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LETTERARIA
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Gennaio Febbraio 2013
Anno 3 - Numero 13
Arte senza confini: quando la letteratura incontra musica e film NICHOLLS, EGAN, TOLKIEN, E NON SOLO NEL NUOVO NUMERO DELLA NEWSLETTER
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Cari amici ecco la nostra newsletter. Non solo novità e bestseller, ma proposte di libri che, secondo noi, sono meritevoli di essere letti. Nella speranza di aiutarvi nelle vostre scelte e di darvi idee sempre nuove di cultura.
A.S. BYATT, UN NOME UNA QUALITA’ DI SCRITTURA
Romanziera, poetessa, critica letteraria. E’ una scrittrice colta, Antonia Byatt, anche conosciuta come A.S.Byatt, e da anni incanta con i suoi romanzi, il più famoso dei quali è “Possessione”, i lettori britannici e di tutto il mondo che sono alla ricerca della letteratura ricercata. Continua a pagina 2
Nathan Englander ci parla di Anne Frank, ma in modo diverso (pag. 6); a destra, Anne Hathaway e Jimm Sturgess nel film tratto dal romanzo “One Day” (pag.5)
JENNIFER EGAN, LA NUOVA STAR DELLA LETTERATURA MONDIALE
Ha vinto il Pulitzer per la narrativa nel 2011 con lo strepitoso “Il tempo è un bastardo”. Ora, approda in Italia un romanzo scritto appena prima del crollo delle Twin Towers: Antonio Segrini ci racconta di Jennifer Egan, del suo libro e della sua... musica. Continua a pagina 8
UN NOIR A TINTE FORTI TUTTO ITALIANO
I suoi sono noir italiani spinti all’estremo, che mostrano il lato più oscuro della natura umana e le devianze della nostra società. Romano De Marco esce con un nuovo romanzo, di cui ci parla Riccardo Sedini nella sua rubrica . Continua a pagina 12
Sopra, Daniel Glattauer (pag.13); a destra: un grande della letteratura: W.S. Burroughs (pag.15)
INDOVINA L’OGGETTO In questo numero, citiamo un romanzo in cui si nomina un “oggetto” goloso che, nel libro, è proibito ad uno dei personaggi. Per aiutarvi, vi diamo qui di seguito un piccolo estratto dal libro in questione. Qual è l’oggetto che dovete indovinare?
“Guarda, ieri ho passato tutta la giornata a trovarne uno uguale, eccolo qui, lo vedi? E’ della stessa marca, uguale in tutto per tutto [...] mi hanno mandato da un negozio all’altro, era un modello vecchio, non si trovava più, ero disperata.”
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ARTE E LETTERATURA PER LA “DAMA” DEL ROMANZO INGLESE Anni fa, un’amica di quei tempi mi parlò di un libro che stava leggendo e che si portava sempre dietro perché era il suo libro preferito e non riusciva a staccarsene. Incuriosita, le chiesi di dirmi di che libro si trattasse. Fu così che feci la conoscenza di quella che diventò uno dei miei scrittori preferiti di sempre, Antonia S. Byatt, conosciuta anche solo come A.S.Byatt. Il romanzo in questione era “Possessione. Una storia romantica”. E’ nato così un amore letterario che dura da
Le copertine del romanzo “Il libro dei bambini” nella versione originale inglese e in quella italiana edita da Einaudi allora. Chi potrebbe pensare, tratto in inganno dal titolo, di essere di fronte a una banale storia d’amore si sbaglia: nulla è banale in questa signora inglese dall’aspetto alquanto bonario e casalingo, nata Antonia Susan Drabble (il cognome Byatt lo deve al primo marito) a Sheffield, importante città inglese, nel 1936, nominata da Sua Maestà “Dama” dell’Ordine Britannico nel 1999 per i suoi meriti artistici. Leggere un romanzo o un racconto della Byatt è un’esperienza diversa da quelle che possono offrire le letture di altri autori, e cioè o si abbandona il libro dopo poco, completamente destabilizzati dalla straordinaria quantità di nozioni letterarie e storiche intrecciate alla trama, o si viene conquistati per sempre dal suo modo di scrivere. Perché Byatt, dobbiamo dirlo, non è una scrittrice per tutti. Se si pensa di passare in maniera leggiadra le ore sotto l’ombrellone o di trovare un modo diverso dalla televisione per sprofondare nel sonno la sera
prima di addormentarsi, allora lasciate perdere. Byatt è una scrittrice colta, che dà tantissimo a chi si lascia coinvolgere completamente dalle sue storie, sia quelle molto concrete (come i quattro romanzi della cosiddetta quadrilogia di Frederica Potter) sia quelle fantastiche dove si è proiettati in mondi da fiaba; ma, in cambio, richiede molto dal lettore, che deve prestare attenzione a personaggi e situazioni, oltre che al linguaggio. Niente è banale, come dicevamo all’inizio: un albero non è mai un “albero”, ma ha un nome suo proprio; una foglia o un fiore non sono semplicemente “verde” o “rosso”, perché ci sono una serie di sfumature di colore che si ha la sensazione di non avere mai notato prima e che, prontamente, la scrittrice ci elenca in descrizioni che sarebbero da imparare a memoria, da studiare, per imparare termini nuovi o per imparare come si scrive veramente. Sperimentiamo, con Byatt, un linguaggio nuovo che sembra dover sezionare ogni persona o oggetto descritto; indubbiamente un buon esercizio per chi volesse, leggendo un romanzo, ampliare i propri orizzonti linguistici, oltre che letterari e storici. È quello che succede nell’ultimo romanzo scritto dalla Byatt, uscito già da tempo ma che, come ogni libro della scrittrice inglese, non ha limiti d’età. “Il libro dei bambini” (uscito in Inghilterra nel 2009, pubblicato da Einaudi nel 2010, con la straordinaria traduzione di Anna Nadotti e Fausto Galuzzi) è stato salutato come un felice ritorno ai tempi di “Possessione”.
Antonia S. Byatt
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LETTERARIA! Non che gli altri scritti non fossero degni di lei, ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa in più. Anche in questo caso, come nel romanzo scritto nel 1990 (vincitore del Man Booker Prize, il più prestigioso, come più volte ricordato, premio letterario inglese, e portato sul grande schermo da un orribile film che ha mancato, a mio avviso, completamente lo spirito del libro), si potrebbe essere portati a pensare che si tratti di qualcosa di diverso da quello che in realtà è davvero. La vicenda inizia nel 1895. A Londra, nel “Victoria and Albert Museum”, due ragazzi, Julian e Tom, di quindici e dodici anni rispettivamente, incappano in un ragazzo, Philip, che non avendo trovato un alloggio migliore, si nasconde nei sotterranei del museo. Da qui prende il via una vicenda ricchissima di eventi e di personaggi che copre l’arco di circa un ventennio. Tom è figlio di Olive Wellwood, scrittrice di libri per bambini, che vive fuori Londra nella tenuta dal nome curioso di “Todefright” con il marito Humphrey, la sorella Violet e i numerosi figli, tutti ufficialmente figli di Olive e Humphrey, ma si vedrà, lungo il percorso del libro, che non è così per ognuno di loro. Olive scrive per ciascuno dei bambini di Todefright un libro, conservato in una teca della casa, dove storie fantastiche, di folletti, gnomi, fate, streghe, bambini che perdono l’ombra, altri che si rimpiccioliscono fino ad entrare in un buco ai piedi di un albero. Siamo nel periodo d’oro della letteratura per l’infanzia, anni che vedono nascere le avventure scritte da Beatrix Potter, Lewis Carroll e James Matthew Barrie. Quest’ultimo sarà presente nel romanzo sia come autore di “Peter Pan”, alla cui rappresentazione teatrale Olive e altri dei personaggi del libro assisteranno, sia come lui stesso spettatore della commedia di Olive, tratta dal libro dedicato al suo figlio prediletto, lo sfortunato Tom (“ - Sono un elfo, disse la signora. La sua voce faceva pensare a sottili schegge di ghiaccio nel vento, come gli a r g e n t e i campanelli nella criniera del cavallo. - Sono la regina del Paese degli elfi, e noi non gettiamo ombre. Tu sei il sincero Thomas, un essere umano, e dovresti gettare u n’ o m b r a , e invece no”). Attorno ai We l l w o o d , abbiamo una serie di numerosi personaggi, in quello che si può a ben r a g i o n e
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definire un romanzo corale. Ci sono i Wellwood di Londra, ovvero la famiglia di Basil, fratello di Humphrey e i loro figli; ci sono i Cain, tra cui Julian, il cui padre è il soprintendente del Victoria and Albert Museum; ci sono i Fludd, che vivono in campagna e dove Philip, dotato di un talento artistico per le ceramiche straordinario, finirà per andare a vivere, sotto la tutela di Benedict Fludd, genio creativo tanto eccezionale quanto instabile, dalle cui mani saranno creati oggetti d’arte incredibilmente vivi grazie alla parole della Byatt. Storie di vite che s’intrecciano fra di loro con la scrittura meravigliosa della scrittrice inglese. “Una parte di lei desiderava semplicemente starsene seduta a guardare fuori dalla finestra, il prato lamellato di foglie fradicie, e i rami con le foglie gialle, o quasi spogli, o spogli, pensava a godersi almeno il ritmo dei versi di Shakespeare, ma anche a sentirsi vecchia. E si godeva l’inerte solidità dei pannelli di vetro, dei mobili lustri e delle file di libri intorno a lei, e i magici alberi della vita tessuti con fili luminosi nei tappeti ai suoi piedi.” Oltre ai personaggi inventati, trovano il loro posto tra le pagine del romanzo le personalità dell’epoca, dagli artisti, agli scrittori; dai politici agli agitatori sociali di quell’epoca storicamente e socialmente in fermento; dalle suffragette che arrivano a sacrifici estremi pur di ottenere il voto e altri diritti fondamentali per le donne (“Nel 1903 Emmeline Pankhurst e le sue figlie fondarono la Wspu, la Women’s Social and Politica Union, le suffragette”) ai cosiddetti fabiani (cioè appartenenti alla società fabiana, movimento politico e sociale sviluppatori tra il XIX e il XX secolo in Inghilterra e che enumerò tra i suoi adepti anche personalità quali Virginia Woolf e suo marito, George Bernard Shaw e H.G. Wells); dalla grande esposizione universale di Parigi nel 1900 fino ad arrivare alla tragica assurdità della Prima guerra mondiale, dove, tra il fango delle trincee, moriranno una parte dei giovani protagonisti (“Si pensa che i nomi abbiano vita, ma gli uomini che si incontravano nelle trincee non erano abbastanza solidi per avere una vita con nome che si estendesse nella presunta normalità del prima e del dopo”). Fino ad arrivare all’epilogo della storia, nel 1919. Antonia Byatt ci ha regalato ancora un romanzo straordinario, pieno di immagini evocative e vivide, di arte e fragilità, di drammi e speranze, di nostalgia per un’infanzia perduta e ideali che s’infrangono contro la dura realtà della storia. Un consiglio: per chi conosce bene l’inglese, leggere Antonia nella sua lingua madre è davvero un’esperienza sorprendente.
Laura Fedigatti
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YOGA NON E’ YOGURT*... ... ma molto altro RUBRICA DI YOGA E DINTORNI A CURA DI FRANCESCA PROTTI
L’anagramma (fonetico) di Jago, per esempio. Otello aveva tutto. Una bella e giovane moglie, le quotazioni in rialzo presso i potenti della Serenissima, fama, potere, gloria, insomma tutto. Tanta fortuna, però, doveva avere il rovescio della medaglia, che il poeta elisabettiano sceglie di tratteggiare nell’infido luogotenente, Jago, piena manifestazione di come gli istinti che muovono il Moro operino in un ingegno sottile e sempre presente, sempre consapevole delle proprie azioni e del moto dei propri pensieri. Nella tragedia di “Otello”, il vigore dei gesti dell’animo si fonde con l’intuizione delle infinite possibilità del linguaggio come strumento di persuasione, suggestivo e corruttore. Insomma, parliamoci chiaro, Otello non aveva la più pallida idea di quali fossero i principi di Patanjali. Forse, se Otello avesse praticato yoga, se avesse creduto nel versetto “yoga citta vritti nirodha” (lo yoga come cessazione del turbinio della mente, lo yoga come pausa nel caos dei pensieri), grandi attori del calibro di Vittorio Gassman o geniali compositori del valore di Giuseppe Verdi (per rimanere entro i confini nazionali) avrebbero avuto un personaggio in meno in cui cimentarsi. Al “purpose” della presente rubrica, però, il personaggio della tragedia shakespeariana che serve non è tanto il grande condottiero, quanto, come detto in apertura, il subdolo Jago. Otello impazzisce di gelosia perché suggestionato dal suo braccio destro. Tutto accade solo nella sua testa, ma – e su questo già ci siamo soffermati – la mente … mente. Forse, se anche Otello avesse pensato con il corpo, una delle più grandi tragedie del Bardo di Stradford non sarebbe mai stata scritta. La vicenda di Otello può pienamente valere quale efficace prova di come la percezione della realtà, per i filosofi indiani l’illusione chiamata maya, La prima pagina di un’edizione non sia la realtà, per del 1622 di “Otello” quanto vivida ed emozionante possa essere. Il personaggio di Jago ben dimostra come sia facile manipolare la realtà attraverso parole e sentimenti, tanto ai nostri occhi quanto a quelli degli altri. È il già più volte citato Jago il vero protagonista della pièce, con quella sua sottile abilità nel condizionare persone ed avvenimenti a suo vantaggio. Una macchinatore, quindi, del tutto privo di scrupoli e del minimo rispetto dei precetti morali dello yoga, primo fra tutti, satya, la verità. Alterando le parole e coltivando opportunismo e insincerità si può modificare la realtà, arrecando gravi danni a sé e agli altri.
Nulla è peggiore dell’assenza di verità. Per scelta, Jago presenta sempre la realtà in un’ottica diversa a seconda del suo interlocutore. Basti pensare a come parla di Cassio a Otello e viceversa, alla maniera camaleontica con cui si rapporta con i due soldati, alla bravura con cui sa rendere ambiguo ciò che sembra innocente. Jago pianta il seme del dubbio in Otello e il dubbio trasforma la realtà agli occhi del Moro, che non riesce più a comprendere l’innocenza dei gesti compiuti da Desdemona, atti che ben presto si tramutano in errori fatali. Uno su tutti, l’amichevole tentativo della fanciulla di riscattare Cassio agli occhi di Otello, il cui animo turbato, però, non è in grado di vedere null’altro se non la prova dell’illecita, ed inesistente, tresca tra Cassio e Desdemona. Otello, quindi, è la suprema tragedia dell’amore umano (che) ricerca, fra due creature incomplete, una completa fusione di identità (qualcosa di praticamente irraggiungibile), ma è anche la tragedia delle parole che cambiano la realtà, della mente dominata dai pensieri, della totale perdita del controllo di sé. Pian piano che il dramma procede e la parlantina di Jago si fa sempre più convincente, le certezze del Moro crollano e con esse il dominio di sé, portando il grande condottiero alla rovina non solo personale, ma anche di chi lo circonda. La nuova realtà che Otello ha intessuto nella sua mente, il velo di maya che impietoso si stende sulla sua capacità di discernimento, i fatti parziali e i punti di vista sbagliati sono i mattoni che costituiscono il gradino ove il grande militare mette il piede in fallo. Qui inizia la sua inesorabile e inarrestabile caduta. Otello rovina nella trappola perché manca di distacco ed equanimità, perché confonde maya con satya. La stesura della tragedia risale al 1603, mentre dell’anno successivo è la prima rappresentazione. Molto più a lungo, invece, si dovrà attendere per la pubblicazione. Particolarità dell’opera è il fatto che la fonte a cui Shakespeare si rifece non da adito al minimo dubbio. La VII novella della III decade degli Hacatommithi di Gian Battista Giraldi Cinzi doveva essere ben nota al Bardo, che la lesse o in traduzione francese o (si ipotizza) direttamente in italiano, decidendo poi di rielaborarla e di assimilarla al tempo stesso in 3316 versi, di cui 541 in prosa e il resto in poesia. Le figure storiche a cui si può ricondurre il personaggio shakespeariano sono due. Cristoforo Moro, podestà di Ravenna e governatore di Cipro, oppure, Francesco da Sessa, detto il Moro, processato a Venezia per un ignoto reato. Il colore della pelle di Otello deriva dall’equivoco sorto intorno al cognome/appellativo di queste due figure storicamente esistite. È in corso una campagna da parte della casa editrice Feltrinelli, che mette uno sconto del 25% sull’intera collezione di tascabili. Io non mi lascerei scappare l’edizione con testo originale a fronte, tradotta e curata da Agostino Lombardo. *Liberamente tratto dall'incipit di “Yoga per negati”
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QUANDO UN GIORNO SOLO PUO’ CAMBIARE UN’INTERA VITA La lettura di un bel libro è un piacere che, per gli amanti del genere, non trova eguali. Quando si legge un bel libro, scritto bene, con una storia accattivante, divertente e ironica al punto giusto, ma anche toccante senza essere sdolcinata e deprimente, che, nel momento di chiudere il libro dopo che si è arrivati alla fine, lasci la bella sensazione che ci porteremo la storia per un po’ (magari per sempre) dentro di noi. E’ un po’ quello che potrebbe succedere con uno dei più popolari libri degli ultimi anni, “Un giorno” dello scrittore, autore e sceneggiatore televisivo David Nicholls. Nato nel 1966, compagno di college niente meno che dell’attore Colin Firth, Nicholls ha raggiunto la fama internazionale con questo suo romanzo, il terzo, uscito in patria nel 2009 e pubblicato in Italia dalla casa editrice Neri Pozza nel 2010. La storia potrebbe sembrare banale: due giovani, alla fi n e dell’università, si incontrano, passano una notte insieme e si lasciano il giorno dopo, ognuno per la sua strada e per la sua vita. Sennonché una frase, all’apparenza buttata lì per caso, della ragazza cambia tutto: “«Comunque, non intendevo cosa farai da qui a un mese, pensavo a un futuro lontano, quando avrai, chissà...». Prese tempo, come se volesse evocare un’idea balzana, quasi una quinta dimensione. «... una quarantina d’anni. Come vorresti essere allora?».” Da qui inizia la storia tra i due protagonisti, Emma e Dexter. Lei ha 22 anni, lui 23. E non potrebbero essere più diversi fra loro: rossa di capelli, di famiglia modesta, con grandi ideali e la speranza di fare qualcosa di importante nella vita, Emma; alto, scuro di carnagione, bello e ricco di famiglia, superficiale e dedito al divertimento, Dexter. “Voleva una vita spericolata, ma senza implicazioni. Voleva vivere in modo tale che una sua foto rubata sarebbe stata sempre e comunque figa.”
E’ il 15 luglio 1988, ultimo giorno dell’università e non sembra che per loro ci possa essere un futuro insieme. Invece, un giorno può cambiare un’intera esistenza. Mentre Emma trova lavoro prima in un ristorante messicano, poi come insegnante, mettendo da parte il suo sogno di diventare scrittrice, e convivendo con un ragazzo carino, Ian, e a posto, a cui vuol bene senza, però, provare una grande passione, Dexter va avanti nel suo mondo dorato, grazie anche ai soldi della sua altolocata famiglia: dopo aver viaggiato per il mondo, torna a casa, per diventare il conduttore di uno show televisivo in cui si parla di star del rock e del cinema. Intanto, si trascina avanti nel modo superficiale che ha sempre bramato: feste, relazioni brevi ma numerose, alcol, divertimenti. Eppure... quell’unica notte passate insieme, lega Emma e Dexter in modo indelebile, come un cordone ombelicale che nessuno dei due ha voglia di tagliare. Il 15 luglio di ogni anno resta, per entrambi, una data magica. Intanto, si scrivono, si incontrano, si lasciano per tornare alle proprie vite, litigano, Emma finisce anche per confessargli di amarlo ma di non sopportarlo così com’è diventato (“...Io lo so come sei e questo non sei tu. Così sei orribile. Sei odioso, Dexter. Insomma sei sempre stato leggermente odioso, di tanto in tanto, un po’ pieno di te, ma eri anche divertente, e molto gentile a volte, e perfino premuroso con gli altri. Ma adesso sei fuori controllo, imbottito di alcool e droga...”), Dexter si sposa, Emma continua la sua vita con Ian. Sempre sotto il segno di un’amicizia che sembra non dover finire mai. Fino a quando... ma non vi sveliamo il finale un po’ a sorpresa di questa, che, più che una storia d’amore tra due persone, è una storia sui sentimenti, sull’amicizia, sui cambiamenti cui la vita ci porta e su come possiamo crescere e cosa scegliamo di diventare. Il “Times” lo ha addirittura definito “il miglior romanzo sociale inglese dai tempi di La Famiglia Winshaw di Jonathan Coe”, con tutta l’arguzia e l’ironia del miglior Nick Hornby. Nel 2011 ne è stato tratto un film ben riuscito, “One Day”, di Lone Scherfig, con Anne Hathaway e Jim Sturgess. Bei sentimenti, dunque, ironia, divertimento, risate e anche qualche lacrima, il tutto condito da un linguaggio fresco e diretto, che ci fa venire voglia, pagina dopo pagina, di scoprire come va a finire. Forse perché, la storia di Emma e Dexter potrebbe essere la storia di tutti noi, che ci siamo ritrovati grandi tutt’a un tratto: dietro di noi i nostri sogni e davanti, chissà...
Laura Fedigatti
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ALLA FIERA DELL’EST* RUBRICA DI LETTERATURA EBRAICA A CURA DI LAURA FEDIGATTI
“Deb è molto interessata ai genitori di Mark. Sono sopravvissuti all’Olocausto. E Deb ha un’ossessione malsana per l’idea della scomparsa di quella generazione. Non fraintendetemi. Anche per me è importante. Anche a me dispiace. Dico solo che ci sono cose sane e cose malsane, e mia moglie passa molto, molto tempo a riflettere sulla questione.” È il protagonista del racconto che apre l’ultima raccolta di un giovane e talentuoso scrittore americano, Nathan Englander, e che dà il titolo alla raccolta stessa. “Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank”, titolo di carveriana memoria (il rifacimento è, infatti, al titolo della celebre raccolta “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver), dove, anziché d’amore e incomunicabilità tra coppie, si parla di identità e fede, di religione e laicità, di scelte morali e peccati cui, noi poveri mortali, non possiamo fare a meno d’indugiare. Con un po’ di Shoah, che aleggia su tutti i racconti come qualcosa di ineluttabile, che è successo e potrebbe succedere ancora, di cui ci si vorrebbe liberare ma, nello stesso tempo, non se ne può fare a meno. Come un trauma dell’infanzia, che ci perseguita per tutta la vita. Del resto, da uno scrittore ebreo, non ci si può aspettare altro che un arrovellarsi sui dilemmi, più o meno grandi, del nostro essere umani, ma sempre con quell’ironia, quella capacità di sapersi prendere in giro e di ridere persino delle proprie tragedie che sono caratteristiche tipiche degli scrittori di origine ebraica. Nathan Englander rientra nella tradizione dei grandi scrittori americani ebrei, iniziata da Singer e proseguita con Malamud, Saul Bellow, Philip Roth. Un insieme di comicità e tragedia, dove l’ironia è uno sfogo necessario per sopportare il dolore cui siamo destinati. Nato nel 1970 a New York da una famiglia di ebrei ortodossi, dopo essersi laureato alla State University di New
Nathan Enlgander con i capelli lunghi all’epoca del suo primo libro, a sinistra; a destra, lo scrittore oggi
York e aver frequentato lo “Iowa Writer’s Workshop”, prestigioso corso di scrittura creativa dell’università dello Iowa, Nathan esordisce giovanissimo nel 1999 con la raccolta di racconti “Per alleviare insopportabili
impulsi” (pubblicato in Italia prima da Einaudi e poi da Mondadori, ora inspiegabilmente fuori catalogo e che speriamo venga presto ripubblicato), che mette mette in mostra il suo grande talento letterario, gli fa vincere numerosi premi importanti e che diventa, nel giro di pochi mesi, un caso letterario in tutto il mondo. La raccolta colpisce per l’intelligenza, l’ironia e l’abilità letteraria con cui l’esordiente Englander, all’epoca giovane dai lunghi capelli neri e ricciuti, tratta temi delicati strettamente legati al mondo ebraico, come certi precetti che, sebben risalgano a un tempo che fu, ancora scandiscono la vita degli ebrei osservanti. Come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, dove un marito chiede una dispensa speciale al suo rabbino per frequentare una prostituta, unico modo per “alleviare” quegli “insopportabili impulsi” che non può certo alleviare nel talamo coniugale. Oppure, la tragedia che si riveste di una comicità alla Woody Allen (al quale Englander è stato spesso associato per il suo modo ironico assai vicino a quello del regista americano, come nella sua affermazione alla domanda se crede in Dio: “Non lo so. Sarei portato a dire di no, se non avessi paura di una sua reazione”), come nel racconto “Gli acrobati”, dove degli ebrei polacchi arrivati ad Auschwitz si salvano fingendosi acrobati.
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LETTERARIA! O ancora, in “Il ventisettesimo”, che si rifà ad un avvenimento storico avvenuto nella Russia stalinista alla fine degli anni ’40, quando un gruppo di scrittori ebrei tenta di uccidere Stalin e, di conseguenza, imprigionati e condannati a morte (racconto che è stato portato sul palcoscenico del Public Theatre di New York alla fine del 2012). Dopo il successo arrivato all’improvviso, Nathan scompare, per così dire, per alcuni anni. Si trasferisce in Israele “in cerca delle mie origini, ma lì ho scoperto di essere americano”. L’identità, un tema predominante nella scrittura di Englander, che torna a New York nel 2003, dove, tagliata via la zazzera di capelli (“nessuno dopo i trentatré anni dovrebbe avere i capelli più lunghi di Cristo”) si fa intervistare, partecipa a diversi reading con altri autori importanti della sua generazione, quali Jonathan Franzen, Zadie Smith, Jeffrey Eugenides (dai quali esce la sua personalità di ragazzo umile, che non si è affatto montato la testa, ma che spicca sugli altri per la sua particolare intelligenza e per la sua incredible ironia). Ma sarà solo nel 2007 che uscirà il romanzo “Il ministero dei casi speciali” (edito da Mondadori, anche in questo caso un fuori catalogo), una storia ambientata nell’Argentina del 1976, durante la cosiddetta “Guerra Sporca”. Kaddish è l’ultimo discendente di una stirpe ebrea di prostitute e ruffiani, che si guadagna da vivere con uno strano, e redditizio, business: lavora di scalpello sulle lapidi del cimitero ebraico per cambiare le origini di facoltosi ebrei. Un giorno, suo figlio Pablo, diciannovenne con velate simpatie comuniste, a causa di un paio di libri ritenuti sovversivi, entra a far parte della folta schiera dei desaparecidos argentini. Inizia un calvario per Kaddish e Liliana, sua moglie, tra incontri grotteschi con una serie di personaggi al limite dell’assurdo, quali rabbini, funzionari, alti ufficiali, preti, e visite ad un ancora più assurdo Ministero dei Casi Speciali, dove ci si fa beffe della disperazione altrui, alimentando false speranze, a volte a suon di bustarelle. Tradizione yiddish e denuncia
Un’immagine di Anne Frank sociale si fondono insieme in questo romanzo che avrà recensioni e critiche eccezionali, anche se vendite modeste, che rafforzano la fama di Englander come nuovo, grande interprete della tradizione yiddish. La sua identità, infatti, è qualcosa di fondamentale, nella vita come nella sua scrittura. "Ci sono cose che resteranno sempre dentro di me: sono parte della mia cultura, di quello che sono, e ritengo che la
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Bibbia sia l’opera più bella mai scritta. Chiunque abbia scritto la Bibbia è Dio", afferma Nathan in un’intervista a Vogue. Un’identità fortemente correlata alla sua ebraicità, che pervade anche il suo ultimo lavoro, la raccolta citata all’inizio di questo ritratto di Englander. Una scrittura agile, leggera, ironica (come più volte detto), che ci invita alla risata anche quando nasconde temi profondi, come nel racconto “Camp Sundown”, dove gli
Englander e Jonathan Safran Foer, con l’edizione della Haggadah (il libro della Pasqua ebraica) da loro curata anziani ospiti di un centro estivo geriatrico, personaggi comici fino a quando credono di riconoscere in uno degli ospiti un vecchio carceriere nazista. E la commedia si trasforma in dramma. Oppure nel racconto iniziale “Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank”: due coppie ebree, una laica che vive a New York e una ortodossa che vive a Gerusalemme, si confrontano e cercano di comunicarsi le loro diverse identità, accomunate dalle loro identiche origini, fino ad arrivare, tra i fumi di alcol e marijuana, a un gioco inquietante, il “gioco di Anne Frank”: ma se ci fosse un altro Olocausto, quale Gentile (cioè non ebreo) mi salverà dal mio destino di morte? O come nell’esilarante racconto della raccolta nuova, “Peep Show”, dove un marito esemplare si lascia trascinare in un locale a luci rosse e lì, invece delle ragazze, incontra la sua cattiva coscienza sotto forma dei rabbini della sua infanzia, Non si scappa dal destino, come non si scappa dalla propria identità. Questo sembra voler dirci Nathan Englander. Siamo tutti predestinati. Tanto vale riservarci un po’ di ironia e quattro risate, come catarsi per un dolore cui non si può sfuggire. *”Alla fiera dell’est” è un canto pasquale ebraico, “Chad Gadya”, a cui si è ispirato Angelo Branduardi per la sua celeberrima canzone
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IL BATTITORE LIBERO* LETTURE CON LICENZA DI AVANZARE A CURA DI ANTONIO SEGRINI
Il fulgido talento di Jennifer Egan meriterebbe ben più ampio risalto di quanto gli abbiamo riservato finora. Ci eravamo ripromessi di approfondire “Il tempo è un bastardo“ ma, almeno per ora, è rimasta solo un’idea nel cassetto e allora approfittiamo della pubblicazione in Italia di “Guardami” (Minimum Fax) per rendere giustizia a questa straordinaria scrittrice americana. Non vi tedierò con le mie considerazioni sul romanzo, lascerò che sia la sua voce a parlare, su tutte valgano un paio di riflessioni: “Guardami” è uscito negli Stati Uniti nella primavera del 2001 e anticipa con estrema lungimiranza la diffusione dei social network nel mondo (con i loro pregi ma, soprattutto, con la spersonalizzazione dell’individuo a cui può portare un distorto uso degli stessi) ma ancor più clamorosa è l’intuizione di quanto sarebbe potuto accadere (e che purtroppo accadde in quel nefasto 11 settembre dello stesso anno) ad opera del terrorismo internazionale. Scrive la stessa Egan nella postfazione dell’aprile 2002 “la sua storia e le sue azioni sono state create in un momento in cui gli avvenimenti di quel giorno erano ancora inimmaginabili. Se lo scorso autunno “Guardami” fosse stato ancora in fase di scrittura, avrei dovuto ripensare il romanzo alla luce degli eventi. Così, invece, rimane un prodotto dell’immaginazione nato in un’epoca più innocente”. “Guardami” è stato finalista al National Book Award, superato solo da un altro romanzo epocale, “Le correzioni” di Jonathan Franzen ma, dieci anni più tardi, la Egan si rifarà ampiamente con l’assegnazione del Pulitzer. Senza ulteriori indugi lasciamo ora spazio al genio immaginifico della sua arte: “Rimanemmo immobili e in silenzio. Grace guardò il cielo. Era una di quelle persone che sopravvalutano la propria sottigliezza al punto da finire regolarmente per divulgare nel dettaglio le loro paure.” “Eppure perfino adesso sopravviveva nel suo cervello un fermento incessante, con i fasci luminosi delle sue convinzioni tecnologiche che frugavano inquieti alla ricerca di un argomento su cui fissarsi.” "Ma se hai sempre avuto tanti amici", si lasciò sfuggire, non riuscendo a trattenersi. Charlotte guardò sua madre, la sua triste, bellissima madre. Come poteva una persona così bella essere tanto triste? "Gli amici non c'entrano niente", le disse. "A sentirti, sembra che la cosa abbia più a che fare con un senso di appartenenza", disse Priscilla. Eccola: quella calda - cosa? - capacità di immedesimazione. Una ricca sonnolenza si impossessò di Charlotte. "Credo di sì", rispose. "E che differenza c'è", domandò Ellen ferita, "tra quello e avere tanti amici?".
Charlotte non rispose. Sua zia le aveva dischiuso uno spazio profumato, una grotta di tenerezza.” “Era cominciato tutto durante una cena a casa di Gordon, un ricordo che Ellen custodiva con la massima cura, permettendogli di schiudersi solo di rado, in occasioni speciali, come un carillon la cui melodia diventa impercettibilmente più fievole ogni volta che viene suonata.” "Oh Grace. Davvero lo pensi?", le chiesi, schivando lo stormo di risposte acide che sentivo sbattere le ali contro le pareti del mio cranio.”
“Guardami” nell’edizione italiana di Minimum Fax, la casa editrice romana che ha fatto conoscere Jennifer Egan in Italia
“Ed ecco qual era il problema, ecco la preoccupazione che grattava come un topo dietro quei pannelli pittoreschi dipinti a colori vivaci: mi stavo disfacendo, uno strato dopo l'altro. Stavo andando in frantumi....in testa mi ronzava un miscuglio di rumore di fondo, rumore bianco, detriti spaziali, una discarica di pensieri rumorosi che mi facevano desiderare invece deliziosi petali di silenzio.” “Ed ecco qual era il problema, ecco la preoccupazione che grattava come un topo dietro quei pannelli pittoreschi dipinti a colori vivaci: mi stavo disfacendo, uno strato dopo l'altro. Stavo andando in frantumi....in testa mi ronzava un miscuglio di rumore di fondo, rumore bianco, detriti spaziali, una discarica di pensieri rumorosi che mi facevano desiderare invece deliziosi petali di silenzio.”
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LETTERARIA! “Una tiepida marea di cordialità ci sollevò dal ristorante e ci trasportò nel parcheggio, dove ci salutammo promettendo di sentirci l'indomani.” “L'idea di partire già gli dava alla testa, e fu dura calmarsi, contenere il suo entusiasmo, come quando si cerca di fissare una tenda che con il vento forte non vuole saperne di stare ferma (odiava le metafore, gli accoppiamenti di cose improbabili in figure grottesche come minotauri), ma la tenda era troppo grande e il vento troppo forte; il suo buonumore continuò a sventolare indisturbato quando uscì da Versailles lanciando un urlo.” “L'avrebbe mai fatto? Poteva farlo? Domande che lo assillavano come uno stormo di corvi: gli battevano le ali talmente vicino alla faccia che avrebbe voluto scacciarli con un bastone.” “Mi alzai per salutare i ragazzi. Con una formalità commovente, Allison mi presentò Ricky, che sorrise mentre gli stringevo la mano, affusolata. Aveva un sorriso gentile e spontaneo, che ritrasse un attimo dopo, ripiegandolo in un origami di diffidenza da adolescente. “
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Arte chiama arte: da questo numero, sperando di fare cosa gradita, abbiamo deciso di inserire un paio di richiami musicali ispirati dalle nostre letture. Sono collegamenti più "di pancia" che di testa, l'intento è quello di aprire finestre su altri mondi e creare nuove suggestioni. Buon ascolto. Colonna sonora: Wilco – Jesus, etc. (dall’album Yankee Hotel Foxtrot, 2002) h t t p : / / w w w. y o u t u b e . c o m / w a t c h ? v=6NlfwxJzjAE&list=AL94UKMTqg-9CHUnT6uJ4Ug4B8ZqcT_4e Low – Especially me (dall’album C’mon, 2011) http://www.youtube.com/watch?v=gBtJpVY7NkE
Jennifer Egan, nata a Chicago nel 1962 ma cresciuta a San Francisco, oltre ai citati romanzi ha scritto “Emerald city” (una raccolta di racconti), “The keep” e “The invisible circus”, tutti non ancora pubblicati in Italia.
Un’immagine di Jennifer Egan e, a destra, la copertina originale e dell’edizione italiana di “Il tempo è un bastardo” vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2011 Il suo sito internet è: www.jenniferegan.com *Fino agli anni '80 veniva definito "battitore libero" quel calciatore che, sgravato da compiti di marcatura fissa degli avversari, era appunto "libero" di giostrare a suo piacimento alle spalle dei difensori suoi compagni di squadra o di avanzare a sostegno degli altri reparti.
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SOTTO IL TIGLIO* PICCOLA RUBRICA DI CULTURA TEDESCA A CURA DI FRANCESCA PROTTI
Questa rubrica era nata per far conoscere di più (e meglio) gli scrittori di lingua tedesca a noi contemporanei, che come noi devono lottare con la crisi economica e il surriscaldamento globale. Autori degni di nota, ma non abbastanza per essere oggetto di critica letteraria d’alto livello. Lo so, ciò che sto per fare va contro al manifesto appena riassunto, ma non posso esimermi. È l’anno di Verdi (Roncole-Busseto 1813), di cui di straforo abbiamo parlato poche pagine fa, ma è anche l’anno di Wagner (Lipsia, 1813) e per par condicio, come l’attualità ci chiede, parliamo qui del testo su cui si basano le sue opere più famose. Non c’è storia, Wagner e la sua tetralogia L’Anello del Nibelungo, sono i massimi esegeti del Nibelungenlied, niente meno che 8.000 versi raggruppati in quartine, a loro volta suddivise in 39 avventure, Un’opera che trova le proprie radici nella materia epica germanica più antica, monolitica e consacrata da una tradizione inalterabile. Gli stessi protagonisti di uno dei due filoni narrativi del carme, Crimilde e Sigfrido, hanno i loro antenati nella Gudrun e nel Sigurdh dell’Edda scandinava. Ciò che po’ interessare di p i ù è l a fi g u r a femminile, motus per un verso o per l’altro, di tutto il poema. Se nella ver sione arcaica Gudrun, una volta r i m a s t a ve d ov a , rientra a pieno diritto nella famiglia Richard Wagner d’origine, nella tribù o sippe che costituiva la società germanica, diversamente si comporta Crimilde che rimane fedele a Sigfrido e alla sua memoria, facendo della propria vendetta la sua unica ragione di vita. Non è più la tribù a contare, ma la nuova realtà famigliare che la coppia di sposi aveva costituito. Ora la sippe cede il posto alla famiglia, base della nascente società feudale (L. Mancinelli, 1995). Non è questa la sede per dibattere dell’autore, rimasto anonimo, della corte di riferimento, di difficile identificazione, di quale sia il manoscritto che più si avvicina all’originale, della datazione del testo. Quello che pare giusto fare (o almeno provarci) è cercare di tratteggiare l’importanza che il testo ha nell’evoluzione della letteratura tedesca. Nel
Nibelungenlied lo sforzo maggiore è quello di adattare i personaggi, le loro avventure e la storia che popolano alla comprensione della società feudale del ‘200. L’eroe Sigfrido è, in primis, la “vittima” di tale lavoro di riscrittura. Non più (solo) il campione invincibile, ma (anche) un tipico principe del XIII secolo che giunge a Worms, e qui dimora, in veste di perfetto cavaliere, insuperabile nella forza e nell’astuzia, così come in grazia e cortesia. Sigfrido è uomo del ‘200 anche nel s u o fi a b e s c o innamorarsi di Crimilde senza averla mai nemmeno vista e nella sua determinazione a farne la propria compagna. Per quanto l’opera fosse contemporanea di poemi quali Parzifal di Hartmann von Aue e dei canti d’amore del maggior lirico del D u e c e n t o tedesco, il Walter von der Sigfrido Vogelweide cui la presente rubrica deve il proprio titolo (!), ne è allo stesso tempo isolato e separato per quei contenuti ripresi da tradizioni antiche di secoli. Nani e creature mitiche, oggetti magici, ondine, avventure favolose e una mischia sanguinosa in cui periscono due popoli riportano il poema, in parte, ad un clima arcaico. Oggi, sulla scia del successo cinematografico de Il Signore degli Anelli, prima, e de L’Hobbit, poi questa arcaicità può anche piacere, ma per chi viveva nelle corti del ‘200 erano solo un lontano ricordo, qualcosa discordante con il gusto del tempo. L’essere un poema del ‘200 è lapalissiano nelle suture narrative dei due nuclei compositivi. Da un lato, la vicenda di Sigfrido e Crimilde, che inizia con l’innamoramento di Sigfrido per la principessa burgunda e termina con l’uccisione dell’eroe, e dall’altro la terribile lotta tra Burgundi e Unni, leggendariamente trasformata in una vendetta familiare. L’intermezzo tra le due parti è ciò che meglio dimostra l’essenza duecentesca del testo.
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Un’immagine di odino il Vagabondo, cui sembra essersi ispirato Tolkien per il personaggio di Gandalf
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anche l’unica figura a non avere volto, atteggiamenti e vicende già cristallizzati nel passato arcaico. Tutti gli altri, da Crimilde che, pur essendo una gran bella figliola, per un brutto sogno aveva deciso di rimanere zitella, agli sforzi di Sigfrido per sposarla, dallo sciocco e infantile litigio tra Brunilde e Crimilde su chi fosse davvero Sigfrido, al bagno di sangue in cui si consuma la seconda parte del testo, hanno un precedente nel passato a cui devono rimanere (e rimangono) pressoché fedeli. E non poteva essere diversamente, quelle loro radici antiche ispirano rispetto e riverenza nell’autore, che non può esimersi dal riportarli così com’erano, scegliendo di non curarsi di quanto questa granitica fedeltà cozzi con il testo in cui sono chiamati a muoversi. Ma non è la coerenza che conta nell’epica, quanto piuttosto il mantenere viva la memoria di certe vicende tramandate prima oralmente e poi per mezzo della scrittura. Curiosamente, una volta raggiunta la forma scritta, figure e vicende iniziano a variare. Se prima la tradizione mnemonica imponeva un rigido attaccamento alla “prima versione della storia”, una volta messi su carta personaggi e vicende cominciavano a svilupparsi, a crescere per così dire, sfociando in quella teoria di manoscritti, tutti uguali ma sempre diversi, a cui si è precedentemente accennato.
Interamente frutto dell’inventiva dell’autore, ma del tutto * Unter den Linden (Sotto il Tiglio) è uno dei più bei privo di rilevanza degna di nota, l’intermezzo si conclude con viali di Berlino, che prende il proprio nome dall'incipit di un una tipica scena cortese, il viaggio di Crimilde verso il regno canto d'amore di Walter von der Vogelweide, poeta medievale di Attila, scena in cui la fantasia del poeta si sfrena in una rarissima vivacità. (1170 ca. – 1230 ca.). Ma non solo. Tutto il poema è decorato con scene di caccia e di feste, lunghi e splendidi cortei, come detto, cerimonie in cui impera, indiscussa, una severa etichetta di non difficile denominazione. Oppure ancora, i brevi squarci lirici che ritraggono l’amore di Sigfrido e Crimilde sui loro volti, i fiori molli di sangue che circondano Sigfrido morente, le acque fruscianti del Danubio in cui si immergono le ondine sono tutti tratti di un autore che ben conosceva la lirica del suo tempo. In ultimo, la figura di Rüdiger; da un lato vincolato a Crimilde, dall’altro legato alla lealtà per i Burgundi, si ritrova dilaniato dal dissidio. Combattere o no, e non tanto per chi, ma se e perché. Questo dilemma riflette lo smarrimento di una società i cui valori tradizionali sono soltanto mondani ed esteriori, come dimostrano termini quali tugent ed êre, virtù e onore intesi come pregio cortese e prestigio sociale, ma allo stesso tempo influenzati da altri valori più profondi e spirituali, interiori e morali. Qui due mondi fino a quel momento in contraddizione tentano di incontrarsi, la sfera mondana e materialistica tende a quella spirituale, senza però riuscire a Un’immagine di J.R.R. Tolkien e la copertina di un’edizione originale de fondersi con essa. Rüdiger, l’unico personaggio del “Il signore degli anelli” poema che ha un’intuizione autenticamente religiosa, muore come tutti gli altri. Tale tratteggio psicologico, però, fu possibile solo perché Rüdiger è Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com
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L’IMPRONTA RUBRICA NOIR DI RICCARDO SEDINI ASSOCIAZIONE CULTURALE “GIALLOMANIA”
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“A CASA DEL DIAVOLO” di Romano De Ha pubblicato nel 2009 il romanzo “Ferro&Fuoco” Marco - ed. Fanucci (collana TimeCrime) nella prestigiosa collana “Il Giallo Mondadori”. Giulio Terenzi è un trentenne ambizioso e un Collabora dal 2009 con la Mondadori per la quale impenitente seduttore: ma proprio quando ogni scrive brevi saggi sulla letteratura di genere, il cosa sembra andare per il meglio, la sua cinema, le serie tv americane, pubblicati sulla promettente carriera di bancarioviene stroncata collana “I Classici del Giallo”. Dal 2011 collabora all’improvviso trasferimento a Castrognano, un borgo sperduto tra i monti dell’Abruzzo dove si ritrova a gestire, da solo, la piccola filiale della banca per cui lavora. L’impatto con il paese si presenta a dir poco scoraggiante. Il vecchio direttore della filiale, Rinaldi, muore in un misterioso incidente stradale subito dopo aver passato le consegne al giovane collega;esaminando i depositi e i conti correnti, Terenzi nota poi delle gravi anomalie che fanno pensare a una truffa architettata ai danni della baronessa De Santis, una ricchissima ottuagenaria che vive nel palazzo situato di fronte alla banca. Col passare del tempo, gli eventi misteriosi si moltiplicano: strani simboli La copertina del romanzo e un’immagine di Romano De Marco appaiono all’ingresso di abitazioni i cui proprietari sono scomparsi nel nulla; un bambino inizia a seguirlo come un’ombra, con la rivista “Action” (Delos Books) diretta da mostrandogli disegni che rappresentano allucinate Stefano Di Marino. scene di morte; si vocifera di strani rituali celebrati Nel 2010 un suo racconto è stato inserito nella nei boschi, cui Terenzi non può e non vuole dar antologia “Natale in Noir” e, nel 2011, Eraldo credito... Baldini ha scelto di inserire il suo romanzo “A Mano Armata” nella collana di narrativa che dirige per l’editore Foschi, di Forlì. Nel 2012 il suo romanzo d’esordio, “Ferro&Fuoco”, Classe 1965, Romano De Marco è nato e vive sarà ripubblicato in libreria per l’editore Pendragon di Bologna che ha opzionato anche i due seguiti. in Abruzzo, in provincia di Chieti. Alla sua professione di Chief Security Officer per È direttore artistico della rassegna “ESTATE un istituto di credito, alterna una smisurata LETTERARIA” che si svolge a Ortona (Ch) e che passione per la scrittura e, soprattutto, per la nella prima edizione, del 2011, ha avuto fra i prestigiosi ospiti Raul Montanari, Gianluca lettura. Morozzi, Mauro Marcialis, Barbara Baraldi. Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com
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RIDI E AVRAI LE RUGHE GIUSTE RUBRICA DEL BUON UMORE A CURA DI FRANCESCA PROTTI
Rettifico. Ti puoi fare delle grasse risate anche se l’autore è tedescofono. È stata una scoperta recente, una piacevole sorpresa di inizio anno. Non che io ne dubitassi, sia chiaro, ma alla presenza di scettici, è sempre bene armarsi di prove tangibili, per quanto, al giorno d’oggi, gli e-book rendano i libri meno tangibili di “qualche” luna fa. Ma non perdiamoci in quisquiglie e cominciamo dal… comincio. Per Natale mio padre ed io abbiamo ricevuto in dono lo stesso libro, capita in una famiglia di accaniti lettori. Giacché la prassi lo consente, sono andata a cambiarlo. Già sapevo con quale romanzo, “Le ho mai parlato del vento del nord”, di Daniel Glattauer. Sono entrata in libreria e mi sono diretta senza indugio allo scaffale dove l’avevo visto l’ultima volta, nemmeno sfiorata dall’idea che potesse essere stato già comprato da qualcun altro. La realtà, però, era proprio questa. C’era il seguito, “La settima onda”, ma non ciò che mi ero già vista tenere tra le mani... uff, mai fare programmi!, dice sempre una mia amica. Non potevo cominciare da metà della storia. Mi sono messa, quindi, alla ricerca di un altro libro e lo sguardo mi è caduto sul terzo romanzo di Glattauer, “In città zero gradi” (Feltrinelli). Personalmente, ritengo il titolo originale, “Der Weihnachtshund” (il cane di Natale, nda) migliore della “traduzione” italiana. Non è questa le sede per dissertare sulla già da molti affrontata questione del tradurre, da un lato perché dovremmo tornare fino ai tempi di Lutero, se non prima, dall’altro perché questa si pregia di essere una rubrica del buon umore. Non solo, esperti di marketing editoriale, se interrogati al riguardo, argomenterebbero che Il cane di Natale non è un titolo abbastanza accattivante… perché, In città zero gradi invece…ma, come detto, questa pagina non è il luogo opportuno. Leggendo il libro, però, (e sapendo tradurre il titolo direttamente dal tedesco, devo ammetterlo), scopri che il cane di Natale è uno, se non il protagonista indiscusso della storia, che sa di aria pungente, profumo di cannella, zenzero e vin brulé, di biscotti dell’Avvento e di aghi di pino. “1° dicembre”, cita il capitolo iniziale. La vicenda parte il primo del mese e procede fino alla Vigilia di Natale, un giorno che un po’ tutti i personaggi del romanzo non amano. Non lo ama Max, il protagonista maschile, perché cade in inverno, quando fa freddo e tutti sono felici, eccitati da Santa Claus & co, mentre lui detesta svisceratamente quel particolare periodo dell’anno. Non lo ama più di tanto Katrin, la protagonista femminile, perché essendo il 24 dicembre anche il giorno del suo compleanno, ed essendo ormai imminente il trentesimo, è assalita dal panico di dover trascorrere la notte di Natale con i suoi genitori, i coniugi Schulmeister-Hofmeister, e il loro pungolante rammarico,
marcatamente velato e quindi chiarissimo, per il suo non essere ancora sposata. Non lo ama Kurt, un bracco tedesco dal pelo ispido che da due anni vive con Max, perché come il suo padrone odia il freddo e l’eccitazione pre-natalizia che implicano movimento e azione. Kurt, infatti, passa la sua giornata a non fare assolutamente nulla, se non dormire sotto la sua sedia e lamentarsi quando Max lo trascina fuori per l’ora d’aria o per andare al lavoro. Ma quell’anno, le cose andranno meglio. Max ha comprato un biglietto per le Maldive e cerca un dog-sitter, anche improvvisato, a cui l a s c i a r e Ku r t . Katrin, il cui padre odia i cani, trova nel rispondere all’annuncio il modo migliore per scansare il Natale dai suoi. Kurt… beh Kurt non fa molto, se non dormire, quindi dove potrà continuare a farlo mentre Max sarà via non lo preoccupa più di tanto. A seccarlo è il fatto che da quando questa Katrin è entrata nella vita di Max gli tocca andare fuori di casa con una frequenza esagerata per i suoi gusti. Galeotto, sarà, tra queste pagine il nostro bracco tedesco dal pelo ispido, poiché, per consentire a Katrin e Kurt di fraternizzare, lei e Max devono frequentarsi a loro volta finendo, ovviamente, con l’innamorarsi. Nessuno dei due, però, sa come dirlo all’altra.
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Soprattutto Max, con il suo non trascurabile disgusto per il bacio, si trova nell’empasse. Come far capire a Katrin che il suo ribrezzo non è da lei scatenato, ma piuttosto radicato in un trauma infantile apparentemente insuperabile? Una soluzione, però, in qualche modo la si dovrà trovare, altrimenti Katrin non si libererà più di Aloisius, il genero perfetto che tutti i genitori sognano per la loro ultimogenita, e Max non bacerà mai l’unica donna che davvero vorrebbe baciare. Daniel Glattauer è nato a Vienna nel 1960 e prima di dedicarsi unicamente alla narrativa, ha lavorato per quattro lustri come giornalista. L’autore non è nemmeno nuovo alle storie d’amore. I sopraccitati Le ho mai parlato del vento del nord e La settima onda, rispettivamente del 2006 e del 2006, raccontano in modo insolito, ma molto in linea con i nostri
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intenzionato a scrivere la parola FINE e con una Emmi altrettanto determinata nel senso contrario. Non si darà mai per vinta, riuscendo a riallacciare i contatti con il “penfriend” di una volta e a riprendere le loro schermaglie via email. Curiosamente, anche Le ho mai parlato del vento del nord ha come primo titolo una data, 15 gennaio. Poi più nulla, temporalmente meglio definito. A parte 18 giorni dopo…, nove mesi dopo…, un’ora dopo…, tre settimane dopo…, cinque minuti dopo…, 55 secondi dopo… Non sai mai che giorno è, nemmeno quando cominci a leggere La settima onda, che iniziando esattamente dove finiva Le ho mai parlato del vento del nord, ti dice solo che sono passate tre settimane dall’ultima e-mail scambiata tra Leo e Emmi. L’ho già detto prima, la casa Editrice Feltrinelli sconta del 25%la sua collana Universale Economica. Approfittatene, come ho fatto io, così potrete verificare se è vero (o no) che
Una bella immagine dello scrittore austriaco Danile Glattauer e le copertine dei suoi due primi romanzi, editi in Italia da Feltrinelli tempi, come l’amicizia tra Leo Leike, psicolinguista reduce dall’ennesimo fallimento sentimentale, ed Emmi Rothner, sposa e madre irreprensibile di 34 anni, evolvi pian piano in un legame più intenso, in una relazione che coppia non è, ma lo diventa virtualmente. L’invio di una e-mail all’indirizzo sbagliato è il pretesto per uno scambio epistolare tra Emmi e Leo. Tra i due, all’inizio perfetti sconosciuti, si instaura un’amicizia giocosa, segnata da complicità e da stoccate di tagliente ironia reciproca e destinata a crescere in un amore appassionante e in grado di declinarsi in ogni sorta di emozione nonostante il suo essere virtuale. Dopo due anni, però, Leo decide di rompere con Emmi. Così comincia il seguito, La settima onda, con un Leo fermamente
anche i crucchi si divertono. Giochino… Sarei curiosa di sapere se l’amica che non ritiene il tedesco una cosa divertente abbia capito che mi sto riferendo a lei. Se sì, me lo faccia sapere. Come contattarmi lo sa.
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PAROLE E CARNE... RUBRICA DI EROTISMO E POESIA A CURA DI GRETA LEDER
William Burroughs è considerato lo scrittore americano più innovativo del secolo scorso a cui si sono ispirati anche altri autori del calibro di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Quest’opera, “Il pasto nudo” è stato definita come “un romanzo sconfinato che farà perdere a tutti la testa”. È il risultato di un complicato lavoro dello scrittore durato alcuni anni, costituito da appunti, lettere, racconti, schizzi che Burroughs iniziò a scrivere a Tangeri nel 1953. Il materiale continuò ad accumularsi per quattro anni mentre lo scrittore sperimentava su se stesso ogni tipo di droga. Divenne così dipendente, soprattutto dall’eroina, che decise di curarsi a Londra nel 1957. Il romanzo venne pubblicato a Parigi nel 1959 e nel 1962 negli Stati Uniti. Questa raccolta fu curata dallo stesso Kerouac, suo amico, che gli consigliò di pubblicarla. Appena pubblicato il libro fu colpito da processi per oscenità in diversi Paesi. Quando vi fù il processo contro Burroughs uno dei testimoni scelti per la difesa della pubblicazione di questo romanzo, alla domanda della Corte relativa al significato del romanzo rispose: “per me questo è un semplice ritratto dell’inferno. È esattamente l’inferno”. È difficile definire questo romanzo. Come è difficile immaginare che una persona in preda alle visioni procurate da tutte le droghe più pesanti che esistessero riuscisse a tradurre per iscritto, in quei momenti, quanto avviene nella sua mente, nel suo corpo, ed in qualche modo anche nell’ambiente circostante. Tutto deformato da una percezione deformata. Oppure un tutto che acquisisce la vera forma che una mente non deformata non può percepire? Eppure Burroughs ha fatto proprio questo. Nel romanzo racconta di un uomo che deve fuggire in quanto ricercato da New York e si ritrova in terre immaginarie popolare da personaggi loschi da extraterresti di bizzarra morfologia, tra paesi e città con richiami esotici e leggendari. Il protagonista Lee, il doppio di Burroughs, vive e descrive Stati dove viene attuato in diversi modi e gradi un controllo della mente umana. È il racconto allucinato dell’inferno di un tossico, lacerato tra la necessità di procurarsi la droga e il richiamo molesto della carne, braccato da polizia e spacciatori, che trascorre le giornate in sordidi luoghi pervasi dai miasmi del corpo e dalle fobie della mente. Anche se i veri protagonisti sono il totalitarismo, il capitalismo, la tirannia psichiatrica, il razzismo antiomosessuale, la guerra nucleare, la tossicodipendenza, il lavaggio mentale, la tecnologia quasi fantascientifica al potere. È una strana esperienza leggere questo libro. Non mi appassionato subito. Frasi apparentemente senza senso e non correlate tra loro. In realtà il filo conduttore dell’opera è il controllo sulle menti che lo Stato può attuare sugli individui e la telepatia quale
strumento per sfuggire al controllo e alla censura attuata sulle menti umane. È un romanzo nel quale vi è la completa mancanza di sentimentalismo, in cui è presente un humor crudo, tagliente. La lettura è una esperienza scioccante. Le manie e le fantasie sessuali che vengono descritte, ad esempio, hanno un alto livello di sadismo. Si prova una sensazione quasi fisica nel leggere, per il modo in cui è scritto, per la misteriosa magia che ti tiene incollata alla pagine, che si traduce in un sento coi sensi quanto leggo. Leggerlo è stato un viaggio in una allucinazione. Mi imbarazza dire che a volte non ci ho capito proprio niente. Burroughs sa di che parla, ma non lo spiega, e il lettore si r i t rova d ava n t i innumerevoli personaggi e situazioni che non sa inter pretare, sott’intesi, citazioni. Ma c’è molto di più d e l l ’ a p p a re n t e caos delle parole. Lo stile è unico, u n a scar nificazione del romanzo, una sperimentazione feroce che rivela il genio di Burroughs. L’uso di espedienti narrativi, l’assenza di una regola fissa, il La copertina del romanzo pubblicato in ricorso ad un Italia da Adelphi narratore che cambia sempre, una scrittura che a volte rasenta la poesia, le continue interferenze dell’autore a spiegare i significati di certi termini gergali, il ricorso al surreale. Giungendo alla fine, il romanzo diviene sempre meno romanzo. L’autore non si accontenta di parlare di drogati, di sesso e di astinenza. Il suo messaggio è nell’esperienza di lettura alienata e dissociata. Ed è questo forse è il fine del romanzo: la dissoluzione del romanzo come allegoria della dissoluzione psicologica del tossicodipendente e forse della dissoluzione sociologica della società occidentale.
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Ospiti in libreria:
Indovina l’autore:
Sabato 16 febbraio avremo ospite in libreria lo scrittore fiorentino Francesco Recami, che presenta il suo libro “Gli scheletri nell’armadio”, edito da Sellerio. Uno degli scrittori italiani di punta della famosa casa editrice palermitana, Recami ci presenta una commedia degli errori “colorata” di giallo, dove si intrecciano le vite quotidiane degli abitanti di una casa di ringhiera, già protagonisti, insieme ad Amedeo Consonni, del romanzo “La casa di ringhiera”. Un giorno Barzaghi si presenta dall’antico collega di lavoro Amedeo Consonni, tappezziere in pensione e collezionista di cronaca nera per hobby: nel suo vecchio casolare, Barzaghi ha trovato tre scheletri e vorrebbe aiuto da Consonni, con il suo pluridecennale archivio di crimini. I due si mettono ad indagare per dare un nome ai tre scheletri, portando un po’ di scompiglio negli abitanti della casa di ringhiera dove abita Consonni.
DA: L IB R E R IA L E M IL L E E U N A PA G IN A C .s o G ar ib al di 7 2 7 0 3 6 M or ta ra (P V ) 0 3 8 4 .2 9 8 493 in fo @ le m il le eu na pa gi na .c om
Chi vuole partecipare, può inviare una mail oppure passare in libreria e lasciare la risposta. Il primo lettore che ci invierà o porterà la risposta giusta vincerà un buono da spendere nella nostra libreria.
Soluzione del numero precedente:
La scrittrice da indovinare era Siri Hustvedt, moglie dello scrittore Paul Auster
LETTERARIA Gennaio - Febbraio 2013
A CURA DI:
Laura Fedigatti Alberta Maffi Greta Leder Francesca Protti Riccardo Sedini Antonio Segrini
Anno 3 - Numero 13