16 minute read

e Giulio UccieroSusanna Rugghia, Luigi Simonelli di Il disaccordo del secolo

Il disaccordo del secolo -------------------------------------------------------------------- Come il piano per la risoluzione del conflitto israelo -palestinese di Trump si riflette nelle risposte del mondo arabo

Per Marco Carnelos, ex ambasciatore in Iraq ed ex inviato speciale per la Siria e il processo di pace israelo-palestinese, la domanda che guida e struttura la narrazione dell’area in cui secondo l’Arab Human Development Report del 2016 si sono verificati il 17% dei conflitti mondiali dal 1948 al 2014 è: gli USA stanno dimostrando di perdere in Medio Oriente la propria egemonia? L’ultimo successo diplomatico effettivo degli Stati Uniti, prima dell’accordo sul nucleare del 2015 faticosamente strappato da Obama all’Iran, risale al 1978 con la pace di Camp David. Il cosiddetto “asse della restaurazione” – composto da Egitto, Arabia Saudita e Israele – fedele agli USA non presenta spesso una guida chiara: dunque, il giornalista Alan Friedman durante la conferenza Perché le guerre in Medio Oriente non finiscono mai si domanda come si debba decifrare la linea politica americana nella regione. Che, a dispetto della retorica trumpiana della smobilitazione militare e del “disimpegno”, ha visto in Medio Oriente negli ultimi 3 anni un aumento tra le 16 e le 18 mila unità. Carnelos osserva come il fulcro della questione riguardi un asset culturale connaturato al DNA occidentale: il bisogno patologico dell’Occidente di un nemico che consenta l’innesto di un rafforzativo identitario. È così che anche il progetto di pace israelo-palestinese rischia di configurarsi nient’altro che come l’ennesimo diktat di un giovane impero incapace di imporre un controllo capillare sul Mediterraneo orientale. L’“accordo del secolo”, come ama definirlo Trump, viene presentato il 28 gennaio scorso alla Casa Bianca in presenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu e degli ambasciatori di Oman, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti.

Advertisement

Le parole chiave dei due leader consistono nella consunta formula della “soluzione dei due Stati”, principio nato con gli accordi di Oslo del 1992 dall’esigenza di disinnescare la dominazione dei milioni di arabi della zona dopo la storica conquista della Palestina del 1967, a seguito della Guerra dei sei giorni che vide l’annessione della penisola del Sinai e la Striscia di Gaza all'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. L’oltretomba di questo principio fa capolino all’indomani degli accordi quando Yitzhak Rabin, il primo ministro israeliano che aveva firmato l’accordo di Oslo, viene assassinato da un estremista di destra ebreo nel 1995. Peccato comunque, incalza il giornalista canadese Gwynne Dyer in un articolo pubblicato da Internazionale il 20 gennaio, che durante l’incontro tra i leader non ci fosse neanche un palestinese. Erano in migliaia a Ramallah l’11 febbraio a protestare contro il piano Trump, e secondo i dati diffusi dal Centro per la ricerca politica di Ramallah solo il 39% di loro sostiene la soluzione dei due Stati e il 61% pensa che questa possibilità sia tramontata da tempo a causa dell’espansione degli insediamenti coloniali israeliani. Il 65% chiede al presidente Abu Mazen di troncare le relazioni con Israele e gli USA, ma il 68% non crede che il presidente interromperà il coordinamento tra i servizi di sicurezza dell’Anp con l’intelligence israeliana. Assenti all’appello della Casa Bianca anche i rappresentanti del tradizionale asse mediorientale filostatunitense: Egitto, Arabia Saudita – tra l’altro partner dell’iniziativa – e infine la Giordania. Il quadro strutturale del piano di oltre 180 pagine che pren de il palliativo nome di Peace to prosperity: A vision to improve the Lives of the Palestinian and Israe li People è stato eloquentemente definito da Daniel Levy, presi dente del U.S./Middle East Project: “A hate plan, not a peace plan.”

“Le parole chiave dei due leader consistono nella consunta formula della ‹‹soluzione dei due Stati››”

Il documento presenta quattro punti salienti e di fondamentale portata politica: in primis Israele mantiene la maggior parte di Geru salemme come sua capitale sovrana, lasciando ai palestinesi i sobborghi di Abu Dis e dintorni come loro capitale; in secondo luogo i palestinesi non ottengono alcun diritto al ritorno; vengono ridiseg nati poi i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania – con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% della Cisgiordania, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai; infine è sanci ta la creazione di uno stato per i palestinesi, ai quali è tuttavia in terdetto il controllo dei confini e su cui si impone la smilitarizzazione. Inoltre, le disposizioni del pe rimetro economico prevedono tra i provvedimenti più impor tanti investimenti per 50 miliardi di dollari nei territori occupati, senza precisare come i fondi saranno investiti e senza affron tare problemi estremi come la situazione umanitaria legata al collasso nella Striscia di Gaza o alla scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. L’intero accordo finale dovrà essere, infine, negoziato nei prossimi quattro anni con l’impegno degli israeliani, seppur in mancanza di qualsiasi vincolo concreto, a conge lare qualunque nuova costruzione di insediamenti nei territori occu pati. Dal canto suo il presidente palestinese Abu Mazen, intervenuto durante il Consiglio di Sicurezza dell’ONU il giorno stesso della manifestazione a Ramallah, ha ancora una volta preso le dis tanze dall’iniziativa americana ribadendo la necessità di nego ziare lo status di Gerusalemme e dichiarando “l’accordo tra Stati Uniti e Israele un modo per mettere fine alla causa palestinese”. Ma ritiene esista ancora una possibilità di pace, che non esclude affatto Trump dalla negoziazione: gli USA non possono semplicemente essere i soli interlo cutori della mediazione tra Palestina e Israele. Tuttavia il negoziato in Medio Oriente dovrebbe configu rarsi come “un processo di pace internazionale guidato dal Quartetto” – USA, Russia, Onu e UE. Dall’altra parte del tavolo delle trattative gli stati della Lega Araba votano in coro contro il piano di pace di Trump. Ma resta aperto l’interrogativo se si possano effettivamente dire così uniti attorno alla causa palestinese.

Vicini a parole, lontani nei fatti L’accordo farsa è il nome più in dulgente tra quelli che ci giungono dal Cairo. Tra le vetture che escono ed entrano dalla capitale egiziana, sede del summit straordinario del la Lega Araba, sono diverse quelle appartenenti ai corpi istituzionali e diplomatici dei rappresentanti me dio-orientali. Tanti no echeggiano dai palazzi di potere dove si ritro vano attoniti gli organi decisionali. Eppure, di potere si può parlare? La questione è se si possa davvero discutere di capacità decisionale se infine una decisione, o perlo meno una discussione virtuosa e multilaterale, non c’è mai stata.

“Eppure, di potere si può parlare? La questione è se si possa davvero discutere di capacità decisionale se infine una decisione, o perlomeno una discussione virtuosa e multilaterale, non c’è mai stata.” Il piano Trump, approvato o bocciato che sia, non ha previsto consultazioni di parti esterne se non quella israeliana. Tolto l’amico Netanyahu, nessun altro presiden te della regione ha avuto colloqui con Washington. La Palestina, una delle due parti direttamente coin volte dal Great Deal trumpiano, non ha mai avuto voce in cap itolo. L’esclusione delle parti avverse, che si ritrovano poi sì ad opporsi al duo Occidentale (considerando Israele potenza filoamericana), le rende impo tenti. E questa umiliazione non è rimasta inespressa. Gli stati arabi tutti sono stati insultati da questo piano. La Lega tutta ha bocciato il Peace to Prosperi ty di Trump. O quasi. La Lega Araba adotta una risoluzione per respingere l’arrogante pia no di “pace”. Tutti i 22 ministri degli Esteri dell’organizzazi one votano all’unanimità, opponendosi sul piano formale all'accettazione della proposta americana per risolvere una delle contese politico-territo riali più lunghe e complesse della storia. Facendo ordine tra le voci giunteci in questi gior ni, purtroppo, vediamo come la nettezza di Abu Mazen, che durante la riunione straordi naria pacatamente grida “No al Piano Trump”, non troverà riscontri eccessivi nelle sue controparti. Dal canto suo, il presidente palestinese non ac cetta la ghettizzazione del proprio popolo, che condannerebbe a vivere in un sistema proto-sudafricano, all’interno di un territorio sorvegliato e con finato dalle truppe israeliane. E i suoi delegati sono dello stesso avviso. Il capo della delegazi one palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot, disdegna allo stes so modo dichiarando a Reuters che quello proposto non è un accordo di pace, ma una bantustanizzazione della Palestina e del suo popolo. Tra tanti slogan che si trovano a seguito di queste proteste, ce n’è uno che spicca: Abu Mazen ha dichiarato di non voler esser ricordato come colui "che ha venduto Gerusalemme". Già da qui, tristemente, trapela più timore che battaglia. La voglia di rivalsa c’è, ma davanti alla non proposta di un’alternativa emerge soprattutto la paura del leader palestinese di dover cedere ad una compravendita svantaggiosa. Il tour di supporto continua: da Riyadh con una mano il re saudi ta, Salman bin Abdulaziz Al Saud, rassicura che l'Arabia Saudita sta sempre con i palestinesi, men tre con l’altra porta avanti il suo giro d’affari miliardario con l’am ministrazione americana (vedi, su Scomodo n.25, Il Karma del Golfo); da Istanbul un forte messaggio arriva dal presi dente Erdogan, che davanti ai membri dell’AKP giura di sostenere sempre i fratelli palestinesi contro i soprusi colonialisti di Israele, fingen do così preoccupazione politica quando il fronte libico impegna ogni suo pensiero; Amman condanna le vel leità espansionistiche di Netanyahu, subito dopo averci firmato un trattato di pace. Con il Libano infuocato dalle proteste che vanno avanti da mesi e la Siria ormai sem pre più sinonimo di tragedia umanitaria, l’unico sincero appoggio è quello iraniano. La guida suprema Ali Khame nei ribadisce che la Palestina appartiene ai palestinesi, aborrendo la sfacciataggine statunitense. “L’accordo del secolo morirà prima di Trump” e la folla di Teheran plaude in sostegno alla Pales tina, come riferisce l’agenzia di stampa ufficiale Irna. Ma davvero l’Iran, straziato dalle misure statunitensi, si butterà nella mischia palestinese? Togliendo per un attimo il “mantello critico”, sono tre i fattori di tragicità di ques to nuovo capitolo. In primis, la proposta in sé che, come ripetuto, non coin volge l’attore più sofferente e propone una visione di esclu sione per il popolo palestinese. In secondo luogo lo scenario regionale: nell’immediato le ri cadute del piano all’interno dei circuiti politici limitrofi è limitata.

“Possibile però che pur facendo parte di un'organizzazione così apparentemente votata alla causa palestinese, [...] moltidegli stati membri si comportassero in palese contraddizione?” Sono molti gli esperti, come il Presidente dell’ISPI Paolo Magri, che ritengono la questione palestinese non essere ormai da tempo più al centro dei giochi politici mediori entali. Le divisioni che attraversano il Medio Oriente oggi si giocano su altri fronti, come la Siria e la Libia, e con dinamiche perlopiù indipen denti dalle evoluzioni del conflitto. L’ultimo punto, figlio del secondo, sta proprio nel tipo di concezi one ormai ascrivibile alla divisione israelo-palestinese. La matrice puramente storica ha stancato le forze locali, esterne e la sofferente popolazione. Quest’ultima ha sviluppato or mai una apatia politica lancinante e comprensibile, dovuta ad anni di scontri e vita disuma na. La sfiducia verso gli attori palestinesi, la rabbia verso i pre sunti alleati arabi, l’agonia nel non trovare una soluzione de cente: tutti nodi che stritolano chi questo mondo lo vive e con stanchezza ancora lo difende. Il Peace to Prosperity, quindi, non porterà né pace né prosperità. Ha provocato la chiusura delle relazioni diplomatiche tra Pal estina ed Israele – con quest’ultimo che negli ultimi tempi aveva avviato alcuni meccanismi di cooperazione con molti paesi arabi. L’azzardo statunitense ha spaccato per l’ennesima volta il fronte pan-arabo, già completamente disunito, a cau sa di una visione totalmente antitetica all’idea stessa degli Accordi di Oslo, rimasta unica vacillante strada per la pace durante questi anni. La visione di Trump, come al solito, è puramente imprenditoriale. Con questa proposta vuole far partire una piattaforma negoziale. Come primo risultato è riuscito a dividere tutti gli attori interessati, ad umiliare uno dei due protagonisti principali e a spezzare i tentativi di riavvicinamento medio-orientali. Eccovi servito l’accordo del secolo. Solo alle mie condizioni Volgendo lo sguardo al passato, si può ricordare come nel 2002 sot to forte impulso dell’Arabia Saudita – più preoccupata dai risvolti negativi che i sommovimenti della seconda intifada avrebbero avuto (e stavano già avendo) sulla stabilità regionale e sul mercato dell’energia che da altro – veniva presentato il progetto dell’Arab Peace Initiative. Anche in questo caso però, i ter mini della proposta di risoluzione del conflitto erano stati discussi e stilati da una sola delle due parti, prevedendo: che si ritornasse ai confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967; che gli israeliani si ritirassero dai territori della striscia di Gaza, della Giudea, della Samaria e di Ge rusalemme Est; che si trovasse una soluzione giusta e bilaterale al problema dei circa 3.8 mili oni di rifugiati; e da ultimo, che si consentisse la formazione di uno stato palestinese sovrano ed indipendente nei territori da cui Israele si sarebbe ritirato, con capitale a Gerusalemme Est. Tutto ciò in cambio del riconoscimento formale dell’esistenza di Israele e della sua sovranità statale da parte dei membri della Lega Araba. Il piano fu poi approvato e sponsorizzato a più riprese nei summit ufficiali della Lega (nel 2002 a Beirut, con dieci assenti su ventidue membri, ed a quello del 2007 a Riyadh). Nella miglior tradizione de gli sforzi diplomatici delle due fazioni coinvolte però, il piano nasceva già desti nato ad un fallimento quasi certo. Per parte araba, cos tituiva un ulteriore (e poco impegnativo) mezzo per at tirare il riconoscimento della comunità internazionale man tenendosi al contempo lontani dal conflitto vero e proprio. Per gli israeliani, le possibilità di accettare un piano costituito da termini unilateralmente dettati nei loro confronti – che in sostanza rimetteva principalmente nelle loro mani il processo di risistemazione di milioni di rifugiati – erano prossime allo zero. Possibile però che pur facendo parte di un’organizzazione così apparentemente votata alla causa palestinese – già nel 1964, fu ad un summit della Lega che avvenne la creazione del primo Consiglio Nazionale Palestinese – molti degli stati membri si comportassero in palese contraddizione?

Patate bollenti La tematica più scottante riguarda il trattamento degli sfollati e rifugiati palestinesi. Si ritiene che solo nel 1948, anno in cui viene fondato lo stato d’Israele, i flussi di rifugiati palestinesi si attestassero a più di 4.3 milioni di persone. In tema, i rifugiati palestinesi – in quanto oggetto diretto delle attività di una specifica agenzia delle Nazioni Unite (la United Nations Relief and Work Agency for Palestinian refugees in the Near East, UNRWA) – non sono soggetti alle norme in materia contenute invece nella Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiati del 1951. Tra queste il divieto di espulsione di rifugiati per ragioni diverse da quelle di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, o il divieto di imporre restrizioni alla libertà di movimento dei rifugiati. Una volta divenuto chiaro che l’UNRWA non sarebbe riuscita a fornire il supporto economico necessario a raggiungere un’integrazione dei profughi palestinesi nei paesi arabi ospitanti, e che dunque di “temporanea permanenza” non si trattava, due sarebbero diventati i principi ispiratori per i paesi in questione, a detta di Abbas Shiblak, ex ricercatore senior nel programma di studio sui rifugiati all’Università di Oxford, ora direttore del Centro per la Diaspora ed i Rifugiati Palestinesi. In primis: es primere solidarietà nei confronti dei rifugiati, ad esempio fornen dogli permessi di residenza negli stati ospitanti – ed in questo senso va l’adozione del Casablanca Pro tocol del 1965, ad opera della Lega Araba. Quest’ultimo si occupava principalmente del diritto dei ri fugiati palestinesi di lavorare e godere di piena libertà di movimento e di diritti di residenza. A seguire, “enfatizzare” l’identità dei palesti nesi mantenendone lo status di rifugiati, così da perseguire nel lungo termine gli obiettivi di rimpatrio (in uno Stato palestinese sovrano) o re-insediamento nei territori da cui avevano dovuto andarsene, piuttosto che di integrazione nei paesi ospitanti. A tal fine, la stessa Lega aveva adottato risoluzioni che proibivano la naturalizzazione di palestinesi come cittadini degli stati ospitanti, per motivi politici. In questo contesto, il documento più diffusamente rilasciato ai rifugiati palestinesi era finito con l’essere il cosiddetto RD (Refugee Document), ad opera delle amministrazioni dei singoli stati.

Voltafaccia Dopo alcuni anni però, iniziano a verificarsi inversioni di tendenza nei comportamenti degli stati arabi: l’Egitto a partire dai tardi anni ’70 smette di rinnovare gli RD gratuitamente, imponendo oltretutto la condizione che si dia prova di poter effettuare spese ed avere quindi una qualche forma di reddito (pena la deportazione); il Libano dopo aver posto la registrazione con l’UNRWA e la ricezione di razioni da parte di essa come prerequisiti per ricevere un RD ed il permesso di soggiorno (anche qui pena la deportazione), a seguito della crisi diplomatica con la Giordania del ’95 inizia ad espellere migliaia di rifugiati, negando poi l’ingresso anche a chi già deteneva un RD libanese se non con permessi speciali. Un altro capitolo si apre a seguito dell’annessione israeliana di Gaza (che era sotto l’amministrazione egiziana) e della Cisgiordania nel 1967: dei circa 300.000 profughi creatisi molti erano di “secondo grado”, essendosi già spostati dai territori annessi nel ’48. Di questi, una parte possedeva RD egiziani (vivendo a Gaza) e si vide quindi negare il rinnovo del documento e l’accesso ai territori egiziani. Molti – si stima sugli 80.000 – furono poi costretti a fuggire in Giordania, dove non hanno mai ricevuto pieni diritti di residenza.

Qui infatti, pur avendovi i palesti- nesi goduto di diritti di cittadinan- za (escludendo i rifugiati del’67) dal 1948, le politiche di “distacco amministrativo” dalla Cisgiorda- nia adottate da Re Hussein nel 1988 hanno creato ambiguità. I loro passaporti sono stati resi tempora- nei (validi solo per 2, poi 5, anni), aggiungendo l’obbligo di richie- dere il visto per poter continuare a risiedere in territori giordani. Hussein giustificò il tutto con la “nobile” intenzione di rinunciare ad ogni rivendicazione di sovranità su quei territori (in favore dei pal- estinesi), lasciando però la gestio- ne del processo interamente nelle mani dello stesso stato di Israele. Si aggiunga il fatto che nella mag- gior parte degli stati arabi i pal- estinesi sono equiparati ad ogni altro straniero ed esclusi quindi dai servizi di educazione, sanità e social benefits più in generale (in Li- bano dal ’48 ed in Egitto dall’80). O che per poter portare la propria fa- miglia in uno stato arabo ospitante un genitore palestinese debba pro- vare di avere un reddito che rientri in una soglia minima, quando in un totale di 8 campi e 5 centri per sfollati solo il 37% degli uomini e l’8% delle donne tra i 15 ed i 49 anni risultano avere un impiego. O ancora, che spesso la libertà di movimento dei rifugiati è fortemente limitata, come nel caso della Siria che impedisce l’ac- cesso a palestinesi provenienti da territori occupati da Israele, o con passaporto giordano tempo- raneo: non ci si stupirà poi più di fronte alla scelta definitiva della Lega di revocare in toto il Casa- blanca Protocol nel 1991, senza fornire particolari motivazioni.

di Susanna Rugghia, Luigi Simonelli e Giulio Ucciero

This article is from: