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Introduzione
from N.29 FEBBRAIO 2020
by Scomodo
Correva l’anno 1989 e mancavano tre giorni all’inizio del nuovo decennio quando venne avvistata su Via Nomentana, a Roma, una pantera nera aggirarsi indisturbata, in libertà. Ci vollero parecchi giorni per riacchiapparla e riportarla nel circo o zoo da cui era scappata, mesi per spegnere la spinta innovatrice del movimento studentesco che da quell’episodio bizzarro prese il nome. Il movimento della Pantera sorge così sullo squarcio della fine di un’era politica, sociale e culturale e l’inizio di un’altra, alla fine di un anno travagliato di grandi cambiamenti. A dicembre dell’89, infatti, risale la prima delle tante occupazioni che, dalla facoltà di Lettere dell’università di Palermo, si estese in tutto il Paese, portando con sé una ventata d’aria fresca nel clima di generale apatia, disincanto e individualismo degli anni 80. La Pantera dimostrò come, anche all’interno di un contesto radicalmente diverso da quello delle ondate del ’68 e del ’77, si potesse ancora fare politica utilizzando, senza rinnegarlo, parte del repertorio delle pratiche politiche del passato e reinventando allo stesso tempo quanto risultava vecchio e stantio, adattandolo alle nuove esigenze e ai nuovi linguaggi di una società che stava cambiando a ritmi rapidissimi. Oggi, a trent’anni di distanza dal ’90, anno in cui il movimento maturò per poi iniziare una fase discendente che portò alla fine dell’esperienza, collocare la portata del movimento nella storia dell’attivismo studentesco vuol dire rispondere ad una domanda fondamentale: ci troviamo di fronte all’ultimo movimento ‘novecentesco’ che chiude la stagione iniziata nel mitico ’68 o si tratta, piuttosto, del germe di un nuovo modo di fare politica, i cui frutti matureranno più tardi, fino ad arrivare alla contemporaneità?
Per cercare di dare risposta ad una domanda che nasce dall’esigenza di comprendere l’evoluzione della cultura politica che anima i movimenti studenteschi di oggi, dobbiamo capire in primo luogo cosa è stata la Pantera, quali sono stati i suoi obiettivi, i suoi tratti distintivi, che cosa ha rappresentato per tutti gli anni ’90 e per quelli successivi. Per farlo ci siamo affidati al racconto del Professor Ermanno Taviani, membro del movimento della Pantera e leader del collettivo della facoltà di lettere. Oggi professore di Storia contemporanea all’Università di Catania, ci ha raccontato la sua esperienza di studente universitario alla fine degli anni ’80, spiegandoci quali furono le cause che fecero insorgere gli studenti e quindi nascere il movimento, tra cui un ruolo centrale ebbe la proposta di legge Ruberti, allora ministro dell’Università e della Ricerca.
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“Il movimento nasce con diverse motivazioni sia a livello internazionale che nazionale. Innanzi tutto era l’89 e stava cambiando tutto: era crollato il muro di Berlino e uno dopo l’altro stavano crollando, come tessere del domino, i regimi comunisti. E soprattutto c’era stata, in Cina, a Pechino la strage di piazza Tienanmen, dove erano dei ragazzi a protestare. Anche contro i regimi dell’est d’europa erano stati dei giovani che avevano cominciato le proteste. Insomma, tutto questo aveva fatto finire la guerra fredda. Oggi è difficile dar l’idea di cosa volesse dire pensare che una crisi tra le super potenze potesse far finire il mondo invece, chi ha vissuto quel periodo aveva esattamente questa impressione, negli anni 80, infatti, questa era una sensazione forte. Fu così fino all’86 quando Gorbaciov diventò leader dell’unione sovietica, si allentò la tensione e ci fu un senso liberatorio di cambiamento. C’era la sensazione che la storia si fosse rimessa in movimento ed era come se fosse compito dei giovani cambiare le cose. Anche in Italia, soprattutto a livello politico generale, c’era per molte ragioni un senso di staticità: c’era il susseguirsi di governi dominati dalla Democrazia Cristiana e, insomma, sembrava che qua le cose non stessero cambiando.
Per il movimento della Pantera la legge Ruberti è stato sicuramente il fatto scatenante, perché era una legge sbagliata per tanti motivi. E poi c’era il fatto che soprattutto in Italia centro-meridionale, l’università scoppiava. La mia facoltà a Roma, Lettere, era una struttura pensata per 2000 studenti ed eravamo 17000 iscritti. I corsi più affollati erano spesso svolti nei cinema o in sale fuori dall’università perché l’Aula Magna e le altre aule non bastavano. Non c’era spazio. Non c’erano le biblioteche. Poi a quell’epoca c’era Torvergata da poco ma non c’era ancora Roma Tre. Quindi la sapienza aveva 180000 iscritti, numeri paragonabili a una città come Pisa, con strutture che erano state pensati per 15 mila, massimo 20 mila iscritti. Che credibilità aveva quella classe politica nel dire <<ora arriva il privato e tutto si risolve>> quando non poteva garantire spazi di vivibilità, minimi, per i suoi studenti? Le case dello studente a Roma erano per 3000 persone, quando i fuori sede erano 50000. Il diritto allo studio garantito dalla costituzione, non era garantito. Era una violazione permanente. Ora metti insieme tutte queste cose: la voglia di cambiare ora che la cappa della guerra fredda sembrava liberare delle energie, la legge Ruberti che sembrava consegnare ai privati l’università italiana e la situazione drammatica che si viveva nelle università. C’era molta solitudine, una forte insofferenza da parte degli studenti e soprattutto la sensazione che il foglio di carta, la laurea, sul mercato del lavoro non servisse così tanto . Non è un caso che la rivolta scoppi a Palermo, dove c’era tutto questo e in più c’era l’emergenza della corruzione e della mafia, una situazione di degrado politico, umano, morale, di violenza e di mancato controllo del territorio lasciato in mano alla mafia. Per questo molti ragazzi della Pantera di Palermo erano gli stessi che stavano nel movimento antimafia o che ci sarebbero entrati. Fu proprio lì a dicembre che cominciò la prima occupazione. A Roma invece l’occupazione iniziò alla facoltà di lettere mercoledì 15 gennaio ”.
Come nasce il nome la Pantera? “Erano passate poche settimane dal crollo del muro di Berlino quando venne avvistata a Roma una pantera, che nessuno riusciva a catturare. Questo avvenimento colpì per la sua bizzarria la creatività di Fabio Ferri e Stefano Paolini che si accorsero che il movimento non aveva un nome.
Si, c’era Movimento degli studenti contro la legge Ruberti oppure Movimento universitario contro la riforma dell’università ma non si addicevano all’u nico movimento universitario di grandi dimensioni dal ’77 dal quale era passata ormai una generazione. Allora, dato che proprio in quei giorni c’era la storia della pantera fuggita, mi ricordo che vennero una notte al centro stampa di lettere, con dei bozzetti e ci proposero questa cosa: inventarono lo slogan LA PANTERA SIAMO NOI e lo unirono al simbolo delle Black Panthers americane che, per molti studenti, quelli non politicizzati, non significa va niente. Ma per noi che facevamo politica invece, soprattutto per noi che studiavamo storia, aveva un significato forte. La cosa divertente è che in due giorni per i giornali e i media (che pure ri spetto ad oggi erano molto più rudimentali) noi diventammo La Pantera. Ci piaceva perché la pantera era fuggita da una prigione e vagava libera per la città e noi ci sentivamo così”.
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C’erano dei legami con i movimenti del ’68 e del ’77? Alcuni rivendi carono proprio la rottura con quei movimenti. “A Roma avevamo molto discusso tra di noi, non eravamo tutti concordi - non sulla questione del privato, eravamo tutti contro la legge Ruberti, - ma venivamo da tredici anni in cui anche le forze gio vanili della sinistra erano state molto divise. Il ’77 aveva significato una spacca tura netta tra l’estrema sinistra e il partito comunista. Anche se di queste cose discutevamo e ci scontravamo in realtà dentro il movimento, faticosamente, quella spaccatura era stata un po’ superata. Alla fine, in quei mesi, siamo stati insieme: tutte le componenti della sinistra universitaria, dai cattolici moderati agli studenti antagonisti. I centri sociali, che fino a quell’epoca erano nell’area antagonista in conflitto con la sinistra più ufficia le, sono entrati nell’università e molti studenti poi sono entrati nei centri sociali. C’è stato una sorta di passaggio, dopo l’occupazione molti dell’area antagonista sono entrati invece in rifondazione comunista. Per esempio Smeriglio, che era uno dei leader dell’area antagonista, ora è eurodepu tato ed è stato vice presidente della regione Lazio.
La memoria del ’77 c’era ed è stata anche un elemento, all’inizio, di scontro. Per esempio a lettere, uno dei primi giorni, qualcuno portò una scaletta dentro l’atrio, dicendo che era quella usata per assaltare il palco di Luciano Lama nel 1977 (che fu il momento materialmente di massimo scontro tra Pci e i giovani di quel movimento). Era un simbolo che valeva chiaramente solo per un’a rea politica. La differenza l’ha fatta il fatto che noi non ci siamo mai scordati che era un movimento di studenti. Anche il ’68 era cominciato come un movimento di studenti contro una proposta di legge sull’università, ma dopo due o tre mesi non gliene importava più niente a nessuno”.
Com’era organizzata e gestita l’occupazione? Che tipo di attività venivano organizzate?
“L’occupazione era organizzata come quelle del passato, c’erano le commissioni didattica e logistica ma c’erano anche la commissione razzismo, la commissione barriere architettoniche, la commissione stampa. Però la cosa divertente è che, almeno a lettere , c’erano varie tribù. Per esempio la tribù dell’area antagonista che stava in presidenza, poi le tribù dei vari dipartimenti, ognuna con la propria identità, alcune più legate ad alcune aree politiche, però la cosa bella è che alla fine molte avevano l’identità di studenti-di-quel-dipartimento. La differenza con gli altri collettivi e movimenti politici stava nella pratica: loro erano interessati agli spazi abbandonati per incuria o per manovre speculative, per il movimento studentesco l'obiettivo era quello di appropriarsi effettivamente e rivitalizzare uno spazio pubblico come quello dell’università, ritenendo marginali le lotte per conquistare spazi tutto sommato ininfluenti. Un momento secondo me molto bello fu il primo sabato in cui l’università era tutta occupata. Ci fu una grande festa sia nel piazzale della Minerva sia in ogni facoltà. Molti erano venuti apposta in questo luogo che era anche un luogo arido, degradato che si viveva in quel periodo con frustrazione e che invece improvvisamente era nostro.
Mi ricordo che con due compagni siamo saliti sopra un edificio, e abbiamo visto che era tutto pieno di gente, ed era pieno di musica che veniva da ogni parte, improvvisamente queste aule erano state ripopolate. E poi ci furono molte esibizioni: il concerto degli Onda Rossa Posse, che poi sono diventati gli Assalti frontali, e tanti altri gruppi, teatrali e circensi. Quel luogo era diventato un’altra cosa. Enrico Lucci, che all’epoca era uno studente di storia, la sera ogni tanto faceva degli spettacoli in cui imitava vari personaggi della vita pubblica, morivamo dal ridere. Poi vennero anche tutta una serie di personaggi come Nanni Moretti, giornalisti, intellettuali a darci sostegno. La comunicazione, anche se era gestita tramite fax e tramite la prima rudimentale rete di comunicazione via computer, è stata la prima piazza telematica autonoma di questo paese. Il fax in quel periodo lo avevano solo gli uffici: in alcune facoltà gli impiegati cercarono di portarlo via ma dappertutto ce ne impadronimmo, ne avevamo capito l’importanza”.
Quale fu il rapporto con le forze di estrema destra e con cosa dovette misurarsi la vostra rivendicazione del carattere non violento del movimento? “Un gruppo di neofascisti, dell’area allora di Alemanno, occuparono una o due aule ad economia, ma quella fu la loro unica presenza. Il movimento fu pacifico, non dicevamo non violento, almeno a Roma, perché l’area antagonista diceva che non violento implicava un concetto filosofico che non avevamo, quindi ci dicevamo pacifici. I tentativi di reprimere il nostro carattere non violento non furono fatti attraverso un scontro diretto, ma attraverso vie più subdole, attraverso accuse di terrorismo. Per esempio il ministro dell’interno Gava, che era un personaggio orribile e che si diceva fosse legato alla camorra, disse che all’interno del movimento c’erano legami con le vecchie Brigate Rosse”.
Per quale motivo si è sciolto il movimento? Alcuni parlano di una scissione davanti alla possibilità di un compromesso con Ruberti. “Per tante ragioni. All’inizio Ruberti non voleva parlare con noi, si scelse degli interlocutori tra i rappresentanti degli studenti dei consigli di amministrazione. Insomma, si scelse i suoi studenti con cui dialogare. In realtà Ruberti era anche una persona ragionevole, non era aggressivo.
Ma le nostre divisioni interne, che erano anche abbastanza evidenti, hanno reso difficile parlare con una voce sola anche perché fu un movimento che non ebbe leader nazionali, c’era una grande atten zione alla democrazia interna: c’era un continuo discutere sulla via più democratica per decidere le cose. Queste tortuose vie della democrazia interna al movimento hanno fatto si che non abbiamo sfidato i nostri interlocutori veramente ad un tavolo politico. Questo unito ovviamente al fatto che i nostri interlocutori non volessero dialogare con noi: la componente studentesca non doveva avere voce in capitolo su come doveva essere cambiata l’università. All’assemblea nazionale di Firenze, proprio per evitare conflitti, abbiamo deciso dei giorni in cui avremmo disoccupato tutti insieme. Dopo il 17 marzo, con la manifestazione nazio nale di Napoli, abbiamo tutti restituito le chiavi”.
Quale fu il lascito della Pantera durante gli anni 90? Anche rispetto alla cultura dei centri sociali? “Innanzi tutto la Pantera rappresenta la prima sperimentazione di quelle unioni di tutte le si nistre anti-Berlusconi degli anni ’90 e degli anni 2000. Difatti per molti è stato un laboratorio di politica proprio in quel senso lì. I centri sociali non avevano un rapporto diretto con l’università e con i collettivi, se non attraverso poche perso ne, la Pantera ha spinto i centri sociali a diventare più centri-sociali, di aggregazione. Mentre l’occupazione è diventato il metodo di lotta pre valente, molti che avevano partecipato all’occupazione della Pantera hanno poi iniziato ad occupare nuovi centri sociali, meno legati a logiche di contrapposizione o alla logica del nemico. Molti gruppi sono rimasti uniti. Siamo rimasti noi, la massa dei giovani, nella battaglia contro la guerra del golfo nel ’93, nella battaglia contro Fini e Berlusconi; così come una serie di esperienze che sono convogliate nel movimento no-global, forti fino al 2001 ma anche dopo. Voglio dire, a Genova c’era molta Pantera”.
Quanto ha influito la Pantera nelle sue scelte professionali? “Molto. Quello che ho cercato di portare dentro all’università, a differenza di molti miei colleghi, è tenere sempre conto dell’opinione degli studenti. Ho cercato di migliorare la vita di un’università che il più delle volte è pensata più per i professori e per le istituzioni che per chi la vive dall’altra parte”.
Quali valori e principi che rivendicavate allora ti sembrano essere rimasti oggi nella storia dei movimenti studenteschi? E cosa invece è cambiato? “Movimenti universitari non ce ne sono stati, c’è stato l’Onda ma fu limitato ad un ristretto numero di facoltà. La Pantera ha posto il problema della centralità del sapere nella società, che è il sapere sia come formazione sia del sapere in generale rispetto ad un mondo sempre più pieno di informazioni e con una dimensione di versa. Secondo me il valore della cultura è una cosa che noi avevamo chiara. Nei movimenti successivi questa cosa l’ho sentita con forza, così come ho sentito con forza la rivendicazio ne di un mondo in cui non possono essere le multinazionali a decidere a livello globale e come non possono essere gli appal ti ai privati a gestire le amministrazioni statali. Queste cose prima con il movimento noglobal e adesso con i movimenti per l’emergenza ambientale sono per fortuna sotto gli occhi di tutti. Per esempio Fridays for future è l’u nico movimento di giovani che negli ultimi anni è riuscito a portare in piazza decine di migliaia di persone. E poi, banalmente, la difesa della scuola e dell’università pubblica. Oggi però accanto alle piazze tradizionali c’è la piazza telematica e questo fa una gran differenza”.
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