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Settembre - Ottobre 2013 Anno 3 - Numero 17
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DALLE RISERVE INDIANE ALLA TRAGEDIA DELL’OLOCAUSTO
Cari amici ecco la nostra newsletter. Non solo novità e bestseller, ma proposte di libri che, secondo noi, sono meritevoli di essere letti. Nella speranza di aiutarvi nelle vostre scelte e di darvi idee sempre nuove di cultura.
UNA NEWSLETTER AUTUNNALE SEMPRE RICCA DI CONSIGLI PER LE VOSTRE LETTURE UN GRANDE ROMANZO PER UNA SCRITTRICE ATTENTA ALLE SUE ORIGINI
Ha sangue pellerossa nelle vene e si capisce, leggendo i suoi romanzi. Anche l’ultimo, vincitore di un prestigioso premio: parliamo di Louise Erdrich e del suo stupendo “La casa tonda”. Continua a pagina 2
DUE ROMANZIERI ALL’OMBRA DEL TIGLIO
Lei è croata, ma scrive in tedesco. Lui è austriaco, nessun dubbio quindi sulla lingua in cui scrive. Per la sua rubrica sulla narrativa tedesca, Francesca Protti ci racconta gli ultimi romanzi di Natasa Gragnic e Daniel Glattauer. Continua a pagina 4
UN LIBRO PER NON DIMENTICARE
Pochi forse ricordano chi fosse Arpad Weisz. Eppure è stato il più grande allenatore di calcio dei primi decenni del Novecento, morto ad Auschwitz nel 1944. Antonio Segrini lo ricorda anche con l’aiuto di un commovente filmato. Continua a pagina 8
DALL’ARMA ALLA CARTA STAMPATA
Roberto Riccardi è un ufficiale dei Carabinieri, ma è anche uno scrittore che sa spaziare dal giallo ai romanzi sulla Shoah. Conosciamo questo interessante scrittore con Riccardo Sedini. Continua a pagina 11
Una delle “donne” più famose dei fumetti: Mafalda (pag. 10); a destra, parliamo di “Yoga per negati” a pag. 12 A sinistra, il giornalista Federico buffa, autore del commovente filmato su Arpad Weisz (pag. 8); a destra, un israeliano e un palestinese insieme: gli scrittori Etgar Keret e Samir elYoussef (pag. 6)
INDOVINA L’AUTORE “Non c’era la luna e il cielo Un famoso regista britannico ha sopra di noi era nero come attinto ai suoi romanzi e racconti inchiostro. Ma, all’orizzonte, per trarne film di successo. I suoi era attraversato da lampi di romanzi sono ormai considerati porpora simili a schizzi di classici della letteratura noir, in sangue. E il vento salmastro del particolare quello da cui è stato tratto il brano qui a fianco. Chi è mare ci soffiava la cenere in faccia.” l’autore/autrice?
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LA DIFFICILE STRADA VERSO L’ETÀ ADULTA TRA GIALLO E ROMANZO DI FORMAZIONE Louise Erdrich è una bella signora, nata nel 1954 in Minnesota, stato confinante col Canada. La cittadina cui Louise deve i natali ha il nome romantico di Little Falls, dalle cascate sul Mississippi che i fondatori potevano vedere nel lontano 1848 e dove un altro americano molto famoso vi ha vissuto negli anni dell’infanzia, l’aviatore Charles Lindbergh. Tra gli scrittori contemporanei americani, la Erdrich ha una particolarità: le sue storie raccontano dei Nativi Americani. Questo perché la scrittrice, dal lato materno, può vantare anche origini indiane. Da piccola, suo padre le regalava un nichelino per ogni storia che lei scriveva, iniziandola, così, alla scrittura. Dopo gli studi letterari e un master in scrittura creativa alla prestigiosa Johns Hopkins University di Baltimora nel 1979, Louise scrisse un racconto su una donna Ojibwe (la tribù di nativi da cui discende l’autrice) la cui morte riunisce in una riserva del North Dakota i suoi parenti per il funerale. Questo racconto, che la mise in luce per la prima volta come scrittrice, sarà l’inizio del suo primo romanzo, uscito nel 1984 con il titolo “Love Medicine” (“Medicina d’amore”, Mondadori, 1985) e che le fece guadagnare il primo di una lunga serie di premi e riconoscimenti. A questo libro, seguirono romanzi, racconti per bambini, raccolte di poesie, saggi. In quasi tutti i suoi lavori, la questione dei Nativi d’America è trattata con grande interesse e sensibilità. Nel 1988 esce “Track”, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1992 col titolo “Tracce” (ormai introvabile, purtroppo, come spesso accade per i romanzi molto belli ma poco di “cassetta”), mentre nel 2009 la Erdrich è finalista al Premio Pulitzer per la narrativa col romanzo “The Plague Of Doves”. I lettori italiani possono leggere “Passo
Una bella immagine di Louise Erdrich, scrittrice americana di origini Anishinaabe (tribù di Nativi Americani del North Dakota)
nell’ombra” (“Shadow Tag”), pubblicato da Feltrinelli nel 2011, che narra la storia di una coppia apparentemente felice, perfetto simbolo del sogno americano r a g g i u n t o, m a c h e nasconde gelosie, dubbi, ossessioni. Nel novembre del 2012 Louise Erdrich raggiunge l’apice della sua carriera, vincendo uno dei più importanti premi letterari al mondo, il National Book Award, con il suo ultimo, strepitoso ro m a n zo, u s c i to l o scorso luglio in Italia da Feltrinelli con il titolo “La casa tonda” (“The Round House”). Se dovessi dire una sola cosa su questo libro, allora direi “Da leggere assolutamente”. La casa tonda del titolo è il luogo dove vengono compiuti i riti sacri dai Nativi. Nella libro è situata in una riserva del North Dakota e qui si è consumata un’aggressione di inaudibile violenza ai danni di Geraldine Coutts, la moglie del giudice Coutts, un uomo onesto, rispettato da tutti, non avvezzo ai crimini violenti, che regola la giustizia del territorio giudicando liti tra vicini, piccoli furti, casi di ubriachezza e, a volte, spaccio di droga. Siamo nel 1988; una domenica pomeriggio, per un motivo che solo più avanti verrà spiegato, Geraldine prende la sua auto e si allontana da casa. Il giudice e il figlio, Joe, un ragazzino di tredici anni, la troveranno sotto shock, dopo che è stata stuprata, selvaggiamente picchiata, cosparsa di benzina nel tentativo di darle fuoco. Solo per una distrazione dell’aggressore, Geraldine è riuscita a fuggire. Da qui inizia una ricerca, difficile, lenta, fatta di silenzi (anche da parte della stessa Geraldine, tanto che viene il dubbio che lei possa conoscere il suo assalitore) per scoprire il colpevole e fare giustizia. Una giustizia che è voluta a tutti i costi da Joe, il vero protagonista di questa storia. Joe narra in prima persona una vicenda che sconvolge la tranquilla quotidianità della sua famiglia. La madre si chiude in un silenzio fatto di dolore, a causa del trauma subito, ma anche di paura, tanto da cercare di tenere fuori dal suo dramma anche il marito e il figlio così amati.
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LETTERARIA! A complicare le cose, Geraldine non sa dove sia successo il crimine: nella casa tonda, sì, come abbiamo detto, ma solo una parte, quella finale. Lo stupro, avvenuto per prima cosa, non è chiaramente localizzabile, se nel territorio della riserva o al di fuori: la giustizia indiana è quindi messa da parte da quella del governo federale, che ha la precedenza (e questo fatto non sarà privo di gravi conseguenze) rispetto alle leggi dei territori indiani. Joe, che ripercorre la storia da adulto, una volta diventato avvocato e lui stesso amministratore di giustizia (lo si capisce da molti riferimenti che, di tanto in tanto, apprendiamo dalla voce del ragazzo) non si lascia prendere dallo scoramento, anzi, inizia ad indagare per suo conto, con gli amici della riserva, ragazzini come lui, con alle spalle famiglie più o meno disagiate. E poi anche con il padre, che vorrebbe tenerlo fuori da quello che è accaduto, ma che trova in lui un valido sostegno per porre una parola fine a questa terribile vicenda. “La mattina in cui raccontai a mio padre della casa tonda, lui spinse la sedia all’indietro, si alzò in piedi e mi voltò le spalle. Quando tornò a guardarmi, il suo viso era calmo e mi disse che ne avremmo parlato più tardi. Ora dovevamo occuparci del giardino di mia madre. Aveva comprato costose piante da aiuola in un vivaio diroccato a venti miglia dalla riserva. Cartoni e vaschette di plastica furono messi all’ombra. C’erano petunie rosse, viola, rosa e striate. Tageti gialli e arancione. C’erano azzurri nontiscordardime, margherite Shasta, calendule color lavanda e gigli della torcia. Mio padre mi dava le indicazioni. Io mettevo a dimora le piantine a una a una nelle aiuole.” Nel disperato tentativo di andare avanti come prima, Joe vive le sue giornate di vacanza insieme agli amici di sempre: Cappy, Angus e Zack. Insieme, se ne vanno in giro in bicicletta senza meta, fumano le sigarette rubate agli adulti di nascosto, bevono birra, si danno soprannomi presi in prestito dalla loro serie TV preferita, “Star Treck. The Next Generation”, cercano di farsi notare dalle ragazze. Joe ha una cotta per Sonja (o meglio, per i seni di Sonja, che lui guarda di nascosto), la bella moglie di suo zio Whitey, un’ex spogliarellista a cui Joe confiderà un segreto troppo grande, certo, nella sua ingenuità di ragazzino, di aver trovato un’alleata. Ma anche Sonja, come altri adulti che compaiono nel romanzo, ha le sue debolezze e deluderà Joe miseramente. La storia si concentra tutta in un’estate, durante la quale Joe si sente a metà strada tra l’infanzia e l’età adulta. Ha ancora bisogno della madre e nello stesso tempo vorrebbe prendere su di sé la responsabilità di porre fine alle sofferenze e alla paura di Geraldine. “Lei mi aveva trattato come uno più grande di me, e anche questo era continuato. Vedeva le cose troppo bene, non aveva più la stessa mite pazienza. Aveva smesso di trattarmi con la solita indulgenza. Non rideva più delle cose che facevo. Era come se in quelle settimane si fosse aspettata che sarei diventato grande e non avrei più avuto bisogno di lei. Se pensava che io agissi seguendo solo il mio istinto, be’, era proprio quello che stavo facendo. Ma avevo ancora bisogno di lei. “La casa tonda” è stato definito un thriller avvincente, anche se non c’è una ricerca dell’assassino come in un poliziesco (a un certo punto del libro, si svela il nome dell’aggressore), non è questo lo scopo dell’autrice; ed è stato anche definito
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un romanzo di formazione, perché il protagonista è un adolescente che sta lasciandosi alle spalle la tranquillità e la spensieratezza dell’infanzia. Nell’arco di una sola stagione, Joe sperimenta la violenza e l’odio, il significato dell’amicizia vera e l’amore di una famiglia, il tradimento e la speranza, il desiderio di crescere e diventare adulti con la paura che il
Louise Erdrich alla consegna del National Book Award e, a destra, con la figlia in abiti tradizionali pellerossa cambiamento porta con sé. Ma anche i tanti dubbi che non abbandonano mai l’esistenza di un uomo: perché tanto odio? E come fa una persona a diventare violenta e fare del male a un’altra persona? Nemmeno il padre di Joe, il saggio giudice, può rispondere a queste domande. Alla fine, Joe riuscirà nel suo intento: scoprire la verità, proteggere sua madre e farla tornare alla vita, avere di nuovo una famiglia unita. Ma tutto questo ha un prezzo altissimo che Joe dovrà accettare per amore di una giustizia che va al di là delle leggi umane. Abbiamo detto “thriller” e “romanzo di formazione”: direi che sono vere entrambe le definizioni. Tuttavia, “La casa tonda” è anche qualcosa di più, a mio avviso: una sorta di metafora sul destino di un popolo, prima schiacciato e privato di ogni diritto, ma che cerca faticosamente di rialzare la testa, riguadagnare un’antica dignità per le generazioni future. Memorabili le storie che Mooshum, il vecchio nonno di Joe, racconta durante il sonno, come in trance: storie della tradizione pellerossa che affascinano il ragazzo e che aspetta sveglio apposta per poterle ascoltare e imparare, così, a conoscere l’anima vera del suo popolo. Louise Erdrich ci ha dato un romanzo straordinario, di grande impatto emotivo, intenso e avvincente, che resterà scolpito profondamente nella memoria, e nel cuore, di chi lo legge.
Laura Fedigatti
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SOTTO IL TIGLIO* PICCOLA RUBRICA DI CULTURA TEDESCA A CURA DI FRANCESCA PROTTI
Nel 2009 mia sorella si è fatta accompagnare a Berlino. Fu amore a prima vista. Per una serie di fortunati eventi, spesso è in giro per il mondo e nel 2012 ha avuto l'occasione di tornare nella capitale tedesca. Al ritorno mi confessò come si fosse avvicinata a quella città tanto vasta quanto affascinante, con un po' di paura. Quella di intaccarne lo spumeggiante ricordo che ne aveva. Di recente ho provato le stesse sensazioni avvicinandomi alle ultime opere di autori di cui, forse, i miei followers ricorderanno precedenti recensioni. Parlo di Natasa Dragnic e del suo ultimo romanzo, “Ancora una volta il mare”, e di Daniel Glattauer con “Per sempre tuo”, entrambi editi in Italia da Feltrinelli “Nessuno conosce davvero questa storia. Non io, non Alessandro, e nemmeno le mie sorelle e i miei genitori, che pure ne fanno parte. Ma io sono tranquilla, sono esattamente dove voglio essere. E stasera diventerò la signora Lang.” Le quattro righe testé citate non sono l’incipit del romanzo, ma ne racchiudono l’essenza. La quarta di copertina, ti offre la domanda che ti costringe ad andare avanti nella lettura. Chi, tra le tre sorelle protagoniste di Ancora una volta il mare, pronuncia questa frase? All’ultima riga ci arrivi perché… non puoi farne a meno. Semplicemente. Alessandro Lang, giovane poeta figlio di padre tedesco e madre italiana, un bilingue con una sensibilità particolare per
entrambi gli idiomi. Come le sorelle Alessi. Roberta, la primogenita, Lucia la più sensuale e Nannina, la più giovane e sognatrice. Erika, originaria di Monaco di Baviera conobbe Niccolò Alessi e non fece mai più ritorno in patria, se non per sporadiche visite durante le vacanze. Tutto ha inizio a Monterchi. Davanti alla Madonna del Parto di Piero della Francesca, la diciannovenne Roberta Alessi viene avvicinata da un uomo, di qualche anno più grande di lei. È un incontro voluto dal destino, l’inizio di un’appassionata storia d’amore. Lui si chiama Alessandro Lang. È dolce, romantico, imprevedibile, anche se spesso scompare per lunghi periodi, prigioniero dell’ispirazione poetica. La coppia sta insieme per anni, mentre Roberta studia medicina a Siena. Un vortice di passioni e tormenti che hanno il loro culmine nel giorno in cui, vedendo Alessandro con Lucia, Roberta si convince che abbiano una relazione. Tra le sorelle si spalanca un abisso. Anni dopo, si ritrovano nella villa di famiglia all’Elba. Più forte delle incomprensioni, della rabbia e della gelosia, è il richiamo di casa, del mare. E l’amore per i genitori, ormai anziani. Ma l’armonia non dura molto, perché anche Nannina ha qualcosa da raccontare. Quale delle tre sorelle sposerà il poeta? E riusciranno le altre a perdonarla? Un emozionante affresco familiare che parla di amore, passione, dolore e perdono. Dopo il successo di “Ogni giorno, ogni ora”, Natasa Dragnic ci regala una storia poetica, impetuosa, travolgente. Come il mare. E così è. All'inizio non facevo altro che paragonare il romanzo a quello di esordio. Due passi avanti e uno indietro, alla scoperta se mi piaceva tanto, di più o di meno. Un paio di passi nel flusso della narrazione, poi scappavo via, come quando si è in spiaggia e ci si acclimata, pian piano, alla temperatura del mare. Ogni volta ci si bagna un po' di più... le caviglie, le ginocchia, l'attaccatura delle gambe. E a quel punto, è fatta. Ti lasci andare alla corrente, alle onde che ti travolgono, sommergono e ti impediscono di pensare ad altro.
Natasa Dragnic e la copertina del suo ultimo libro
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LETTERARIA! Ho letto il romanzo in una settimana, rammaricandomi della puntualità del treno tanto al mattino quanto alla sera. Mi impediva di andare avanti, di destreggiarmi in quei capitoli così stranamente organizzati. Giacché per capire devi arrivare alla fine. Solo allora comprendi chi è la sposa, di chi erano le pagine in prima persona che si alternano ai capitoli "convenzionali", attraverso cui la storia procede per brevi scene ambientate ai tre angoli del mondo. Piombino, Monaco, San Francisco. Le tre sorelle si separano, si allontanano, per tornare, come le onde, ad un luogo, simbolo del passato e del loro nuovo inizio. Il mare.
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così si arriverà alla medesima conclusione dei recensori di Die Zeit. “La forza di Daniel Glattauer è la leggerezza con cui racconta rapporti difficili e dai complessi risvolti psicologici come se non fossero affatto problematici.
Daniel Glattauer ha raggiunto il successo con un’insolita storia d’amore. “Le ho mai raccontato del vento del Nord?”, sfidava le leggi del genere romantico ed epistolare fondendo e calando i due generi nella nuova veste offerta da internet e * Unter den Linden (Sotto il Tiglio) è uno dei più bei dalle sue nuove possibilità di comunicare. Con “Per sempre tuo viali di Berlino, che prende il proprio nome dall'incipit di un “ritorna a sfidare il genere aggiungendo un elettrizzante tocco canto d'amore di Walter von der Vogelweide, poeta medievale di suspense. (1170 ca. – 1230 ca.). Di nuovo una domanda, sulla quarta di copertina, è l’input per addentrarsi nella lettura del romanzo. Quanto amore si può sopportare? A volte sei tu a inseguire l’amore, a volte è lui a venirti incontro. E poi ci sono altre volte in cui ti si appiccica addosso e non ti lascia più… Hannes Bergtaler entra nella vita di Judith, single fra i trenta e i quarant’anni, trafiggendole… un tallone con il carrello del supermercato. Quando lui entrò nella sua vita, Judith provò un dolore lancinante, ma passò subito…Non passa molto tempo e Hannes spunta casualmente nel negozietto di lampade che Judith gestisce con la giovane Bianca. È il primo passo di un corteggiamento vecchio stile, fatto di fiori, cene romantiche, languidi sguardi di un uomo che pare chiederle solo di poterla adorare. Se all’inizio Judith ne rimane sedotta e lusingata, con il passare dei giorni si sente ossessionata, quasi in trappola. E il disagio è tale da spingerla alle conseguenze più estreme. Da qualche parte ho letto che per giudicare una cosa, sia essa un libro o un’esperienza di vita, è sempre bene lasciar passare del tempo. È vero, lo confermo. Quando ho chiuso il romanzo, letto a sua volta in tempo record, non sapevo giudicarlo. L’ho riposto nella libreria e ne ho iniziato un altro, lasciando che i personaggi di Hannes, Judith e di tutti gli amici e familiari di lei, decantassero nella mia mente, mi parlassero un’ultima volta. Consiglio di fare altrettanto, solo Daniel Glattauer e la copertina del suo romanzo Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com
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ALLA FIERA DELL’EST* RUBRICA DI LETTERATURA EBRAICA A CURA DI LAURA FEDIGATTI
Geniale. È questo l’aggettivo che più di ogni altro viene associato alla narrativa di Etgar Keret, uno dei più interessanti scrittori israeliani della nuova generazione. I suoi libri sono tradotti in più di trenta paesi in tutto il mondo e in altrettante lingue diverse, hanno vinto molti premi prestigiosi internazionali e i suoi racconti sono stati pubblicati su importanti giornali, quali “The New York Times”, “Le Monde”, “The Guardian”, “The Paris Review” e “Zeotrope”. Keret scrive anche per il cinema ed è lui stesso regista: il suo cortometraggio “Skin Deep” ha vinto numerosi premi internazionali, mentre il lungometraggio “Medusa”, da lui diretto su sceneggiatura di sua moglie Shira Gene, ha vinto il premio Caméra d’Or al Festival di Cannes nel 2007. Inoltre, dai suoi racconti sono stati tratti dei film, come “Wristcutter Una storia d’amore”, presentato al Sundance Festival nel 2001. Nel 2003 ha scritto anche un libro per bambini, “Papà è scappato col circo” (pubblicato in Italia da E/O) che ha vinto l’importante Premio Andersen per l’infanzia come miglior libro per i bambini dai 6 ai 9 anni. Nel 2010 lo scrittore è stato insignito in Francia dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere. Non male per un giovane autore di un piccolo paese. Nato a Ramat aGn, cittadina alla periferia est di Tel Aviv, nel 1967, Keret è il terzo figlio di una coppia sopravvissuta all’Olocausto. Attualmente vive a Tel Aviv con la moglie e il figlio e insegna alla facoltà di Cinema e Televisione dell’Università di Tel Aviv. Se il suo eclettismo artistico lo ha portato a occuparsi di cinema, televisione, radio, graphic novel, è per i suoi libri che Keret si è guadagnato la fama mondiale. Spesso, quando si parla di scrittori israeliani, si pensa subito alla famosa “triade”: Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman. Insieme ad altri giovani scrittori, Keret è riuscito a farsi strada tra questi giganti grazie ad un linguaggio più libero, spesso non proprio convenzionale, mirato a raggiungere anche un pubblico giovane, variando spesso i temi trattati e con l’uso sapiente di un’ironia graffiante. La sua forma narrativa è quella del racconto. E la brevità di questo tipo di narrazione è spesso esasperata da Keret, tanto che la maggior parte delle storie è limitata a un paio di pagine. La sua prima raccolta, “Pipeline” esce nel 1992, ma è con la seconda “Missing Kissinger”, del 1994, che raggiunge la notorietà, tanto che nel suo paese viene considerato uno dei cinquanta libri scritti in ebraico più importanti da sempre. In Italia, le sue raccolte sono state tutte pubblicate dalla casa editrice romana E/O: “Pizzeria Kamikaze” (2004); “Io sono lui” (2004); “Le tette di una diciottenne” (2006); “Abram Kadabram” (2008); “La notte in cui morirono gli autobus” (2010). I suoi sono racconti dell’assurdo, dove i protagonisti si ritrovano in situazioni talmente surreali da essere
improbabili in una realtà veritiera. Per Keret, la vita va analizzata attraverso l’ironia e l’assurdo, forse perché è la vita ad essere assurda, a volte. A maggior ragione si si vive in un paese tanto complicato quanto è Israele. Memorabile, direi a questo proposito, la raccolta “Gaza Blues” , pubblicata in Italia sempre da Guanda nel 2005 e scritta a quattro mani con lo scrittore palestinese Samir El-Youssef (nato in Libano nel 1965 e residente a Londra). I temi della guerra si trovano spesso nei racconti di Keret, con tutta l’assurdità che i conflitti si portano sempre dietro. Qui, le vite di persone comuni, degli anti-eroi, sono destabilizzate da un conflitto che sembra non avere fine, che grava pesantemente sulle azioni quotidiane anche più banali. E così, accanto a combattimenti, morti, attentati, i protagonisti delle storie di “Gaza Blues” (ma anche delle altre storie di Keret), siano essi israeliani o palestinesi che vivono nei campi profughi del Libano, pensano a farsi una canna mentre cercano il modo per procurarsi il visto d’espatrio e andarsene, pensano a divertirsi e fare sesso. Un umorismo nero, graffiante, l’unico modo per cercare una via di fuga in una situazione impossibile. “Allora mi resi conto che se non fossi andato via da questo paese sarei diventato matto. A dire il vero, avevo provato a tagliare la corda già prima che Ahmad mi parlasse dell’imminente guerra inevitabile che sarebbe durata trent’anni. Avevo cercato di procurarmi un visto per la Germania tramite lo scaltro titolare di un’agenzia di viaggi; ma senza risultato.”, scrive Samir El-Youssef. O ancora: “Sì, pensavo fra me, io e Dalal dobbiamo sposarci. Ci sposeremo e avremo dieci figli, ma un giorno i nostri figli moriranno e sui muri del Campo verranno affissi dei manifesti enormi con la loro foto e una scritta in cui saranno dichiarati martiri ed eroi, morti combattendo il nemico sionista. E io e Dalal saremo gli orgogliosi genitori di dieci martiri. Dopodiché Israele potrebbe invadere di nuovo il Libano, distruggere il Campo e mettercela in culo, così moriremo e una volta per tutte la faremo finita con questa vita del cazzo.”
Lo scrittore Etgar Keret
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LETTERARIA! Con questo libro Keret e El-Youssuf hanno creato un bell’esempio di letteratura che unisce dove la guerra divide. L’ironia sembra sempre l’arma vincente degli scrittori ebrei in generale, e Keret non se ne è sottratto. Con un bel po’ di situazioni paradossali. “L’ironia è necessaria per sopravvivere”, dice l’autore stesso, che ha iniziato a scrivere durante il servizio militare. Keret è stato un pessimo soldato, pieno di ansia e di paura per quello che gli sarebbe potuto succedere. Poi, l’incontro con un gigante della letteratura ebraica, Franz Kafka, che, in quanto a problemi psicologici, non invidiava nessuno. Il servizio militare e la lettura di Kafka h a n n o s p i n t o Ke re t a convogliare la rabbia e la paura sulla carta. Così è iniziata una carriera piena di successi grazie alle sue raccolte di racconti, forma narrativa privilegiata perché ritenuta dallo scrittore più istintiva, più immediata, il modo migliore per raccontare pensieri e trasmettere emozioni. La più recente di queste raccolte è “All’improvviso bussano alla porta”, pubblicata in Italia da Feltrinelli. In patria ha avuto un successo incredibile, e così è stato negli USA, dove è stata tradotta da un altro scrittore ebreo (di cui abbiamo parlato qualche newsletter fa), Nathan Englander e ha venduto centinaia di migliaia di copie. A tal proposito Englander, grande amico di Keret, ha detto: “La nuova raccolta di Etgar Keret è meravigliosa e commovente e - come sempre sorprendente e affettuosamente bizzarra.” Se c’era bisogno di sottolineare il fatto che la scrittura è un divertimento e, insieme, un modo per staccarsi da una realtà difficile, evadere dalla vita quotidiana quando questa ci sta un po’ stretta. La narrazione come salvezza. Questo è il messaggio che Keret ci manda subito dal primo racconto, quello che dà il titolo alla raccolta, dove uno scrittore si trova ostaggio di tre uomini che hanno bussato alla sua porta e, pistola alla mano, lo minacciano di inventare, così su due piedi, una storia. I tre sono disperati per la brutta situazione che il mondo sta vivendo e una storia, sebbene estorta con una minaccia di morte, è quello che chiedono per sfuggire a questa realtà. E lo scrittore dà loro una storia: “Un uomo è seduto in una stanza, è solo. È uno scrittore. Vuole scrivere una storia. È passato molto tempo da quando ha scritto l’ultima e ha nostalgia. Ha nostalgia della sensazione di creare qualcosa da qualcosa. Perché creare qualcosa dal nulla è inventare di sana pianta. Non ha un gran valore e non è poi così difficile. Chiunque potrebbe farlo. Ma far nascere qualcosa da qualcosa è scoprire ciò che avevi già dentro, scoprirlo come se fosse nuovo, ami successo prima. Lo scrittore decide di scrivere una storia su una situazione. Non quella politica o sociale. Quella umana, una storia sulla condizione umana.”
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Con le sue storie assurde, decisamente spiazzanti per chi legge, Keret vuole scandagliare l’animo umano, analizzare sua solitudine a cui spesso siamo destinati, tirar fuori le paure che abbiamo: la catarsi della letteratura è presente anche qui, come capita spesso negli scrittori di origine ebraica. Alcuni racconti sono tanto brevi da riempire a mala pena una o due pagine. Addirittura, “Il racconto migliore II” è lungo solo 15 parole: “Ma se un giorno, per nostalgia, improvvisamente voi lo rivorrete, lui sarà felice di ritornare” riferendosi al racconto precedente, “Il racconto migliore”. Non servono tanti giri di parole, allo scrittore, per fare arrivare il suo messaggio, e questa è una delle qualità della sua prosa. I protagonisti sono tra i più vari, uomini, donne, vecchi, bambini, di ogni realtà sociale, nessuno sfugge alla penna graffiante di Keret. Anche animali, come nella storia “Il pesce rosso”, dove il protagonista, un ragazzo di nome Yonatan, si mette in testa passare di casa in casa per raccogliere materiale su un documentario, chiedendo alle persone “Se lei trovasse un pesce rosso che può soddisfare tre desideri, cosa chiederebbe?”. Le persone non si sottraggono alla domanda bizzarra, anzi, ognuno di loro avrebbe un desiderio da chiedere, fino a quando Yonatan bussa alla porta di un immigrato russo, che ha davvero un pesce rosso in grado di realizzare tre desideri e a cui resta solo un desiderio. È difficile scegliere quali delle trentotto storie siano più rappresentative dello stile di Keret, così come sarebbe difficile raccontarle in poche parole senza snaturarle. Allora, la cosa migliore che si possa dire ora è di leggerle e lasciarsi coinvolgere dalla straordinaria capacità affabulatrice di questo scrittore, moderna Sherazade che attinge all’arte del raccontare per salvare la vita di tutti. Una curiosità: su suo s i t o u f fi c i a l e , www.etgarkeret.com, un paio dei suoi mig liori racconti sono letti da famose star di Hollywood, quali Stanley Tucci e Willem Dafoe.
*”Alla fiera dell’est” è un canto pasquale ebraico, “Chad Gadya”, a cui si è ispirato Angelo Branduardi per la sua celeberrima canzone Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com
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IL BATTITORE LIBERO* LETTURE CON LICENZA DI AVANZARE A CURA DI ANTONIO SEGRINI
“Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito”. Dobbiamo alla tenacia di Matteo Marani, giovane giornalista bolognese direttore del “Guerin Sportivo”, la risposta al quesito che si poneva il grande Enzo Biagi a proposito di Arpad Weisz, allenatore a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 prima dell’Inter (con la quale vinse uno scudetto nella prima edizione della Serie A così come la conosciamo oggi) e poi del Bologna (due storici scudetti che spezzarono il quinquennio di egemonia juventina ed il trionfo a Parigi nell’equivalente dell’attuale Champions League). Marani ha consultato archivi di ogni genere ed il frutto della sua ricerca è questo splendido libro, “Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo” (edizioni Aliberti), che ripercorre la seconda metà della vita del tecnico, ungherese di nascita, e ne racconta il suo tragico destino, una ricerca paziente e laboriosa resa ancora più ostica dal fatto che, a seguito dell’autarchia linguistica imposta dal fascismo, il cognome fu italianizzato in Veisz. Dallo scudetto ad Auschwitz, proprio così…ed è quanto mento singolare che per quasi 70 anni ci si sia “dimenticati” di questo personaggio, paragonabile per bravura e popolarità ai più validi allenatori oggigiorno in circolazione. Weisz è stato dapprima un discreto calciatore, ha vestito la maglia della nazionale del suo paese ed è approdato anche in Italia dove ha giocato con Padova e Inter, ma poi un grave (per l’epoca) infortunio lo ha costretto ad appendere le scarpette al chiodo e così è cominciata la sua brillantissima carriera di tecnico. Negli anni ’20 nei caffè di Budapest e Vienna si discerne di filosofia, teorie s c i e n t i fi c h e , musica classica e calcio senza distinzioni di sorta e Arpad proviene dall’illuminato tessuto sociale mitteleuropeo. Ha studiato legge, ha lavorato in banca, è un uomo di c u l t u r a , cosmopolita e poliedrico. E’ stato anche prigioniero Arpad Weisz dei soldati italiani sul Carso durante
la prima guerra mondiale. Per aggiornarsi ha viaggiato tra Uruguay e Argentina (avanguardie, insieme all’Inghilterra, del football di quegli anni). E’ inoltre dotato di grande spirito innovativo, ama sperimentare e rivoluzionerà il calcio dell’epoca con schemi, accorgimenti e strategie applicabili anche ai giorni nostri. Ha scritto anche un libro, in collaborazione con un dirigente dell’Inter (o A m b ro s i a n a c o m e venne ribattezzata sempre in ossequio ai dettami del fascio), intitolato “Il Giuoco del Calcio”, oggi introvabile ma imprescindibile per chi in quel periodo voleva approfondire la materia. E’ un perfezionista e proprio questo suo attaccamento al lavoro gli sarà, in qualche modo, fatale. Il Bologna è famoso in tutta Europa per il suo stadio, il Littoriale, inaugurato da Mussolini in persona ed emblema stesso del fascismo. “E’ curioso pensare che sarà un ebreo, presto perseguitato dal regime, a rendere ancora più famoso il fascistissimo impianto”. Quando vengono promulgate le leggi razziali, nel 1938, Weisz vive a Bologna con la famiglia, la moglie Ilona (tramutato in Elena), i figli Roberto (di 8 anni) e la piccola Clara. Nel 1936 ha vinto il campionato italiano, l’anno successivo ha bissato il successo e ha portato il Bologna sul tetto d’Europa umiliando nientemeno che i maestri anglosassoni. “E’ la più grande partita gestita dall’ungherese. Un inno al calcio, una summa di ciò che è l’arte tattica. A Parigi, davanti a un pubblico che invade le tribune, la squada emiliana si è imposta per 4-1 sul Chelsea, rapendo l’occhio agli spettatori e ai giornalisti francesi, pronti a sommergere di complimenti l’allenatore. Aver schiacchiato lo squadrone inglese è una prodezza che non ha pari nel nostro movimento calcistico.” Ma nuvoloni neri e minacciosi incombono, le restrizioni nei confronti degli ebrei si fanno sempre più pesanti con i divieti di collaborare a giornali e riviste, di ricoprire cariche pubbliche, di svolgere professioni come bancario, assicuratore, bibliotecario, addirittura di essere iscritti a società o competizioni.
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LETTERARIA! Il censimento voluto da Mussolini nell’agosto del 1938 certifica ciò che era nell’aria da qualche tempo: nonostante nessun componente faccia parte della comunità ebraica bolognese né frequenti la sinagoga, la famiglia Weisz deve abbandonare l’Italia. “Nel silenzio che ricopre all’improvviso la sorte degli ebrei, e per primi coloro che hanno passaporto straniero, c’è un elemento che deve offendere maggiormente Weisz. E’ il mutismo dei giornali, con i quali ha sempre avuto un rapporto buono, di reciproca fiducia. La stampa sembra averlo cancellato. Una croce sopra. Una linea netta, come fanno i burocrati sulle liste dell’infamia.” I Weisz trovano riparo a Parigi, un luogo che fa parte del circuito calcistico e dove un ebreo può ancora lavorare, Arpad inoltre conosce un po’ di francese. Col senno di poi si rivelerà la prima delle decisioni sbagliate, avrebbe potuto trovare rifugio più sicuro in Sud America dove ha conoscenze ma “l’ottimismo della speranza” ha prevalso. “Weisz ha deciso di restare, cercando una mediazione, una progressiva accettazione delle novità che porterà in breve tempo a uno scivolamente verso il baratro. La ragione ha infatti perduto la sfida con la follia. Ma dal punto di vista di Weisz, Parigi ha molti lati positivi, dalla temporanea libertà politica al collegamento ferroviario con Bologna. Ecco perché è qui.”. Ma a Parigi non giunge nessuna di offerta di lavoro degna di tal nome, tanto più che uno strisciante antisemitismo sta lentamente insinuandosi ad ogni livello anche in Francia. Ecco allora, nell’ottobre del 1939, arrivare una proposta dall’Olanda, dove il calcio è totalmente dilettantistico: la squadra si chiama Dordrecht, non ha alcuna tradizione ma i suoi dirigenti hanno capito che Weisz, con le sue straordinarie capacità, può apportare grossi miglioramenti sia ad essa che a tutto il movimento. E così sarà, anche qui, nonostante la crescente angoscia per una situazione che si sta facendo di giorno in giorno sempre più insostenibile, l’allenatore ungherese guiderà il manipolo di studenti e lavoratori del Dordrecht a vittorie prestigiose contro le potenze calcistiche del paese e a piazzamenti mai più ripetuti nella storia del club. Ma l’Olanda, come quasi tutta l’Europa ormai, sta per essere invasa dai nazisti. E’ il 10 maggio del 1940 quando le truppe tedesche arrivano in quella cittadina che, così placida
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e tranquilla, lontano dai clamori dei grandi centri, sembrava il luogo ideale per nascondersi. E’ la fine, o meglio, l’inizio dell’incubo. Come già successo in Italia, i provvedimenti nei confronti degli ebrei si fanno sempre più restrittivi, Weisz cerca di concentrarsi sul lavoro, i risultati sono ancora straordinari ma è tutto inutile, nel settembre del 1941 è costretto a lasciare l’incarico. Arriverà poi, nel maggio del 1942, l’umiliazione di doversi cucire la stella gialla sui cappotti e la lenta discesa verso l’inferno. E’ il 2 agosto 1942 quando i Weisz vengono arrestati e deportati, Arpad finirà ad Auschwitz, il resto della famiglia a Birkenau, nomi che mettono ancora i brividi a scriverli e a pronunciarli. Il resto, purtroppo, è storia, la pagina più buia, folle, triste ed inaccettabile della storia dell’umanità. E’ il 31 gennaio del 1944 quando Arpad Weisz, allenatore ebreo, non ha risposto all’appello delle guardie e non si è fatto trovare sull’attenti nella fila che da un anno e mezzo divide con gli altri reclusi. Incredibilmente commovente e toccante il filmato che il giornalista sportivo Federico Buffa ha realizzato per Sky Sport in occasione della Giornata della Memoria 2013. Qui di seguito riportiamo il link per vedere l’omaggio a un grande sportivo e un grande uomo, dimenticato per troppo tempo e che ora, con il libro di Marani e il reportage di Buffa, possiamo conoscere e apprezzare. Un pezzo di storia, da vedere tutti, e non solo gli amanti del calcio. Federico Buffa racconta Arpad Weisz: http://www.youtube.com/watch?v=R3oaUGLXtIM *Fino agli anni '80 veniva definito "battitore libero" quel calciatore che, sgravato da compiti di marcatura fissa degli avversari, era appunto "libero" di giostrare a suo piacimento alle spalle dei difensori suoi compagni di squadra o di avanzare a sostegno degli altri reparti.
La copertina e un estratto dal libro “Il giuoco del calcio” di Weisz
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RIDI E AVRAI LE RUGHE GIUSTE RUBRICA DEL BUON UMORE A CURA DI FRANCESCA PROTTI
Oggi in treno sono scoppiata a ridere. Non mi vergogno ad pubblicata in Italia, nel 1969, con il titolo Mafalda la ammetterlo. Nel mezzo del vagone pieno di gente, sono contestataria. L’esimio semiologo paragonava la creatura del sbottata in una bella risata. Sapete, quelle liberatorie che ogni fumettista argentino con i personaggi di Charles M. Schulz. tanto ci vogliono, per tornare con i piedi per terra, per A separare, però, Mafalda da Charlie Brown è il loro assaporare di nuovo il gusto di vivere, per avere voglia di farlo atteggiamento nei confronti del mondo. Se la prima, e tutti ancora (vivere, intendo… ma anche ridere). La sconosciuta al suoi amici con lei (Susanita, Libertà, Manolito, Felipe, mio fianco e il mio collega di fronte mi hanno guardato Nando…), hanno un marcato rifiuto di integrazione con il straniti. Quest’ultimo si è pure preoccupato di domandarmi mondo degli adulti, i personaggi del disegnatore statunitense se stessi, per caso, male. Se mi fossi messa a piangere, a quell’integrazione la ricercano. Ideata per una pubblicità di gridare, ad agitarmi…, forse. Di certo non per una risata. elettrodomestici, quando l’accordo venne a mancare, e con Che gente triste c’è a questo mondo… bah, peggio per loro. esso saltò la campagna, su suggerimento del direttore del Comunque, ai fini ultimi di questa rubrica mi interessa settimanale Primera Plana, amico intimo di Quino, venne parlarvi della fonte di tanta ilarità. trasformata nella protagonista di un fumetto. Dal 15 marzo Qualche anno fa, un quotidiano di tiratura nazionale aveva 1965 al 22 dicembre1967 le strisce di Mafalda furono iniziato a pubblicare raccolte di fumetti. Una serie, in pubblicate quotidianamente sulle pagine di El Mundo. Poi, particolare mi colpì. Fu un colpo di fulmine. Mafalda, di dopo un breve silenzio, ritornarono sul settimanale Siete Dìas Illustrados. Come il collega statunitense, Quino si avvaleva Quino. La conoscete? Quella bimbetta di sei anni che si della voce disinibita di una bambina per dire la sua sulla arrabbia per come maltrattiamo il mondo, o per citare lei, società del tempo, sulle sue pecche, su quello che non “questo manicomio rotondo” di cui, ipotizza, Dio è il titolare (anda)va e che sarebbe (stato) bene cambiare… se fosse del brevetto. Ne rimasi letteralmente folgorata. Forse perché, questa o un’altra a provocarmi la risata di cui sopra, nel nel più profondo, sono una contestatrice anche io. dettaglio non lo ricordo. So solo che merita di essere citata. Ragazzi, ho trovato ben poco così “vecchio”, ma allo stesso Scena : mercato. Personaggi : Mafalda, ovviamente, la tempo così attuale. C’è tutto. La crisi, economica e di mamma alle prese con la spesa, un uomo sconosciuto. Il governo, la condizione avversa delle donne, troppo spesso discorso attacca nel solito modo. “Ciao, bella bambina. ancora sottomesse e costrette a lottare con le unghie e con i Come ti chiami?” “Mafalda”. “Bel nome. E ci vai a scuola?” denti, il desiderio di riscatto… non so se rallegrarmene o Lei, invece che rispondere, gli domanda, serafica, “E lei paga rammaricarmi. Dopo tutto, le strisce di Quino vennero le tasse?” L’ultimo quadrato della vignetta vede la mamma, pubblicate tra gli anni ’60 e ‘80. Che il mondo si sia fermato rossa in volto, che trascina via la figlia che, dovendo avere a quel ventennio? In quel continente lontano (America sempre l’ultima parola, si giustifica sottolineando come fosse Latina) e in quello stato, l’Argentina, solo di recente sotto le stato lui a cominciare con la storia dei doveri. luci “sante” della ribalta? No, non è che il mondo si è Ragazzi… come si fa a non scoppiare a ridere leggendo una fermato o che altro, semplicemente gli esseri umani sono battuta del genere? Ditemelo voi. Treno o non treno, folla o sempre quelli dalla notte dei tempi e i problemi con cui si non folla, pioggia indoor o no… e forse proprio per quelle confrontano, gira e rigira, non cambiano. Ci sarà sempre avversità quotidiane, davanti a una causticità tale, lontana qualcuno che si lamenterà del governo, delle tasse, del caro eppure così vicina a noi, non si può non uscirsene con una benzina, del dover fare questo o quello… bla bla bla. Meglio sonora risata. E questa farlo con il giusto è solo una delle strisce. spirito e tono. Ce ne sono Sia come sia, so solo tante, tantissime. E che quella risata mi ci poi, recentemente voleva… soprattutto ripubblicate in pratici dopo che il libretti che fai condizionatore sopra facilmente scivolare in la mia testa si è borsa e non pesano messo a gocciolare, più di tanto. Anzi. ma questo non è un Alleggeriscono, e di blog anti Trenord… parecchio, la giornata. Umberto Eco, ripeto Provare per credere. Umberto Eco aveva firmato la prefazione Mafalda con il suo “papà”, il fumettista argentino Quino alla prima raccolta Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com
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L’IMPRONTA RUBRICA NOIR DI RICCARDO SEDINI ASSOCIAZIONE CULTURALE “GIALLOMANIA”
www.giallomania.it “Undercover. Niente è come sembra” di Roberto Riccardi Rocco Liguori e Nino Calabro crescono insieme in un paesino dell'Aspromonte e poi prendono strade diverse. Li troveremo da adulti su fronti opposti: agente undercover della Direzione antidroga il primo, esponente di spicco di una 'ndrina dedita al traffico di droga il secondo. Un carico di cocaina in attesa di raggiungere le coste, un altro agente infiltrato scomparso, un'affascinante mercante d'arte colombiana, un messicano passato nelle file degli Zetas. Questa la vicenda in cui sono coinvolti Nino e Rocco, che nell'iconografia mafiosa rappresentano il coltello e la chiave, l'Onorata Società e lo Stato. In parallelo l'agire criminale che ha portato la 'ndrangheta a essere la prima organizzazione mafiosa italiana. Una trama ricca di colpi di scena e risvolti inediti sul traffico della cocaina, dalle piantagioni dell'America Latina all'approdo in Italia. E sugli incredibili profitti di un mercato in cui si vedono moltiplicare a ogni passaggio i capitali investiti. Un romanzo dal ritmo incessante, scritto con il realismo di chi maneggia la vita vissuta. Un libro entusiasmante e mozzafiato. Una storia vera o molto verosimile. Una scrittura tagliente come solo un giornalista e un colonnello dei carabinieri sa avere. Veri sono le terminologie usate per descrivere i vari gradi g e r a r c h i c i all'interno della Roberto Riccardi 'ndrangheta e delle varie 'ndrine. Sappiamo tutti che questa " mafia" non ha mai prediletto l'approccio violento con lo stato. Ha una politica silenziosa, strisciante e si infiltra lentamente nelle istituzioni. Riccardi ci descrive la vita di un carabiniere sotto copertura, Rocco Liguori. Una storia fatta di sentimenti come amicizia e amore. Rocco è un bambino figlio di carabinieri, calabrese di nascita e cresce con Antonio detto Nino figlio di 'ndranghetista. Le loro strade si separeranno per rincontrarsi su fronti opposti dopo vent'anni. Riccardi con grande perizia descrive l'incontro e sono perfette sia l'ambientazione che i dialoghi di quel momento. Unica pecca ma non grave il finale dà un po’ l'impressione di una chiusura veloce. Rimane comunque il fatto che questo insieme a Lupi di Fronte al mare di Carlo Mazza è il sabotage più attinente al vero.
Roberto Riccardi (Bari, 21 gennaio 1966) è uno scrittore e giornalista italiano. Ufficiale dell'Arma, è tra l'altro direttore responsabile della rivista “Il Carabiniere”. Ha pubblicato alcuni libri, sia come autore unico, sia in collaborazione con altri scrittori, attività per la quale ha anche ottenuto importanti riconoscimenti di critica. Nella sua produzione artistica, alterna per lo più classici gialli (probabilmente di ispirazione autobiografica) a volumi che gravitano sul tema storico della Shoah. Abbracciata in giovane età la professione militare (attualmente riveste il grado di colonnello), ha conseguito le lauree in giurisprudenza e scienze della sicurezza. Prima di assumere l'incarico giornalistico, ha svolto diversi anni di attività operativa in Sicilia ed in Calabria. Vive a Roma. Dal 2007 è curatore del concorso letterario per testi inediti “Carabinieri in Giallo”. Ha concepito la serie a fumetti “Unità Speciale”, che dal 2008 esce per i tipi della Eura Editoriale. La relativa sceneggiatura è opera dello stesso Riccardi, in collaborazione con la scrittrice Cinzia Tani ed il regista Massimo Guglielmi. Nel 2009 pubblica il suo primo libro, “Sono stato un numero”. Si racconta, narrazione autentica, la vita di Alberto Sed, un ebreo romano sopravvissuto alla tragedia di Auschwitz. Per questo testo ha ricevuto il Premio Acqui Storia ed il Premio Narrativa per ragazzi all'interno del Premio Adei-Wizo, patrocinato dall'Associazione donne ebree d’Italia. Nel medesimo anno esce il giallo “Legame di sangue”, che vale all'autore il Premio Tedeschi. Nel 2010 è testimonial del concorso letterario GialloLatino, e all'omonima antologia partecipa con il racconto “La giustizia degli uomini”. Nel 2011 appare su Camicie rosse, storie nere il racconto “L'angelo dei poveri”, assieme ad una corposa intervista rilasciata da Andrea Camilleri. Nel 2012 ritorna il tema dello sterminio ebraico ne “La foto sulla spiaggia”, accreditato di Menzione di merito per la Narrativa italiana in seno al Premio Roma. Sempre del 2012 è il thriller “Undercover. Niente è come sembra”, imperniato sulle g e s t a d i i n fi l t r at i ch e combattono il narcotraffico.
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YOGA NON E’ YOGURT*... ... ma molto altro RUBRICA DI YOGA E DINTORNI A CURA DI FRANCESCA PROTTI
In un lasso di tempo relativamente breve, più di una persona mi ha chiesto cosa fosse lo yoga. Uno, in tono quasi minaccioso, pretendeva gli dicessi tutto quello che sapevo in materia. di fatto, molto poco. lo yoga di cui posso parlare a voce è quello nata dalla mia pratica quotidiana, gli effetti che ha su di me, sul mio modo di vedere le cose… non era proprio quello che mi era stato domandato. Poteva essere l’inizio di una piacevole conversazione. Non lo saprò mai, so però che il molto altro del sottotitolo della presente rubrica è un universo di possibili declinazioni, pratiche, sfaccettature che i miei sei anni da yogini non posso descrivere appieno. Ricerchiamo, allora, aiuto in alcuni libri. Cominciamo con “Yoga per negati”, lo stesso con cui questa pagina è debitrice della sua didascalia. In questa guida alla portata di tutti, si accenna a quella congerie che ho, sommariamente tratteggiato prima. Articolato in ben sei parti, il manuale in un linguaggio chiaro e difficile da fraintendere aiuta a familiarizzare con le nozioni di base e indica un possibile sentiero da seguire per rendere la propria vita yogica. Spiegando cosa significhi la parola e correggendo idee sbagliate, gli autori non solo delineano i cinque approcci fondamentali e i dodici principali stili di yoga, ma provocheranno anche i giusti quesiti per continuare, a consultare il manuale e a praticare. Dopo una notevole porzione di testo, tre delle sei parti che lo costituiscono, interamente dedicata alla pratica, da come approcciarsi ad una lezione all’importanza tanto del riscaldamento iniziale, quando delle asana, quanto – ancora – del rilassamento finale, Georg Feuerstein e Larry Payne si sforzano di illustrare come sia possibile adottare lo yoga come stile di vita, estendendo all’intera la pratica. Con grande guadagno nel lavoro, nel tempo libero, in famiglia e con il prossimo, nell’alimentazione. La guida chiude con Tutto in dieci punti. Ad un pratico decalogo, una sorta di chiave di volta con informazioni utili e pratiche, fa seguito un altrettanto stimolante elenco delle dieci ragioni – principali e secondarie – per praticare questa disciplina indiana antica di 5000 anni, ma nota nell’occidente americano ed europeo da appena un secolo e diffusasi, davvero, solo a partire dagli anni ’60 del ‘900. Se poco meno di 400 pagine grattano, appena, la cima dell’iceberg della vostra curiosità, potete cercare aiuto in una coppia di libretti ben più agevoli. Entrambi si aggirano sul centinaio di pagine, poco più, poco meno.
Il primo, “Yoga, fra storia, salute, mito” di F. Squarcini e L. Mori (ed. Carocci), si sforza di far luce su quel fenomeno davvero straordinario qual è la diffusione mondiale dello yoga, che nel globo conta milioni di praticanti. Si calcolano qualcosa come 270 milioni in India, 60 in America, 50 in Europa e altrettanti nell’Asia non indiana e in Australia, 5 in Africa. Tradotti in flussi di denaro, si arriva all’ordine di miliardi. Dollari o euro poco importa. Partendo dall’analisi del contesto contemporaneo, il libro indaga le vicissitudini e le trasformazioni dello yoga nel corso del tempo per cercare di comprenderne le logiche, le regole, gli scopi, i significati. Con sguardo critico, quasi impietoso, in questo universo definito yoga. Uno sguardo quanto mai necessario oggi se si vuole chiarire il senso di ciò che si fa, o di cui si parla, quando ci si riferisce allo yoga. Ciò, almeno, a detta dei due docenti universitari che firmano il volume. Squarcini è docente, a Roma e Firenze, di indiologia e di storia delle religioni dell’India; Mori a Pisa, di teoria e modelli di comunicazione. Se ancora non vi sentite sazi e satolli di teorici bal bla bla, un ultimo titolo, l’altra metà della coppia di volumetti di cui ho fatto cenno prima. “Yoga” di Marilia Albanese (Ed. Xenia). Insegnante di cultura indiana alla Civica Scuola di Lingue e Culture Orientali di Milano, oltre che direttrice della sezione lombarda dell’Is.I.A.O. (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente). Il testo non è semplice, ve lo dico subito. Tutt’altro. Il linguaggio è molto meno accessibile in paragone con “Yoga per negati”, ma offre la descrizione della più antica disciplina psicofisica che insegna a controllare la mente e il respiro guidando l’anima alle soglie della liberazione, da parte di un’esperta conoscitrice della storia dello yoga nella spiritualità e nel pensiero indiano, dei livelli del samadhi e dei poteri soprannaturali, dei segreti dello yoga tantrico e dei guru del nostro tempo. Concludo citando la prefazione di quest’ultima proposta di lettura. “Attraverso lo yoga si può tentare di dare un senso nuovo, un significato più profondo alla propria esistenza, alla luce della realtà di vita in cui si è immersi”. Ecco, avessi letto prima queste pagine, forse, quando mi hanno interrogato al riguardo avrei fatto una gran bella figura…
*Liberamente tratto dall'incipit di “Yoga per negati” Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com
Ospiti in libreria:
I nuovi appuntamenti in libreria per l’autunno e l’inverno fino a Natale: Sabato 5 ottobre ore 17,30: presentazione del giallo storico ambientato in Lomellina “Il brigante e la mondina. Lomellina, 1902” di Umberto De Agostino. Moderatrice sarà la professoressa Maria Forni. Venerdì 25 ottobre ore 17,30: presentazione del romanzo di un giovane scrittore romano, Dario Pontuale: “Non ho mai visto decadere l’atomo di idrogeno”. Sabato 9 novembre ore 17,30: insieme a Chiara Pasetti, giornalista per La Domenica del Sole, inserto culturale del Sole 24 Ore, e Matteo Mario Vecchio, ricercatore universitario, parliamo di una grande poetessa del Novecento italiano, Antonia Pozzi, nell’incontro dal titolo “Antonia Pozzi e la sua tesi di laurea su Flaubert”. Venerdì 15 novembre ore 21,00: presentiamo il grande successo editoriale del 2012, “Se ti abbraccio non aver paura”, del giornalista Fulvio Ervas. Moderatore dell’incontro Riccardi Sedini. Sabato 30 novembre ore 17,30: un gradito ritorno in libreria con la presentazione di “L’oscurità degli angeli” di Bianca Garavelli. Sabato 7 dicembre ore 17,30: presentiamo il romanzo ambientato in Lomellina “Pulchra Silva. Leggende sulla Via Francigena” di Elisabetta Munerato
Indovina l’autore:
Chi vuole partecipare, può inviare una mail oppure passare in libreria e lasciare la risposta. Il primo lettore che ci invierà o porterà la risposta giusta vincerà un buono da spendere nella nostra libreria.
Soluzione del numero precedente:
Il romanzo da indovinare era “La signora Dalloway” di Virginia Woolf
LETTERARIA DA: L IB R E R IA L E M IL L E E U N A PA G IN A C .s o G ar ib al di 7 2 7 0 3 6 M or ta ra (P V ) 0 3 8 4 .2 9 8 493 in fo @ le m il le eu na pa gi na .c om
Settembre - Ottobre 2013
A CURA DI:
Laura Fedigatti Alberta Maffi Greta Leder Francesca Protti Riccardo Sedini Antonio Segrini
Anno 3 - Numero 17