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e Lorenzo Scotto di Carlo Adriano Bordoni, Cosimo Maj di Ogni maledetta domenica

Ogni maledetta domenica --------------------------------------------------------------------- Lo stato attuale dell’ultras in Italia oltre l’iconografia mediatica con Giancarlo Capelli, il Barone

Giancarlo Capelli, detto il Barone, è un veterano dello stadio. Sostiene il Milan dagli anni ’60, dall’età di 15 anni, prima ancora che nascesse il primo gruppo ultras italiano della storia, La Fossa dei Leoni.

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Ripercorriamo con lui 50 anni di storia ultras, dalla nascita dei primi gruppi nel contesto generale delle rivolte giovanili del ’68, al rapporto con lo stato al mutamento dell’industria calcistica con il conseguente cambiamento di approccio allo stadio, inteso come luogo di aggregazione.

Il movimento ultras pone le sue radici in Inghilterra con gli hooligans. L’etimologia è estremamente significativa: gli hooligans nascono inizialmente come un fenomeno di estremizzazione della sottocultura punk. La parola deriva da Hooley’s gang, un gruppo di teppisti di origine irlandese attivo nella Londra di fine Ottocento. Già nei primi anni del Novecento comportamenti e linguaggi derivati dalla strada cominciano a riproporsi negli stadi, con invasioni di campo ed aggressioni nei confronti di arbitri e giocatori. Il movimento hooligan propriamente detto vede la sua nascita negli anni ‘60, quando il preesistente disagio sociale della working class trova la sua valvola di sfogo sugli spalti degli stadi, con la formazione veri e propri gruppi organizzati, chiamati firm o crew. Il tifo, per l’hooligan, assume il significato di una lotta di supremazia nei confronti delle altre firms, indipendentemente dal verdetto del campo. Che la propria squadra vinca o meno è del tutto ininfluente. Gli scontri tra le diverse firm cominciano ad assumere, per le modalità di esecuzione e di organizzazione, delle sfumature belliche, con lanci di oggetti e invasioni di settori rivali che diventano la liturgia della domenica sportiva. In Italia il movimento ultras arriva come prodotto di importazione, filtrato da un sistema di valori culturali e sociali contraddistinto da una forte componente campanilistica. Il primo gruppo ultras italiano è la Fossa dei Leoni, nato dalla tifoseria milanista nel 1968. “Inizio ad andare allo stadio a 14-15 anni, prima della nascita della Fossa, quindi parliamo del ‘64-’65. - ci racconta il Barone - La Fossa si è formata e subito posizionata nella rampa 18 sul secondo anello arancio di San Siro”. Lo storico gruppo nasce dallo stesso contesto di disordine sociale che aveva costituito il propellente principale delle rivolte giovanili italiane di quegli anni in Italia, concretizzandosi lungo direzioni diverse da quelle delle rivendicazioni politiche: “Anche se politicizzata (a sinistra, ndr) la nostra non era una curva divisa, non ci sono mai state situazioni in cui ci siamo divisi per motivazione politica: la prima cosa era il Milan. Erano altre tifoserie che facevano politica. Allo stadio c’è ogni tipo di persona, dall’impiegato allo studente o all’operaio”. La curva si configura come il luogo di superamento di qualsiasi disparità sociale, all’insegna dell’unità del gruppo e della tifoseria in generale.

L’impeto giovanile che ha portato a scendere in piazza migliaia di ragazzi, diviene ora fertilizzante per riempire i settori popolari degli stadi. Tra gli spalti i giovani riescono a trovare nuovi punti di riferimento, totalmente slegati da quelli tradizionali. Lo stadio come abitudine familiare, come usanza trasmessa dalle figure paterne viene proiettata nell’ottica di gruppo, diventando così un luogo dove i tessuti sono tenuti insieme non dalla parentela, ma da nuovi valori, alienati rispetto a quelli della società civile. In scia alla Fossa iniziano a formarsi gruppi ultras in tutta Italia: i Boys dell’Inter, gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria, i Commandos del Torino sono i primi inseguitori, tutti nati nel ‘69. La prima evidenza che simanifesta approcciandosi al mondo ultras è la potenza aggregativa della curva.

Se si voltano le spalle al campo, a favore della massa che la anima, si nota un corpo unico, animato da figure che condividono l’esperienza del tifo senza distinzioni di sorta. Unita ad una progressiva diminuzione di spazi di socialità ed aggregazione questa è la ragione di fondo per cui l’ecosistema ultras ha sempre attirato e fidelizzato un grande numero di persone, offrendo loro la possibilità di identificarsi e trovare loro un posto in un gruppo. La potenza del gruppo non è solamente quella della pluralità dei suoi componenti, ma quella della loro solidarietà, uniti dalla stessa fede calcistica e dalla stessa concezione dello sport, concedendosi una legittimazione su questo nuovo stile di vita. Uno stile di vita che contempla anche, e soprattutto, lo scontro con le tifoserie nemiche;

“combattere” a fianco dei propri compagni non può che rafforzare il tessuto connettivo e tenere alto il livello di adrenalina nel corpo. Nonostante il gruppo si identifichi soltanto per l’attaccamento alla maglia e ai colori, l’ideologia, dati soprattutto i tempi, rimane comunque una presenza palpabile.

"Allo stadio c’è ogni tipo di persona, dall’impiegato allo studente o all’operaio"

“Le Brigate rossonere sono nate in un centro sociale, io sono stato in Brigate per vent’anni, però per dirti sono più schierato a destra. Non dico che non c’erano le ideologie, Milano poi era una piazza molto forte”. La natura politica di una curva come quella del Milan si può raccontare con l’esempio della bandiera di Che Guevara, figura che esplicita il desiderio di rivoluzione che con l’ideologia condivide i simboli ma che si muove su di un altro binario. “Siamo sempre riusciti a mettere da parte la politica, siamo riusciti a fare questo io e le persone che lo hanno voluto. Anche perché io posso sempre proporre qualcosa e se gli altri non lo accettano la cosa non si fa. La politica divide. Ma nel caso degli ultras non mi vengono in mente esempi di casi in cui sia successo, anche perché di base in curva vale la legge del più forte, non è che ci sta molto da dividere. La cosa si basa sui leader, le figure di riferimento. Può prevalere l’ideologia, ma poi si rimescolano e ne parlano”.

Dalle parole del Barone emerge quanto siano importanti le personalità nelle curve, che riescono a gestire il gruppo e a tessere alleanze con altre tifoserie: i gemellaggi. Questi vedono la loro nascita per motivazioni storiche, come quello tra tifoserie dell’Inter e della Lazio, diventate curve amiche dopo il gemellaggio tra le rispettive rivali Milan e Roma, o proprio a causa di simpatie personali tra i principali esponenti della rispettive curve in quel momento storico, come nel caso di Genoa e Napoli. Senza dimenticare che nell’emisfero ultras vige la regola del beduino: un amico di un mio amico è un amico, il nemico di un amico è un nemico, l’amico di un nemico è un nemico e così via. Il gemellaggio spesso porta le curve ad unirsi sugli spalti reciprocamente. Quando una tifoseria di una metropoli incontra quella di provincia, si innesca un processo osmotico molto forte alla base del movimento ultras. La prima può contare su grandi numeri, la seconda su un grande attaccamento al proprio territorio e alla squadra che milita in divisioni minori.

Un processo che si è affievolito nel tempo, con l’evoluzione dell’industria calcistica nei grandi centri urbani. Tuttavia, in uno stadio come San Siro, era ancora possibile respirare un’aria “popolare”. Difatti, quando ancora le uniche divisioni per i posti allo stadio erano tra i cosiddetti “popolari”, “distinti” e “parterre”, nei primi, i settori più economici, non si aveva un proprio posto a sedere, c’erano le gradinate. Ciò comportava code lunghissime e sgomitate per accaparrarsi il posto migliore; e sono proprio i settori popolari, le curve, a diventare i gli attori protagonisti rubando la scena al campo e portandola sugli spalti. “Sotto al settore della Fossa poco tempo dopo la fondazione si sarebbero formati i Boys dell’Inter. Una cosa del genere oggi non potrebbe mai esistere. C’erano gli sfottò, ma non ci sono mai state troppe tensioni. Poi la curva dell’Inter si è spostata definitivamente nel secondo anello verde. Ho fondato il gruppo Nobiltà Rossonera nel ‘79 che si inquadra all’interno dei Commandos Tigre al primo anello verde, sotto i tifosi interisti durante il Derby e sotto le tifoserie ospiti durante le altre partite. Ti puoi immaginare cosa succedeva ogni volta, ti lanciavano oggetti e allora tu salivi e c’era lo scontro. Questo succedeva ogni domenica”. Lo scontro fa parte dell’essere ultras. Nello status di hooligan inglese raggiunge una dimensione fortemente bellica. Nelle pagine della biografia scritta da Cass Pennant, ex leader di una delle più rilevanti firm della storia del football inglese, l’Inter City Firm dei supporter del West Ham, si evince come ad un certo punto l’unico obiettivo del suo gruppo fosse quello di invadere il settore avversario, conquistarlo. In Italia la dimensione bellica si ripropone nell’attaccamento al luogo di provenienza, riflettendosi nei rapporti tra le curve, che si scontrano per difendere il proprio territorio e conquistare quello altrui. In questo gioco di parti uno dei ruoli principali è incarnato dallo striscione, la cosiddetta pezza. “Quando alla Fossa dei Leoni rubarono lo striscione nel 2005, il gruppo si è sciolto. In questi casi è un obbligo che il gruppo si sciolga. Chi ha in mano il drappo ha una grande responsabilità, piuttosto che perderlo ti fai ammazzare. Chi lo perde va via dalla curva, è la regola principale del mondo ultras” racconta il Barone. I disordini all’interno degli stadi provocano nell’arco del tempo gli eventi che, tra tutti, rendono visibili gli ultras agli occhi dell’opinione pubblica e dei media. Vincenzo Paparelli, tifoso della Lazio, venne colpito in volto da un razzo sparato dalla Curva Sud della Roma durante il derby del 10 ottobre 1979. Il mondo ultras reagì in modo assolutamente contrario, poiché la dinamica della morte di un tifoso non dovrebbe far parte del mondo dello stadio: lo scontro deve avvenire solo con le mani, senza uso di armi di ogni tipo. Arrivarono, inoltre, anche le prime misure restrittive da parte dello Stato, che proibì l’entrata, in entrambe le curve romane, di striscioni, bandiere, tamburi e materiale pirotecnico. Dal caso di Paparelli fino ai primi anni ‘00 la mano dello stato si è mossa sempre più intensamente verso una forte repressione del tifo ultras allo stadio. Parallelamente la domenica si sono consumate sempre più tragedie. Il vero punto di rottura, non solo a livello italiano, ma sul piano internazionale è stato la tragedia dell’Heysel, sede della finale di Coppa dei Campioni del 1985, dove persero la vita 39 tifosi juventini dopo il crollo di un settore dello stadio, a seguito della carica degli hooligans del Liverpool. L’evento ha un impatto drastico sul rapporto tra stato e ultras. In Inghilterra la Iron Lady, Margaret Thatcher, applicò misure pesantissime nei confronti degli Hooligans. Il tragico evento fu letto negativamente dagli stessi protagonisti. Riprendendo l’opera di Cass Pennant: “La visione in tv dei tragici eventi svoltisi nello stadio Heysel, in Belgio, nel 1985, mi colpì moltissimo personalmente, un effetto molto simile alle emozioni suscitate in tutto il mondo dai fatti dell’11 settembre (...). “Lo scontro fa parte dell’essere ultras. Nello status di hooligan inglese raggiunge una dimensione fortemente bellica.”

Non fui l’unico a provare ciò che provai. Fu come un gigantesco risveglio per tutti noi. Da ex hooligan calcistico ho spesso pensato che gli eventi dell’Heysel ci abbiano aiutato a uscire da quel mondo pericoloso, di cui avevamo fatto parte per così tanto tempo”.

In Italia venne fondata, sempre nel 1985, sotto il Governo Craxi, una commissione parlamentare sulla violenza nel mondo del calcio, ma si dovette aspettare quattro anni prima dell’arrivo di una risposta che andasse a colpire nel profondo gli ultras: la legge 401/89 che istituì il Daspo (acronimo di divieto di accesso alle manifestazioni sportive) a seguito della morte del tifoso romanista Antonio De Falchi fuori da San Siro prima di un Milan-Roma. Il Daspo, o diffida, è la misura restrittiva che non permette a chi ne è colpito ad andare allo stadio, dovendo andare in questura a lasciare la firma. È lo strumento che più di tutti lo stato utilizza per inibire la dirompenza degli ultras, in un’ottica allineata a quella che è la narrativa mediatica puntata a colpire il singolo colpevole. Per quanto se ne possa comprendere l’utilità, è innegabile quanto l’abuso di questa legge abbia creato un clima di caccia alle streghe e riducendo lo spazio di movimento fuori e dentro lo stadio, ed accrescendo il clima di tensione. “Io ho preso il Daspo per ‘camminata furtiva’ o perché ero seduto in transenna. Ci sono delle situazioni in cui le forza dell’ordine hanno delle pressioni dall’alto per le quali deve prendersela con noi, tanto il tifoso ultras è sempre malvisto, in Italia particolarmente. Questo perché noi spostiamo una massa di persone provenienti da tutte le classi sociali”. Per il tifoso diffidato la principale delle conseguenze del Daspo è la separazione dall’ambiente che lo ha accolto e protetto negli anni passati, la curva. Messo a parte dalla vita sugli spalti, la frustrazione del diffidato cresce, così come quella dei suoi vecchi compagni di curva, e si diffonde la sensazione di aver subito troppo: “poi fai svelto a mettere insieme tanta roba, tanta gente cerca solo un pretesto per fare cose che non deve fare.

La rabbia sociale degli ultimi tempi è tanto tempo che non la vedevo in giro. Io sono un pacifista, ho fermato le guerre, ma questi continui ‘No’ e questa repressione stanno portando ad una reazione da parte di tanti degli addetti ai lavori”. La gestione del risentimento dei tifosi diviene in tal modo un dato significativo, specie per gli organismi statali chiamati a tenere sotto controllo l’ecosistema ultras. Adottare un numero eccessivo di misure di contenimento, come il non adottarne affatto, conduce all’esplosione della violenza. Ci racconta ancora il Barone: “Capisci, se queste situazioni non le controlli diventano problematiche. Quando partiamo assieme sanno che siamo un pullman, due pullman, sei controllato. Ma se della gente parte alla spicciolata, si arriva ad un autogrill e si incontra un’altra tifoseria si giunge allo scontro. Dimmi, tu pensi vogliano sciogliere i gruppi ultras? Se li avessero voluti sciogliere lo avrebbero già fatto”. Nell’arco del tempo, una serie di elementi come la pressione statale, i rapporti incrinati con le società e una fruizione sempre più impegnativa del calcio allo stadio, a causa dello sviluppo della pay tv e del progressivo aumento del caro biglietti hanno portato il mondo del calcio a non rispecchiare più quegli antichi valori, che tutt’ora costellano l’iconografia ultras. Il “No al calcio moderno” vige come leitmotiv della retorica da stadio da molto tempo a questa parte. “Con le nuove norme se tu provi a prendere il sopravvento sugli altri è lo stato che ti stronca subito. I giovani cosa pensano di fare, di usare la violenza? Ma si rovinano, e i giovani non se ne rendono conto. E’ giusto non subire, ma se pensano di andare a fare la guerra allo stato perdi sempre, devi sempre far funzionare la testa: la violenza porta violenza”: così il Barone riassume l’attuale stato dell’arte del tifo organizzato in Italia. Fuori dal contesto nazionale, laddove la giurisdizione sul calcio è meno pressante e il controllo statale meno repressivo, l’ultras ha un raggio d’azione decisamente più ampio: “In Europa la tifoseria che fa più paura è quella greca. Sono una cosa pazzesca, più di serbi, croati, rumeni e slavi. Vogliono sentire lo scontro e ciò dipende dalla loro situazione sociale.

Negli ultimi tempi i paesi dell’Est sono totalmente focalizzati sullo scontro, anche per le classi sociali e le situazioni che vivono da loro, mentre un tempo la violenza non era a questi livelli. Una scena come quella dell’anno scorso in Europa League del Milan ad Atene (contro l’Olympiacos, ndr) non l’avevo mai vista. In Italia una cosa del genere non sarebbe mai ammissibile oggi. Scene simili succedevano in Italia negli anni ’60 e ’70”. Sulla falsariga di quanto affermato dal Barone un altro esempio che racconta gli aspetti del tifo in Europa orientale è quello della Bulgaria, dove la violenza è concepita su delle direttrici precise, senza aspirazioni a creare scompiglio sociale: essa è regolamentata, codificata. Lo scontro è pianificato dagli ultras in modo tale che le parti si ritrovino in situazione di parità: privi di armi, in un luogo stabilito, pari numero e senza possibilità che componenti esterni possano essere coinvolti. Le condizioni sociali in cui si formano le realtà ultras più estreme riconducono alla logica del campanilismo: la retorica ultras si connette con il campo perché la maglia che indossano i giocatori è carica di valori che vengono impartiti dai tifosi. Il campanilismo, come già detto, è il principale costituente del mondo ultras, e se da una parte (evidenziando le differenze tra una tifoseria e l’altra) esso costituisce il pretesto e l’anima dello scontro, dall’altra rappresenta il collante fondamentale tra i vari gruppi che animano l’ecosistema del tifo, legati tra loro attraverso l’adesione a sistemi valoriali differenti da quelli della società civile. Se la prima condizione in Italia è stata frenata dagli interventi dello stato, della federazione calcistica italiana e delle società stesse, la secondaè ancora ben radicata nell’immaginario del tifo organizzato. I princìpi rivendicati dagli ultras - la lealtà verso il proprio ambiente e l’attaccamento al proprio stile di vita su tutti - nel frangente della progressiva riduzione degli spazi di manovra disponibili ai tifosi, si coniugano nell’unico orizzonte di senso ancora significativo per il mondo ultras italiano, quello di una battaglia trasversale per mantenere in vita una weltanschauung messa alle corde. Gli unici momenti in cui tutte le curve si sono riunite sotto un’unica bandiera, “oltre i colori” come si può leggere negli striscioni, coincidono con quegli avvenimenti drammatici che hanno sconvolto l’intero movimento ultras. Sono esempi di questo la morte di Vincenzo Spagnolo, sostenitore del Genoa, accoltellato da un tifoso milanista durante degli scontri fuori da Marassi, lo stadio di Genova, piuttosto che quella di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, ucciso dal pubblico ufficiale Luigi Spaccarotella nel 2007, in un autogrill dove si stavano scontrando ultras laziali e juventini. Il primo caso ha portato ad una presa di posizione unita da parte di tutte le curve italiane (escluse quella del Milan e quella del Torino), esplicata in un comunicato che rivendica il significato di essere ultras: “Basta lame, basta infami”. Il secondo, avvenuto pochi mesi dopo la morte dell’agente di polizia Filippo Raciti nei tafferugli nel derby siciliano Catania-Palermo, ha coinvolto e colpito nel profondo il movimento. Se dopo la morte di Raciti la giornata di Serie A venne rimandata dalle istituzioni, a seguito della morte di Sandri furono gli ultras a impedire che si giocasse. In quei giorni furono protagonisti gli episodi di guerriglia urbana tra gli ultras tutti uniti e le forze dell’ordine. Ritrovare quindi la totalità di questi ambienti ultras accomunati da un unico obiettivo rappresenterebbe una nota inedita nel panorama attuale: “l’unico movimento che può far paura è il movimento ultras unito”, conferma il Barone. L’ultima questione implicata nella mutazione del codice genetico del tifo organizzato italiano è quella dell’abbattimento del sistema di simbolismi calcistici la cui punta dell’iceberg è rappresentata da quei giocatori che più di tutti riescono a trasmettere i valori propri dei tifosi in campo. La dissoluzione forzata dei giocatori-simbolo coincide con una delle più sostanziali incrinature nei rapporti tra i club e le rispettive tifoserie. L’esempio più recente di questo processo è quello dell’ex capitano della Roma, Daniele De Rossi, che dopo il forzato divorzio dal club capitolino ha finito per trovare asilo non a caso tra le mura della Gerusalemme calcistica, Buenos Aires. di Adriano Bordoni, Cosimo Maj e Lorenzo Scotto di Carlo, con la collaborazione di Flavio Lorenzoni “Ritrovare la totalità di questi ambienti accomunati da un unico obiettivo sarebbe una nota inedita: "l'unico movimento che può far paura è il movimento ultras unito"”

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