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I CONSIGLI DEL LIBRAIO
from N.29 FEBBRAIO 2020
by Scomodo
Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo.
Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città.
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ODRADEK Via dei Banchi Vecchi,57 00186 Roma RM
“La Rivista Anarchica A”
Il MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM
“La vera storia del pirata Long John Silver” di Bjorn Larsson Editore: Iperborea Davide consiglia: “Questo mese recensiamo un rivista a noi molto cara. Una delle poche che si trovano nelle Librerie importanti. La Rivista Anarchica A arrivata al n. 440. Le grandi catene di Librerie hanno deciso anni fa di non distribuirla più. E pensare che ha 49 anni ed esce con scadenza mensile in nove numeri l'anno (con eccezione di gennaio, agosto e settembre). Era la rivista di De Andrè. Spesso nei concerti la portava con se piegata in una tasca della giacca. E' la rivista del pensiero anarchico italiano. Molto elegante nella grafica quanto interessante nei contenuti. Non ci si può appisolare senza averla sfogliata e gustata, pagina dopo pagina.
Marco consiglia: Siamo nel 1742. Ho vissuto a lungo. Questo non me lo può togliere nessuno. Tutti quelli che ho conosciuto sono morti. Alcuni li ho mandati io stesso all'altro mondo, se poi esiste. Ma perché dovrebbe? Inizia così questo romanzo tributo ad uno dei più grandi scrittori, l'autobiografia di un pirata, un bugiardo e un affabulatore. Un romanzo storico basato su un personaggio di fantasia, ma non per questo meno credibile. Infatti è lui stesso a raccontare e a decidere di cosa parlare e quando farlo. Spesso ci troviamo davanti a grandi digressioni, altre volte John Silver ci parla della sua vita attuale, tutto è imperniato su di lui e la sua esistenza. La scusante che si è dato il protagonista per decidersi a lavorare a questo scritto è, dapprima, il voler far sapere a Defoe, lo scrittore che noi tutti conosciamo e che lui aveva incontrato mentre era ancora in vita, la verità su ciò che gli aveva taciuto e mentito anni prima. Successivamente nascerà anche come rispo sta alla scoperta della pubblicazione de L'isola del tesoro da parte di Jim, il ragazzo che gli aveva promesso di non parlare di lui ad anima viva. Il libro riesce a creare delle immagini stupende; il mare infinito, le navi, i falò. Riuscirete ad immaginare tutto senza nemmeno rendervene conto. La sensazione che avrete e che questo autore ama profondamente questi elementi; quando ne parla le immagini sono potenti perché lui stesso le vede e ci descrive ciò che ama. Trattandosi di avventure, avvenute principalmente in mare, i luoghi chiamati in causa sono moltissimi e tutti particolarmente importanti per l'evoluzione della storia. "Quello che voglio è essere padrone del mio destino, non di quello degli altri
Viale dei Promontori, 168 00121 Roma RM
“TURISMO DI MASSA E USURA DEL MONDO” di Rodolphe Christin Editore: Elèuthera, 2019
CLAUDIANA Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM
“Rivoluzione globotica” di Richard Baldwin Editore: il Mulino
LIBRERIA TLON Via Federico Nansen, 14 00136 Roma RM
“Permafrost” di Eva Baltasar Editore: Nottetempo
Il libraio vi augura una buona lettura
Paolo consiglia: Sociologo che si è a lungo occupato di turismo di massa, Rodolphe Christin torna sull'argomento con questo appassionato saggio che analizza la logica ormai prevalentemente consumistica che muove l'Homo turisticus, impigliato nella rete sempre più stretta dei circuiti organizzati e per il quale il viaggio perde gran parte della sua forza trasformatrice. Una “fuga d'evasione” che ha distrutto la dimensione simbolica del viaggio, e che quasi sempre offende e danneggia i luoghi delle loro mete. Un esempio fra i tanti? Le navi-mostro gonfie di turisti famelici che transitano nei canali di Venezia senza che nessuno possa fermarle...
Federica e Rossella consigliano: Nel suo ultimo saggio appena pubblicato da Il Mulino e coraggiosamente intitolato Rivoluzione globotica, l’accademico americano Richard Baldwin sviluppa il tema del progresso robotico globale, delle sue conseguenze sul mondo del lavoro e più in generale sul tessuto sociale. Non si tratta certo della prima rivoluzione di tale ampiezza, ci ricorda Baldwin in un primo capitolo che riassume in modo cristallino le cause e gli effetti della rivoluzione industriale. Il mondo non è mai pronto ad assorbire cambiamenti di questa stazza, e il passaggio dal mondo rurale a quello industriale, che siamo abituati a considerare un progresso, ha lasciato a terra milioni di persone. Decenni dopo, nel secondo dopoguerra, la stessa automatizzazione che aveva per messo il formidabile sforzo bellico ha causato lo sfaldamento della classe operaia, non risparmiando i colletti blu e modificando in profondità i legami sociali. In quale direzione, verso quali vantaggi l’onnipresente informatica e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale ci stanno conducendo? Chi ne farà le spese? Quali gruppi sociali ne usciranno rinforzati e quali feriti? Quali sono le nostre reali capacità di assimilazione dei cambiamenti in atto? Baldwin racconta in modo estremamente documentato i progressi della robotica, descrive le misure messe in atto dalle classi che si sentono via via minacciate e ipotizza che i prossimi a subire le conseguenze delle nostre prodezze tecniche saranno i colletti bianchi, finora risparmiati e che hanno beneficiato in più ampia misura delle rivoluzioni precedenti. Amelia, un robot biondo di ultima generazione, lavora meglio degli umani all’help desk di una banca svedese, le vetture autoguidate sono sempre più sicure e i robot diagnostici potrebbero creare “un’intera nuova classe di medici professionisti “ in tempi brevi. Le ultime ottanta pagine del saggio indicano piste di riflessioni e cercano di individuare ciò che ci rende, noi umani, insostituibili. Nonostante la fede dichiaratamente ottimista nel progresso espressa dall’Autore nel titolo dell’ultimo capitolo – Il futuro non prende appuntamenti: prepararsi ai nuovi lavori - è difficile tuttavia non essere inquieti sull’avvenire di coloro che saranno in ritardo.
LIBRI & BAR PALLOTTA LA LIBROLERIA SIMON TANNER IL TOMO Piazzale di Ponte Milvio, 21 00135 Roma RM Via della villa di Lucina, 48 00145 Roma RM Via Lidia, 58 00179 Roma RM Via degli Etruschi, 4 00185 Roma RM Ci sostengono anche:
OTTIMOMASSIMO LIBRERIA TRASTEVERE ALTROQUANDO MINERVA Via Luciano Manara, 16/17 00153 Roma RM Via della Lungaretta, 90e 00185 Roma RM Via del Governo Vecchio, 82, 00186 Roma RM Piazza Fiume, 57, 00198 Roma RM
TRA LE RIGHE EQUILIBRI JASMINE KOOB Viale Gorizia, 29 00198 Roma RM Piazzale delle Medaglie d’Oro, 36b 00136 Roma RM Via dei Reti, 11, 00185 Roma RM Piazza Gentile da Fabriano, 16, 00196 Roma RM
Opération Barkhane
La Ministra della Difesa francese Florence Parly ha annunciato l’invio di altri 600 soldati francesi nella regione africana del Sahel, per un totale di forze impegnate nell’area pari a 5.100 unità.
Dopo 7 anni di coinvolgimento diretto di Parigi nelle ex-colonie francesi, il quadro è ben lontano dall’apparire stabile. Con il declino di Al-Qaeda e dell’ISIS nel Medio Oriente, il Sahel è poi diventato un polo d’attrazione per jihadisti in fuga, e perciò il prossimo fron te della lotta globale al terrorismo.” con “il Sahel è ormai un polo d’attrazione per jihadisti in fuga, destinato a diventare il prossimo fronte della lotta globale al terrorismo. “Silen ziare le armi” resta un obiettivo irraggiungibile per il 2020.
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Opération Barkhane -------------------------------------------------------------------------------------------------------- Come il più grande impegno militare francese all’estero si sta trasformando in un nuovo Afghanistan
Introduzione Domenica 2 febbraio 2020 la Ministra della Difesa francese Florence Parly ha annunciato l’invio di altri 600 soldati francesi nella regione africana del Sahel, portando il numero totale delle forze impegnate nell’area a 5.100. La notizia, praticamente assente sui media nazionali italiani, arriva al termine di una serie di mesi caldi di critica e dibattito sulla più grande missione francese all’estero, in un’area fra le più pericolose d’Africa, quasi sconosciuta all’opinione pubblica europea e non solo. Il Sahel — dall’arabo Sahil “bordo del deserto” — è una lunga fascia di territorio che divide il deserto del Sahara a nord dalla savana a sud e che attraversa orizzontalmente numerosi paesi dell’Africa occidentale, dalla Mauritania fino al Sudan. Una lunga zona di contatto fra il Maghreb islamico e l’Africa sub-sahariana. Da più di un decennio l’intera area è ormai immersa in uno stato di insicurezza e violenza, dove terrorismo islamico, trafficanti di esseri umani e organizzazioni criminali transnazionali hanno trovato terreno fertile per porre le proprie radici, in una regione immensa e scarsamente popolata. Con il declino di Al-Qaeda e dell’ISIS nel Medio Oriente infatti, il Sahel è ormai un polo d’attrazione per jihadisti in fuga, destinato a diventare il nuovo fronte della lotta globale al terrorismo.
I francesi nel Sahel La presenza francese nell’area risale al 2012, quando Parigi intervenne al fianco del governo maliano nell’ambito della Guerra Civile del Mali. Il conflitto vedeva contrapporsi il governo centrale di Amadou Toumani Tourè ed il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MNLA), un gruppo tuareg separatista. Il MNLA mirava ad ottenere l’indipendenza di questa regione nel Nord del paese, con l’appoggio di movimenti islamisti locali, tra cui l’organizzazione Al-Quaeda nel Mahgreb Islamico (AQMI) e varie milizie radicali rifugiatesi nell’area dopo il crollo del regime di Gheddafi in Libia. La pessima amministrazione del conflitto da parte del governo centrale, sommata ai malumori dei soldati costretti ad affrontare nemici la cui potenza militare era in continua crescita, portarono ad un colpo di Stato da parte dell’esercito maliano che, dopo aver messo in fuga il regio Presidente, installò un regime militare con a capo Dioncounda Traorè, legittimamente riconosciuto dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS). Approfittando del crollo del potere statale, i ribelli del MNLA riuscirono nel marzo 2012 a proclamare l’indipendenza dell’Azawad. Il presidente Traorè decise dunque, in accordo con l’ECOWAS, di richiedere l’intervento militare francese, per riappropriarsi dei territori settentrionali occupati e fermare l’avanzata verso sud delle truppe jihadiste. Ebbe così inizio l’11 gennaio 2013 la Opération Serval, con la quale Parigi intervenne per ripristinare l’integrità territoriale maliana, segnando così l’inizio del coinvolgimento francese nella crisi saheliana. L’operazione ottenne subito l’appoggio delle Nazioni Unite, che diedero il via all’operazione di peace-keeping MINUSMA, e di altre nazioni europee, che inviarono aeromobili e uomini per fornire supporto logistico e addestramento all'esercito maliano, nell'ambito della missione dell'Unione Europea EUTM Mali. In poco tempo l’operazione Serval riuscì a conseguire numerosi successi e si concluse il 15 luglio 2014, a seguito della decisione dell’allora presidente francese Hollande di riconsiderare la dimensione dell’impegno dei soldati francesi, attraverso una distribuzione geografica molto più ampia a fronte della natura transnazionale del problema. Venne quindi lanciata una nuova operazione, l’Opération Barkhane, anche in risposta alla necessità di ridimensionare il budget per le operazioni esterne, che cominciavano a gravare sulle finanze dello stato francese. Con la nuova operazione si ebbe quindi una riduzione degli uomini impegnati in Mali e la loro ridistribuzione nell’intera regione del Sahel. Il presidente Fraçois Hollande era convinto di poter riuscire a gestire la situazione e ad impedire la ricostituzione di un nucleo jihadista nel territorio presidiato, fiducioso del supporto dell’ONU, dell’UE, e dei paesi del G5 Sahel, un gruppo regionale di 5 stati saheliani (Mali, Mauritania, Ciad, Burkina Faso e Niger) nato proprio per favorire la cooperazione, la sicurezza e lo sviluppo a livello regionale. L’operazione Barkhane con circa 4.500 uomini e numerose basi militari sparse in tutta la regione, pose il proprio quartier generale a N’Djamena, capitale del Ciad, a testimoniare l’importanza strategica della partnership con il regime di Idriss Déby Itno, alleato nella lotta ai gruppi armati jihadisti. Come riporta l’European Council of Foreign Relations “L'operazione Barkhane è la più grande operazione d'oltremare della Francia, con un budget di più di 600 milioni di euro all’anno". L’operazione Barkhane è attiva ancora oggi, e i suoi compiti sono numerosi, dalle pattuglie di combattimento a fianco delle forze locali e delle milizie partner, fino alla raccolta di informazioni e all’addestramento. Nonostante l’ampia gamma di azioni, i funzionari francesi sottolineano che la priorità di Barkhane è l’antiterrorismo, ed in particolare le operazioni di eliminazione dei più importanti leader jihadisti. L’azione sul campo tuttavia, si è rivelata un’impresa ben più ardua del previsto, per tutte le forze internazionali presenti nell’area. Lo sanno bene i circa tredicimila caschi blu dell’Onu impiegati in Mali nella missione MINUSMA, tristemente nota per essere stata dichiarata nel 2014 l’operazione di peacekeeping più pericolosa del mondo. Le difficoltà sono dovute soprattutto alle tecniche di guerriglia asimmetrica dei mujaheddin, alla loro difficile localizzazione nelle aree desertiche e allo scarso livello di preparazione militare e logistica degli eserciti nazionali locali. “Il presidente Traorè decide dunque, in accordo con l’ECOWAS, di richiedere l’intervento militare francese, per riappropriarsi dei territori settentrionali occupati e fermare l’avanzata delle truppe jihadiste.”
La situazione attuale Dopo ben 7 anni di coinvolgimento diretto di Parigi sul territorio, il quadro è ben lon tano dall’apparire stabile nelle ex-colonie francesi. Negli ul timi due anni i gruppi armati della regione hanno intensifi cato i loro attacchi, prendendo di mira comunità, edifici pub blici ed infrastrutture, portando violenza ed insicurezza ad un livello senza prece denti e rendendo quasi impossibile il sostentamento e l’accesso ai servizi basi lari per le popolazioni locali. I paesi più colpiti sono soprattutto Burkina Faso, Mali e Niger, nei quali si è registrato anche un note vole aumento del numero di profughi e sfollati. Se condo l’Unicef sarebbero ormai 1 milione e 200 mila le persone – di cui più del la metà bambini – ad aver abbandonato le proprie case e villaggi a causa degli attacchi e dei conflitti ar mati. Fra i militari francesi la situazione non è affatto rosea, con il numero di ca duti che è tornato a salire recentemente. Nel mese di novembre 2019 infatti, sono stati in 13 a perdere la vita in incidente fra due elicot teri, avvenuto durante un’azione di supporto alle forze locali in combattimento contro gli jihadisti. L’eco dell’accaduto non ha tardato a farsi sentire in Francia, dove giornali e media hanno sottolineato come l’incidente rappre senti per l’esercito francese la più grave perdita da 36 anni ad oggi – dopo l’atten tato di Beirut del 1983. L’intera operazione è quindi finita nuo vamente sotto il fuoco incrociato di numerose critiche: da un lato quelle dei cittadini francesi, che si domandano cosa ci facciano i loro soldati a rischiare la pelle nel deserto; dall’altro quelle degli esperti, che hanno rimarcato come a discapito degli sforzi di Parigi, le forze sul campo non siano riuscite a mettere fine agli attacchi dei gruppi jihadisti, né a contenere le violenze a danno dei civili di cui gli eserciti locali sono accusati. Fra le molte analisi quella di Signe M. Cold-Ravnkilde del Danish Institute for International Studies sottolinea un aspetto chiave dell’inefficienza delle missioni nel Sahel. Secondo l’esperta danese le forze francesi, concentrandosi principalmente sulla ricostruzione degli Stati deboli e sulla lotta al terrorismo trans-frontaliero, non avrebbero risposto adeguatamente ai disagi e risentimenti delle popolazioni locali, finendo per mettere in moto una dinamica che rischia di alimentare quello stesso nemico che cercano di eliminare. In questo clima di crescente critica e ostilità nei confronti della presenza francese nel Sahel, il Presidente Emmanuel Macron ha inizialmente minacciato di ritirare le forze dalla regione, convocando poi i leader di Mali, Niger, Chad, Burkina Faso e Mauritania nella città di Pau in Francia, per una conferenza sul Sahel tenutasi lo scorso 13 gennaio. L’intento del Presidente francese era chiaro: rivalutare la situazione sul campo ed ottenere dai leader africani una decisa riaffermazione della legittimità dell’inter vento di Parigi, per porre fine a tutte le ambiguità e le accuse di neo-colonialismo rivolte alla missione francese. Nei mesi precedenti al summit infatti si sono moltiplicati gli episodi di proteste anti-francesi nei paesi del G5. Nella stessa Pau nei giorni a ridosso della conferenza, numerosi fra membri delle comunità africane di Francia hanno chiesto a gran voce che i francesi terminassero la loro “occupazione”. “Non c’è alcuna ambiguità da parte dei paesi del G5 sul fatto che le forze internazionali debbano rimanere nel Sahel” ha dichiarato Tiébilé Dramé, Ministro degli Esteri del Mali, aggiungendo: “se sono lì è perché noi abbiamo chiesto che venissero”. “L’eco dell’accaduto non ha tardato a farsi sentire in Francia, dove giornali e media hanno sottolineato come l’incidente rappresenti per l’esercito francese la più grave perdita da 36 anni ad oggi - dopo l’attentato di Beirut del 1983.”
Per quanto riguarda la rivalutazione della missione Barkhane invece, nel summit si è deciso che la presenza francese rimarrà distribuita su tutti i cinque Paesi dell’area, ma con un focus particolare sulla cosiddetta “zona delle tre frontiere”, dove i confini di Mali, Niger e Burki na Faso si incontrano e nella quale i gruppi ar mati riescono ad operare con facilità, sfruttando lo scarso controllo e la porosità dei confini. “La priorità è lo Stato Is lamico del Gran Sahara” ha continuato Macron, ponendo però l’accento anche sulla necessità del le forze di Barkhane e del G5 di rafforzare i progetti di sviluppo nella regione, al fine di riguadagnare la fiducia dei civili. Almeno per la riaffer mazione della legittimità della presenza francese il summit di Pau sembra aver funzionato. Ma il vero successo del nuovo assetto post-summit si potrà misu rare solamente in giugno, in occasione del prossimo meeting del G5 in Maurita nia, sperando che le nuove truppe sul campo annun ciate da Macron possano aiutare a frenare il dif fondersi dell’insurrezione jihadista nella regione. Le criticità strutturali della missione però restano. “Ri costruire uno stato dove vi è un rifiuto dello stato è con traddittorio,” ha dichiarato Jean-Hervé Jezequel, esperto dell’International Crisis Group in un’intervista su France24. “C’è una strategia militare, ma nessuna strategia politica. Se si vuole restaurare uno stato, bisogna chiedersi che tipo di stato si sta restaurando”. Gli effetti della crisi libica sulla regione Nell’ampio contesto delle crisi africane, quella del Sahel è particolarmente legata alle vicende della vicina Libia. Il 9 e 10 febbraio si è tenuto ad Addis Abeba il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Africana. Il titolo del summit di quest’anno era Silencing Arms in 2020, ad indicare la priorità dei governi del continente di fermare i conflitti interni. Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, nel suo discorso introduttivo ha indicato in particolare due aree su cui si dovrà focalizzare l’impegno diplomatico dell’Unione nei prossimi anni: la Libia e il Sahel. Due questioni legate a doppio filo, più di quanto non sia mai stato messo in evidenza. Nella primavera del 2011 l’allora capo di Stato libico Muammar Gheddafi, pochi mesi prima che venisse catturato e ucciso, avvertì a lungo i leader occidentali che supportavano i ribelli contro il suo regime. In una conversazione con Tony Blair, il Rais metteva in guardia il leader britannico sulle disastrose conseguenze della sua rimozione dalla leadership libica, che a suo dire avrebbe aperto un vuoto di potere dove al-Qaeda e altri gruppi avrebbero potuto prendere il controllo e attaccare l’Europa. Anche sul settimanale russo Zavtra, Gheddafi si pronunciò con parole che oggi risuonano quasi come una profezia: “State bombardando il muro che si erge sulla strada dei migranti e dei terroristi”. E sono proprio questi due i temi che uniscono la situazione libica con l’instabilità in Sahel. Le migrazioni innanzitutto. È proprio nel Sahel infatti che passano due delle tre rotte principali del traffico dei migranti diretti al mediterraneo e l’Europa: quella centrale (Burkina Faso, Mali, Niger) e quella occidentale (Senegal, Mauritania, Algeria). Entrambe le rotte convergono poi in Libia, ormai fuori controllo, dove la situazione dei profughi è ingestibile. In netta crescita è anche il fenomeno dei migranti climatici, in un continente in cui la desertificazione sta causando impatti devastanti. Secondo uno studio del CNR del marzo 2019, il 90% dei migranti arrivati in Italia attraverso la rotta mediterranea tra il 1995 e il 2009 emigravano per motivi climatici. “‹‹Ricostruire uno stato dove vi è un rifiuto dello stato è contraddittorio,›› ha dichiarato Jean-Hervé Jezequel, esperto dell’International Crisis Group in un’intervista su France24.”
Passata la tempesta di instabilità seguita alle primavere arabe, è molto probabile che il principale motivo di emigrazione torni ad es sere il clima sfavorevole. Ma non solo. Le tensioni religiose ed et niche stanno alimentando nell’area una gigantesca crisi umanitaria: in Burkina Faso, Mauritania e Niger vivono attualmente un milione di rifugiati dai paesi cir costanti, di cui la metà solo in Burkina Faso; inoltre, 60mila migranti dal solo Mali hanno trovato rifugio in Mauritania. In questo contesto si inserisce un’esponenziale escalation del terrorismo jihadista. Nel 2019, sec ondo i dati ONU, gli attentati dei gruppi estremisti islamici nella re gione hanno causato 4000 vittime tra civili e militari; e solo negli ulti mi due mesi i morti sarebbero più di 300. Da ricordare sono, ad esem pio, l’attacco che ha visto 35 civili uccisi la Vigilia di Natale in Burkina Faso e, sempre nello stesso paese, un attentato ad una chiesa che ha provocato circa 24 morti. Ma anche l’assalto alla base militare di Chi negodar, in Mali, che ha causato la morte di 89 soldati nigeriani. Fornire una mappa dei diver si gruppi jihadisti che dal 2012 popolano il Sahel è difficile. An che tralasciando i cosiddetti lupi solitari, esiste una galassia di mi nuscoli gruppetti che si raccolgono poi entro sigle più ampie. Uno dei gruppi di riferimento è sicuramente l’ISGS (Islamic State in the Greater Sahara): fondato nel maggio 2015 e proveniente da una scissione del MUJAO (il Movimen to per l’unità della Jihad nell’Africa Occidentale), è ufficialmente affilia to allo Stato Islamico dall’ottobre 2016. Non un affiliato qualunque, anzi: visto il progressivo indebo limento delle forze dell’ISIS in Siria, Iraq e Libia, il progetto di instaurare un califfato nell’Afri ca occidentale è ormai il fronte d’azione principale dello Stato Islamico (vedi Scomodo n°22). Grande rilevanza ha anche il GSIM (Group for the Support of Islam and Muslims) che comprende tre for mazioni diverse: AQIM (Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, operante in Mali), Ansar Dine (anche ques to in Mali) e Katibat Macina (tra Mali e Burkina Faso). Infine, va segnalata l’organizzazione An sarul Islam, autrice di quasi tutte le principali operazioni terroris tiche nel nord del Burkina Faso. A questo punto, per capire la com posizione di questi gruppi jihadisti bisogna fare un passo indietro, ri tornare alla caduta del regime libico di Gheddafi e approfondire la composizione etnica dell’area. Uno dei gruppi sociali annoverabili tra i principali sostenitori del Rais era no i Tuareg, un popolo di pastori prevalentemente nomadi che rap presenta una minoranza cospicua ma piuttosto emarginata nelle ger archie socioeconomiche dei paesi dell’area. Con la caduta di Ghedda fi i tuareg libici varcano il confine a sud, ormai praticamente inesis tente, portando con sé una grande parte degli armamenti delle milizie di Gheddafi, iniziando quindi nel 2012 la lotta armata per instaurare il califfato. Una lotta che ha logora to inesorabilmente la stabilità dei paesi interessati, i quali adesso sem brano aver deciso di passare definitivamente al contrattacco. In chiusura del summit di Addis Abeba, infatti, gli stati del G5 Sahel (Burki na Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger) hanno avanzato la proposta di creare una propria forza mili tare antiterrorismo, per rendersi così meno dipendenti dagli aiuti occidentali ed in particolare fran cesi. La praticabilità di quest’opzione, però, rimane molto difficile. Sia perché le risorse da destinare a un esercito autonomo sarebbero enormi — eccessive per paesi che non hanno un’economia florida — sia, soprattutto, perché non sarà per nulla facile convincere i paesi attualmente impegnati nell’area a rinunciare ai propri interessi.
“Silenziare le armi” nella regione, quindi, resta un obiettivo che nemmeno i più inguaribili ottimisti potrebbero ritenere raggiungibile per il 2020. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale, dell’unione africana e della Francia, quella del Sahel è una crisi ben lontana dall’essere risolta. I gruppi sul campo hanno dimostrato infatti di avere grandi capacità di finanziarsi — tramite il traffico di esseri umani, in alcune zone riscuotendo addirittura le tasse — e di sapersi adattare alla pressione degli interventi esterni, conducendo una guerra asimmetrica, ricorrendo sempre più ad attentati ed evitando lo scontro aperto. Quello che si prospetta per Parigi dunque è uno scenario da Afghanistan, con truppe francesi in aumento senza data di ritorno, un nemico che sfrutta eccellentemente il terreno a suo vantaggio, ed una popolazione locale riluttante a collaborare con le forze internazionali. La risoluzione della crisi nel Sahel è di importanza cruciale per la stabilità del Nord Africa e del Mediterraneo, e finché la regione rimarrà una base sicura per terroristi e trafficanti di esseri umani, continuerà a costituire una seria minaccia anche per l’Europa.
diCristiano Bellisario, Simone Martuscelli e Leonardo João Trento