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LETTERARIA
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Settembre Ottobre 2012
Anno 2 - Numero 11
Due grandi scrittori tra le nostre proposte autunnali UN BRITANNICO E UN AMERICANO, VINCITORI DI GRANDI PREMI
A questo fa pensare l’ultimo romanzo dello scrittore inglese Julian Barnes, finalmente vincitore del Man Booker Prize nel 2011, dopo averlo inseguito tanto a lungo. Un romanzo conciso, ma prezioso in ogni sua frase. Continua a pagina 2
Le coincidenze della vita: ben due collaboratori di “Letteraria” hanno letto e, di conseguenza, deciso di parlare di due libri diversi, ma dello stesso scrittore, ovviamente senza mettersi d’accordo. Ma la cosa non può che fare piacere, quando l’autore è un grande della letteratura contemporanea: l’americano di origini greche Jeffrey Eugenides
Cari amici ecco la nostra newsletter. Non solo novità e bestseller, ma proposte di libri che, secondo noi, sono meritevoli di essere letti. Nella speranza di aiutarvi nelle vostre scelte e di darvi idee sempre nuove di cultura.
A sinistra, Greta Garbo sulla copertina del romanzo “Grand Hotel” (pag. 12); a destra, la scrittrice francese Gaëlle Josse al suo esordio con “Le ore del silenzio” (pag. 3)
TEMPO E MEMORIA. E UN PO’ DI MALINCONIA
E SE PARLASSIMO DI... JEFFREY EUGENIDES
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Due vincitori di premi importanti: da sinistra, il Pulitzer Jeffrey Eugenides (pag. 4 e 8) e il Booker Prize Julian Barnes (pag. 2)
Continua a pagina 4 e a pagina 8
INDOVINA L’INCIPIT UNA SCRITTRICE DI GIALLI CHE AMA LA CUCINA
Di lei si dice che è un’ottima cuoca. Ma è anche una brava giallista, Cristina Rava, che è approdata ad un’importante casa editrice, come Garzanti, dopo i numerosi polizieschi ambientati nella sua Liguria e pubblicati dall’editore ligure Frilli. Ecco il suo nuovo romanzo, “Un mare di silenzio”. Continua a pagina 13
Questa volta abbiamo pensato a un incipit facile, del romanzo di uno scrittore davvero famoso. Sapreste dirci qual è il titolo del romanzo?
“Carla capì che i genitori stavano per litigare. Nel preciso istante in cui entrò in cucina l’ostilità fra loro la investì come il vento gelido e penetrante che a febbraio spazzava le strade di Berlino prima di una bufera di neve.”
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IL SENSO DI UNA VITA CHE SI SVELA SOLO ALLA SUA FINE Qualcuno ha detto di Julian Barnes: o lo si ama, o lo si detesta. In effetti, questo suo ultimo romanzo, in ordine di tempo, non è semplice ed immediato. Viviamo in tempi veloci, dove si è sempre di fretta e dove l’azione è fondamentale per riuscire ad arrivare prima degli altri. Per questo, forse, un romanzo che non ha certo l’azione come suo punto di forza, potrebbe non essere apprezzato. E qui sta l’errore: è vero, “Il senso di una fine” è un romanzo lento, tutto incentrato sui pochi dialoghi tra i protagonisti e, soprattutto, sul pensiero del personaggio principale, l’io narrante, Tony Webster; ma è pur vero che questo è un romanzo intenso, profondo, pieno di malinconica
saggezza. E’ uno di quei romanzi che dovrebbero essere letti con una matita in mano o un quaderno di fianco, per sottolineare o annotare le frasi che devono essere ricordate. Preparatevi ad un grosso lavoro di sottolineatura, perché, a dispetto della
mole esigua del libro (la vicenda si snoda e si conclude in circa 150 pagine) c’è molto da evidenziare. E’ un flashback, quello che viene descritto nella prima parte del libro. Tony, o Anthony, come lo chiama uno dei suoi migliori amici, Webster è un sessantenne che ha condotto una vita piuttosto tranquilla, che gli è scivolata via senza troppi scossoni, grazie ad una serie di scelte ponderate ed equilibrate. Uno strano evento, però, lo riporta con la memoria alla sua giovinezza, nei lontani anni ’60: l’arrivo, impensato quanto enigmatico, di un’eredità di 500 sterline da parte di Sarah Ford, la madre di una fidanzata dei tempi di scuola, Veronica. Gli anni del liceo, e poi del college, riaprono, così, una finestra su un passato mai superato veramente, ma solo lasciato sospeso nel limbo dei ricordi. L’adolescenza, con i suoi turbamenti sessuali, le sue ribellioni generazionali, la voglia di sentirsi adulti e già esperti della vita più di quanto i propri genitori e insegnati non siano (“filosoficamente tautologica” è la loro definizione preferita data a ogni cosa): ecco cosa pensano Tony e i suoi due amici, Alex e Colin, un trio inseparabile al quale si aggiunge Adrian, colto, intelligente, diverso (è figlio di genitori separati, la madre se n’è andata di casa da tempo), in un certo senso distaccato da ciò che lo circonda (“...a sigillo della nostra unione noi tre portavamo l’orologio con il quadrante sull’interno del polso. Si trattava di un’affettazione, ovviamente, ma forse anche d’altro. Trasformava il tempo in qualcosa di personale, per non dire di segreto. Speravamo che Adrian notasse il gesto e lo emulasse, ma non lo fece.”). Adrian il filosofo, del quale tutti e tre i ragazzi cercano l’amicizia e l’approvazione. Dopo le superiori, le loro strade si dividono, com’è normale. Chi va all’università, chi lavora con il padre. Fioriscono le prime esperienze della vera, agognata vita adulta, comprese quelle sessuali. Tony incontra Veronica, si frequentano per un anno, lui conosce la famiglia di lei (un padre grossolano con l’alito di birra, un fratello più vecchio alquanto spocchioso, una madre, la Sarah che gl’invierà l’eredità quarant’anni più tardi) per un solo, pesante fine settimana, fanno sesso e, alla fine, si lasciano. Ma la storia non finisce qui: perché Veronica, che ha conosciuto i tre amici di Tony, si mette con Adrian, che scrive all’amico una lettera in cui gli chiede una sorta di benedizione per uscire con la sua ex ragazza. Tony si arrabbia, risponde con veemenza ad Adrian e se ne va negli Stati Uniti per sei mesi. Al suo ritorno, trova ad aspettarlo una terribile notizia che pone tragicamente fine al capitolo della giovinezza di Tony.
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LETTERARIA! La seconda parte del romanzo, la più lunga, vede Tony sessantenne che fa i conti con la propria vita. A questo lo porta un’improvvisa, piccola eredità di cui è beneficiario. Sarah Ford, la madre di Veronica, ha deciso di lasciare proprio a lui, il ragazzo della figlia incontrato solo nell’arco di un fine settimana quarant’anni prima, dei soldi (500 sterline) e un diario. Il diario di Adrian. Diario che, però, non giunge nelle mani di Tony, in quanto Veronica l’ha tenuto per sé. Inizia così un tira e molla tra i due ex fidanzati, pieno di vecchi risentimenti che riaffiorano quasi immutati grazie a quello strano lascito e, in certo senso, quasi incomprensibili,
Un Julian Barnes raggiante, finalmente vincitore, dopo averlo mancato per due volte, del prestigioso premio Man Booker Prize nel 2011 visto il poco tempo (un solo anno) in cui i due si erano frequentati. Tony inizia, così, a pensare alla sua vita, a quel periodo della sua giovinezza che non è mai stato superato del tutto; al compagno, preferito tra gli altri, l’amico che si è suicidato; al suo matrimonio finito con un divorzio, alla moglie, Margaret, che gli è amica, nonostante tutto; alla figlia, Susan, con la quale (e con che insistenza il protagonista ci tiene a precisarlo) lui va d’accordo. Intanto, prosegue la sua opera di convincimento su Veronica perché gli faccia avere quello che è suo, il diario di Adrian, ovvero i pensieri, le emozioni, l’esistenza stessa di quell’amico che Tony non è mai riuscito a capire veramente. Veronica è dura, gli fa avere piccoli assaggi di quello che Adrian ha scritto, ma senza mai mostrare troppo. E non fa altro che fomentare un certo rancore nel nostro Tony, he si riscopre, anzi ammette, di essere un uomo medio, che scopre, verso la fine della propria esistenza, di non essere riuscito a crearsi una vita degna di quella letteratura che tanto ammirava da ragazzo. “Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita? Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici? E più avanti si va negli anni, meno corriamo il rischio che qualcuno intorno a noi ci possa contestare quella versione dei fatti, ricordandoci che la nostra vita
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non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato. Agli altri, ma soprattutto a noi stessi.” Alla fine, Julian Barnes svela ogni segreto. Dopo aver disseminato il romanzo con piccoli misteri e interrogativi, che certamente il lettore si è posto, Barnes non delude e non lascia un finale aperto. Ma, nonostante una spruzzata di giallo, non è certo questo che conta del romanzo. Conta tutto il resto, la storia, come è stata scritta, l’indagine psicologica che lo scrittore porta avanti con il personaggio principale, Tony, ma anche (anzi, a volte anche con attenzione maggiore) dei due personaggi che fanno solo una breve comparsa nell’intera vicenda, ma che finiscono per aleggiare costantemente tra le pagine del romanzo: Adrian e Veronica. Forse i premi non contano così tanto, ma io penso che questo romanzo un premio così importante l’abbia davvero meritato, perché Julian Barnes è un vero scrittore che scrive romanzi che resteranno nella storia della letteratura. E, alla fine, dopo aver letto “Il senso di una fine”, forse tutti noi proveremo la necessità di porsi le domande che si pone Tony, mentre cerca di capire che uomo sia stato e che vita sia stata la sua. Insomma, fare un po’ i conti con noi stessi, prima che sia troppo tardi, sperando di non arrivare alla conclusione, amara e malinconica, dI Tony: “la nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato”. Julian Barnes, classe 1946, è nato a Leicester, nell’Inghilterra centrale. Figlio di due insegnati di francese, piccolissimo si trasferisce a Londra con i genitori. Dopo aver studiato a Oxford, lavora come editore letterario e critico cinematografico. Esordisce come scrittore nel 1980 con il romanzo “Metroland”. Nel 1982 esce “Before She Met” e nel 1984 “Il pappagallo di Flaubert” (edito in Italia da Rizzoli nel 1987 e da Bompiani nel 1997, ormai non procurabile) che gli frutta la prima nomina al Man Booker Prize, senza però vincerlo. Seguono una lunga serie di romanzi e raccolte di racconti (alcuni anche editi in Italia). Nel 2005 è ancora finalista del premio per “Arthur e George” (Einaudi). Le poche, purtroppo, opere ancora sul mercato italiano sono edite da Einaudi e sono magistralmente tradotte, come anche “Il senso di una fine”, da Susanna Basso.
Laura Fedigatti
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QUANDO IL SILENZIO DIVENTA UN COMPAGNO PER LA VITA La casa editrice Skira è nota soprattutto per i cataloghi che raccolgono le opere esposte nelle numerose mostre d’arte che vengono organizzate nel nostro paese. Forse pochi sanno che, negli ultimi anni, Skira pubblica anche narrativa. Una narrativa molto particolare, raffinata e di nicchia, che offre la scelta di deliziosi romanzi in una veste grafica altrettanto raffinata, che strizza l’occhio un po’, come dimensioni e tipo di carta utilizzata, ai libri della Sellerio (tranne che per la copertina, che è rigida e con sovracopertina). Tutti i racconti sono poi legati, in qualche modo, al mondo dell’arte. Una delle più recenti uscite di questa collana “Narrativa Skira” è il romanzo della francese Gaëlle Josse, “Le ore del silenzio”, sua opera prima che l’ha messa in luce sia in Francia che all’estero. Un quadro, “Interno con donna alla spinetta”, del 1665 del pittore olandese Emanuel de Witte, contemporaneo del più noto Vermeer, ha ispirato la scrittrice francese. La protagonista del suo racconto è proprio la donna ritratta di spalle mentre suona la spinetta, all’interno della sua casa di Delft. “Mi chiamo Magdalena van Beyeren. Sono io la donna di spalle nel quadro. Sono io la donna di spalle nel quadro. Sono la moglie di Pieter van Beyeren, l’amministratore della Compagnia olandese delle Indie orientali a Delft, e la figlia di Cornelius van Leeuwenbroek. Pieter ha ottenuto l’incarico di guidare la società da mio padre.” La sua innata riservatezza, una sorta di intimo pudore, le impongono la scelta non mostrare il proprio volto al pittore e a chi guarda il quadro, in un tempo in cui il ruolo delle donne era ancora limitato all’interno della famiglia. “Ho voluto essere ritratta di spalle nel dipinto. Strana richiesta, ha detto mio marito. Ma vedendo che ci tenevo, ha acconsentito senza sondarne le ragioni. La sua dimora e i suoi mobili dovevano essere rappresentati con il giusto decoro, questo era il suo unico desiderio, il resto erano futili stravaganze.” Moglie e figlia, ecco come si presenta, e anche madre, come scopriremo più avanti, in questo diario che Magdalena scrive dal 12 novembre al 16 dicembre 1667. Ripercorre la sua vita, da quando, fanciulla dodicenne, assiste a un delitto, mentre accompagna una domestica far visita alla sua famiglia, in una parte povera della città. Una visita vietata, Magdalena non si dovrebbe “mescolare” con i servi e la povertà. Ecco perché la giovane sguattera, timorosa di una punizione, le fa promettere di non rivelare quello che hanno visto: tre uomini a cavallo che uccidono un altro uomo. Del delitto sarà accusata una povera donna; torturata e accusata di stregoneria (come era così usuale all’epoca per le donne), verrà bruciata sul rogo. Legata alla parola data, Magdalena vivrà per sempre con il rimorso di non aver salvato la donna. “Da quel giorno, il calar della sera per me è un’ora tormentata. Sono colpevole d’aver prestato un
giuramento che mi ha vincolato al peggio, facendo di me la complice di una menzogna e della condanna di un’infelice di una morte orrenda”. La vita, però, va avanti. Nella copertina del libro, è raffigurato il Magdalena quadro “Interno con donna alla spinetta”, cresce, la del pittore de Witte bambina si trasforma una donna, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Arriva per lei anche il tempo di scegliersi un marito, e lo farà liberamente, decidendo di sposare il giovane di cui si è innamorata, Pieter, comandante di nave senza fortuna ma di buona reputazione. Al matrimonio segue la nascita dei figli (numerosi, come si può immaginare) e Magdalena è totalmente coinvolta nel suo ruolo di madre, con la casa da mandare cavanti e l’educazione dei figli da seguire. Siamo nell’Olanda della seconda metà del XVII secolo, periodo felice per il paese, uscito vincitore contro la Spagna dalla Guerra degli Ottant’anni e che è ormai una ricca potenza che controlla buona parte del commercio marittimo. Per Magdalena e la sua famiglia questo significa il benessere economico e la fortuna di poter condurre un’esistenza tranquilla. “Col tempo, torniamo più facilmente alle nostre gioie d’infanzia, sono i ricordi che ci accompagnano con rara fedeltà. Ritrovare ciò che abbiamo provato in quei momenti rimane una fonte di felicità che nessuno potrà sottrarci. Il corso delle nostre vite è disseminato di pietre che ci fanno inciampare e di certezze che si fanno via via più deboli. Possediamo solo l’amore che ci è stato dato e che non ci è mai stato ripreso”. “Le ore del silenzio” è un romanzo di rara finezza, un libro prezioso, incantevole, un gioiello di narrativa da tenere vicino, per poterne leggere qualche pagina di tanto in tanto.
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RIDI E AVRAI LE RUGHE GIUSTE RUBRICA DEL BUON UMORE
A CURA DI FRANCESCA PROTTI Un libro è un bel libro quando ti sorprende. Avevo scelto “La Trama del Matrimonio” di Jeffrey Eugenides perché come la sua protagonista, Madeleine Hanna, mi sono sempre lasciata conquistare dai romanzi di Jane Austen, George Eliot e le sorelle Brönte, insomma da tutti quei romanzi in cui l’amore viene sempre descritto in toni per cui, quello reale, non è mai in grado di reggere il confronto. Leggendo però, ho scoperto un libro che non mi aspettavo. Costa nord-orientale degli Stati Uniti, anno 1982. La rivoluzione sessuale degli Anni Settanta stempera i suoi strascichi nei primi Ottanta quando i tre protagonisti si incontrano al college: Madeleine, ragazza di buona famiglia, bella, intelligente, ricca e sicura di sé; Leonard, proveniente da Portland da una famiglia disfunzionale con genitori alcolizzati e divorziati, che lo portano a diventare maniacodepressivo; Mitchell, intelligente, appassionato di teologia e storia delle religioni. Mitchell ama Madeleine che ama Leonard. E su questa asimmetria si gioca tutto il romanzo. La Trama del Matrimonio però, non è solo un affascinante intreccio à trois, è un dissacrante affresco della società intellettuale americana appena uscita dagli anni Settanta, dove una studentessa come Madeleine, amante della letteratura vittoriana, si trova spaesata e fuori moda rispetto ai suoi colleghi che studiano semiotica. Per non cantare fuori dal coro, Madeleine si iscrive al corso di semiotica senza nemmeno saper pronunciare il nome di Roland Barthes, figuriamoci capirne l’opera. Ma saranno proprio i Frammenti di un discorso amoroso a segnare la giovane studentessa, che farà di quel libro il suo romanzo feticcio. Madeleine si lascierà condurre, come i suoi compagni, in una discesa profondissima negli abissi della solitudine, della depressione, dell’eterno conflitto tra libertà individuale e aspettative sociali, tra istinto e razionalità. Non si può che sottoscrivere il parere di altri. In questo libro, a conquistarti è la bravura di Eugenides a scrivere. Le pagine scorrono veloci, le frasi sembrano nate per essere una di fianco all’altra, con una naturalezza che non è così scontata. Le dinamiche fra i tre protagonisti ti prendono, rimani in sospeso per le crisi di Leonard, per i viaggi e le avvenute di Mitchell, per le sofferenze di Madeleine. E’ bello viaggiare con Mitchell prima in Europa e poi in Asia, o vivere con Madeleine e Leonard in New Jersey e in Massachusett; è interessante e stimolante seguire gli studi di biologia di Leonard, di teologia di Mitchell, di letteratura inglese di Madeleine. Un romanzo pervaso di libri e di amore per la letteratura. Un libro che ti fa pensare. È un capolavoro contemporaneo che non potrà mancare di affascinare il lettore a più livelli, dalla trama al piano meta letterario, composto da citazioni colte perfettamente inserite nel tessuto narrativo del testo. <<Il romanzo aveva raggiunto l'apogeo parlando del matrimonio e non si era mai ripreso dalla sua dissoluzione. (...) L'uguaglianza dei sessi, se buona per le donne, era stata una disgrazia per il romanzo, e il divorzio
aveva fatto il resto.>>…<<Dove si trovava un romanzo sul matrimonio, al giorno d’oggi? Da nessuna parte. Per trovarlo bisognava leggere i romanzi storici o quelli di autori non occidentali che descrivevano società tradizionali: autori afghani, indiani. Si doveva tornare, letteralmente parlando, indietro nel tempo.>> Chi se lo sarebbe mai aspettato da uno scrittore i cui due romanzi precedenti erano “Le vergini suicide” (1993) dove un gruppo di preadolescenti spiava il mondo intimo e miracoloso delle ragazze, le cinque sorelle Lisbon, ammalianti e tragiche, e “Middlesex”, che gli valse il Premio Pulitzer nel 2003, dove si sviscera l'essenza stessa della sessualità, fino alle sue basi biochimiche, raccontando la storia di Calliope Stephanides, un ermafrodito che vive i suoi primi anni da bambina e poi si muove lentamente verso la mascolinità: «Una ragazza con i capelli rossi di Grosse Pointe si innamorò di me, non sapendo cosa fossi. (Piacevo anche a suo fratello)». È una di quelle frasi che bastano a farti ricordare un romanzo. E il terzo, “La Trama del Matrimonio” … beh, non si può proprio definire Jeffrey Eugenides un scrittore prolifico, non al ritmo di un romanzo ogni dieci anni … non è da meno. Non è solo una discesa nelle profondità dell’animo o un arguto viaggio meta letterario. Ogni pagina strappa un sorriso se non addirittura una risata. Aveva dato prova a sufficienza di debolezza e disperazione. Adesso era giunto il momento di dimostrare, per quanto possibile, coraggio e decisione. E lo fece lasciandosi cadere lentamente su un fianco e rannicchiandosi in posizione fetale sul divano. Oppure “Vorrei indire una riunione di famiglia.” Sentendo dell’attività, l’alano dei vicini abbaiò doverosamente tre volte, poi si mise a fiutare il terreno alla base dello steccato. Citarne altre sarebbe inutile oltre che pedante. Lascio a chi deciderà di leggere La Trama del Matrimonio il piacere di gustare lo stile tragicomico di Eugenides, di ridere delle sue frasi “spiazzanti”, come mi ha giustamente suggerito qualcuno. Altri, invece, si sono sorpresi del mio trovare il romanzo divertente, ma a questi mi sento di obiettare che forse, per superare le avversità della vita o il critico passaggio dall’università all’età adulta, un sorriso è il traghetto migliore.
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ALLA FIERA DELL’EST* RUBRICA DI LETTERATURA EBRAICA A CURA DI LAURA FEDIGATTI
In questi ultimi anni, una casa editrice italiana di grande prestigio e dal catalogo ricco di meravigliosi autori, Adelphi, ha ottenuto il grande merito di aver iniziatola pubblicazione di una scrittrice quasi dimenticata e che può, a buon diritto, entrare nell’olimpo di quegli scrittori che hanno fatto grande la letteratura europea del Novecento. Stiamo parlando di Irène Némirovsky, prolifica scrittrice russa ma naturalizzata francese, ebrea ma convertita al cattolicesimo. Conversione che non le evitò l’arresto, nel luglio 1942, da parte della guardia nazionale francese a seguito delle leggi razziali varate nel 1940 dal governo filonazista di Vichy. Il marito, Michel Epstein, anch’egli di origini russe, sposato nel 1926 a Parigi, nel tentativo di salvare la moglie, fu arrestato ed entrambi finirono i loro giorni ad Auschwitz. Si salvarono le due figlie, Denise ed Élisabeth (nate rispettivamente nel 1929 e nel 1937) grazie ad alcuni amici dei loro genitori. Con le bambine, si salvarono anche molti manoscritti di Irène, che saranno
Irène Némirovsky pubblicati anche grazie alla volontà delle figlie di mantenere viva la memoria della scrittrice. Irène era nata l’11 febbraio 1903 a Kiev. Il padre, Léon Némirovsky, era originario della città ucraina di Nemirov, ma era nato nel 1868 a Elisabethgrad, la città da dove dilagò, nel 1881, la grande ondata di pogrom contro gli ebrei russi che durò per molti anni. Léon viaggiò molto e, alla fine, divenne uno dei banchieri più influenti in Russia. La moglie, Fanny, nata nel a Odessa nel 1887 (morirà a Parigi nel 1989, sopravvivendo moltissimi anni alla figlia), non era certo un
esempio di amore materno. Aveva dato alla luce la figlia solo per compiacere il marito e si disinteressò di lei completamente. Iréne, che visse un’infanzia dorata nella grande casa di San Pietroburgo, fu una bambina infelice e sola, ignorata da un padre interessato solo agli affari, addirittura odiata dalla madre, il cui unico interesse era rappresentato da una cura ossessiva della propria bellezza e dai giovani amanti di cui si circondava. Successivamente, quando Iréne diventò adolescente, Fanny si ostinò a vestire la figlia come se fosse un’eterna bambina, un inganno verso se stessa, per non avere sotto gli occhi la prova del tempo che passa (e che minava la sua bellezza). Iréne, cresciuta dai precettori e da una governante francese, da cui imparerà la lingua che utilizzerà per scrivere le sue opere (fu una poliglotta, la Némirovsky, in quanto, oltre al russo e al francese, parlava correntemente anche il polacco, l’inglese, il basco, il finlandese e capiva lo yiddish), sviluppò un odio e un disprezzo totali per quella madre bella e distante. Questo rapporto anomalo tra madre e figlia sarà uno dei temi della letteratura della Némirovsky e i romanzi in cui viene trattato rappresentano la vendetta di Iréne nei confronti di Fanny. Ne “Il ballo”, un piccolo capolavoro di ottantatré pagine pubblicato nel 1930, la quattordicenne Antoinette si vendicherà della madre, della sua mancanza di amore perché tutta tesa a consolidare il suo status sociale. E lo farà in un modo non premeditato, ma proprio per questo ancora più subdolo e crudele, sabotando il ballo che la madre ha organizzato, un ballo grandioso a cui sono invitate tutte le personalità di alto rango e che, per la madre di Antoinette, è più importante della figlia. “Una specie di vertigine si impossessò di lei, un bisogno selvaggio di commettere una bravata, di fare del male. Serrando i denti, prese le buste, le accartocciò fra le mani, le lacerò e le buttò tutte insieme nella Senna. Per un lungo istante, trattenendo il respiro, le guardò svolazzare contro l’arcata del ponte. Alla fine il vento le trascinò nell’acqua.”
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LETTERARIA! E ancora in “Jezabel” (uscito nel 1936) la protagonista è una donna dell’alta borghesia francese che non riesce ad accettare il passare del tempo e, quindi, lo sfiorire della sua bellezza. Ma è “Il vino della solitudine” (1935) il romanzo in cui Iréne da maggiormente sfogo a tutto l’odio accumulato nell’infanzia per sua madre. Tutta l’infelicità che lei stessa ha vissuto è chiaramente espressa dalla giovane protagonista, Hélène, trascurata dalla madre per il giovane amante. Fuggita dalla Russia poco dopo la rivoluzione d’ottobre e stabilitasi a Parigi, una Hélène ormai adulta vorrà vendicarsi di quella donna che sta invecchiando (“Ti farò piangere come mi hai fatto piangere tu!”). Una vendetta che, alla fine, Hélène non saprà mettere in pratica se non isolandosi dal mondo. Nel 1919 la famiglia Némirovsky arriva a Parigi. Irène ha già iniziato a scrivere e nel 1921 pubblica il suo primo scritto su una rivista. Nel 1923 scrive la sua prima novella “Un bambino prodigio” (l’unico romanzo non pubblicato, in Italia, da Adelphi ma dalla casa editrice La Giuntina), storia di un ragazzo ebreo di Odessa dal talento poetico e canoro prodigioso che sarà, per lui, fortuna e rovina insieme. Il 1929 è l’anno magico per Irène: l’editore Ber nard Grasset, entusiasta di un manoscritto arrivato per posta dal titolo “David Golder”, decide di pubblicare il libro. Unico problema, non c’è un nome o un indirizzo cui rivolgersi. Grasset mette un annuncio sui giornali e si stupisce quando si presenta questa giovane donna dall’aria tranquilla, tanto da interrogarla per assicurarsi che il libro lo avesse scritto proprio lei. “Daniel Golder” diventa subito un successo, elogiato dalla critica, lodato da scrittori di diversa estrazione per la purezza della prosa, la maestria con cui la scrittrice descrive la vicenda, la profondità con cui analizza i risvolti psicologici dei personaggi. E soprattutto, mette già in mostra la brillantezza, la ferocia, l’audacia con cui Irène affronta la critica nei confronti della società cui lei stessa appartiene. David Golder è un ebreo di origine russa, nato povero a Odessa, diventato magnate della finanza internazionale. Gloria, la moglie, abituata a un tenore di vita altissimo con al paura di invecchiare, chiede sempre più soldi per i suoi vizi. Golder si ritrova vecchio e rovinato. Per amore della figlia (peraltro,
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ingrata e frivola come la madre) Golder cerca di ricostituire il patrimonio di famiglia. Morirà stremato sulla nave che porta poveri ebrei di Odessa verso l’Europa e, forse, verso una vita migliore. Anche qui, Némirovsky traccia già l’altro tema fondamentale della sua narrativa: la critica, feroce e profonda, dei nuovi ricchi, dell’alta società frivola e superficiale, che vede nella smania di accumulare denaro e di frequentare le persone giuste l’unico scopo della propria esistenza. Una critica volta così spesso agli ebrei, tanto da descriverli con grande disprezzo fin da questo primo, brillante romanzo che mostra
Irène Némirovsky con le figlie Denise ed Élisabeth e il marito Michel Epstein
già la grande maturità e sicurezza della scrittrice. Irène utilizza espressioni quasi antisemite nei confronti dei propri correligionari, come a prendere le distanze dal mondo cui lei stessa appartiene. Eppure, nonostante aderisca a tutti gli stereotipi negativi che si attribuivano agli ebrei, la scrittrice non rinnegherà mai il suo ebraismo e si sentirà sempre ebrea nonostante la conversione. In un’intervista a “L’univers israélite” del 1935, si dichiara orgogliosa di essere ebrea e all’accusa di essere contro il suo popolo, lei risponde di essere contro alla passione per il denaro, che ha preso il posto di altri sentimenti. La conversione, avvenuta più tardi nel 1939 in tempi che lasciavano già presagire quello che sarebbe successo, fu una scelta dettata dalla speranza di poter dare una certa sicurezza alle figlie. Abbiamo detto che i Némirosvky si stabilirono, dopo una serie di soggiorni in Finlandia, Svezia e un drammatico viaggio per mare, a Parigi. Irène si adeguò subito all’atmosfera spensierata della Francia e, giovane donna dal carattere allegro, si gode finalmente la vita, avendo messo da parte gli anni tristi dell’infanzia solitaria. Frequenta l’ambiente della borghesia bene, va alle feste, flirta con i giovani che la circondano di attenzioni. E, intanto, si laurea a pieni voti in Letteratura alla Sorbona, mette su famiglia e scrive.
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LETTERARIA! Molto ci sarebbe da dire per ogni romanzo di Irène Némirovsky, scrittrice prolifica che ha scritto numerosi romanzi. Oltre a quelli già nominati, vorrei ricordarne alcuni: “L’affare Kurilov”, del 1933, uno strepitoso romanzo breve, in cui il protagonista, un giovane rivoluzionario russo fuggito in Svizzera, deve entrare nelle grazie del potete e crudele ministro zarista Kurilov per ucciderlo. Portare a termine questo compito risulterà più difficile del previsto, perché il giovane sicario, vivendo a contatto col temibile uomo politico, ne vedrà le debolezze, l’umanità. Qui, Irène dà prova di una grande capacità di introspezione psicologica e di una speciale maestria nel delineare situazioni e carattere dei personaggi con pochi tratti di penna. Ne “I cani e i lupi”, del 1940 e ultimo romanzo pubblicato quando la scrittrice è ancora in vita, Irène racconta la storia di Ada e Harry, bambini di Kiev, povera lei e ricco lui, divisi dall’estrazione sociale nel loro paese d’origine, ma che si riuniranno da adulti a Parigi. Nella prefazione, la Nemirovsky scrive che è “una storia di ebrei” e ribadisce la sua intenzione di descrivere il popolo ebraico “con i suoi pregi e i suoi difetti”, lasciando un racconto pieno di verità e anche amore per il suo mondo. Ma è “Suite francese” il romanzo considerato il suo capolavoro, oserei dire il suo testamento letterario, l’ultima fatica della grande scrittrice. Irène inizia a scrivere, con una grafia piccolissima per risparmiare la carta, bene introvabile in tempo di guerra, i primi due libri di una “sinfonia in cinque movimenti” quando l’invasione nazista della Francia è già attuata. La sua intenzione è quella di lasciare un affresco veritiero, duro, lucido e implacabile di un paese sotto l’occupazione tedesca, con frotte di francesi in fuga, ricco di avvenimenti e di personaggi di ogni estrazione sociale e di ogni moralità. “Tempesta in giugno” è il primo libro e
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racconta la fuga in massa dei parigini prima dell’arrivo dei tedeschi. “Dolce”, il secondo libro, ha come nucleo centrale la storia d’amore tra una “sposa di guerra” francese e un soldato tedesco. Irène viene arrestata prima di p o t e r fi n i r e l’opera. Quello che ne è rimasto ha viaggiato, di rifugio in rifugio, in una valigia con le piccole Epstein, fino a quando, ormai adulta, Denise decide di leggere quello che lei pensava essere il diario della madre. Insieme alla sorella, dirigente editoriale, fa pubblicare il libro: diventa un caso letterario in Francia e, finalmente, riporta alla luce una grandissima scrittrice. Irène muore il 17 agosto 1942, a trentanove anni. Le fotografie ci mostrano una donna dal sorriso dolce, l’aria sofisticata, da intellettuale. Avrebbe scritto ancora numerosi, straordinari romanzi, oppure la sua suite sarebbe stato il capolavoro finale. Non ci è dato saperlo, purtroppo. Accontentiamoci, si fa per dire, di quello che Irène ha potuto scrivere. E, credetemi, non è poco
*”Alla fiera dell’est” è un canto pasquale ebraico, “Chad Gadya”, a cui si è ispirato Angelo Branduardi per la sua celeberrima canzone
Un’altra immagine di Irène Némirovsky
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IL BATTITORE LIBERO* LETTURE CON LICENZA DI AVANZARE A CURA DI ANTONIO SEGRINI
Luminoso è il primo aggettivo che mi viene in mente quando penso a “Middlesex”. E questo non certo perché il medico che decreta che la Calliope (io narrante del romanzo) sia in realtà un ragazzo, si chiami Dott.Luce. Per la verità una luce intensa risplende lungo tutto l’arco della storia, dal 1922 ai giorni nostri e non abbandona mai la fervida immaginazione di Jeffrey Eugenides e la sua ispiratissima penna. Perché, diciamoci la verità, l’originalità che prorompe da queste pagine ha pochi riscontri in altre opere. Non a caso, Middlesex ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa nel 2003 e l’autore ha dimostrato come si può trattare un argomento spinoso come quello dell’identità sessuale con una grazia ed una leggerezza straordinarie, con picchi di altissima letteratura senza perdere in scorrevolezza e senza la benchè minima caduta di tono. La vicenda prende le mosse agli inizi degli anni ’20 a Bitinio, un piccolo villaggio in una zona dell’Asia minore contesa tra greci e turchi. Desdemona ed Eleutherios (“Lefty”) Stephanides, nonni di Calliope, in fuga da Smirne incendiata dalle forze di occupazione turche, sono in realtà fratello e sorella. Riescono ad imbarcarsi sulla nave che salpa per la lontanissima America ma poi, una volta a bordo, fingono di non conoscersi. Sanno che, se fossero marito e moglie, non avrebbero problemi ad ottenere il visto una volta arrivati a destinazione. Cito “Trascorsero il viaggio recitando quel corteggiamento immaginario e, a poco a poco, cominciarono a crederci perfino loro. Costruirono ricordi, inventandosi un destino. Perché lo facevano? Non avrebbero potuto raccontare di essere già fidanzati quando si erano imbarcati? O che il loro matrimonio era stato combinato da anni? Sì, naturalmente, avrebbero potuto farlo benissimo. Ma non stavano cercando di ingannare gli altri; dovevano ingannare se stessi”. Perché, in realtà, una forma di attrazione tra i due esiste già (per la verità più di Lefty verso Desdemona che viceversa), negli sperduti villaggi sulle montagne le unioni tra consanguinei non erano affatto infrequenti e questa sarà la causa primigenia della particolare condizione sessuale della nostra Calliope. Ma andiamo con ordine: Desdemona e Lefty si sposano sulla nave, ad attenderli a Detroit c’è Sourmelina, cugina di Desdemona,costretta dal padre anni prima ad emigrare per le sue, all’epoca vergognose, inclinazioni omossessuali e a sua volta maritata per procura ad un curioso personaggio, un certo Jimmy Zizmo. Dai due matrimoni nascono rispettivamente Tessie e Milton i quali, dopo infiniti corteggiamenti e ripensamenti, pause dovute al secondo conflitto mondiale, diventeranno i genitori di Calliope. Addirittura Milton, basandosi su cervellotiche teorie di un chiropratico di famiglia, programma in modo scientifico il concepimento allo scopo di dare alla moglie la figlia
desiderata, Tessie inorridisce ma alla fine si piega ai suoi voleri. E così, nel 1960, viene alla luce Calliope, femmina nonostante il cucchiaio di Desdemona, fin lì infallibile, avesse predetto la nascita di un maschio. E come femmina la piccola Callie viene allevata, cresciuta nella clamorosa cecità del vecchio dottor Philobosian, salvato dallo sterminio di Smirne (non così fortunati furono la moglie ed i figli) ed adottato come medico di famiglia a vita dagli Stephanides tutti, che non si accorge di un piccolo, veramente minuscolo particolare. Nel frattempo a Milton, partito con un piccolo
Jeffrey Eugenides bar, passato all’apertura di un ristorante e poi divenuto proprietario di una catena di hot dog, gli affari vanno a gonfie vele ed il passo successivo è il trasferimento nella casa “più futuristica e allo stesso tempo più antiquata del mondo” di Middlesex Boulevard, un nome una profezia… Fin dalla pubertà Callie comincia a provare attrazione per le ragazze e più tardi, frequentando la scuola, le sue tendenze si manifestano in modo evidente (per lei), ma nello stesso tempo molto discreto (per chi le sta accanto). E’ in conseguenza ad un banale incidente capitatole a 14 anni ed al susseguente ricovero in ospedale che la sua reale identità sessuale viene finalmente allo scoperto, da qui il consulto con un luminare, il Dott.Luce, ed il verdetto: a causa della natura incestuosa dei rapporti avvenuti da secoli nella sua generazione, Calliope, da questo momento in poi Cal, è una rara specie di ermafrodito,alla base di tutto c’è la carenza di un enzima deputato alla conversione del testosterone.
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LETTERARIA! Naturalmente una rivelazione di questo tipo, unita alla scoperta delle reali intenzioni del dott.Luce che vuole operarla senza garanzie di riuscita ma solo per dare lustro alla sua carriera, sconvolge la mente della giovane che fugge e comincia a vivere come un ragazzo. Ci riuscirà, dopo essere passato attraverso esperienze drammatiche ed umilianti, con una grandiosa forza interiore. Può un libro che termina con un funerale riuscire a strappare sorrisi? La risposta in questo caso è un fragoroso sì! Bellissimo, un capolavoro assoluto, che dispensa buonumore a piene mani nonostante l’estrema delicatezza dell’argomento trattato, Middlesex è colto senza ostentare, l’erudizione resta sotto traccia e non è mai fine a se stessa e poi, dove trovate un personaggio con un nome meraviglioso come Chapter Eleven? Voto: cinque stelle e sono poche. Jeffrey Eugenides, nato da genitori di origine greche nel Michigan nel 1960, vive nei luoghi e frequenta gli istituti raccontati mirabilmente in Middlesex. Prima di vincere il Pulitzer ha pubblicato “Le vergini suicide” (1993), portato nel 1999 sul grande schermo da Sofia Coppola. Il suo ultimo romanzo è del 2011 e si intitola “La trama del matrimonio”.
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La copertina del libro nell’edizione economica di Mondadori. Sotto, la versione originale della prima edizione americana.
“Il mio interesse era in parte scientifico, zoologico. Non avevo mai visto una creatura con tante lentiggini. Sul suo naso si era verificato un big bang e la forza dell’esplosione aveva mandato galassie di efelidi alla deriva in ogni punto del suo curvo universo a sangue caldo. C’erano nebulose di lentiggini sulle braccia e sui polsi, un’intera galassia sulla fronte, perfino qualche quasar sulle orecchie”. “E così fui io che, seguendo un’antica usanza greca di cui nessuno più si ricordava, rimasi a Middlesex a bloccare la porta in modo che lo spirito di Milton non potesse rientrare in casa. Toccava a un uomo e adesso io avevo i requisiti necessari” Brani tratti da “Middlesex” di Jeffrey Eugenides
*Fino agli anni '80 veniva definito "battitore libero" quel calciatore che, sgravato da compiti di marcatura fissa degli avversari, era appunto "libero" di giostrare a suo piacimento alle spalle dei difensori suoi compagni di squadra o di avanzare a sostegno degli altri reparti.
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YOGA NON E’ YOGURT*... ... ma molto altro RUBRICA DI YOGA E DINTORNI A CURA DI FRANCESCA PROTTI
Consapevolezza, per esempio. Consapevolezza di sé, ma anche degli altri e del mondo che ci circonda. Ischia, settembre 2007. In spiaggia confessai alla mia amica ballerina che avevo in animo di iscrivermi a un corso di yoga. Wow!, commentò lei, sai che consapevolezza del corpo ti verrà? Niente di più vero. Dopo cinque anni di pratica posso sottoscrivere in pieno le parole testé riportate. Non c’è come mettersi in dialogo con se stessi per conoscersi, capirsi, imparare ad ascoltare i messaggi che il nostro corpo ci manda, il nostro personale maestro, come lo chiama il mio insegnante di yoga. E, prestate attenzione, parlo del corpo non della mente. Quest’estate ho preso parte a un seminario di yoga. Un pomeriggio, prima di riprendere la pratica dopo la pausa postprandiale, con gli altri partecipanti siamo giunti alla conclusione che la mente … mente. Non è né un gioco di parole né uno scioglilingua, ma solo la pura e semplice verità. La mente ti convince che le sue bugie sono il vero, ma il più delle volte non è così. La mente è intelligente e un po’ subdola, capace di circuirsi da sola. Il corpo, invece, forse è meno furbo, ma proprio per questo più trasparente e veritiero. Dopo quel confronto, al mio ritorno a casa ho ripreso in mano “Pensare con il corpo” di Jader Tolja e Francesca Speciani. Perché usare pochi centimetri quadrati di materia grigia se abbiamo a disposizione tutto il corpo?, si domandano i due esperti in anatomia esperienziale e in psicosomatica. Perché non seguire il consiglio di un personaggio del calibro di Albert Einstein, il quale, quando non riscriveva le leggi dell’universo (chiedo venia a chi ne sa più di me per qualsiasi strafalcione io stia per scrivere o abbia già scritto), esprimeva la propria opinione al riguardo in maniera mirata e scientifica, Abbiamo bisogno di pensare con le sensazioni nei nostri muscoli? Rileggendo le pagine di Tolja e Speciani, mi è tornata alla mente una scena di molti, ahimè, molti anni or sono. Afflitta da un seccante arrossamento della pelle dei gomiti, ogni sera mia sorella doveva applicare una crema per cercare di curare il problema. Nostra madre, una volta, sbottò perché somatizzi? A 16, 18, 20 anni quella domanda non ti dice niente, ma dopo, con l’età e l’esperienza ne comprendi appieno il significato. E si ritorna, quindi, al fatto che la tua mente può anche raccontarti un sacco di cose, ma chi è davvero onesto con te non è lei, ma piuttosto il tuo corpo. Quel corpo che, senza mezzi termini, maltratti con diete da fame o con un’alimentazione squilibrata, distruggi con ore di palestra o deformi con posture e stili di vita scorretti. Un corpo, che tutti noi dovremmo cercare di preservare meglio.
Mens sana in corpore sano, dicevano gli antichi. Se il corpo sta bene, anche la mente ne trae giovamento. E allora, ricominciamo a pensare con il corpo, ad ascoltarlo, a cercare di capire da dove arriva un mal di schiena o un mal di stomaco, invece di zittire il sintomo con analgesici e antiacidi. Apriamoci a una visione circolare di noi stessi, abbandonando quella che separa la testa dal fisico. La percezione interna del corpo cambia concretamente il nostro rapporto con la professione, lo spazio, il tempo, le persone, il vestire, il linguaggio, il cibo, la sessualità. La ente e la sua struttura emotiva determinano la forma e la salute del corpo, la nostra organizzazione fisica determina i nostri pensieri e le nostre emozioni. Un approccio somatico consente di vedere lo stesso fenomeno a livello fisico e a livello emotivo, di valutare come cambi forma quando passa da un campo all’altro, di prendere coscienza del fatto che la scomparsa di un disagio emotivo si associ alla comparsa di uno fisico. Il libro si articola in tre parti più un’ultima sezione dedicata, principalmente, ad alcune considerazioni. Dopo aver enumerato i principi che si trovano dietro al funzionamento di alcuni aspetti del nostro essere (parte I), gli autori descrivono i tre criteri con i quali è possibile comprendere i collegamenti con cui tutte le diverse caratteristiche della vita di un individuo, vale a dire mente, corpo e malattia, sono collegate tra loro (parte II). La terza parte, intitolata Stili di vita, vuole esemplificare come l’esperienza della percezione corporea può modificare punti di vista usuali e come ciascuno di questi aspetti della vita quotidiana partecipi alla definizione del nostro modo di essere. Come dicevo in apertura, la consapevolezza è di se stessi, in primis, ma anche degli altri, per il semplice fatto che se impari a pensare con il tuo corpo, poi riesci a leggere quello degli altri. Qualcuno non ha forse detto che un gesto, che viene dal corpo, vale più di mille parole, che vengono dalla mente? Ed è anche consapevolezza del mondo e di quanto male gli stiamo facendo.
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SOTTO IL TIGLIO* PICCOLA RUBRICA DI CULTURA TEDESCA A CURA DI FRANCESCA PROTTI
La porta girevole ruota su se stessa, e non smette mai di girare, girare, albergo. Basti pensare all’Hotêl de Bains ne “La Morte a girare… Venezia” di Thomas Mann, o all’Hotel Occidental ne Al Grand Hotel di Berlino la porta girevole, con il suo aprirsi “L’America” di Franz Kafka. Tanta popolarità derivava dal e chiudersi constante, al tempo stesso separa e unisce, include prolungato crepuscolo che il Gran Hotel visse tra le due ed esclude il caos reale da un lato e il (micro)cosmo artificiale guerre. Anacronismo e musealità lo resero una vero e proprio dall’altro. In “Grand Hotel” i personaggi non sono solo le mito, un luogo extra-territoriale, una sorta di tempio sei persone le cui vite si intrecciano, ma l’edificio stesso è un governato da rituali immutabili che esorcizzavano i demoni personaggio, il settimo, l’unico che non cambia. E non a caso, del mondo che stava cambiando. Nelle sue regole inderogabili la traduzione in inglese, per prima, ma tutte la altre con essa, e nella sua disciplina discreta, ma ferrea, era una riproduzione scelsero di dargli sin dal titolo il giusto risalto. in miniatura della società d’anteguerra, così come l’esercito di Vicki Baum, scrittrice, inservienti riproponeva la molteplicità delle gerarchie sociali. sceneggiatrice e giornalista austriaca Infine, ultimo debito della sua epoca naturalizzata statunitense, aveva è il modo in cui la storia viene pensato ad un più generico, narrata. In prima battuta, il romanzo Menschen in Hotel (Persone in Hotel). d’inchiesta e quello poliziesco, si In quello che diventerà uno dei fondono tra loro insieme al romanzo primi best seller internazionali la metropolitano e al romanzo rosa. Un Baum voleva solo narrare di pastiche dalla forte valenza ironica e Otterschlag, il medico militare straniante per i vari punti di vista che reduce dalla Grande Guerra, si affiancano e alternano, quello distrutto nel fisico e nel morale, di dell’autrice e quelli dei suoi Geigern, personaggi. Dall’altro lato, il testo anch’egli reduce e incapace di molto deve alla neonata settima arte. adattarsi alla Germania post-bellica, “Pure cinema”, per citare i giudizi di Kringelein, un contabile di statunitensi contemporanei, per provincia condannato da un male l’alternanza di ritmi e improvvise incurabile e per questo desideroso di accelerazioni, distesi rallentamenti vivere davvero prima di spegnersi intercalati da flashback. Un continuo per sempre, della Grusinskaja, cambio di prospettiva da quella ballerina or mai sul viale del La scrittrice austriaca Vicky Baum panoramica sulla vita dell’albergo, ai tramonto alla disperata ricerca di un primi piani dei personaggi, agli zoom ultimo grande successo, di Preysing, sui loro volti e storie. Ma puro cinema direttore generale di una fabbrica anche per la fotografia, minuziosa, per la narrazione in tessile in difficoltà, di Fiammetta, fanciulla giovane e bella che simultanea delle vicende, per la chiusura in dissolvenza. “La si arrabatta in ogni modo e con ogni mezzo a sbarcare il porta girevole ruota su se stessa, e non smette mai di girare, girare, lunario. Nessuno, però, è il personaggio principale. Nell’arco girare…” di soli quattro giorni di storia le vicende dei sei testé Alla primissima trasposizione teatrale del 1930, ne fece subito menzionati sono riferite in linee parallele che si intrecciano seguito, nel ’32, una più famosa su pellicola. La MGM, a quei come le eliche di DNA. Un group novel con cui si delinea uno tempi il più importante e ricco studio di Hollywood, adottò spaccato della società tedesca, un romanzo corale che cerca di per la prima volta la formula “all-stars cast” scegliendo Greta raggiungere vari settori di un pubblico che si immagina vasto Garbo, Joan Crawford e John Barrymore come attori ed eclettico. protagonisti. Il film divenne un classico hollywoodiano la cui Qui, l’unico, vero protagonista è, forse, proprio il Grand fama non si alterò per decenni, tanto che nel 1959 ne venne Hotel che nella sua granitica e ripetitiva immutabilità si fatto un remake. Non del titolo, però, quello rimase Grand oppone alle impreviste metamorfosi di tutti gli altri Hotel. personaggi, è il collante tra i sei personaggi umani. “È una cosa strana quella che succede agli ospiti di un grande albergo. Nessuno esce dalla porta girevole tale e quale com’era al suo arrivo”. * Unter den Linden (Sotto il Tiglio) è uno dei più bei viali La scelta del Grand Hotel come sfondo della storia non è di Berlino, che prende il proprio nome dall'incipit di un canto casuale. In quegli anni era il simbolo popolare di vita d'amore di Walter von der Vogelweide, poeta medievale (1170 privilegiata e moderna, scenario non nuovo nel panorama ca. – 1230 ca.). letterario tedesco. Altri personaggi miliari della narrativa dell’epoca consumano le loro vite di carta tra le mura di un Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com
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L’IMPRONTA RUBRICA NOIR DI RICCARDO SEDINI ASSOCIAZIONE CULTURALE “GIALLOMANIA”
www.giallomania.it Una donna sola, due gatti, un pick-up, un amore lontano, uno zio ebreo, Albenga, centro del Ponente ligure, diventato una babele di lingue e culture. Cristina Rava dà vita a un personaggio esilarante, vitale, tremendamente umano, fragile, ironico ma determinato: il medico legale Ardelia Spinola.Toirano, borgo medioevale dell’entroterra ligure, provincia di Savona.Due uomini algerini sono stati uccisi a fucilate durante la notte dell’ultimo dell’anno. L’assassino li ha sorpresi in casa, mentre stavano seduti davanti ad un computer portatile. Due immigrati molto diversi tra loro: uno era un medico stimato e l’altro un ragazzo che svolgeva un lavoro modesto nonostante gli studi compiuti in patria. Cos’avevano in comune? Quando Ardelia viene chiamata per il lavoro di routine, sulla scena del crimine capisce che quel delitto ha attirato l’attenzione dei ‘servizi segreti. Perché? Chi sono i due morti? Due vittime innocenti che hanno risvegliato l’odio di un nemico oscuro, oppure due ‘agenti in sonno’ caduti in disgrazia? E qual è il significato di un lungo r a c c o n t o conservato in una chiave di La scrittrice ligure Cristina Rava memoria usb che Ardelia trova per caso tra le ruote del suo pick up?E’ solo un racconto o è un codice?E ancora una volta vale il detto: mai fidarsi delle apparenze. Il caso che all’inizio era stato associato a una rete di terrorismo islamico riporta a una rete molto più vicina,
e molto più semplice: la follia umana. Toccherà ad Ardelia svelarla.. Cristina Rava, mezza ligure come la dottoressa e mezza cuneese come il commissario, vive nell’entroter ra di Albenga. Dopo due raccolte di racconti fantastici, ha cominciato a scrivere per Fratelli Frilli Editori. L’esordio è stato un’intervista con un’anziana maestra intorno ai fatti della guerra e non solo, intitolato I giovedì di Agnese. Donne in guerra. Con il passaggio al poliziesco è nato il personaggio di Bartolomeo Rebaudengo. Commissario Rebaudengo: un’indagine al nero di seppia,Tre trifole per Rebaudengo e Cappon Magro per il commissario sono i titoli che l’hanno fatta conoscere. Questo quarto romanzo, Come i tulipani gialli, segna un passaggio nel lavoro dell’autrice, che non esprime un cambiamento di rotta quanto piuttosto il bisogno di allargare l’orizzonte e di approfondire la psicologia dei personaggi.
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Prossimamente in libreria: Sabato 27 ottobre 2012 alle ore 17,30 presentiamo il romanzo d’esordio di Maria Paola Colombo, una giovane scrittrice novarese: “Il negativo dell’amore” pubblicato da Mondadori.
Indovina l’autore:
Chi vuole partecipare, può inviare una mail oppure passare in libreria e lasciare la risposta. Il primo lettore che ci invierà o porterà la risposta giusta vincerà un buono da spendere nella nostra libreria.
Soluzione del numero precedente:
Il brano dello scorso numero è tratto dal romanzo “Libertà”, di Jonathan Franzen (Einaudi).
DA: L IB R E R IA L E M IL L E E U N A PA G IN A C .s o G ar ib al di 7 2 7 0 3 6 M or ta ra (P V ) 0 3 8 4 .2 9 8 493 in fo @ le m il le eu na pa gi na .c om
LETTERARIA Settembre - Ottobre 2012
A CURA DI:
Laura Fedigatti Alberta Maffi Francesca Protti Riccardo Sedini Antonio Segrini
Anno 2 - Numero 11