impossibile da attuare con la risicata maggioranza parlamentare allora disponibile. Boris Johnson ha reso evidente, una volta di più, che i tempi in politica sono tutto. Una lezione che ha imparato, a sue spese stavolta, anche l’altro grande protagonista di queste ultime elezioni: Jeremy Corbyn ha fallito nel suo intento di portare il Regno Unito fuori dalla logica binaria di “Remain or Leave”, perdendo persino i voti operai nei quartieri che avevano votato per il Leave. Nei dibattiti preelettorali il leader del Labour Party era dato perdente con Johnson su tutti i temi che non fossero quello della sanità pubblica, risultando particolarmente inefficace sulla sicurezza (55%-34%) e, soprattutto, sulla Brexit (62%-29%). Ma al di là delle analisi grossolane degli esponenti politici nostrani, e dell’hashtag #CorbynOut che è impazzato sui social britannici nei minuti successivi alle pubblicazioni degli exit poll, non è solo a Jeremy Corbyn che può essere imputato l’esito dei tre anni e mezzo di totale schizofrenia che ha vissuto il Regno Unito. Un Regno per nulla Unito La Brexit è una realtà che divide il Paese, che lo spacca letteralmente in due: da un lato persistono i “remainers” che avrebbero voluto continuare a far parte della comunità europea, dall’altro emerge il “leave” degli attuali vincitori. Un risultato che sicuramente sconvolge e scardina l’Europa, ma che disgrega innanzitutto il Regno Unito nel suo interno e ad un livello più profondo: quello generazionale. Stando all’analisi del voto effettuata dall’Economist, il 60% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha dato piena fiducia ai Laburisti votando contro l’uscita dall’Europa e vincendo sul 20% ottenuto dai Conservatori. Tra i “remainers”, scrive The Christian Science Monitor, vi è una società variegata, in larga parte composta da studenti preoccupati per l’aumento della xenofobia e turbati dalle restrittive politiche di contenimento della migrazione che metterà in atto la Brexit nella loro terra. Viceversa, l’elettorato over 65 è stato in larga percentuale johnsoniano, assolutamente favorevole all’uscita. La considerazione necessaria che ne scaturisce è, in parte, angosciante: il futuro di questo Paese rischierà di non riflettere le visioni politiche o i bisogni socioeconomici delle classi giovani che lo abiteranno. “Non è solo a Jeremy Corbyn che può essere imputato l’esito dei tre anni e mezzo di totale schizofrenia che ha vissuto il Regno Unito.”

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Con pochi giri di parole, gli individui che d’ora in avanti nasceranno, cresceranno e lavoreranno nel Regno Unito, saranno parte di una manovra - e di un nuovo status - in larga parte non scelta da loro. Il voto, tuttavia, non ha diviso la società britannica solamente dal punto di vista generazionale. A pesare fortemente in questo scontro tra “resta” ed “esci” è stato anche il dato geografico: è qui che il Regno “Unito” ha mostrato la sua più profonda ferita. Innanzitutto, quella della Scozia. Il Partito Nazionale Scozzese (SNP) guidato dalla premier Nicola Sturgeon aveva giocato da subito le sue battaglie sull’opposizione alla Brexit e sull’indipendenza: fermento, quest’ultimo, mai sopito e che con i risultati del 12 dicembre è tornato ad essere più forte di prima. Dopo il referendum perso nel 2014, oggi gli indipendentisti, forti dei 48 seggi su 59 ottenuti alle recenti elezioni, ben 13 in più rispetto alle precedenti, chiedono un nuovo referendum per l’indipendenza dal Regno, a 312 anni dal Trattato di Unione. Intanto, la Prima Ministra Sturgeon, come riportato dal Sole24Ore, non ha abbassato la guardia e ha tenuto a precisare che i suoi elettori filoeuropeisti «vogliono che la Scozia possa determinare il suo futuro, e non debba sopportare un Governo conservatore per il quale non ha votato e che non debba accettare di vivere fuori dall’Unione Europea». Sturgeon sa bene quanto sarà difficile strappare a Johnson il consenso, ma è convinta anche che egli non possa sottrarsi, per dovere di democrazia, ad assecondare la richiesta in pieno diritto di gran parte dei cittadini scozzesi. Oltre la Scozia, poi, vi è la questione irlandese. Le elezioni hanno portato alla luce un risultato inaspettato per l’Irlanda del Nord, da molti definito quasi un “momento storico”: il DUP, Partito Unionista Democratico, storicamente conservatore e sostenitore dell’appartenenza al Regno Unito, ha perso due seggi passando da 10 a 8, probabilmente scontando l’alleanza antieuropeista stabilita con Boris Johnson. Di contro invece, i Repubblicani, sostenitori della riunificazione dell’Irlanda, hanno ottenuto più seggi, mentre il Sinn Féin ha mantenuto i 7 vinti due anni fa. Tutto ciò non è casuale, dato che i cittadini si sono dichiarati esplicitamente sfavorevoli all’uscita dall’UE e hanno ribadito la loro antipatia per il leader dei Tories. Di sicuro, la Brexit ha contribuito non poco al riaccendersi del fervore nazionalistico irlandese, aprendo le porte ad una possibilità fino ad ora remota: quella della riunificazione delle due Irlande tramite - anche qui - un referendum. Johnson sembra dunque non aver fatto i conti con tutti i componenti del Regno Unito, bensì solamente con quella parte di Inghilterra (Londra esclusa) e di Galles che lo hanno appoggiato nella sua battaglia e su cui ora detiene il controllo. Londra è rimasta roccaforte dei Laburisti, mentre tutto intorno, nella restante Inghilterra delle campagne e delle piccole città, la vittoria conservatrice è stata netta. In particolar modo, il colpo più duro da accettare è rappresentato dal crollo dei luoghi storicamente labour, dalle aree settentrionali del paese ai quartieri operai. Tra i tanti, Workington e Blyth Valley. Workington, bastione Laburista sin dal 1918, è stato il primo “muro rosso” veramente crollato: simbolo indiscusso di una classe media fieramente europeista che evidentemente sta iniziando a sfaldarsi. Johnson è riuscito a premere sugli euroscettici conquistando il 61% con il suo candidato Tory Mark Jenkinson e scardinando la candidata Labour di spicco Sue Hayman. Infine, il tracollo di Blyth Valley. Ancora nel 2015 e nel 2017 i Laburisti vincevano con numerosi punti di scarto sui Conservatori in questo collegio, eppure le carte in tavola si sono rovesciate in soli due anni. Ian Levy, deputato conservatore battuto nelle elezioni del 2017, quest’anno è riuscito a rifarsi e a superare il divario di voti, ottenendo solamente 2 punti in più dei Labour. “A pesare fortemente in questo scontro tra “resta” ed “esci” è stato anche il dato geografico: è qui che il Regno “Unito” ha mostrato la sua più profonda ferita.”

La sconfitta è sottilissima, ma la proiezione era inimmaginabile. Il completo capovolgimento a cui abbiamo assistito, in queste terre e in queste ore, è il sintomo e al contempo il risultato di problematiche più profonde e sicuramente al di là di Europa o non-Europa. Anche qui, inoltre, l’analisi dei voti è stata chiara, e ha confermato che a fare da ago della bilancia sono stati i cittadini anziani e di condizione socioeconomica medio-bassa, sicuramente legati al concetto e al valore dell’Europa molto meno di quanto lo fosse tutta il resto dell’elettorato e della popolazione. Marco Mancassola scrive così per Internazionale: «Tutto questo conferma ciò che è stato sempre evidente: la Brexit è una trappola tossica, un’equazione a risultato unico. Nel profondo, corrisponde a una disperata domanda inconscia (”chi vogliamo essere come nazione?”) cui sembra impossibile dare una risposta univoca, oggi, in una democrazia matura e complessa». Brexit, finally Nelle 60 pagine che costituiscono il programma elettorale dei Conservatori, lo slogan “Get Brexit Done” viene ripetuto per 23 volte. Il risultato principale del voto del 12 dicembre infatti è che ─ come scrive l’Economist ─ “per la prima volta dal referendum del 2016, è chiaro che la Gran Bretagna lascerà l’Unione Europea”. La maggioranza schiacciante del partito di Boris Johnson all’interno del Parlamento ha infatti permesso al Primo Ministro inglese di ottenere dalla Camera dei Comuni la prima approvazione del Withdrawal Agreement dall’Unione Europea, senza troppi problemi, il 20 dicembre. Secondo diverse previsioni, l’intero processo di ratifica dell’accordo si concluderà intorno a metà gennaio. Accordo che a ottobre è rimasto bloccato in Parlamento (visto che i Tories non avevano la maggioranza dei seggi) e che è stato alla base della scelta di indire nuove elezioni. Serve a definire “le modalità di recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione Europea e dalla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom)”, come si legge nel documento ufficiale dell’Unione Europea. Ma è adesso che inizia la grande sfida di BoJo. A partire dal 1° febbraio inizieranno le trattative tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna per la stipulazione di nuovi accordi commerciali. È il cosiddetto “transition period”, durante il quale i legami tra le due parti rimangono gli stessi anche se formalmente l’Inghilterra sarà già fuori dall’Unione. La scadenza per questa fase è il 31 dicembre 2020: data in cui, se non si sarà arrivati ad alcun accordo commerciale, le relazioni tra l’Inghilterra e i vari Paesi dell’Unione diventeranno quelle “standard” dettate dalla World Trade Organization. Nonostante nel Withdrawal Agreement fosse inizialmente menzionata la possibilità da entrambe le parti di richiedere un’estensione fino a uno o due anni, l’intera campagna elettorale dei Tories si è basata sulla promessa di un’uscita definitiva dalla UE entro la fine del 2020. Ed è stato proprio in virtù di questo che Nigel Farage, leader del Brexit Party, l’11 novembre scorso ha deciso di non dividere il fronte del “leave”, accettando di non presentare alcun candidato in 317 seggi che alle scorse elezioni erano stati vinti dai Tories. Oltrepassare la scadenza vorrebbe dire quindi deludere gran parte dell’elettorato inglese, insieme a qualche alleato politico. Anche per questo probabilmente BoJo ha deciso di rendere la sua promessa “vincolante” a livello legale non appena possibile: il 17 dicembre il governo ha confermato, dopo che la notizia era già stata diffusa dalle indiscrezioni dei media britannici, di aver inserito una nuova clausola nel Withdrawal Agreement con cui viene eliminata la possibilità di estendere il periodo delle trattative oltre il 2020. “La temuta ipotesi del “No Deal” si potrebbe ancora concretizzare e un periodo di transizione così breve ne acuisce ancora di più il rischio.”

Il tempo a disposizione per portare a termine le trattative è, quindi, di undici mesi. Per avere un termine di paragone, basti pensare che l’accordo CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) tra il Canada e l’Unione Europea ha richiesto sette anni di trattative. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in un discorso di congratulazioni a Boris Johnson all’indomani delle elezioni, ha definito le tempistiche della nuova fase “very challenging”. Ma il poco tempo disponibile sembra essere un fattore capace di mettere in difficoltà più i Tories che il blocco dodecastellato. Se da un lato infatti l’imposizione di una tabella di marcia ferrea ha fruttato bene in politica interna, dall’altro rischia di indebolire la posizione di Londra nei confronti di Bruxelles. Secondo un articolo del New York Times del 13 dicembre, infatti, il messaggio dall’Europa è che “le trattative possono essere veloci se l’Inghilterra accetta di mantenere le proprie tariffe e norme simili a quelle dell’Unione”. Nel caso BoJo voglia assicurarsi una maggiore libertà economica, i tempi si allungheranno inevitabilmente. Dopotutto, è comprensibile che Bruxelles non voglia lasciare facilmente campo libero a un potenziale grosso avversario, molto vicino e con condizioni economiche favorevoli. Ivan Rogers, ex-delegato dell’Inghilterra in Unione Europea, ha dichiarato all’Observer che le strette tempistiche promesse da Johnson potrebbero obbligare Londra ad accettare maggiori compromessi. Per poi proseguire spiegando che a Bruxelles, probabilmente, avranno l’impressione che gli inglesi siano “in qualche modo con l’acqua alla gola”. Supposizioni che in parte trovano conferma nelle dichiarazioni di Ursula Von der Leyen del 13 dicembre, che secondo quanto scrive il Guardian ha espresso la volontà di dare la priorità ai punti più importanti, come lo scambio di merci e l’attività di pesca, lasciando il resto a dopo il 2020. “Un tale processo a tappe sarebbe però sgradito a Downing Street, e anche molto difficile da completare”, fa notare il quotidiano inglese. In pratica, si tratterebbe di concludere un accordo iniziale lasciando però fuori alcuni punti meno urgenti come il settore dei servizi finanziari e i diritti di atterraggio dei corrieri aerei inglesi. Ma l’opzione più estrema rimane quella di un’uscita senza accordi commerciali. La temuta ipotesi del “No Deal”, infatti, si potrebbe ancora concretizzare e un periodo di transizione così breve ne acuisce ancora di più il rischio: secondo quanto scrive il New York Times, una trattativa commerciale “rapida” è considerata un ossimoro dagli esperti del settore e potrebbe benissimo non andare a buon fine, riportando la Gran Bretagna e Bruxelles nella prospettiva di un No Deal. Il che vorrebbe dire gravi conseguenze sull’economia inglese, o quantomeno incerte. In un’analisi dell’Independent di metà dicembre, il No Deal viene presentato ai lettori in questi termini: “immagina cosa comporterebbe per te una diminuzione del 10% del tuo stipendio netto e della qualità dei servizi pubblici”. Non è un caso se, non appena si è diffusa la già citata notizia della nuova clausola nel Withdrawal Agreement, il valore della sterlina è calato a picco rispetto ai valori appena post-elezioni, quando il pound aveva gioito per la mancata vittoria dei Laburisti e della loro politica economica da “hard-left”, come la definiscono i tabloid britannici. Nel frattempo, la prospettiva di un’uscita definitiva dall’Unione Europea - con o senza deal - ha fin da subito attirato le mire di un altro importante giocatore delle partite mondiali. Non appena diventata chiara la vittoria elettorale di Boris Johnson, Trump ha pubblicato un tweet in cui, oltre alle congratulazioni, ha fatto notare che “USA e UK saranno libere di stipulare un nuovo, massivo accordo commerciale dopo la Brexit. Questo accordo ha la possibilità di essere ben più vantaggioso di qualsiasi accordo con l’UE”. Proprio l’accordo tra i due Paesi anglofoni è stato al centro di numerose polemiche: soprattutto per quanto riguarda l’NHS, la sanità pubblica inglese. Quest’ultima è stata infatti l’altro grande argomento del dibattito pre-elezioni, nonché uno dei punti forti della campagna dei Laburisti, i quali hanno ripetutamente accusato i Tories di averla trascurata negli anni e di volerla “svendere” alle industrie farmaceutiche americane una volta chiuso il capitolo Brexit. “La Brexit ha contribuito al riaccendersi del fervore nazionalistico irlandese, aprendo le porte ad una possibilità fino ad ora remota: quella della riunificazione delle due Irlande tramite un referendum.”

Tra alti e bassi dei mercati, mosse politiche a sorpresa e ingerenze politiche estere, il nuovo anno per gli inglesi si prospetta non meno concitato dei precedenti. Nonostante Ursula Von der Leyen abbia definito la Brexit “non la fine di qualcosa, ma l’inizio di eccellenti future relazioni tra buoni vicini di casa”. God won’t save the Queen anymore Lo scorso 5 settembre, il Regno Unito era nel bel mezzo della cosiddetta “prorogation crisis”: Boris Johnson aveva chiesto alla Regina (che per prassi era praticamente tenuta ad accettare) di sospendere il Parlamento per il mese di settembre, in modo tale da rendere più difficile un’opposizione alla hard Brexit che il primo ministro britannico voleva ottenere il 31 ottobre. Proprio il 5 settembre il Guardian pubblicava un editoriale, firmato da Jemma Neville, il quale argomentava che questa crisi parlamentare fosse la dimostrazione che il Regno Unito ha bisogno di una costituzione scritta. Un articolo perfettamente adeguato a ciò che, contemporaneamente, stava accadendo nella Camera dei Lords. La camera alta aveva la possibilità di votare le mozioni in opposizione al No Deal entro le 17 di venerdì 6 settembre; ma per una tradizione risalente alla notte dei tempi, una giornata parlamentare non si interrompe finché in aula va avanti il dibattito. E così, la strategia dei Tories per fare ostruzionismo ha portato la seduta di mercoledì 4 settembre a durare circa due giorni. Scene grottesche come questa sono solo il lato ironico della vera e propria crisi di sistema che sta alla base dei tormenti del Regno Unito in questo periodo storico. Basta un dato per riflettere: alle ultime elezioni i partiti favorevoli alla Brexit (Conservatori, Brexit Party, DUP) hanno raccolto in totale il 48% dei consensi circa, contro il 52% dei partiti contrari (Labour, LibDem, SNP, Verdi e nazionalisti irlandesi). Nel fronte del “Remain” hanno pesato, però, le spaccature interne ormai tipiche degli schieramenti progressisti europei. E soprattutto, in maniera netta ha influito il sistema elettorale britannico: un maggioritario secco (il cosiddetto “first-pastthe-post”) da sempre elogiato come modello di governabilità anche da chi lo vorrebbe riprodurre in Italia, “per sapere la sera delle elezioni chi ha vinto”. Ma che è anche capace di produrre storture grossolane, come assegnare ai Tories il 56% dei seggi avendo ottenuto il 43% delle preferenze. Come un cane che si morde la coda, un sistema di uno contro uno di questo tipo ha favorito una polarizzazione sul tema più divisivo e invasivo, ovviamente la Brexit. Chi ha saputo prendere posizione “Un sistema maturo non può, in nome della governabilità, fornire in Parlamento un’immagine totalmente inconciliabile con le proprie divisioni interne” in questa contrapposizione ha guadagnato (i Conservatori ovviamente, ma in misura minore anche SNP e LibDem); chi ha provato a rovesciarla o ad ignorarla ha perso: il Labour, ovviamente. Eppure, una democrazia sana non può basarsi su consuetudini di epoca normanna. E un sistema maturo non può, in nome della governabilità, fornire in Parlamento un’immagine totalmente inconciliabile con le proprie divisioni interne. L’idea che la Brexit non sia figlia di una sbornia collettiva, ma di una crisi sistematica presente già da molto tempo (oltre a pulsioni antieuropeiste mai del tutto celate), non può che farsi, lentamente, strada. di Francesca Asia Cinone, Simone Martuscelli e Francesco Paolo Savatteri

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