Letteraria n. 12/2012

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Novembre Dicembre 2012 Anno 2 - Numero 12

Mariapia Veladiano ci racconta il suo nuovo romanzo ASPETTIAMO IL NATALE CON UN’AMICA SPECIALE E IL SUO NUOVO ROMANZO

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Cari amici ecco la nostra newsletter. Non solo novità e bestseller, ma proposte di libri che, secondo noi, sono meritevoli di essere letti. Nella speranza di aiutarvi nelle vostre scelte e di darvi idee sempre nuove di cultura.

“IL TEMPO E’ UN DIO BREVE” DI MARIAPIA VELADIANO

Non abbiamo mai nascosto la predilezione che abbiamo per Mariapia Veladiano, autrice di “La vita accanto” che abbiamo presentato in libreria nell’aprile 2012. Ora, Mariapia ci presenta il suo nuovo, meraviglioso romanzo, “Il tempo è un dio breve” (Einaudi), un regalo di cui le siamo tutti grati. Continua a pagina 2

Mariapia Veladiano, vincitrice del Premio Calvino nel 2010 e seconda classificata allo Strega nel 2011 (pag.2)

UN ANNIVERSARIO IMPORTANTE

Il 2012 è il 50° anniversario della prima comparsa sullo schermo di un personaggio che è ormai un mito: James Bond, ovvero l’agente segreto più famoso del mondo. Tutti sanno che è nato come personaggio letterario, ma quanti hanno letto i romanzi di Ian Fleming? Continua a pagina 4

UNA NUOVA RUBRICA PER GLI AMANTI DELLA POESIA E DELL’EROTISMO

Greta Leder, poetessa e amante della letteratura erotica, nostra nuova collaboratrice, ci parla di Harold Robbins, uno degli scrittori più letti (spesso di nascosto) del ‘900, grande autore di quella letteratura erotica che si riscopre oggi dopo il successo della trilogia delle “Cinquanta sfumature” . Continua a pagina 17

A sinistra, Charles M. Schulz, papà dei Peanuts (pag.7); a destra, lo scrittore americano David Foster Wallace (pag. 12)

INDOVINA L’AUTORE E’ la moglie di un grande e “La presenza dietro la porta famoso scrittore americano, col andava e veniva. C’era e non quale vive a Brooklyn, scrittrice a c’era. Superavo la soglia sua volta. Qui di fianco, potete chiacchierando dentro di me ogni leggere una frase tratta dal suo volta che la percepivo, usando la ultimo romanzo pubblicato da ragione per placare quella Einaudi. Chi è questa scrittrice sensazione fortissima.” americana, ma di origini europee?

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IL TEMPIO E’ UN DIO BREVE di Mariapia Veladiano

Scrivere di un proprio libro già stampato è bizzarro. E’ stato scritto, consegnato, affidato a chi può prenderlo, aprirlo, lasciarlo, leggerlo, amarlo, criticarlo. Ha vita autonoma, non ci appartiene più. Si aspetta la parola restituita del lettore. E il lettore ha bisogno di silenzi, intorno. E del resto, quel che avevamo il desiderio di dire lo

La copertina del romanzo di Mariapia Veladiano, edito da Einaudi

abbiamo detto nel libro. Cosa si può raccontare allora? Come è nato, forse. Il tempo è un dio breve ha cominciato ad esistere dodici anni fa. Finito in una prima stesura nel 2005, poi lasciato per far posto a La vita accanto, poi ripreso, riscritto, riscritto, riscritto. L’ultima volta quest’estate. Alla ricerca del suono delle parole. Il suono giusto, chissà se ci sono riuscita poi, per dire un argomento

grande, che chiunque sente suo, in un qualche momento della propria vita. Il problema del male nel mondo. Del dolore innocente. La vita ha una sua splendida evidenza, c’è, scorre tranquilla, oppure veloce e inquieta, ma c’è. Poi improvvisamente si apre lo strappo sotto i nostri piedi, arriva la bufera che non si sapeva immaginare e ci si chiede come sia possibile. Un amore grande finisce. Un uomo amatissimo se ne va. Quanto amore serve a salvare un amore? Se lo chiede Ildegarda, la protagonista, lasciata dal marito dopo la nascita del loro bambino. E si chiede se esista un modo per preservare quel bambino da tutti i mali, se ci sia un amore abbastanza grande che possa fare scudo alle malattie, alle malinconie, ai dolori. Il libro inizia con un Natale e si chiude su un altro Natale. In mezzo c’è la battaglia di Ildegarda. Poi si possono raccontare i personaggi. Senza rivelare troppo. Ildegarda prende il nome dalla santa erborista, donna liberissima e combattente. Curava con le erbe il male dei corpi, aveva una fede potente che le prendeva lo spirito e anche il corpo. Come deve essere un amore. Il figlio di Ildegarda si chiama Tommaso. E’ l’interrogante. Interroga la vita col suo nascere: la vita vale il dolore del mondo? E interroga con le parole: “A cosa servono i padri? Se Dio è buonissimo e potente perché c’è il male?” Poi c’è Pierre, il marito di Ildegarda, e non è il Pietro che fonda la fede nella vita, come nel Vangelo, è invece un padre che sente la vita come pietra. E scappa. Sparisce. Poi c’è un nuovo amore. E c’è la natura. La natura è un personaggio qui. Perché ci sono tante rinascite e la natura è maestra di rinascite. In inverno la vita sembra finita, ma continua nel segreto e ci regala il vuoto dell’attesa in cui nascono i pensieri e i desideri. C’è la campagna lombarda, piatta e nebbiosa, piena di paure e di doppie verità nascoste nella grande casa quadrata di Pierre. C’è un passaggio di primavera che avviene in Liguria, ai giardini di Villa Hanbury. Infine c’è l’incanto della neve in Alto Adige, solo neve e cielo, dove la storia si apre a un nuovo amore, e si compie.

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LETTERARIA! Si può dire che è un libro d’amore, di molti amori: per un bambino, per la natura, per un uomo, per Dio. Per la vita. Amore per la vita. Il sito di Mariapia Veladiano è: www.mariapiaveladiano.com

“Io sono una donna e sempre mi chiedo se questo sia stato decisivo. Un uomo sarebbe arrivato qui, dove sono ora? In effetti un uomo c’è, con me. Graziealcielo è qui con me. Di sicuro non l’ho portato io. Qui. Dove lui non sarebbe mai venuto. Ma io sono arrivata qui anche perché c’è lui. Che non voleva. Non poteva volere. È cosí l’amore? Ti porta dove non sapresti andare da sola, grazie a qualcuno che non vorrebbe? È accettare quel che l’altro desidera anche se si vede che è uno sbaglio? Anche se

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ci esclude? Anche se ci esclude.” Il mio nome è Ildegarda e forse anche questo è stato decisivo nella storia. I nomi sono moltitudine. Chi li ha portati prima di noi li ha riempiti della propria esistenza. Iniziamo la vita già pieni di vite. Pierre ha pagato il suo nome. Una roccia da portare con sé. Pierre è mio marito. Sarebbe. Era. Tommaso è mio figlio. Per lui io sono qui. È la luce. La luce non può essere nascosta. Per questo io racconto. Per condividere la luce. Certo ci vuole ordine nel raccontare. L’ordine è una forma d’amore. Tutto mi sembra una forma d’amore. È l’amore che ci dà forma.” da “Il tempo è un Dio breve” di Mariapia Veladiano

Un’immagine di Mariapia Veladiano alla finale del Premio Strega 2011 e, a destra, la copertina del suo primo romanzo, “La vita accanto”

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IL MIO NOME E’ BOND, JAMES BOND... Tra i numerosi anniversari di questo 2012, anche ai più distratti non sarà sfuggito un compleanno davvero speciale: il cinquantesimo compleanno dell’agente segreto più famoso del mondo: 007, al secolo James Bond. Per essere precisi, l’anniversario riguarda il Bond cinematografico, il cui debutto sugli schermi avvenne in data 5 ottobre 1962. Anche i meno appassionati (e non come la sottoscritta, che di Bond è fan dalla tenera età e che di lui conosce tutti i minimi dettagli, quali il drink preferito, la pistola usata, amanti, nemici, amici, e così via) sanno che la celeberrima spia al servizio di Sua

Lo scrittore britannico Ian Fleming

Maestà Britannica è nata dalla penna di un distinto gentiluomo inglese, che fu militare, giornalista e infine scrittore. Nato a Londra nel 1908 da una famiglia aristocratica, Ian Lancaster Fleming è figlio di un deputato conservatore e ufficiale della Riserva (che morirà nel 1917 durante la Prima guerra mondiale) e nipote di un ricco banchiere svizzero. È secondo di quattro fratelli. Nel 1921 frequenta il prestigioso college di Eton con ottimi risultati, ma è costretto a lasciarlo per uno scandalo con una ragazza. La madre lo iscrive allora all’Accademia Militare di Sandhurst, ma il giovane Ian ha un carattere ribelle che poco si adatta alla rigida disciplina militare. Molto più adatto a lui sembra la permanenza in Austria, dove si distingue particolarmente per la sua abilità sportiva. Dopo aver frequentato dei corsi di Politica Estera a Monaco di Baviera, viene assunto dalla Reuters e inizia a

girare il mondo come giornalista. Nel 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, viene reclutato da John Godfrey nell’Intelligence della Royal Navy, la marina britannica, dove maturerà le esperienze che gli serviranno, più avanti, per i suoi romanzi di spionaggio. Finita la guerra, F leming lavora ancora come giornalista al “Sunday Times” fino al 1959. Nel 1952, sposa Anne Charteris, già moglie del 2° visconte di Rothemere, politico e magnate della stampa britannica, con cui aveva avuto una lunga relazione e da cui aveva avuto, nel 1948, una figlia nata morta. Nonostante i ripetuti tradimenti da parte di La copertina di “Casino Royale”, primo entrambi i libro della serie dedicata a Bond, pubblicato coniugi, il da Adelphi matrimonio d u r e r à fi n o a l 1964, quando Fleming muore a soli 56 anni per un attacco di cuore. La sua vita sregolata ha avuto una parte importante, se non determinante, sulla sua fine, tanto che, poco prima di morire, lo stesso Fleming dirà: “Ho sempre fumato, bevuto e amato troppo. In effetti ho vissuto non troppo a lungo, ma troppo. Un giorno il granchio di ferro mi agguanterà, e allora sarò morto per il troppo vivere”. Per sopportare la noia del matrimonio, Fleming trascorre lunghi periodi nella sua tenuta giamaicana Goldeneye (chiamata così sia per un omaggio al romanzo della scrittrice americana Carson McCullen “Reflections in a Golden Eye”, sia per l’operazione “Golden Eye”, una missione alla quale Fleming aveva partecipato durante la guerra) acquistata nel 1946. Qui, oltre a dedicarsi ai suoi passatempi preferiti come il golf e la pesca subacquea, inizia a scrivere.

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LETTERARIA! Nel 1952 mette mano a quello che diventerà il primo romanzo dedicato a James Bond, “Casino Royale” e che la casa editrice Adelphi ha ripubblicato ora, nell’anno del cinquantesimo anniversario del p r i m o fi l m , dopo che ormai i romanzi di Fleming sono p r at i c a m e n t e introvabili in Italia (unico appunto ad Adelphi: ci s a r e b b e piaciuto che i capitoli fossero stati numerati come fece l’autore, in originale: 001, 002, 003, 004, e così via, anziché con una banale numerazione classica: 1, 2, 3, ecc., fa meno Il vero James Bond, scondo il agente segreto). disegno dello scrittore Ian Fleming Uscito nel 1953 (in Italia sarà pubblicato nel 1958 in allegato al Corriere della Sera col titolo “La benda nera”), il romanzo ebbe un buon successo nel Regno Unito, mentre negli Stati Uniti ci volle più tempo perché s’imponesse all’attenzione del pubblico. La trama è tipica dei romanzi di spionaggio dell’epoca, in piena guerra fredda. James Bond (nome che Fleming aveva preso da un noto ornitologo), agente dello spionaggio britannico e appena diventato agente 00 (doppio zero) con licenza di uccidere, viene scelto per essere mandato in una cittadina sulla costa della Francia settentrionale, Royale-lesEaux (inventata da Fleming), dove è stato indetto un torneo di baccarat nel casinò locale. Il compito di Bond è quello di fermare Le Chiffre, un banchiere dal genio matematico, abile giocatore d’azzardo, che lavora per il grande nemico di quel tempo, l’Unione Sovietica. Le Chiffre ha perso una notevole somma di denaro fornitagli dai sovietici, per averla impiegata nei suoi affari criminali. Impedendogli di vincere, Le Chiffre si troverebbe braccato dai suoi “datori di lavoro” sovietici; in questo modo, i britannici offrirebbero aiuto a Le Chiffre in cambio di informazioni segrete. Ad aiutare Bond ci sono Mathis, un agente francese; Felix Leiter, agente della Cia (che diventerà, nei romanzi successivi, il migliore amico di Bond), e Vesper Lynd, la conturbante contabile del Tesoro britannico, che deve autorizzare l’utilizzo del denaro durante il torneo e che si rivelerà una

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doppio giochista (in realtà, è ricattata dalla SMERSH, l’organizzazione russa che stana le spie occidentali e che ha catturato il fidanzato di Vesper, costringendola al tradimento). Dopo aver perso tutti i soldi in una sola mano, Bond rientra nel gioco grazie a Felix Leiter che gli offre i fondi della Cia, e vince, ripulendo Le Chiffre delle sue finanze. Le Chiffre, però, riesce a rapire Vesper e a catturare Bond, che viene torturato da Le Chiffre stesso, nel disperato tentativo di farsi dare dall’agente britannico l’assegno della vincita. All’improvviso un uomo arriva e uccide Le Chiffre. Bond si risveglia in ospedale con Vesper accanto. I due iniziano una relazione che finisce quando Vesper, ormai in trappola a causa della SMERSH, consapevole di non poter salvare il fidanzato e ormai innamorata di Bond, preferisce il suicidio perché “nessuno sfugge alla SMERSH”. Il romanzo di Fleming non ha i grandi effetti speciali e nemmeno le rocambolesche scene d’azione a cui siamo stati abituati dai film dedicati a 007; anzi, tranne che per un’esplosione e un inseguimento, la trama è piuttosto lenta, priva di azione, come del resto prevede una vera spy-story. Non siamo di fronte a uno degli inarrivabili romanzi di John Le Carrè, ma sicuramente “Casino Royal” è un bel romanzo di spionaggio, una scoperta per gli amanti del genere, e per i fan di Bond che hanno visto tutti i film della serie ma non hanno mai letto i romanzi da cui sono tratti. Non manca nulla: i buoni, i cattivi, la Bond girl, colpi di scena

Goldeneye, la tenuta in Giamaica di Fleming, dove lo scrittore scrisse tutte le avventure di Bond e momenti di tensione pura. Tutto nella migliore tradizione del romanzo di spionaggio inglese, che è sicuramente il meglio delle spy-stories.

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LETTERARIA! Ci sono, ovviamente, delle differenze con la tradizione “bondiana” cinematografica a cui siamo stati abituati. Il personaggio di Fleming non è l’invincibile, perfetto agente segreto cinematografico, senza mai un graffio, seduttore

Daniel Craig, l’ultimo Bond, ha dato al suo personaggio quei tratti caratteristici più vicini al Bond letterario impenitente di tutte le donne che attraversano il suo cammino, implacabile cacciatore di criminali e terroristi, spesso pieno di sé e consapevole delle sue abilità tanto da

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permettersi un’ironia graffiante e tipicamente britannica anche nelle situazioni più disperate. Il James Bond letterario è un uomo fallace, che sbaglia, anche se poi riesce nel suo compito; è duro, poco incline allo scherzo e all’ironia; viene ferito, addirittura torturato (e brutalmente da Le Chiffre, che lo colpisce ai genitali fino a farlo svenire più volte); s’innamora, viene tradito, soffre. Un James Bond più umano, certamente, e forse anche un po’ più vicino a tutti noi (anche nei film degli ultimi anni, i film del ciclo di Daniel Craig per intenderci, si è dimostrata una maggiore fedeltà ai tratti del personaggio inventato dallo scrittore britannico). Dopo “Casino Royale”, Ian Fleming scrive altri undici romanzi e due raccolte di racconti (che, speriamo, siano tutti ristampati). Già nel 1954, la CBS americana manda in onda una serie televisiva, “Climax!”. Tra gli episodi, c’è anche “Casino Royale”, dove Bond viene chiamato Jimmy ed è un agente della Cia. Sarà solo nel 1962, però, come ben sappiamo, che la fama di F leming viene definitivamente consacrata, con il primo film, “Dr. No” (“Licenza di uccidere” in italiano), tratto dal romanzo omonimo del 1958, dove un oscuro attore scozzese (ex bagnino, ex muratore, ex lavapiatti, ex guardia del corpo, e infine ex modello) di nome Sean Connery, presta il suo volto e il suo aitante fisico alla spia il cui nome in codice, 007, diventerà sinonimo di tutte le spie del mondo. E il personaggio si trasformerà in mito.

Laura Fedigatti

Ina Fleming e Sean Connery, il primo, 007. A destra, dall’alto in senso orario, gli altri interpreti del B o n d c i n e m a t o g r a fi c o : l’australiano George Lazenby, il britannico Roger Moore, il gallese Timothy Dalton e l’irlandese Pierce Brosnan.

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RIDI E AVRAI LE RUGHE GIUSTE RUBRICA DEL BUON UMORE A CURA DI FRANCESCA PROTTI

Amo definirmi una patrona. Mi chiamo Francesca e in famiglia abbiamo l’abitudine di festeggiare il mio onomastico il 4 ottobre, in corrispondenza, cioè, della memoria liturgica di San Francesco d’Assisi, santo patrono d’Italia. Non paga, durante gli anni universitari sono stata alunna del Collegio Santa Caterina da Siena, altro patrono nazionale. Il primo anno, come antidoto alla nostalgia di casa, alle pareti della mia stanza avevo appeso un po’ di tutto, anche una fotocopia di una delle più famose strisce di Schulz. “Era una notte buia e tempestosa…” scrive a macchina Snoopy, che in quanto bracchetto eccelle in ogni attività in cui si cimenta, dalla scrittura creativa, alle gesta militari, alle conquiste amorose, solo per citarne qualcuna. Sapere chi fossero i Peanuts fu la mia affinità elettiva con una compagna d’anno, anch’ella fine estimatrice delle noccioline.

La sua dignità sta nell’abile critica sociale che dona ai suoi lettori. Schulz è pungente su tutto, dalla guerra del Vietnam ai regolamenti per l’abbigliamento, alla nuova matematica. Nulla è sfuggito alla sua penna. Prequel di quella che sarebbe diventata la striscia quotidiana tra le più famose e influenti di tutta la storia del fumetto fu una tavola domenicale, “Li’l Folks” (personcine) edita tra il 1947 e 1950 sul giornale della città natale di Schulz, il St. Paul Pioneer Press. Poi, a partire dal 2 ottobre 1950 fino al 13 febbraio 2000, il giorno dopo la sua morte, i Peanuts evolsero in ciò che noi oggi conosciamo. Sin dai disegni degli albori, contraddistinti da un tratto grafico più semplice e pulito e personaggi un po’ più tozzi, le peculiarità dei protagonisti sono già chiare e definite. Eroe indiscusso, anche se nel suo caso sarebbe più corretto parlare di anti-eroe (non è questa, però, la sede per dissertare sull’argomento), è Charlie Brown, “a little round- headed boy”, modellato sull’infanzia del suo stesso autore. Il suo essere la figura principale avrebbe dovuto comparire sin dal titolo.

Una delle f a m o s e “strisce” dei fumetti di Schulz Tre dei popolarissimi personaggi dei Peanuts: Charlie Brown, Linus e Lucy

Charles M. Schulz è conosciuto in tutto il mondo per aver creato le strisce dei Peanuts. Documentandomi per questo articolo ho scoperto come il nome, Peanuts, fosse stato scelto dagli editori, ma fosse molto poco gradito all’autore. Nel 1987, infatti, Schulz dichiarava come fosse un nome totalmente ridicolo, senza significato, creatore solo di confusione e del tutto privo di dignità. “E io credo che il mio umorismo abbia dignità.” Concordo.

Schulz, infatti, aveva pensato a Good Ol’ Charlie Brown, i.e. buon vecchio Charlie Brown, ma, come spiegato in apertura, così non fu. Accanto a lui la sorellina Sally, tanto terrorizzata dall’idea di dover andare a scuola da venir addirittura raffigurata intenta a prendere l’edifico a calci o a gridargli dietro la sua paura.

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L’amico Linus, con le sue perle di saggezza popolare e cattolica e l’inseparabile coperta. La sorella maggiore di questi, Lucy, con la sua psicologia spiccia, il temperamento molto scorbutico e un amore viscerale, ma non corrisposto, per il biondo Schröder, fine musicista di solito disegnato curvo sul suo pianoforte a coda. O ancora Piperita Patty, le cui doti atletiche e la forza di carattere cozzano brutalmente con l’immagine zuccherosa e rosata delle ragazze di allora, e la sua amica Marcie. Pigpen, Replica, Franklin, tra i bambini, Woodstock e Spike tra gli animali. Non ti stancheresti mai di leggere i Peanuts, non puoi stancarti di queste noccioline di un’ironia tanto potente da trovare tra i propri sostenitori persone del calibro di Umberto Eco. Non ti possono venire a noia per il semplice fatto che a distanza di tempo il loro sarcasmo è sempre attuale. Dopo tutto, l’umanità ancora combatte guerre senza senso. A ben guardare, i personaggi dei Peanuts non invecchiano, o solo molto lentamente. E questo loro essere cristallizzati in un’età non superiore agli 8 anni è la loro forza. I bambini sanno dire tutto, liberi come sono dalle inibizioni proprie

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strisce dedicate alla ripresa dell’anno scolastico, Piperita Patty sta facendo gli ultimi acquisti per la scuola. Il cartolaio, che né si vede né si sente, immagino le domandi se vuole altro. Candidamente la bambina confessa che vuole solo delle risposte. Ai quesiti matematici o di storia americana, materie su cui Piperita Patty non è assolutamente ferrata, ma non solo. Come tutti, anche Piperita Patty vorrebbe arrivare a risolvere i grandi perché della vita e come Piperita Patty, tutti noi vogliamo solo delle risposte, semplici e chiare. Le strisce che ancora oggi leggiamo sono sicuramente nate dalla mano del loro ideatore. Nel 1999, infatti, Charles Schulz decise di smettere di scrivere in quanto non più in grado di mantenere il ritmo di una strip al giorno. Avendo sempre lavorato da solo e non volendo che fosse qualcun altro a scrivere di Charlie Brown e dei suoi amici, seguì il consiglio dei familiari ritirandosi dalle scene. Nel suo testamento chiese espressamente che i personaggi dei Peanuts rimanessero genuini e che non si disegnassero nuove strisce basate sulle sue creature. Fino ad oggi le sue volontà sono state rispettate e le vecchie strisce continuano a essere ripubblicate su quotidiani e riviste. Il quotidiano londinese “The Times” lo ha ricordato, il 14 febbraio 2000, con un necrologio che terminava con la seguente frase: “Charles Schulz leaves a wife, two sons, three daughters, and a little round- headed boy with an extraordinary pet dog”. (Charles Schulz lascia una moglie, due figli, tre figlie e un piccolo bambino dalla testa rotonda con uno straordinario cane). La casa editrice Baldini Castoldi Dalai ha in catalogo Peanuts per ogni esigenza. Dalle raccolte in brossura di un centinaio di pagine (€ 4,50), alle raccolte suddivise per decenni, rilegate, molto grandi e costose (da un minimo di € 40,00). Come regalo di laurea, le mie compagne di collegio mi regalarono “Il grande libro dei Peanuts”. Tutte le strisce degli anni ’70. Ogni tanto lo tiro fuori e mi regalo una risata, come antidoto alla tristezza. E alle rughe (sbagliate).

Il cane più famose dei fumetti: Snoopy, con l’amico Woodstock dell’età adulta e della perdita dell’innocenza, e possono dire tutto. Ritengo che chi voglia sentirsi dire la verità su come si comporti, su a chi assomigli, su quanto sia buono (o cattivo) dovrebbe domandarlo a un bambino, la cui risposta è sempre immediata, sincera, vera. Così come è immediata e disarmante l’ironia pungente di Schulz. Di recente ho trascorso un paio d’ore in loro compagnia. In una serie di

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ALLA FIERA DELL’EST* RUBRICA DI LETTERATURA EBRAICA A CURA DI LAURA FEDIGATTI

“Era andata così, che qualche mese dopo che Nonna Heni fu morta e seppellita sottoterra, Momik ebbe un nuovo nonno.” Inizia così uno dei libri più intensi che siano stati scritti sulla Shoah. Il suo autore, grazie a questo libro, ha acquisito una notorietà che ha varcato i confini del suo paese, Israele, permettendogli di diventare uno degli scrittori israeliani più noti e amati in tutto il mondo. “Vedi alla voce: amore” è il titolo del romanzo di David Grossman, il secondo in ordine di pubblicazione, uscito in patria nel 1986 e in Italia nel 1988 per Mondadori. In un modo completamente nuovo e alternativo, Grossman affronta un tema scabroso e, dobbiamo dirlo, inflazionato da una notevole quantità di letteratura e non solo che è stata dedicata all’argomento. Eppure Grossman riesce a centrare l’obiettivo, a suscitare un interesse irreversibile e duraturo, grazie a una potenza narrativa straordinaria e davvero rivoluzionaria, piena di salti temporali, mezzi espressivi nuovi. Nonostante le difficoltà che si possono riscontrare in

Il romanzo in versi dello scrittore israeliano, “Caduto fuori dal tempo”, ispirato dalla perdita del figlio Uri

alcuni tratti del romanzo (ad esempio, la parte dedicata Bruno Schulz, il maggiore scrittore polacco tra le due guerre, ucciso da un nazista e che Grossman immagina si possa salvare buttandosi in mare e trasformandosi in un pesce; oppure l’ultima parte, un vero e proprio dizionario dell’Olocausto) il romanzo riesce a raggiungere il grande pubblico, soprattutto le generazioni più giovani, quelle per le quali “Shoah” è una parola che inizia a non aver più un significato.

Da allora, lo scrittore israeliano ne ha fatta di strada, pubblicando numerosi romanzi e racconti, oltre a una serie di libri per bambini. In questi giorni è uscito “Caduto fuori dal tempo” (Mondadori), una prosa in poesia, potremmo dire, una sorta di ballata che racconta di un padre che, all’improvviso, si alza da tavola per andare “laggiù”, in quel posto non ben precisato che è il luogo dove il mondo dei vivi confina col mondo dei morti. Quel padre vuole ritrovare il figlio, morto anni prima, ed è facile pensare al dramma che Grossman ha vissuto nel 2006, quando Uri, il suo secondogenito (Grossman ha altri due figli, Jonathan e Ruth), muore in un carro armato negli ultimi giorni della guerra tra Israele e Libano di quell’anno. Anche nel suo p r e c e d e n t e r o m a n z o , pubblicato nel 2008 e iniziato prima della morte di Uri, Grossman affronta il tema della morte e della perdita: “A un cerbiatto somiglia il mio David Grossman amore” è un romanzo corposo, per numero di pagine, ed intenso, per la profondità dei sentimenti che coinvolgono i protagonisti, una madre. Orah, che esorcizza la morte (eventuale) del figlio militare in Libano con un viaggio che avrebbe dovuto compiere con lui, e l’amico Avram, già soldato venti anni prima e prigioniero degli egiziani durante la guerra dello Yom Kippur del 1973, torturato da questi ultimi e pieno di rimpianto per non aver potuto rimanere accanto ad Orah, la donna che amava. Attorno a loro, il deserto israeliano, con tutti i suoi colori, i profumi, le variazioni del paesaggio che stimolano i sensi e smuovono le emozioni ed i sentimenti da tempo sopiti nell’animo dei protagonisti. Uri resta ucciso proprio mentre il padre David sta per terminare il romanzo: anche in questo caso, come per il libro nuovo appena uscito, la scrittura funziona come una catarsi dal dolore, un modo per affrontare una perdita enorme che non si riesce ad accettare e capire.

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LETTERARIA! David Grossman nasce a Gerusalemme il 25 gennaio 1954. Dopo aver studiato filosofia e teatro all’Università Ebraica di Gerusalemme, David lavora per la radio come attore e corrispondente. Il suo primo lavoro è un dramma radiofonico, “Il duello” del 1982. L’anno successivo esce il suo primo romanzo “Il sorriso dell’agnello”, incentrato sulla questione israelo-palestinese vista dagli occhi dei quattro protagonisti: un giovane soldato israeliano idealista; sua moglie, una psicologa tormentata dal suicidio di una paziente; il comandante del contingente del soldato, un sopravvissuto all’olocausto; e un giovane cantastorie arabo che ha perso il figlio terrorista. Ma è con il romanzo successivo, “Vedi alla voce: amore”, come abbiamo visto, che arriva il grande successo di pubblico anche all’estero. I romanzi successivi sono: “Il libro della grammatica interiore” (1991), dove lo scrittore racconta il delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza e all’età adulta vista proprio dagli occhi di un ragazzino di tredici anni; “Ci sono bambini a zig-zag” (1994), storia di un viaggio avventuroso dove il protagonista è sempre un ragazzino; “Che tu sia per me il coltello” (1998), dove il protagonista incontra per caso una donna che sembra volersi isolare e nasce un rapporto fatto di lettere scambiate tra i due protagonisti, talmente intenso che cambia le loro vite; “Qualcuno con cui correre” (2000), ancora un romanzo con protagonisti adolescenti, spesso circuiti da adulti senza scrupoli, un tema caro all’autore; “Col corpo capisco” (2003) due racconti lunghi in cui Grossman, ancora una volta, mette il lettore di fronte a personaggi pieni di dolore, con i loro tormenti e le difficoltà della vita e delle relazioni umane. Sono racconti intensi e difficili, quelli di Grossman, come è difficile l’esistenza e, soprattutto, come difficili e impegnativi sono i rapporti con le persone amate. La tragedia è sempre dietro l’angolo, tanti più in un paese costantemente in guerra, e i personaggi di Grossman sono persone tormentate dai

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dubbi, dalle perdite, dall’incapacità di stabilire relazioni umane complete. Certamente, ci fanno riflettere sulla nostra condizione di esseri sempre sempre sull’orlo del baratro di un destino che ci può dare tutto e tutto può togliere. Anche il linguaggio, in Grossman, è importante; l’abbiamo visto per il suo romanzo sulla Shoah, lo si vede in tutti gli altri romanzi, dove la lingua è un mezzo fondamentale per comunicare gli stati d’animo dei protagonisti. Grossman è uno scrittore che parla direttamente al cuore dei suoi lettori, vuole entrare in profondità, lacerando anche, costringendo ad un lavoro di lettura che può sembrare faticoso (niente è superficiale in lui) ma che, alla fine, lascia il suo segno indelebile. Per lo scrittore israeliano scrivere un libro è come partorire: “Io resto incinto di una storia”, dice. Il romanzo, quindi, è un figlio, dentro il quale c’è tutta la gioia, la paura, il dubbio, la difficoltà, l’entusiasmo che la nascita di una nuova vita può portare. “Scrivere è avvicinarsi all’indicibile”: le parole scritte possono agire meglio delle azioni, possono esprimere quello che altrimenti non verrebbe detto. Anche per questo, dopo il grande lutto per la morte del figlio, David Grossman si è buttato nella scrittura: scrivere è stato l’unico modo per continuare a vivere. Non si può terminare senza citare la vasta produzione di libri per bambini (tra i quali ricordo “Ruti vuole dormire e altre storie” e la serie di racconti dedicati a Itamar, quali “Itamar il grande”, “Itamar e il cappello magico”, “Itamar va a caccia di sogni”) e i saggi che riguardano la questione israelo-palestinese (“La guerra che non si può vincere: cronache dal conflitto tra israeliani e palestinesi” del 1984; “Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese in guerra” del 2007, solo per citarne alcuni).

“E’ solo che il cuore mi si spezza, tesoro mio, al pensiero che io... che abbia potuto... trovare per tutto questo parole.” da “Caduto fuori dal tempo” *”Alla fiera dell’est” è un canto pasquale ebraico, “Chad Gadya”, a cui si è ispirato Angelo Branduardi per la sua celeberrima canzone

La copertina del romanzo “A un cerbiatto somiglia il mio amore” e, a destra, Uri Grossman

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YOGA NON E’ YOGURT*... ... ma molto altro RUBRICA DI YOGA E DINTORNI

A CURA DI FRANCESCA PROTTI L’occasione di riscoprire un vecchio libro. Alcuni mesi or sono presi parte a un seminario di yoga. Un week-end all’insegna del respiro consapevole e di come raggiungere questa consapevolezza. In un momento di rievocazioni autobiografiche, chi ci illuminava il sentiero verso una maggior coscienza del nostro respirare, raccontava di uno dei suoi tanti viaggi in India e di come fosse arrivato a trovarsi nei luoghi che fanno da sfondo al romanzo di M. M. Kaye, “Padiglioni Lontani”. Le mie orecchie facevano invidia a quelle del dottor Spock. Cosa, cosa, cosa? Io quel libro lo conosco. Fa bella mostra di sé sugli scaffali della mia libreria. L’ho letto, ormai, quindici (sic!) anni fa. Evidentemente la mia storia con lo yoga ha radici che si perdono nel mio stesso passato, era già scritta quando ancora frequentavo le aule del liceo e distraevo la mente da quelle non poche materie, che il mio corso scientifico sperimentale linguistico mi imponeva, tra le pagine di un bel libro. Una volta a casa, mi sono sincerata che effettivamente il romanzo fosse dove mi ricordavo di averlo riposto. Ho ripreso in mano quel libro bello grande, in senso letterale e metaforico, denso di avventure, ricco di dettagli, affollato come la terra in cui è ambientato, l’ho aperto a caso e riletto qualche pagina. Il coinvolgimento è stato ancora lo stesso. Pubblicato per la prima volta nel 1978 questo epico romanzo di storia anglo-indiana narra le avventure di un ufficiale inglese, Ashton Pelham-Martyn (Ash) durante il Raj Britannico. La vita di Ash è segnata sin dai suoi primi anni. Venuto al mondo poco prima dello scoppio dei moti indiani del 1857, la madre muore di febbre da sepsi puerperale, mentre il padre, un botanico inglese in viaggio attraverso l’India, cadrà vittima di un’epidemia di colera alcuni anni dopo. Per non farsi mancare nulla, gli unici parenti che ancora aveva rimangono uccisi durante una rivolta indigena. Alla sua bambinaia, Sita, non rimane altra scelta se non quella di adottare il bambino e crescerlo come fosse figlio suo. Sita, però, sceglie di lasciarlo all’oscuro delle proprie origini. I due si rifugiano nel regno di Gulkote e sono assunti come domestici presso il palazzo del giovane principe ereditario, Lalji. Qui, Ash stringe amicizia con la principessa Anjuli, con il padrone delle stalle Koda Dad e suo figlio Zarin. Quando, a solo 11 anni, Ash scopre e sventa un attentato omicida ai danni di Lalji, per sfuggire alla minaccia che di conseguenza incombe anche su di lui, abbandona le amicizie che ha stretto in quegli anni, non senza aver promesso alla giovane Anjuli che un giorno sarebbe tornato. Durante la fuga, Sita ormai vecchia e malata, in punto di morte gli rivela le sue origini, gli consegna lettere e denaro che il padre le aveva affidato e lo indirizza verso una divisione militare. Qui, fattosi riconoscere con il suo nome inglese, Ashton viene rimpatriato per ricevere un’educazione formale e un addestramento militare. All’età di 19 anni ritorna in India e con il grado di ufficiale del Corpo delle Guide viene spedito lungo la Frontiera del

Nord. Nello spartano avamposto che è ora la sua casa, il giovane scopre ben presto che la sua identità è ora divisa tra il suo nuovo status di Ashton, un inglese "Sahib", e Ashok, il ragazzo nativo indiano che una volta credeva di essere. Le trame della vita riavvicinano Ash e Anjuli e per il giovane, il dissidio è ancora più dilaniante. Anjuli, insieme a sua sorella Shushula, è promessa co-sposa in un matrimonio combinato con il comandante di Bhithor. L’amore che Ash scopre di provare per l’amica di infanzia appare destinato a non avere futuro. Non solo Anjuli è destinata ad un altro, ma a dividere i due c’è qualcosa di insuperabile e invalicabile per entrambi, la cultura cui lei appartiene e che per Ash è ormai aliena. L’improvvisa morte del comandante di Bhitor condanna Anjuli e Shushula alla pira. Ash non può permettere che ciò accada. Corre alla cerimonia funebre e salva la donna della sua vita. Nonostante tutti, Anjuli compresa, siano contrari, Ash insiste perché si sposino e dopo le nozze la loro vita cambia. Negli anni in cui le frontiere indiane fanno gola a tutti, all’Impero della Regina Vittoria da un lato, e allo Zar russo dall’altro, dall’Inghilterra, dove si erano rifugiati, Ash viene La copertina dell’edizione originale rispedito in India come spia. La missione, ora, è quella di del romanzo raccogliere informazioni utili all’Impero per stabilire un punto d’appoggio permanente nella zona. Sullo sfondo della seconda guerra anglo-afgana, conclusasi con la rivolta del settembre 1879 e l’uccisione dell’inviato inglese a Jabul, Ash e Anjuli partono alla ricerca di un paradiso in Himalaya, i “padiglioni lontani”, un luogo esente da pregiudizi e conflitti, dove poter vivere la loro vita in pace. Il romanzo, profondamente influenzato dai poemi romantici del XIX secolo e dall’esperienze di vita della sua stessa autrice, ebbe un grandissimo successo. Milioni di copie vennero vendute in tutto il mondo, agenzie di viaggio crearono tour speciali per visitare i luoghi del libro, fu trasposto in una commedia musicale e in una miniserie televisiva. Quest’ultima con attori del calibro di Ben Cross come Ashton, Amy Irving come Anjuli, Omar Sharif come Koda Dad e Christopher Lee come Kaka-ji Rao. *Liberamente tratto dall'incipit di “Yoga per negati”

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IL BATTITORE LIBERO* LETTURE CON LICENZA DI AVANZARE A CURA DI ANTONIO SEGRINI

Poco più di 4 anni fa, esattamente il 12 settembre del 2008, moriva suicida, a soli 46 anni, David Foster Wallace, uno degli scrittori più creativi e originali della nuova generazione, un talento brillantissimo e libero dagli schemi tanto da essere paragonato a maestri quali Pynchon, DeLillo, Nabokov e, a sua volta, in grado di influenzare autori coevi. Chi ha apprezzato il magnifico “Il tempo è un bastardo” di Jennifer Egan, vincitore del Pulitzer 2011 per la narrativa, non faticherà a riconoscerne alcuni tratti in “Piccoli animali senza espressione”, il bellissimo atto di apertura de “La ragazza dai capelli strani”, una raccolta di racconti pubblicata nel 1989 e giustamente considerata il suo manifesto stilistico. Foster Wallace qui si muove come se avesse una steady cam tra le mani, passa rapidamente da un personaggio all’altro con brevi sequenze mozzafiato ed il lettore non può fare altro che restare soggiogato dal suo magnetismo. In poco più di 50 pagine, vivacissime e dalle quali emerge una profonda umanità, mette a nudo le nevrosi e le ossessioni dell’America (e più in generale della società occidentale) con straordinario acume. Le stesse nevrosi le ritroveremo in una delle ultime tracce, “La mia apparizione”, nella quale l’apparentemente innocua partecipazione di un’attrice al David Letterman Show per un’intervista, viene trasformata dal di lei marito in un’autentica ossessione, combattuta a colpi di Xanax, per il timore che il conduttore possa “farla a pezzi come è solito fare con le ospiti di sesso femminile” con conseguenti derive catastrofiche per la sua carriera. Ma i vertici dell’opera vanno ricercati altrove, per esempio nel racconto che dà il titolo alla raccolta, “La ragazza dai capelli strani” appunto. Funambolico, attraversato da un’ironia nera e caustica, narra una serata di una squinternata combriccola di ragazzi punk e dello strano infiltrato nel loro gruppo, un tizio avvenente, elegante, di buona famiglia, che lavora presso uno studio legale e si esprime così: “Siamo andati a vedere Keith Jarrett, un negro che suona il pianoforte. A me piace moltissimo vedere i negri esibirsi in tutti i campi delle arti dello spettacolo. Trovo che siano una razza talentuosa e incantevole di artisti. In particolare mi piace guardare le esibizioni dei negri da una certa distanza, perché da vicino spesso hanno un odore sgradevole”. Si scoprirà poi che le particolari pulsioni sessuali dello yuppie e le sue curiose pratiche incendiarie affondano le loro radici in un episodio dell’infanzia che ne ha turbato irrimediabilmente la psiche. Molto riusciti sono anche “John Billy”, una cavalcata onirica dal ritmo sfrenato tra i ranch e le pianure dell’Oklahoma, ricca di invenzioni linguistiche e dalla prosa fulminante; “Lyndon”, nel quale Foster Wallace dipinge un sanguigno, animalesco ritratto di Lyndon Johnson, il Presidente degli Stati Uniti che succedette a JFK e che qui ritroviamo, con

tutta la sua irruente carica di vitalità, impegnato a fronteggiare anni difficili come quelli delle lotte per i diritti civili e del Vietnam; “Per fortuna il funzionario commerciale sapeva fare il massaggio cardiaco”, raccontato in slow motion con grande maestria, il tutto accade in pochi minuti ma l’autore ci lascia come sospesi per una decina di pagine praticamente in apnea e, per finire, “Dire mai”, la storia di un tradimento raccontato a più voci, capace di coniugare in maniera ineguagliabile leggerezza e profondità, dolore e freddo resoconto degli eventi.

La copertina della nuova edizione di M i n i m u m Fa x della raccolta “La ragazza dai capelli strani” di David Foster Wallace

Quello che maggiormente sorprende in Foster Wallace è la capacità di arrivare al cuore e al cervello del lettore utilizzando ogni volta tattiche spiazzanti, uno stile sempre diverso che rifugge le gabbie della classificazione, senza tuttavia mai perdere un grammo di incisività. Innovativo, potente e viscerale come solo i grandi autori sanno essere. Nato nel 1962 negli Stati Uniti, ha insegnato negli anni Novanta alla Illinois State University e, dal 2002, scritttura creativa in California. Il suo romanzo d’esordio, “La scopa del sistema”, è uscito nel 1987, mentre è datato 1996 “Infinite Jest”, da molti considerato il suo capolavoro. Tra le altre sue opere vanno ricordate anche i racconti di “Brevi interviste con uomini schifosi” (1999) ed i saggi “Una cosa divertente che non farò mai più” (1997) e “Roger Federer come esperienza religiosa” (2006), titolo dal quale si intuisce la sua passione per il tennis, sport da lui praticato a buoni livelli.

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“Il pubblico in studio resta pietrificato mentre la faccia di Julie Smith si accartoccia come un fazzoletto di carta in una tasca” da “Piccoli animali senza espressione “ I capelli di Big sono estremamente lunghi, folti e neri e gli coprono la testa e le spalle e il petto e la schiena, compresa la faccia. Per vederci, Big porta una maschera subacquea di plastica che si è intrecciato nei capelli all’altezza degli occhi. I capelli nelle vicinanze di quella che probabilmente è la bocca di Big tendono a essere sgradevoli alla vista perché quando mangia il cibo passa per quella zona” da “La ragazza dai capelli strani” “Infinite Jest è il corposo romanzo di quasi 1.300 pagine, comprese le note, pubblicato in Italia da Einaudi “Lui era sempre lì, ma dava l’impressione che la sua parte del dialogo serpeggiasse secondo un percorso tutto suo, ora avvicinandosi ora allontanandosi da quella dell’interlocutore.” da “Lyndon”

“Raccontai a Simple Ranger di come il successo dell’allevamento di pecore dei Nunn, e in più la devozione della quasi-bella Glory Joy, avevano suscitato l’ira e l’invidia dell’antichissimo, eremiticamente solitario, nonché maligno e malevolente T.Rex Minogue, mogul degli ovini di Minogue, Oklahoma, e inoltre produttore del whisky di patata dolce, illegale e chimicamente instabile, che rendeva appannati e politicamente inattivi i nativi americani dell’adiacente riserva,e di come, in seguito alla spettacolare crescita dell’azienda ovina dei Nunn per merito dell’energia e della laurea in agricoltura di Chuck Nunn Junior che stava, vi ricordo, spupazzandosi la signorina che T.Rex aveva sempre voluto spupazzare da quando lei aveva dodici anni, di come alla luce di tutto questo è comprensibile che T.Rex Minogue abbia tentato ripetutamente, e con vigore superiore alla media, di acquisire per via finanziaria, di accaparrarsi per vie legali, e infine di conquistarsi con la violenza l’azienda ovina dei Nunn togliendola a Chuck Nunn Junior; di come Nunn era rispettivamente troppo ricco di petrolio, troppo bene istruito e e accorto e troppo formidabile in campo marziale perché uno qualunque di quei tentativi desse frutto; di come Nunn prendeva tutte le porcate di Minogue con buon umore, perfino i barattoli di vetro

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infiocchettati pieni di liquore di patata dolce di cui T.Rex continuava a fare omaggio a Glory Joy, ciascuno corredato di biglietto con la dicitura DICHIARAZIONE DI FORMALE CORTEGGIAMENTO, tutto con grande humor e superiorità, finchè un bel giorno T.Rex, uomo assolutamente allergico a qualunque distanza fra se stesso e quello che voleva (almeno qui in questa città che il suo papà aveva costruito prima di essere ferito a morte da un gruppo di nativi americani politicamente attivi), finchè T.Rex non organizzò che suo fratello minore leggermente meno antico, V.V.Minogue – un innocuo, benchè non incurabilmente alcolizzato, bracciante e poeta che era sotto il giogo della dipendenza dalla ricetta segreta di T.Rex a base di patata dolce, spiegai al Ranger – che V.V. e due giganteschi marchiatori di vacche, ragazzoni venuti da fuori, da Enid, facessero esplodere tramite dinamite una enorme e massiccia porzione del pascolo infestato di pecore del ranch di Chuck Nunn Junior; di come dunque il pascolo fu effettivamente dinamitato da V.V. e dai ragazzoni geologici di Enid; e di come per un intero nauseante pomeriggio, su Minogue, Oklahoma, piovvero pecore in diverse percentuali.” da “John Billy”

Tre immagini di David Foster Wallace ad una lettura per la casa editrice Booksmith nel 2006

*Fino agli anni '80 veniva definito "battitore libero" quel calciatore che, sgravato da compiti di marcatura fissa degli avversari, era appunto "libero" di giostrare a suo piacimento alle spalle dei difensori suoi compagni di squadra o di avanzare a sostegno degli altri reparti.

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SOTTO IL TIGLIO* PICCOLA RUBRICA DI CULTURA TEDESCA A CURA DI FRANCESCA PROTTI

Nell'anno in cui in Gran Bretagna si celebrano i 50 anni dei Beatles e di 007 al cinema, in Germania si commemorano i 100 anni dalla fondazione della piccola cioccolateria da cui uscirà il cioccolato Ritter e i 200 anni dalla pubblicazione del primo volume delle “Haus- und KinderMärchen” da parte dei fratelli Grimm. A ognuno le sue glorie. Jakob Ludwig Karl (1785-1863) e Wilhelm Karl (1786-1859) Grimm, figli di un giurista, avevano il pallino per le raccolte. Di fiabe, di leggende, di parole. Correva l’anno 1812 quando veniva pubblicato il primo dei due volumi della più famosa raccolta di fiabe del mondo, le “Haus- und KinderMärchen” dei Brüder Grimm. Influenzato da Clemens Brentano e Achim von Arnim, Jakob, professore di lettere e bibliotecario, iniziò a interessarsi di narrativa popolare arrivando a raccogliere, con l’aiuto del fratello Wilhelm, un totale di più di duecento storie, provenienti sia dalla tradizione orale che da fonti scritte. Nella prefazione si legge come fosse “giunta l’ora di riunire queste fiabe, dat o che coloro che le devono conservare sono sempre di meno”. Già, parlare di fiabe fa venire in m e n t e l’immagine di nonne e bambini seduti davanti al fuoco in una buia e fredda notte d’inverno. In r e a l t à , quest’immagine corrisponde solo in parte al Un ritratto dei fratelli Grimm del 1855 vero. Se da un lato, il rammarico per la sempre meno nutrita schiera di narratori di fiabe può trovare nella nonnina di cui sopra un topos psicologico, dall’altro lato quelle storie non erano mai state concepite per i bambini. Anzi. La versione oggi conosciuta è molto edulcorata e depurata da tutta la crudeltà tipica della tradizione popolare tedesca, nelle cui buie foreste si affollano streghe, goblin, troll e lupi. Come se non bastasse, le fiabe, soprattutto se popolari, non sono mai frutto della fantasia di un autore, alias la nonnina di prima, ma piuttosto il risultato di una lunga serie di storie raccontate e ripetute nel corso degli anni, sempre uguali e sempre diverse, grazie a quelle piccole sfumature che ogni narratore, o cantastorie che dir si voglia, aggiunge. E anche in questo, i Brüder Grimm si sono

pienamente calati nel ruolo. Nella prefazione Jacob e Wilhelm Grimm scrivono che “per quanto riguarda il modo in cui abbiamo condotto la raccolta, ci hanno guidato fedeltà e verità. Nulla di nostro, infatti, abbiamo aggiunto, nessun abbellimento apportato a situazioni o tratti di queste favole, bensì riportato il loro contenuto tale e quale l’avevamo ascoltato”. Falso. Se accettarono i toni violenti e c r u d i d e l l a t r a d i z i o n e p o p o l a re, n e r i fi u t a ro n o completamente gli espliciti riferimenti sessuali, censurandoli tutti senza remore. Non paghi di questo, e soprattutto per la creatività più spiccata di Wilhelm, rifiutarono di fare una mera e semplice trascrizione dall’orale, scegliendo invece di rielaborare stilisticamente i testi. È ai Brüder Grimm, infatti, che si deve l'ideale stilistico della fiaba tedesca, contrassegnata da una teutonica essenzialità. Evidentemente non del tutto appagati dalle fiabe, o forse proprio in conseguenza della loro raccolta, tra il 1816 e il 1818 i Brüder Grimm pubblicarono le Deutsche Sagen, raccolta di saghe germaniche, e gettarono le basi di un’opera a dir poco monumentale, il Deutsches Wörterbuch, un vocabolario enorme, articolato in ben 33 volumi, che ancora oggi è considerato la fonte più autorevole per quanto concerne l’etimologia dei vocaboli tedeschi. A spingere Jakob e Wilhelm nei meandri delle fiabe, delle saghe, delle parole non fu solo l’influenza dei poeti loro contemporanei. Motore scatenante di cotanto lavoro fu il desiderio di favorire un’unità e un’identità culturale della Germania del tempo, fu la speranza di poter andare oltre alle centinaia di principati e piccole nazioni in cui si frammentava il popolo tedesco di allora, una popolazione unita solo dalla sua lingua. Infatti, insieme alla traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero, il vocabolario dei fratelli Grimm costituì un ulteriore passo verso una standardizzazione della lingua tedesca. Di raccolte dei fratelli Grimm ce ne sono quante se ne vuole, soprattutto in lingua originale. Non solo, comunque. Da quelle per bambini e ragazzi, magari in eleganti volumi rilegati e illustrati, a edizioni più spartane destinate agli adulti, dove si rinuncia alle figure in favore di un numero maggiore di storie e di un apparato di note critiche degne di quel nome. Per inciso, questo articolo è stato steso mentre il mio portatile caricava nella sua memoria musicale tutta la discografia dei sopraccitati Beatles. E io mi gustavo un quadratino Ritter. So riconoscere una celebrità, quando la incontro. * Unter den Linden (Sotto il Tiglio) è uno dei più bei viali di Berlino, che prende il proprio nome dall'incipit di un canto d'amore di Walter von der Vogelweide, poeta medievale (1170 ca. – 1230 ca.).

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L’IMPRONTA RUBRICA NOIR DI RICCARDO SEDINI ASSOCIAZIONE CULTURALE “GIALLOMANIA”

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“NERO IMPERFETTO” di Ferdinando Pastori (edizioni Clandestine - pagine 185) Nero come noir ma imperfetto. Perché le apparenze ingannano e le certezze sono destinate, pagina dopo pagina, a crollare come castelli di sabbia. Così com'è precipitato il mondo di Fabio, ex poliziotto, dopo il suicidio della moglie. Affetto da narcolessia, solitario e nichilista, consuma le sue gior nate muovendosi come un fantasma all'interno di una sua personale corte dei miracoli. Sfruttatori, usurai e spacciatori sono i suoi clienti. Rintracciare le persone scomparse la sua specialità. Privo di qualsiasi etica, accetta incarichi di qualsiasi tipo senza alcuna remora. Non importa da che parte stia la ragione. Non importa che la persona da scovare sia un onesto negoziante perseguitato dagli strozzini o una ragazzina cinese costretta a prostituirsi dai genitori. Conta solo la ricompensa. La sopravvivenza. Occupato a districarsi in una pericolosa ragnatela d'incubi, rimorsi e allucinazioni, non può permettersi di distinguere il bene dal male. Le vittime dai carnefici. Fino a quando un nuovo incarico ribalta le prospettive mettendo in discussione scelte e convinzioni. Scoprire chi ha ucciso la sorella e recuperare un carico di cocaina appartenente a uno spacciatore bulgaro. Solo in apparenza un lavoro come altri... Ferdinando Pastori è nato a Galliate (NO) nel 1968. Vive e lavora a Milano. Appassionato di letteratura americana, soprattutto del minimalismo di Carver e della corrente post-minimalista di B. E. Ellis, Jay McInerney e Leavitt, predilige la struttura narrativa del racconto per l’intensità, la tensione e le emozioni che si possono condensare in un breve testo. Scrive dal 2003 e con Edizioni Clandestine ha pubblicato Euthanasia, Vanishing Point, No Way Out

e Piccole storie di nessuno. Nel 2004 si aggiudica il premio “Roma Noir. Autori, editori, testi di un genere metropolitano” con il racconto “Mantis (come una…)”. Appassionato di letteratura americana, soprattutto del minimalismo di Carver e della corrente

Ferdinando Pastori

post-minimalista di B.E.Ellis, Jay McInerney e Leavitt, predilige la struttura narrativa del racconto per l’intensità, la tensione e le emozioni che si possono condensare in un breve testo. I suoi racconti si fanno strada nei luoghi più insidiosi della coscienza (o della mancanza di quest’ultima), luoghi dove le emozioni nascono, sono condannate senza appello e si estinguono. Protagonista, una generazione di confine, border-line, una rappresentazione scenica dove gli attori s’incontrano in uno stato di perplessità e incertezza, spesso d’indifferenza nei confronti della vita.

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Dopo la pubblicazione in alcune antologie, nell’aprile 2003 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti dal titolo “Piccole storie di nessuno” edito da Edizioni Clandestine. Il suo primo romanzo “No Way Out” è nelle librerie da Marzo 2004, ancora per i tipi di Edizioni Clandestine. Nel 2004 si è aggiudicato il premio “Roma Noir" e, nel 2005, l'uscita di una nuova raccolta di brevi storie "Vanishing Point" porta a termine il percorso iniziato con i primi due libri concludendo la trilogia della "fuga". Nel 2006 è uscito il romanzo "Euthanasia" e il racconto "Dietro la porta chiusa" è stato inserito nella raccolta "The first time I saw". Ha inoltre collaborato con il pittore Alessandro Spadari scrivendo un testo ispirato alla collezione "Della natura. Il peccato", in seguito inserito nel catalogo della mostra. Nel 2007, in collaborazione con Barbara Foresta, ha curato la traduzione di "My bloody life" (La mia vita maledetta) di Reymundo Sanchez e nel 2008 La copertina del romanzo ha partecipato alla “Nero Imperfetto di raccolta "Inadatti al Ferdinando Pastori volo" (Giulio Perrone Editore) con il racconto "Non sono fuggito, solo andato da un'altra parte". Il suo ultimo romanzo "Nero imperfetto" è nelle librerie da maggio 2011. Nel corso dello stesso anno, inoltre, ha rinnovato la collaborazione con Alessandro Spadari scrivendo un nuovo testo per la mostra "Oltre. Il paesaggio".

Una nuova edizione della raccolta di racconti “Piccole Storie di Nessuno” è nelle librerie da giugno 2012. Sempre nello stesso anno, per Errant Editions, esce in formato digitale il racconto "Del Vizio, La Bellezza". Ha collaborato con il Web magazine letterario “Rotta Nord Ovest”, con Speaker's Corner, con la rivista Historica ed è membro del Network d'arte indipendente "Karpòs".

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PAROLE E CARNE... RUBRICA DI EROTISMO E POESIA A CURA DI GRETA LEDER

Il successo di pubblico della trilogia “Cinquanta sfumature di grigio”, “Cinquanta sfumature di nero”, “Cinquanta sfumature di rosso” di E.L. James, ha focalizzato l’attenzione sulla letteratura erotica, sempre relegata come genere marginale, addirittura considerata di serie B. Ma il fatto interessante è che sempre più donne si sono accostate a questo genere, sdoganando quello che poteva essere un tabù. Non mi soffermerò molto a lungo su questa trilogia nata proprio per un pubblico femminile di “casalinghe disperate”, strategicamente scritto con un’attenzione alle vendite. E’ la solita storia di lei che si emancipa alla fine di una relazione subordinata e pericolosa, lui che si addomestica dai suoi vizi che le piacciono tanto. La solita storia di un io egocentrico dove la relazione è poca cosa rispetto alla passione celebrale, e non solo, dei due protagonisti. Un corto circuito tra sesso e cervello senza ulteriore sbocco. Romanzi finalizzati ad una massa di pubblico poco esigente, in cui l’erotismo si riduce ad una intensa attività sessuale svolta in svariati luoghi, in una descrizione minuziosa, anzi direi logorroica degli amplessi e con il geniale inserimento del genere bondage giusto per rendere accattivante una storia piuttosto misera. Il linguaggio è molto semplice, banale e trascurato. Di certo l’intento dell’autrice di questo “soft porn” è stato quello di creare un prodotto puntando sulla curiosità innata delle persone verso alcuni temi, facendo leva su sentimenti poco sofisticati, poco profondi. Curiosamente si possono trovare delle analogie con la saga di Twilight. Sicuramente non consiglierei questi romanzi a nessun lettore. Forse perché sono rimasta legata a romanzi in cui la trama, la storia dei personaggi si intrecciano sapientemente, la cui ampia importanza è data alla psicologia dei protagonisti, alla passione scaturita dai loro desideri. Sono troppo legata ad un erotismo mentale: una sensualità e sessualità vissuta dalla mente come un lungo respiro che travolge e stravolge i neuroni. La mente in fibrillazione che viene sollecitata da chi riesce a scuotere le fantasie più nascoste. Il desiderio di unire le menti per raggiungere un orgasmo impagabile che sovrasta ogni pensiero. Al Mr Grey della James preferisco il Mr Jonas Cord di Harold Robbins. Mi riferisco all’uomo cinico e tormentato, erede di un impero finanziario in cerca d’amore, protagonista del libro “L’uomo che non sapeva amare”. Harold Robbins è tra i miei autori preferiti, forse perché da adolescente leggevo di nascosto i suoi libri scabrosi, in cui per la prima volta venivano descritte scene di sesso. “L’uomo che non sapeva amare” è stato forse il primo New York Times best seller ad includere scene di fellatio.

Nel 1963 era ancora uno tra i 188 libri proibiti da importazione in Italia, insieme a Lolita di Vladimir Nabokov, L’amante di Lady Chatterley di DH Lawrence, Payton Place di Grace Metalious e sette libri di Henry Miller. I libri di Robbins hanno dato scandalo, considerati ingombranti, scomodi, in realtà secondo me hanno anticipato i tempi, creando un genere ritornato alla ribalta oggi giorno. I romanzi sono pieni di azione, sostenuti da una unità narrativa forte, dotati di vitalità, direi quasi di vita propria. Robbins afferra il lettore con la sua trama e non lo lascia andare. Ma nello stesso tempo i suoi romanzi sono stati dei best seller e sebbene fosse poco considerato dalla critica quando era in vita, è diventato il terzo autore più venduto con oltre 20 libri tradotti in 32 lingue. H a r o l d Robbins era nato il 21 maggio 1916 a Hell’s Kitchen, la c u c i n a dell’inferno, quartiere malfamato di Manhattan. R i m a s e o r f a n o prestissimo di entrambi i genitori, lasciò presto la scuola e facendosi prestare 800 dollari si mise a giocare in Borsa. A 19 era già Un’immagine di Harold Robbins miliardario. A 20 perse tutto a seguito di speculazioni sbagliate. Nel 1940 trovò lavoro alla Universal Studios di New York e cominciò a scrivere per scommessa nel 1948, dopo che la Universal, irritata dalle critiche ai copioni della casa, l’aveva sfidato a fare di meglio. Il suo debutto con fu un successo. La sua esistenza è stata sregolata, ardimentosa, sempre circondato da belle donne e da finanzieri. Morì all’età di 81 anni a Palm Spring, in California, in ospedale come un eroe dei suoi libri, assistito dall’avvenente sesta moglie.

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LETTERARIA! Negli anni '60 i suoi romanzi si leggevano avidamente ma non se ne parlava; non tanto perché hot come potevano esserlo allora, vale a dire castissimi, ma perché esempio supremo di cattiva letteratura americana, quindi di successo planetario. Si andavano anche a vedere i filmoni che Hollywood ne ricavava. Ma i suoi libri piacevano perché raccontavano i vizi, le passioni, i peccati, i tradimenti, i crimini, le crudeltà, le trasgressioni se non addirittura gli incesti, di personaggi riconoscibili, ispirati ai magnati del cinema, agli La industriali copertina delle auto, ai del romanzo gangster, ai di Robbins principi nella prima arabi, alle edizione dive e alle italiana di divette, a un mondo di Mondadori ricchezza, lusso e spreco, oggi diffuso e venerato ma allora ancora q u a s i leggendario, che faceva molto Hollywood e qui appariva, nella sua volgarità, ancora esotico rispetto ai neo-neorealismi europei. Robbins riuscì a realizzare la sua versione del sogno americano, appagando le sue due personali ossessioni, il denaro e il sesso. E dalla vita ebbe tutto: successo, soldi e donne. Meno il consenso della critica. Fu accusato infatti di puntare solo su bedroom e boadroom, cioè camere da letto e consigli di amministrazione. Camere da letto delle trasgressioni sessuali e finanziarie spesso su sfondi di guerra e di violenza urbana. Le polemiche lo divertivano. Ripeteva spesso: “Non vogliono capire che io sono un grande, l’Hemingway dei poveri”. Fu anche uno dei primi scrittori a capire che un libro non bastava scriverlo, bisognava anche andare in giro a presentarlo di persona. Villipeso dai critici, ma applaudito dalle folle diceva:”Me ne andrò con due soddisfazioni: non avere rinunciato a nessuna esperienza, infischiandomene della morale e della legge, ed essere sempre stato il romanziere della gente”. Lo stesso Washington Post scrisse che, mentre per molti i suoi romanzi furono dei luridi pasticci, per molti altri furono “vitali, carichi di umanità e fantasiosi come la sua vita”. “L’uomo che non sapeva amare” fece scalpore quando venne pubblicato nel 1961, scritto alla maniera di “Quarto potere”

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in cui tutti i protagonisti, anche secondari raccontano l’ascesa verso il sogno americano di Jonas Cord, un pioniere del cinema. Si dice che il personaggio di Mr Cord sia ispirato ad Howard Hughes, imprenditore, regista e produttore cinematografico che fra gli anni trenta e quaranta era considerato l’uomo più ricco e potente degli Stati Uniti. Sullo sfondo di una Hollywood luccicante degli anni ‘30 – ’40, Jonas incrocia il suo destino con quello di tre donne diverse tra loro. Rina, la conturbante e sensuale vedova del padre; Jennie una attricetta dai capelli rossi destinata ad una effimera carriera e Monica, la moglie alla quale infine ritornerà. Morto il padre con il quale era in dissidio, Jonas ne continua brillantemente l'attività industriale, accentrando il potere nelle sue mani ed esautorando dagli affari la matrigna, Rina, e un fedele amico di famiglia, Nevada Smith. All'apice della potenza e della ricchezza, Jonas sposa Monica, ma subito la trascura, assorbito com'è dalle sue molteplici attività. Nevada, intanto, divenuto un celebre attore del cinema muto, sposa Rina. L'avvento del sonoro compromette la sua carriera, ma Jonas lo aiuta facendo di Rina un'attrice acclamata. Questa nuova attività cinematografica provoca la definitiva rottura del già infelice matrimonio di Jonas con Monica, nonostante la nascita di una bambina. Il successo è fatale per Rina. La donna perisce in un incidente d'auto e Jonas è pronto a sostituirla con Jennie, una ragazza di facili costumi, che egli intende sposare per la sicurezza che non potrà mai avere figli da lei. Quest'ennesima dimostrazione dell'aridità sentimentale di Jonas, spinge Jennie a fuggire e Nevada a porre Jonas di fronte alla realtà. In verità il suo esasperato cinismo non ha ragione d'essere poichè la pazzia ereditaria di cui Jonas teme d'essere vittima e tramite, non l'ha intaccato. La rivelazione induce Jonas ad un esame di coscienza che lo condurrà nuovamente al fianco di Monica e della figlioletta ch'egli s'era sempre rifiutato di conoscere. Il romanzo non è soltanto la storia privata di un magnate geniale e coraggioso, bensì il ritratto di una società ormai mitica, tra grandi imprese, talvolta losche, spesso effimere, e il vitalismo colorito degli Studios cinematografici, mentre all'orizzonte si profilano le nubi della fine. Un romanzo davvero molto bello, crudo, disinibito, con personaggi vivi, storie mai banali e trovate intelligenti. Un libro se vogliamo anche importante ed un autore, Harold Robbins, che ci ha lasciato qualcosa di autobiografico nei suoi romanzi. Robbis è stato “The Man Who Invented Sex” .

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Ospiti in libreria: Sabato 17 novembre, abbiamo avuto un ospite importante, il Premio Bancarella 2012 per “Il mercante dei libri maledetti, Marcello Simoni, che ha presentato il suo secondo romanzo “La biblioteca perduta dell’alchimista” Sabato 1° dicembre, abbiamo ospitato la scrittrice vigevanese Bianca Garavelli, che ha presentato il suo nuovo romanzo pubblicato da Baldini&Castoldi: “”Le terzine perdute di Dante”. Sabato 19 gennaio alle ore 17,30, presentiamo il romanzo di Loredana Limone edito da Guanda “Borgo Propizio”.

Indovina l’autore:

Chi vuole partecipare, può inviare una mail oppure passare in libreria e lasciare la risposta. Il primo lettore che ci invierà o porterà la risposta giusta vincerà un buono da spendere nella nostra libreria.

Soluzione del numero precedente:

L’incipit dello scorso numero è tratto dal romanzo “L’inverno del mondo”, di Ken Follett (Mondadori)

DA: L IB R E R IA L E M IL L E E U N A PA G IN A C .s o G ar ib al di 7 2 7 0 3 6 M or ta ra (P V ) 0 3 8 4 .2 9 8 493 in fo @ le m il le eu na pa gi na .c om

LETTERARIA Novembre - Dicembre 2012

Anno 2 - Numero 12

A CURA DI:

Laura Fedigatti Alberta Maffi Greta Leder Francesca Protti Riccardo Sedini Antonio Segrini CON IL CONTRIBUTO STRAORDINARIO DI: MARIAPIA VELADIANO


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