Letteraria 14/2013

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LETTERARIA

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Marzo Aprile 2013

Anno 3 - Numero 14

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TENNISTI, MOGLI E UN COMPLEANNO IMPORTANTE

Cari amici ecco la nostra newsletter. Non solo novità e bestseller, ma proposte di libri che, secondo noi, sono meritevoli di essere letti. Nella speranza di aiutarvi nelle vostre scelte e di darvi idee sempre nuove di cultura.

LE BIOGRAFIE DI AGASSI E PHILIP ROTH COME CONSIGLI PRIMAVERILI, MA NON SOLO CAMERON, IL PIACERE DI LEGGERE

Leggere un libro per il piacere della lettura e perché ci si sente totalmente in simbiosi con storia, luoghi, personaggi: ecco i motivi per cui leggere uno dei libri più belli, a mio avviso, dal 2000 a oggi: “Quella sera dorata” di Peter Cameron. Continua a pagina 2

UNA COPPIA DA.... ROMANZO!

Chi sia Ian McEwan tutti lo sanno. Non tutti sanno, però, chi sia Annalena McAfee. E’ una scrittrice ma è anche la moglie del grande autore britannico. Che la genialità si trasmetta in famiglia? Scopriamolo con il suo romanzo pubblicato in Italia da Einaudi. Continua a pagina 6

L’EROTISMO DI UN PREMIO NOBEL

E’ uno dei più importanti scrittori giapponesi e del secolo scorso, vincitore del Nobel nel 1968. Con il suo romanzo “La casa delle belle addormentate”, Kawabata ci offre un esempio di grande letteratura, intrisa di un raffinato erotismo. Continua a pagina 16

J.R. Moehringer e Andre Agassi: il loro “Open” è uno straordinario caso letterario (pag. 8); a destra, Philip Roth, che ha compiuto 80 anni a marzo (pag.6) A sinistra, lo scrittore di gialli Massimo Cassani (pag. 14); a destra, per la rubrica sullo Yoga, “Inseganci la quiete” (pag. 15)

INDOVINA IL ROMANZO “Non c’era in quel luogo chi già Il brano qui a destra descrive un non venisse nella sua mente luogo dove si amministra la impiccando, decapitando e giustizia in una grande città nord squartando l’imputato che ne europea e che qui rappresenta uno era, del resto, ben conscio. Ma dei luoghi dell’unico romanzo non si scomponeva e non si storico di una celeberrimo faceva teatro” scrittore inglese. Di che romanzo si tratta?

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PETER CAMERON, QUANDO IL ROMANZO DIVENTA UN’ARTE RAFFINATA “Per qualche minuto, al sorgere del sole, il mondo era silenzioso e immobile e ogni cosa umana sembrava lontanissima, come se la marea si fosse ritirata.” Con queste parole evocative e poetiche, inizia il secondo romanzo scritto da Peter Cameron (o quarto libro pubblicato, se si considerano anche le raccolte di racconti), ma che, per strane leggi del mercato editoriale italiano, viene pubblicato in Italia dopo gli ultimi tre libri di Cameron, in ordine di scrittura. “Il weekend”, infatti, è edito ora da Adelphi, che poco ha cambiato nel titolo originale (The weekend) del romanzo, scritto dall’autore americano nell’or mai lontano 1995. Poco male. I libri belli non invecchiano mai e sicuramente belli sono i romanzi, o i racconti, di Cameron. Uno scrittore che mi piace definire con una “sensibilità tutta europea”, senza voler togliere nulla alla sensibilità di altre nazionalità; ma c’è un qualcosa nelle descrizioni di questo autore, nei dialoghi tra i suoi personaggi, nello stile di scrittura, nell’ambientazione che ricorda la solarità, la delicatezza, la lentezza di un racconto nato, si fa per dire, tra le colline toscane o nel sud della Francia o tra i verdi prati e le coste ventose inglesi. Niente a che vedere con l’aggressività erotica di un Philip Roth o con la cruda realtà di un mondo senza leggi di un Cormack McCarthy o l’umanità caotica della New York di un Paul Auster. Grandissimi scrittori, rappresentanti di quella narrativa americana, appunto, che ha lasciato un segno indelebile nella storia della letteratura mondiale. Se questi autori, però, sono come un tornado che travolge, Cameron potrebbe essere paragonato a una brezza che rinfresca in una calda, ma piacevole, giornata estiva. Perdonatemi il paragone, ma è proprio questo che mi viene in mente mentre penso alle pagine di questo americano, nato nel New Jersey (stato degli Usa a me molto caro, per motivi personali), non molto distante da New York dove ora vive, e che, per un certo periodo di tempo, è vissuto a Londra, dove si è avvicinato alla lettura e alla scrittura, per poi tornare in patria e laurearsi in

letteratura inglese. Cosa dicevamo? In Inghilterra, e quindi in Europa, il nostro ha sviluppato l’amore per la lettura e ha iniziato a scrivere racconti, poesie, commedie teatrali. E dove ha subito l’influenza di molti scrittori inglesi (anzi, scrittrici), tra i quali Rose Macaulay e Barbara Pym (non particolarmente note in Italia). Nel 1983, Cameron vende il suo primo racconto al The New Yorker, la mitica rivista culturale nata nel 1925 ma ancora oggi attualissima e sulla quale Cameron pubblica una serie di altri racconti, prima di arrivare alla pubblicazione di una raccolta nel 1986 col titolo di “One way or another” (“In un modo o nell’altro”, Rizzoli 1987). Nel 1988, esce “Leap year”, un romanzo comico, pubblicato a puntate su una rivista appena nata. Segue ancora una raccolta nel 1991 e poi il suo secondo romanzo, il già citato “The weekend”. A questo punto, Cameron è uno scrittore dalla fama consolidata, e i suoi romanzi successivi (a cui si aggiunge un’ennesima raccolta di racconti, pubblicata in Italia da Adelphi col titolo “Paura della matematica” nel 2008) hanno tutti un ottimo successo: “Andorra” (1997; ancora inedito in Italia); “The city of your final destination” (2002; “Quella sera dorata”, Adelphi); “Sommerai this pain will be useful to you” (2007; “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, Adelphi); “Coral Glynn” (2012; “Coral Glynn”, Adelphi). Ed è su “Quella sera dorata” che voglio soffermarmi. Il romanzo più famoso di Cameron, forse perché, pur non togliendo nulla agli altri, è senza dubbio il più bello, sotto ogni unto di vista (James Ivory, il famoso regista, ne ha tratto un film omonimo con Anthony Hopkins, Laura Linney e Charlotte Gainsbourg, a mio avviso molto vicino alla sensibilità del romanzo, ma che a Cameron non è piaciuto molto, così come non gli sono piaciute le altre riproduzioni cinematografiche dei suoi libri, il più recente dei quali è il film di Roberto Faenza “Un giorno questo dolore ti sarà utile”). Siamo ai nostri giorni, negli Stati Uniti. Omar è un giovane ricercatore di origini iraniane che, per il dottorato, ha deciso di scrivere la biografia di un oscuro scrittore di origine tedesca, Jules Gund, che ha lasciato un solo romanzo che è diventato un libro di culto. Peter Cameron

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LETTERARIA! Scrive ai familiari di Jules, che vivono in Uruguay, per averne l’autorizzazione, che però gli è negata. Avendo già preso l’assegno dell’università per il dottorato e spinto dall’energica fidanzata, Omar parte per l’Uruguay, dove, circondati da una natura lussureggiante, come se fossero nel Giardino dell’Eden, vive la strana famiglia Gund: Adam, il fratello di Jules, un uomo anziano, legato ai ricordi di una vita vissuta nell’eleganza nonostante le varie traversie, e che vive con Pete, un asiatico più giovane di lui, che è il suo amante; Caroline, la moglie di Jules, una pittrice senza talento, rinchiusa quasi sempre nella torre della sua casa, circondata dai suoi quadri e piuttosto snob; Arden, la giovane amante di Jules e da cui lo scrittore ha avuto una figlia, Portia. Nessuno si aspetta l’arrivo di Omar, certi che un rifiuto via lettera fosse sufficiente. E nessuno sembra aver voglia di cambiare idea e dare la propria benedizione a Omar e permettergli di scrivere la biografia di Jules, mettendolo in salvo dal dover restituire il denaro, in parte già speso, del dottorato. Eppure, l’arrivo di un perfetto sconosciuto, al quale non si può far altro che dare ospitalità, cambierà le loro vite. E anche quella di Omar, che, dopo essere caduto da un albero ed essersi ritrovato in ospedale accudito non solo da Arden ma anche da Deirdre, la fidanzata prontamente giunta in Uruguay, è messo di fronte alle decisioni più importanti della sua vita, si dovrà spogliare della sua apatia e seguire il suo istinto. Dovrà diventare uomo, insomma, mentre gli altri personaggi dovranno fare i conti con una situazione che poteva andare bene per tutti fino a quando i delicati equilibri che la regolavano non vengono spezzati dal dover affrontare la richiesta di Omar, ovvero affrontare i propri fantasmi più reconditi. Una trama semplice, solo all’apparenza. Perché i personaggi, per quanto strambi e altamente insoliti, vengono analizzati dalla penna di Cameron con delicatezza ma profondamente, mettendo a nudo tutte le loro debolezze di esseri umani, facendo affiorare in superficie i segreti nascosti nel loro animo (non necessariamente dei segreti terribili, ma semplicemente i sentimenti che albergano dentro di loro) e permettendo loro di vedere con occhi nuovi e più sinceri le proprie esistenze, portando i cambiamenti necessari prima che sia troppo tardi. “Mentre guardava fuori Caroline disse: «Che cosa sa di me?». «Come?» «Che cosa sa di me? Mi sento in svantaggio. Voglio trattare con lei, ma voglio farlo su un piano di parità. Che cosa sa di me?» «Molto poco. So che era sposata con Jules Gund. Che è francese. Che dipinge. Questo l’ho appena saputo». Omar cercò di guardarla ma Caroline era girata verso la finestra. «Io sono più di questo». «Sì» disse Omar. «Naturalmente».” Si vorrebbe conoscerli, questi personaggi: la dolce Arden, la stramba Caroline, l’indeciso Omar, il “dandy” Adam. Passare un po’ di tempo con loro, dare consigli, cercare di capire il loro punto di vista. Ed è straordinario che un lettore sia così trascinato nella storia, così avvinghiato alle pagine di un romanzo da desiderare di poter essere un altro personaggio per “saltare” dentro il libro. Credo che questo sia il maggior pregio di Cameron.

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E poi c’è l’ambientazione. Quella casa, o meglio, quelle case (perché Adam e Pete vivono in un e d i fi c i o s e p a r a t o ) , immerse nella bellezza incontaminata della foresta uruguaiana. La si può vedere con la forza dell’immaginazione, senza nemmeno sforzarsi troppo, e tutto quello che si desidera è essere catapultati in quel luogo, così come viene descritto. Nelle stanze di quelle case, a fare colazione in quella cucina che dà sul giardino, attraversare il La locandina del film di Ivory sentiero che divide la casa di Caroline e Arden da quella di Adam, immergersi nel verde della natura selvaggia che circonda (e quasi protegge) quel piccolo nucleo umano così male assortito. “Fuori dal cortile vide subito la siepe d’oleandri. Seguì il vialetto di ghiaia che passava attraverso un giardino in abbandono: fiori ed erbacce crescevano a casaccio fra le bordure troppo cresciute di ligustro nano. Il giardino era delimitato da una fitta siepe di oleandri nella quale era stato ricavato un arco, speculare a quello nel muro del cortile.” Anche la New York, dove Caroline si trova verso la fine del libro, sembra un’altra città da quella che si è abituati a vedere o immaginare. È una New York affascinante, fatta di isolati e padroni a spasso con i cani, di parchi e di ristorantini all’angolo della strada, di vecchi edifici dal sapore di altri tempi. Una New York da vedere in bianco e nero, come in alcuni film di Woody Allen. “Caroline uscì per le strade affollate del centro in un specie di torpore. [...] Si ritrovò in Fifth Avenue: si fermò un momento lasciandosi scorrere intorno lo sciame di pedoni. Era una bellissima giornata di fine primavera, già con il sentore dell’estate. Si avviò in direzione del parco ed entrò da Bergorf Goodmanœ”. Credo che non possa essere detto niente di meglio di un libro che, quando lo si legge, “si vorrebbe essere lì”. E, come detto in precedenza, è un grande pregio che Peter Cameron ha in questo romanzo. Che non si riesce ad abbandonare, anche quando si è arrivati alla fine e si è raggiunta la quadratura del cerchio e ciascuno ha ottenuto esattamente quello che vuole, si vorrebbe andare avanti e godere ancora un po’ della compagnia dello scrittore e dei suoi personaggi.

Laura Fedigatti

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RIDI E AVRAI LE RUGHE GIUSTE RUBRICA DEL BUON UMORE A CURA DI FRANCESCA PROTTI

Per qualche tempo, dopo la laurea, le mie compagne ultima fatica. Per un infelice qui pro quo, a intervistarla per d’università ed io avevamo preso l’abitudine di trovarci. Un conto del prestigioso supplemento culturale "Sunday" viene sabato pomeriggio al mese, ci incontravamo in uno dei tanti spedita la ventisettenne Tamara Sim, contrattista precaria per bar della nostra amata Pavia universitaria e condividevamo il settimanale di costume "Pssst!" e reginetta delle classifiche gioie e dolori, più i secondi delle prime, del nostro dell'in e dell'out fra i vip della tv. L'incontro fra due donne avventurarci nel periglioso mondo del lavoro. Parla tu, che mi tanto diverse diventa anche scontro fra antitetici approcci al confido io, una compagna giornalismo: quello riportò il seguente impegnato, di prima scambio di battute tra lei linea di Honor, sicura e il suo capo. “Avete voluto di sé sui principali la parità dei diritti…” era teatri bellici dal sbottato lui. “IO, non ho secondo dopoguerra voluto proprio niente, in avanti; e il gossip comunque…”aveva selvaggio in cui candidamente confessato s g u a z z a Ta m a r a , lei per poi continuare il ochetta sbadata e un racconto dell’aneddoto po' ignorante che, per il piacere delle sue anziché fra le pieghe compagne di studi. della Storia, per Devo confessare che, mestiere fruga fra le ridendo con le altre, una lenzuola e negli parte di me la pensava armadietti dei come la mia amica. La medicinali delle realtà, però, era molto celebrità pop. meno ludica. Se quel Insomma, Martha pomeriggio potevo bere Gellhor n incontra qualcosa in loro Bridget Jones, e l'esito compagnia, lo dovevo a sarebbe scontato. Non chi, prima di me, aveva – fosse che a legare letteralmente – lottato l'improbabile duo c'è La copertina del romanzo nell’edizione italiana di Einaudi e, a destra, perché alle donne fosse la comune l’edizione originale britannica possibile decidere della deter minazione a propria vita, scegliere se e raggiungere il proprio cosa studiare, chi e quando obiettivo: per Honor, sposarsi, se, come e quanti figli mettere al mondo. Non è riscrivere l'articolo sulla liberazione di Buchenwald; e per questa la rubrica per dissertare in merito al ruolo svolto dal Tamara, trovare lo scoop che la sottrarrà al sottobosco dei femminismo e dalle sue principali esponenti, ma il ricordo tabloid per trasformarla in una firma. Un impietoso ritratto con cui ho aperto, trovo sia l’introduzione appropriata per del mondo dell'informazione e dei meccanismi che regolano parlarvi di “L’esclusiva”, romanzo d’esordio di Annalena "il mercato delle news". “L’esclusiva”, romanzo d’esordio di una “moglie d’arte” qual è McAfee. Annalena McAffe (suo marito è Ian McEwan, il prolifico Alla soglia degli ottant'anni la più riverita penna del autori di cui si era parlato sul primo numero di Letteraria) giornalismo britannico, Honor Tait, famosa tanto per un non è solo un contrasto generazionale. Personalmente ritengo cinquantennio di reportage scottanti dai più importanti che ben rappresenti ciò di cui parlavo in apertura. scenari internazionali, quanto per le rutilanti frequentazioni culturali e mondane, si appresta a dare alle stampe la sua

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Per le donne della mia generazione, e Tamara Sim, nata nel 1970 può essere annoverata nel gruppo, certe cose… no, molte cose, forse troppe, sono date per scontate. Come il fatto che le donne possano frequentare l’università, scegliere se rimanere single, ecc. ecc. Tutto questo per Honor Tait, ottantenne decana dal giornalismo britannico, ha un ben altro sapore. Dopo gli studi a Bruxelles e Ginevra, aveva lavorato a Parigi per un’agenzia di stampa, prima di recarsi in spagna per seguire la guerra civile, per poi essere al fianco delle truppe americane nello sbarco in Normadia, prima, e in Vietnam e Corea, poi. E l’anziana donna ben lo sa, a tal punto che inquadra subito la svampitella che hanno mandato a intervistarla, impiega pochi minuti a comprenderne l’ignoranza e la stupidità. Un piatto troppo ghiotto per non tuffarvisi a pesce. Il suo impietoso schernire e mortificare quella ragazzina, che accumula gaffe su gaffe, riempie le pagine del romanzo con uno scambio di battute sagaci e taglienti. Tamara pone domande assurde, oltre che vergognosamente sciocche, e mentre Honor cerca di risponderle e di farle comprendere la loro inconsistenza, Tamara freneticamente prende appunti sul suo taccuino. In realtà, si appunta pezzi di articolo. L’incipit, che riscrive due o tre volte, qualche nota sul fatto che Honor non si lasci scappare nulla sulle sue frequentazioni con i divi di Hollywood come Marilyn Monroe e Frank Sinatra, o sui suoi molti mariti e amanti. DI fatto, Tamara non ascolta davvero ciò che Honor le dice, tanto da scivolare in non pochi equivoci. Uno per tutti.

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La vecchia socchiuse gli occhi, accesi di disprezzo. Per un attimo aveva pensato di concedere alla ragazza il beneficio del dubbio, ma quello era davvero troppo. “Vicende realmente accadute? Con parole mie? Lei pensa che mi sia inventata tutto? e di chi sarebbero, secondo lei, le parole che ho usato? Mi sta accusando di plagio” Tamara, per la quale Ernst Hemingway era l’ubriacone barbuto e cacciatore di grossa selvaggina, che aveva scritto la sceneggiatura del film che lanciò Spencer Tracy, è capace solo di scoppiare in una risata che, invece di suonare cordiale, suona solo molto tesa. La capacità di sopportazione di Honor, per quanto costretta a farsi intervistare, ha un limite. E l’anziana donna, una Gorgone agli occhi di Tamara, ragazzina troppo semplice e illetterata per riuscire a trovare una lingua comune con quella pietra miliare del giornalismo britannico, è sul punto di mettere Tamara alla porta. Le mani della ragazza già stringono la maniglia dell’uscio, quando qualcosa spinge Honor a svelare ciò che, alla fine, aiuterà Tamara a redigere la propria esclusiva, a superare l’indicibile compito di stendere un articolo di ben 4.000 parole. Davvero un’impresa eroica per chi è di solito chiamata a stendere, al massimo, interventi non più lunghi di 800 parole.

“Volevo sapere se può raccontarmi, con parole sue, alcune delle vicende realmente accadute, che hanno ispirato il Libro”.

Annalena McAfee; a destra, l’autrice inglese con il suo famosissimo marito, lo scrittore Ian McEwan, cui è dedicato il suo romanzo d’esordio

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ALLA FIERA DELL’EST* RUBRICA DI LETTERATURA EBRAICA A CURA DI LAURA FEDIGATTI

E' difficile parlare di un grande scrittore, che ha segnato la letteratura della sua epoca con i suoi numerosi e importanti romanzi, senza cadere nel retorico, nel banale o nello scontato. Mi sembrava, però, importante parlare di un grande scrittore in un momento per lui (e per i suoi lettori) fondamentale. Lo scrittore in questione è Philip Roth, che ha compiuto 80 lo scorso 19 marzo (è nato, infatti, nel 1933 a Nework, città del New Jersey affacciata sull'Oceano Atlantico, luogo di nascita di molti americani illustri, come Jerry Lewis, Whitney Houston, Brian De Palma, Paul Simon e il "collega" di Roth, Paul Auster, città spesso centro delle narrazioni dello scrittore e che lo ha festeggiato con una serie di seminari, mostre fotografiche, tour guidati nei luoghi della sua infanzia e un party finale per pochi intimi nel Newark Museum) e che, recentemente, proprio in vista di questo importante traguardo, ha dichiarato che non avrebbe più scritto. Qualcuno non ci crede, qualcun altro sì. In ogni caso, l'annuncio ha dato ancora più risalto ad un anniversario che già era sotto i riflettori del mondo culturale e non solo. Il fatto di non credere che Roth si ritiri definitivamente dalla vita “letteraria” potrebbe essere nel fatto che nessuno come lui ha dedicato la sua vita alla letteratura e al mestiere di scrivere. In un’intervista rilasciata al “The New Yorker” lo scorso novembre, Roth racconta che un amico, anni prima, gli aveva chiesto di badare al suo gatto. Per un paio di giorni, lo scrittore giocò con il gatto, ma alla fine chiamò l’amico perché si riprendesse l’animale. Il gatto richiedeva troppe attenzioni, “It consumed me”, lo consumava. Così si rimise a scrivere senza distrazioni. La sua vita è esattamente quello che ci si aspetterebbe da un grande scrittore: solitudine (ha vissuto per la maggior parte della sua vita da solo, tra il Connecticut e Manhattan, sposandosi due volte, ma entrambi i matrimoni sono durati poco), lunghe giornate passate alla scrivania, davanti a una macchina da scrivere, immerso nel silenzio e privo di ogni distrazione. La sua vita sono i libri che scrive (anzi, che ha scritto, ormai dovremmo dire) e i suoi libri sono lui. I riferimenti autobiografici, infatti, sono così forti ed evidenti, che ogni romanzo è pervaso dagli aspetti, dalle situazioni, dalle persone e dagli eventi che hanno caratterizzato tutto l’arco della sua esistenza. Forse per sottolineare l’annuncio che Roth non scriverà più romanzi, Einaudi ha da poco pubblicato “I fatti. Autobiografia di un romanziere”. Roth ha sempre sostenuto, in particolare in questi ultimi tempi, di aver resistito a lungo alla tentazione di collaborare per una sua biografia, di per mettere a qualcuno di scandagliare la sua vita, i suoi “fatti. Ci aveva già

pensato lui, con questo libro, che in realtà è stato scritto nel 1988, quando Roth aveva 55 anni ed era appena uscito da un grave esaurimento nervoso. Il libro, un’autobiografia ma anche un romanzo della sua vita, dove l’autore ebreo si concentra sulla sua infanzia a Nework, sugli anni universitari, l’inizio della carriera come scrittore con il controverso romanzo “Goodbye Columbus”, fino a quel grande capolavoro che è “Il lamento di Portnoy”, si apre con una lettera a Nathan Zuckerman, l’alter-ego per eccellenza dello scrittore, protagonista di ben sei romanzi e narratore in altri tre. “Caro Zuckerman, in passato, come sai, i fatti sono sempre stati brevi appunti su un taccuino, il mio modo di scattare dalla realtà alla fantasia. [...] Viene il momento, com’è successo a me alcuni mesi fa, in cui mi sono trovato all’improvviso in uno stato di incontrollabile confusione e non riuscivo più a capire ciò che una volta mi pareva ovvio: perché faccio quello che faccio, perché vivo dove vivo, perché divido la mia vita con la persona con cui la divido. Il mio scrittoio era diventato un luogo estraneo, spaventoso e, diversamente da analoghi momenti del passato in cui le vecchie strategie non funzionavano più - o per le pragmatiche incombenze della vita quotidiana, quei problemi che tutti si trovano a dover affrontare, o per gli speciali problemi di chi scrive - e io avevo energicamente deciso di prendere un’altra strada, ero arrivato semplicemente a credere di non poter più cambiare. Lungi dal sentirmi capace di ricostruirmi, mi sentivo andare a rotoli.” Sono i fatti che vuole raccontare l’autore, i fatti che hanno costituito tutta la sua vita fino ad allora, in una sorta di autobiografia un po’ particolare: un po’ romanzo, un po’ racconto strettamente autobiografico, che rompe tutte le regole di un’autobiografia convenzionale. E infatti, l’autore si pone subito la domanda chiave di questo libro: può uno scrittore che si accinge a scrivere la storia della propria vita essere in grado di riportare solo i “fatti”, nel senso più semplice della parola?

Lo scrittore americano Philip Roth

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LETTERARIA! L’esistenza di Philip Milton Roth inizia, come abbiamo già detto, nel 1933, nella comunità ebraica di Newark, secondogenito di genitori americani di prima generazione e di origini galiziane. La sua famiglia, la sua “ebraicità”, l’appartenenza a una comunità come quella ebraica, la vita a Newark: tutto influenzerà fortemente il lavoro di Roth, che, dopo la laurea in letteratura anglosassone, si dedicherà per breve tempo all’insegnamento della scrittura creativa alla University of Iowa e a Princetone, per poi dedicarsi alla carriera accademica alla University of Pennsylvania insegnando letteratura comparata fino al 1991, anno in cui si dedicherà solamente alla scrittura. La sua attività di scrittore (monumentale, Roth è da sempre scrittore prolifico) inizia nel 1959 con la pubblicazione del controverso “Goodbye, Columbus”, un romanzo breve accompagnato da cinque racconti, che lo svela subito al pubblico come grande narratore e gli permette di vincere, l’anno successivo, il National Book Award per la letteratura, prestigioso premio istituito a partire dal 1950 e vinto, tra gli altri, da Saul Bellow (per ben 3 volte) e Bernard Malamud, altri due “grandi” della narrativa ebraica americana. In questo libro, già da subito con i tratti autobiografici che distingueranno tutto il suo lavoro a venire, Roth getta uno sguardo

irriverente sugli ebrei americani della classe media, raccontata dal punto di vista del protagonista, il giovane Neil Klugman, che vive in un quartiere povero di Newark e che si innamora della bella Brenda Patimkin, il cui padre proviene dallo stesso quartiere di Neil ma che è riuscito ad “assimilarsi” molto più della famiglia del ragazzo ed ha avuto più successo nella vita. La relazione va avanti tra le varie difficoltà fino a quando entrambi capiscono che, alla base,

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non c’è amore, ma mero desiderio fisico, oltre che all’attrazione dovuta alle diverse classi sociali cui appartengono. Roth dimostra subito di non voler fare sconti ai suoi “correligionari”, con il suo stile penetrante e

Roth riceve dalle mani di Barack Obama la National Humanities Medal nel 2010 irriverente, tanto da essere accusato di “odiare gli ebrei”. Fatto sta che il dado è tratto e Roth è sulla strada per diventare il grande narratore che conosciamo. Dopo altri due romanzi, il 1969 è l’anno di “Il lamento di Portnoy” consacra definitivamente Roth al successo, oltre che delineare alcuni dei tratti caratteristici dei romanzi dello scrittore. Il protagonista, Alexander Portnoy, in un lungo monologo rivolto al suo psicanalista, esplora la sua vita, le sue manie, i suoi tic nervosi, i suoi vizi di ebreo americano, ossessivamente attaccato alla madre e alle tradizioni ebraiche, nevrotico, erotomane, alla disperata ricerca di normalità ordinata. Il romanzo, forte nella sua connotazione sessuale, tanto da etichettare il suo autore come “pornografo”, è in realtà un simbolo dell’America di quegli anni, con il suo protagonista, ebreo della middle class che tenta di scrollarsi di dosso i cliché che il suo popolo si porta dietro da millenni (per questo motivo, recentemente Jonathan Safran Foer ha espresso il suo giudizio sul romanzo in questi termini: “Alcuni dei migliori libri sull’Olocausto non trattano affatto dell’Olocausto, penso ad esempio al Lamento di Portnoy”). Negli anni 70, Roth sperimenta molte forme di narrazione, dalla satira politica al grottesco. Entro la fine del decennio ha delineato quello che è forse il suo più famoso personaggio, il Nathan Zuckerman che abbiamo nominato a proposito della lettera di apertura della sua autobiografia e che sarà protagonista di: “Lo scrittore fantasma” (1979); “Zuckerman scatenato” (1981); “La lezione di anatomia” (1983); “L’orgia di Praga” (1985); “La controvita” (1986) (che viene considerato l’epilogo a seguire primi tre romanzi noti come “Trilogia di Zuckerman”); e comparirà anche in altri successivi romanzi e racconti,

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Nel 1995, Roth vince per la seconda volta il Nationa Book Award per “Il teatro di Shabbath”, anche questo romanzo scritto su vari piani temporali, con un’alternanza di prima e terza persona. Si narra la storia di Mickey Shabbath, personaggio immorale, che cade nella disperazione dopo l’abbandono dell’amante e rivive la sua vita scandalosa. Il 1997 è l’anno di “Pastorale americana”: torna Nathan Zuckerman in quello che sarà il primo romanzo della “Seconda trilogia di Zuckerman” e che farà vincere a Roth il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1998. Zuckerman incontra il suo vecchio amico Jerry Levov, che gli narra la vita del fratello Seymour, ammirato da Nathan in gioventù. Da qui in avanti, la storia è incentrata sul personaggio di Seymour dagli anni ’50, con il suo primo matrimonio e la nascita della figlia Merry, ribelle e politicizzata, decisa a combattere il governo americano impegnato in Vietnam, tanto da compiere un attentato dinamitardo che uccide una persona e che la costringe a fuggire; fino ad arrivare ad un finale amaro con la perdita di tutte le illusioni della vita di Seymour. “Ho sposato un comunista” del 1998, incentrato su periodo del maccartismo, e “La macchia umana” del 2000, sulle identità politiche dell’America degli anni ’90, completano la “Seconda trilogia”. Con “L’animale morente” del 2001, Roth riprende il personaggio del professore David Kepesh, già protagonista di “Il seno” (1972) e “Il professore di desiderio” (1977), romanzi brevi incentrati sul desiderio sessuale e sulla brevità della vita. Nel 2004 esce “Il complotto contro l’America”, ancora una volta un romanzo corposo che contiene molti dei temi cari allo scrittore: l’analisi della società americana anche da un punto di vista politico, la presenza di elementi fortemente autobiografici, l’assimilazione delle famiglie ebree. La vicenda è narrata dal protagonista, un bambino di circa 10

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anni di nome Philip Roth, che vive nel quartiere ebraico della città di Newark. Siamo nel 1942 e Charles Lindberg, l’eroe dell’aviazione americana, il primo a sorvolare l’oceano Atlantico in solitaria nel 1927, ha appena vinto le presidenziali, battendo Roosevelt. Lindberg è contrario all’entrata in guerra degli Stati Uniti, è antisemita e ammira Hitler. La comunità ebraica sprofonda nel panico e il piccolo Philip sarà spettatore di un periodo di paura collettiva, sospetto reciproco, scontri all’interno delle stesse famiglie e delle stesse comunità, divise tra chi vede in Lindberg la lunga mano del nazismo e chi invece è più ottimista. Con questo libro, lo scrittore ha vinto lo Sideway Award per la Storia Alternativa. Gli ultimi romanzi di Roth sono: “Everyman” (2006; vincitore del PEN/Faulkner Award per la narrativa) che tratta il tema della morte; “Il fantasma esce di scena” (2007) che vede ancora una volta come protagonista Nathan Zuckerman; “Indignazione” (2008); “L’umiliazione” (2009); “Nemesi” (2010) che racconta di un’epidemia di poliomielite a Newark nell’estate del 1944 e dei suoi effetti sulla comunità locale. Molti altri sono gli scritti di Roth, tra romanzi, racconti e saggi incentrati anche sulle figure di colleghi scrittori (tra gli altri, Primo Levi, la cui intervista da parte di Roth apparve sulla “New York Time Books Review” il 12 ottobre 1986 con il titolo “A man saved by his skills”), numerosissimi i premi (ne manca solo uno, il più importante, il Nobel, che ci auguriamo possa arrivare presto, ma che nulla aggiungerebbe alla sua carriera) e tanto altro ci sarebbe da dire su uno scrittore che è ormai considerato come uno dei più grandi scrittori viventi in assoluto. Credo che il modo migliore per conoscerlo sia quello di leggerlo e lasciarsi coinvolgere dai suoi romanzi, senza porre dei freni inibitori nella fantasia, come lo stesso scrittore ha sempre fatto (“con il pudore non puoi scrivere”, ha detto). E augurandoci che gli venga ancora voglia di sedersi alla sua scrivania e di regalarci altri, sublimi romanzi. Come risponde Zuckerman al suo “padre letterario” in una lettera posta alla fine dei “I fatti”: “Dopo aver portato argomenti convincenti contro la mia estinzione, in circa ottomila parole scelte con cura, mi sembra solo di essermi garantito un’altra serie di autentiche sofferenze! Ma quel è l’alternativa?”

*”Alla fiera dell’est” è un canto pasquale ebraico, “Chad Gadya”, a cui si è ispirato Angelo Branduardi per la sua celeberrima canzone Philip Roth con Primo Levi a Torino nel 1986 durante la celebre intervista che lo scrittore italiano concesse al suo collega americano Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com


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IL BATTITORE LIBERO* LETTURE CON LICENZA DI AVANZARE A CURA DI ANTONIO SEGRINI

Settembre 2006, Flushing Meadows, New York: lo statunitense Andre Agassi, uno dei più grandi tennisti dell’era moderna, sta disputando l’ultimo torneo della sua carriera prima dell’annunciato ritiro. Agassi trascorre gran parte del tempo libero tra un incontro e l’altro leggendo “Il bar delle grandi speranze” di J.R.Moehringer, premio Pulitzer per il giornalismo nel 2000: è una biografia romanzata o, meglio, un romanzo biografico della vita dello stesso autore e Agassi ne rimane folgorato. Decide di chiedere a Moehringer di “mostrargli la sua vita attraverso gli occhi di un premio Pulitzer” e di aiutarlo a dare forma alle sue memorie. Nasce così “Open”, un vero e proprio caso editoriale. Stabilire se sia più limpido il talento del tennista sul rettangolo di gioco o dello scrittore davanti alla pagina bianca è un esercizio tutto sommato pleonastico, quel che è certo è che la combinazione dei due geni ha dato vita ad un’opera il cui spessore va ben al di là di quello delle classiche biografie degli sportivi più in voga, nella maggior parte dei casi campioni di vendite principalmente per il nome del personaggio ma piuttosto poveri dal punto di vista letterario. Le diciannove stesure la dicono lunga sulla cura maniacale riservata da Moehringer al romanzo. La rivelazione più sconcertante ci coglie subito di sorpresa alla primissima pagina: Agassi, vincitore di otto tornei del Grande Slam (i più importanti del circuito) e di una medaglia d’oro olimpica, a lungo numero uno del ranking mondiale,

La copertina dell’edizione italiana di “Open” edito da Einaudi

professionista dal 1986 al 2006, non usa giri di parole, lui odia il tennis. Le ragioni di questa avversione vanno ricercate nella sua infanzia: il padre Mike nasce a Teheran e subito dopo la guerra le strade della capitale iraniana pullulano di soldati inglesi e americani. Lui li segue ovunque, li osserva, li studia e scopre ben presto un gioco a lui sconosciuto, il tennis appunto. Gli ufficiali lo nominano loro raccattapalle di fiducia, lui bagna e tiene puliti i campi, dipinge le linee, si innamora perdutamente di questo sport. Ma in Iran nessuno gioca a tennis e così Mike Agassi, per le sue inclinazioni rissose, viene indirizzato alla boxe, ha classe e la rabbia “giusta”, si conquista un posto nella squadra olimpionica e partecipa alle Olimpiadi di Londra del 1948 e a quelle successive di Helsinki senza grossi risultati, “i giudici – dice – erano corrotti”. Ma dopo aver visto un po’ di mondo non può tornare alla sua poverissima terra, esce clandestinamente dall’Iran e approda negli Stati Uniti. Qui cercherà sempre un riscatto alle sue umili origini, una qualche forma di successo che plachi la sua ira contro il mondo intero. Quando si stabilisce a Las Vegas, nel cercare casa dà la priorità assoluta a quelle che hanno un cortile enorme per allestire un campo da tennis e poi indirizza ossessivamente i figli alla pratica di questo sport con allenamenti quotidiani massacranti. Rita, Tami, Philly (forse colui che ha più talento ma “un perdente nato”) e, per ultimo, il minore, Andre. Costruisce con le sue mani una macchina lanciapalle, il drago la chiama il piccolo Andre e mette il figlio di fronte alla sua inconfutabile teoria: “se colpisci 2.500 palle al giorno, 17.500 alla settimana, un milione all’anno, non potrai che diventare il numero uno”. Visto l’innegabile talento del ragazzino, che comincia ad inanellare successi nei tornei locali, lo iscrive alla Nick Bollettieri Academy in Florida, a oltre 2.000 miglia da casa. Andre è terribilmente infelice, privato di un’adolescenza “normale”, pressoché senza amici (escluso Perry Rogers che diventerà poi suo manager e figura essenziale nella sua esistenza) e ora costretto ad emigrare da una parte all’altra degli States, il tutto per assecondare le manie soffocanti di un padre che più padrone non si può. La vita all’Academy è un inferno, scuola al mattino (l’odiatissima Bradenton) e tennis per il resto della giornata, con sole dieci ore di libertà in tutta la settimana e il modo più diretto che Andre ha per far sapere al mondo che è triste e che vuol tornare a casa è ribellarsi. Ne combina di ogni genere, provoca scazzottate, marina la scuola, beve whisky a litri, si fa una cresta da mohicano di colore rosa, ma le più eclatanti sono le seguenti: gioca la finale (vincendola a mani basse) di un torneo giovanile indossando una salopette di jeans (anziché la regolare divisa maglietta e pantaloncini), con gli occhi truccati ed un paio di vistosi orecchini.

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LETTERARIA! Viene punito pesantemente e decide di non rivolgere più la parola al gran capo dell’Academy, Nick Bollettieri, che, più avanti, sarà il suo primo coach. Quando quest’ultimo, per siglare una tregua con il più fulgido talento che abbia mai calcato i campi della sua scuola, gli chiede per sua figlia, in cambio della sospensione della punizione, un’enorme panda che Andre ha vinto ad un parco divertimenti, lui è irremovibile e non lo degna neppure di una risposta salvo poi fargli avere il pelouche a modo suo: si introduce nottetempo nell’ufficio di Bollettieri e lo posiziona sulla poltrona presidenziale “ a culo all’aria”. Di lì a poco Agassi passerà al professionismo, ha solo 16 anni ma il grande barnum del tennis non può aspettare…il resto è storia più o meno nota, raccontata dalle cronache sportive. I tornei che fanno parte del cosiddetto Grande Slam sono quattro (Australian Open, Roland Garros a Parigi, Wimbledon e US Open), il nostro trionfa a Wimbledon nel 1992, negli Stati Uniti nel 1994 ed in Australia nel 1995, dopodiché la sua carriera conoscerà un brusco stop dal 1997 al 1999, curiosamente in coincidenza con il matrimonio con la bellissima attrice e modella Brooke Shields. Dopo aver conosciuto una prematura parabola discendente che lo porta a ricominciare dai tornei minori, i cosiddetti Challenger, risorge nel 1999, dopo il divorzio, con un’epica vittoria agli Internazionali di Francia e l’inizio della relazione con la tennista tedesca Stefanie Graf, indubbiamente una delle migliori e più vincenti nella storia di questo sport: si sposeranno nella maniera più informale possibile con due giardinieri come involontari testimoni e da lei avrà due figli, Jaden e Jaz, oltre che una serenità mai conosciuta prima. Andre, Stefanie e i due bambini sono quattro personalità distinte, quattro come le diverse superfici sulle quali si giocano i tornei del Grande Slam, ma un insieme armonioso, completo, che dà al campione quella consapevolezza di un nesso tra i temi della sua esistenza. E’ tuttavia grande la sofferenza che trasuda dalle pagine del libro, Agassi non sembra conoscere il significato della parola felicità se non quando si dedica agli altri. E’ proprio nel periodo più critico della sua carriera che getta le basi di una scuola che dovrà sorgere in un quartiere degradato di Las Vegas per dare la possibilità ai ragazzi meno agiati di avere quello che a lui è mancato e della cui importanza si è reso conto solo in età più avanzata: un’adeguata istruzione. L’Andre Agassi College Preparatory Academy è stata fondata nel 2001 e conta oggi circa 500 studenti. Scrive Agassi nella postfazione: “Un giorno, mentre stavo lavorando alla seconda stesura, Jaden era a casa con un amichetto. Sul bancone della cucina erano impilati dei manoscritti e l’amico di Jaden ha domandato: Che cosa sono quelli? – E’ il libro del mio papà, ha detto Jaden con una voce che non gli avevo mai sentito se non parlando di Babbo Natale e Guitar Hero. Spero che lui e sua sorella siano altrettanto orgogliosi di questo libro tra 10, 30 e 60 anni. L’ho scritto per loro, ma rivolgendomi a loro. Spero che li aiuti a evitare alcune delle trappole in cui sono finito io. Non solo, spero sia uno dei molti libri che gli daranno conforto, guida, piacere. Ho scoperto tardi la magia dei libri. Dei miei tanti errori che vorrei che i miei figli evitassero, questo è quasi in cima alla lista.”.

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Il tennis è uno sport solitario, anzi LO sport solitario per eccellenza ed è anche questo aspetto fonte di sofferenza per il giovane Agassi, sente il destino di suo padre, della sua famiglia poggiare sulle sue sole spalle, una responsabilità enorme…con uno sport di squadra sarebbe diverso, potrebbe permettersi di sbagliare, qui invece no, lui ed il suo avversario soli, ognuno sulla propria isola, condannati a rispedirsi di continuo una palla che pesa sempre di più. Per questo non sopporta che Chang, suo avversario dai tempi degli juniores, invochi e ringrazi Dio durante e al termine degli incontri: come può costui, dice Agassi, avere l’arroganza di pretendere che Dio sieda al suo angolo? Agassi ha un rapporto molto tormentato anche con la stampa, specie ad inizio carriera. Complice un’infelice spot

Agassi con la moglie, la tennista tedesca Steffi Graf, e i due figli per la Canon nel quale si ritrova a dover pronunciare lo slogan “L’immagine è tutto”, i giornalisti non perdono occasione per punzecchiarlo, ridicolizzano il suo look più da musicista punk che da tennista, criticano aspramente i suoi atteggiamenti guasconi in confronto con quelli più misurati dell’eterno rivale Pete Sampras, sottolineano non senza sarcasmo la sua fragilità caratteriale a causa della quale subisce alcune rimonte che hanno dell’incredibile. Siamo al Roland Garros, è il 1991 e Agassi conduce per due set a uno nella finale (la sua terza in uno Slam, ancora nessuna vittoria) che lo vede opposto a Jim Courier, suo compagno alla Bollettieri Academy: “All’inizio del quarto set perdo dodici dei primi tredici punti. Mi sto disfacendo o è Courier che gioca meglio? Non lo so. Non lo saprò mai. So però che questa sensazione mi è familiare. Familiare in modo ossessionante.

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LETTERARIA! Questo senso di inevitabilità. Questa assenza di gravità mentre lo slancio si spegne. Courier vince il set 6-1. Al quinto set, sul 4 pari, lui mi fa il break. Adesso, all’improvviso, voglio perdere. Non lo posso spiegare altrimenti. Nel quarto set ho perso la volontà, ma adesso ho perso il desiderio. Com’ero certo della vittoria all’inizio dell’incontro, adesso sono certo della sconfitta. E la voglio. La anelo. Dico sottovoce: Fa’ che sia veloce. Poiché perdere è morire, preferisco una morte veloce ad una lenta. Non sento più la folla. Non sento più i miei pensieri, ma soltanto un rumore monotono nelle orecchie. Non odo né sento niente di significativo, a eccezione del mio desiderio di perdere. Cedo il decimo e decisivo gioco del quinto set, 6-4, e mi congratulo con Courier. Gli amici mi dicono che ho l’espressione più desolata che mi abbiano mai visto”. Parte della stampa è spietata nel fare dell’ironia anche sul pittoresco entourage del quale si circonda Agassi e che gli fornisce quel sostegno indispensabile per reagire ed andare avanti: l’amico d’infanzia Percy, il quale da sempre smonta, analizza e ricostruisce lucidamente tutte le paure, le ansie e le debolezze del tennista fornendogli soluzioni pratiche ai problemi più intimi; il mastodontico trainer Gil Reyes, che lascia il prestigioso incarico di preparatore atletico all’università di Nevada Las Vegas per seguirlo per l’intera carriera, una figura semplicemente insostituibile, in una parola il padre che non ha mai avuto; il fratello Philly che si occupa di tutta la parte logistica; John Parenti , per tutti J.P., un pastore in jeans, maglietta e capelli lunghi, che interpreta la Bibbia in modo anticonvenzionale, senza dogmi e facendone una casa per radunare gli amici; il coach, Brad Gilbert, tennista anch’egli, ingaggiato quando è ancora in attività, che cambia radicalmente il suo di modo di approcciare le competizioni e gli fa capire che non serve

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dimostrare di essere in ogni occasione il migliore al mondo, basta fare meno errori di chi sta dall’altra parte della rete. “J.P. dice che la gente è stata indotta dai miei cambiamenti di look, dai miei abiti e dai miei capelli, a credere che io sappia chi sono. La gente ha scambiato la mia auto-esplorazione come auto-espressione. Dice che, per un uomo con così tante identità sfuggenti, è scioccante, e simbolico, che mi chiami Andre Kirk Agassi…A.K.A….also known as…”

Colonna sonora: Virginiana Miller – La verità sul tennis (dall’album La verità sul tennis, 2003) http://www.youtube.com/watch?v=POZ0z37oqxg Walkabouts – The light will stay on (dall’album Devil’s road, 1996) http://www.youtube.com/watch?v=LJpjcYqGjhw

*Fino agli anni '80 veniva definito "battitore libero" quel calciatore che, sgravato da compiti di marcatura fissa degli avversari, era appunto "libero" di giostrare a suo piacimento alle spalle dei difensori suoi compagni di squadra o di avanzare a sostegno degli altri reparti.

J.R. Moehringer; a destra, un’immagine di Agassi agli inizi della carriera con il suo look pittoresco Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com


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SOTTO IL TIGLIO* PICCOLA RUBRICA DI CULTURA TEDESCA A CURA DI FRANCESCA PROTTI

Oliver Pötzsch – “La figlia del boia” (di Henkerstochter, Neri Pozza l’edizione italiana) La mia storia con questo libro è stata piuttosto travagliata. Ne iniziai la lettura una sera di dicembre, ma la durezza del primo capitolo mi aveva turbato a tal punto da spingermi a chiudere il romanzo e rimetterlo sullo scaffale. No, non era il momento per una storia come quella. Dopo qualche settimana lo ripresi in mano, saltando ovviamente il primo capitolo, ma dopo un centinaio di pagine lo accantonai di nuovo. Le mie velleità giornalistico-letterarie mi imponevano di leggere altro dell’autore di cui stavo scrivendo. Al terzo tentativo, però, sono riuscita ad arrivare alla parola fine. E come spesso mi accade con un bel libro, ho finito con il leggerlo tutto d’un fiato… Baviera 1659. Sulla riva di un fiume nei pressi della cittadina di Schongau viene trovato agonizzante il figlio undicenne del barconiere Grimmer. Il tempo di adagiarlo con cura a terra, di esaminargli il profondo taglio che gli squarcia la gola, di scoprire sotto la sua scapola destra uno strano segno impresso con inchiostro viola – un cerchio sbiadito dalla cui estremità inferiore parte una croce – che il bambino muore. Qualche tempo dopo i bottegai Kratz si imbattono, davanti alla porta di casa, nella macabra scoperta del loro piccolo Anton, il figlio adottivo, immerso in un lago di sangue, la gola recisa con un taglio netto. Sotto una scapola del bambino viene trovato il medesimo segno del figlio del barconiere: il cerchio di Venere che simboleggia la donna come controparte dell’uomo, la vita, ma anche la continuazione della vita dopo la morte… il simbolo delle streghe. Peter Grimmer e Anton Kratz si conoscevano. Insieme con la piccola Maria Schreevogl e altri due bambini costituivano uno sparuto gruppo di orfani che era solito frequentare Martha Stechlin, la levatrice di Schongau che vive proprio accanto ai Grimmer. Sicché quando la piccola Maria, la mattina dopo che la madre adottiva scorge, lavandola nella tinozza, il fatidico cerchio sbiadito sulla sua spalla destra, scompare al seguito di una diabolica figura con una mano di ossa, gli abitanti di Schongau non hanno dubbi: la strega assassina è la levatrice, Martha Stechlin. È lei che ha tagliato la gola ai due bambini, è lei che, con un incantesimo, ha chiamato il demonio che ha rapito Maria. Il destino di Martha Stechlin sembra così segnato. Messa nelle mani del boia di Schongau perché le sia estorta formaleconfessione, attende di essere spedita al rogo. Jakob Kuisl, il boia di Schongau, un gigante alto quasi due metri, la barba nera e spinosa, le lunghe dita ricurve simili ad artigli, non crede però alla colpevolezza della levatrice. E con lui non credono che la dolce Martha sia una strega anche sua figlia Magdalena, un’attraente ragazza dalle labbra carnose,

le fossette sulle guance e gli occhi ridenti, e Simon Fronwieser, il figlio del medico cittadino, un giovane con la chioma fino alle spalle e il pizzetto spuntato sul mento così ben visto tra il gentil sesso di Schongau. Martha ha fatto nascere quasi tutti i bambini di Schongau, compresi i figli del boia. Eppure questo non è sufficiente per i suoi concittadini per non decidere di sacrificarla. Non importa se sia colpevole o no. Martha deve essere bruciata sul rogo perché la sua morte metterà fine alle stragi che stanno dilaniando il paese. Nemmeno una collega levatrice crede nella fondatezza di quella teoria, ma la situazione necessita di un capro espiatorio e Martha è perfetta. Conosceva i bambini, che andavano spesso da lei, ed è una donna sola. Senza marito, figli, una famiglia che ne possano garantirne l’onestà. Il suo destino appare irrimediabilmente già scritto. Se però si accetta di guardare la vicenda con maggior obiettività, le domande per cui si cercano risposte sollevano solo altri quesiti.

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LETTERARIA! Logicamente, i conti non tornano. Per noi, uomini del XXI secolo, nati, cresciuti ed educati dopo il secolo dei lumi e la pubblicazione di testi come “Dei Delitti e Delle Pene” di Cesare Beccaria. Non così era nel XVII secolo, quando la superstizione di stampo medievale non aveva ancora perso di smalto. Chi si diceva medico non si dedicava allo studio delle erbe e dei loro poteri, quella era materia per maghi e streghe. Oppure per gente sospetta e temuta come il boia, figura tanto paurosa quanto necessaria per ogni città del tempo. Forse proprio per questa sua condizione, proprio perché dopo essere rifuggito dal mestiere del padre Jakob decide di tornare e fare ciò per cui è nato, ma per farlo come si deve, il boia decide di cercare risposta per ogni domanda che la situazione gli pone davanti. E con lui, il giovane medico, Simon, anch’egli non troppo ben visto per l’interesse che nutre per il sapere (erboristico e anatomico) del boia e per l’affaire che lo lega a Magdalena. Le figlie di un boia sposano altri boia, non giovani rispettabili… Jakob, Magdalena e Simon indagano per cercare di ribaltare una sentenza che sospettano sia stata scritta solo per convenienza politica e, soprattutto, per nascondere una verità inconfessabile. Una verità che, per i tre, può emergere solo nel giro di una settimana, il tempo che resta prima che il rogo venga approntato.

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segreto della loro dinastia. Alla morte di Fritz, la moglie Rita apre a Pötzsch le porte del santuario in cui il marito aveva raccolto tutto ciò che poteva sulla dinastia dei Kuisl. Alla vista di tutto quel materiale fui assalito da un leggero raccapriccio, ma provai anche un senso di casa, come se fossi stato accolto da una grande comunità. Dopo tutto, nessuno si sceglie la famiglia d’origine e per capire chi sei devi accettare ciò da cui provieni. Oliver Pötzsch l’ha accettato e ha iniziato a raccontare dei loro avi al figlio di sette anni per finire con lo scrivere un romanzo in cui consciamente decide di tratteggiare la figura del boia migliore di quanto in realtà non sia stata. Dubito che il mio avo si sia battuto davvero con tanta passione per le sorti di una levatrice da lui torturate. Però mi piace pensarlo, dopo tutto è il mio bisbisbisnonno e, come è risaputo, non si parla male della famiglia.

* Unter den Linden (Sotto il Tiglio) è uno dei più bei viali di Berlino, che prende il proprio nome dall'incipit di un canto d'amore di Walter von der Vogelweide, poeta medievale (1170 ca. – 1230 ca.).

Lo scrittore tedesco Oliver Pötzsch

Oliver Pötzsch è nato nel 1970 e vive a Monaco di Baviera con la sua famiglia. Ha lavorato a lungo come sceneggiatore per la televisione tedesca ed è un discendente dei Kuisl, la dinastia di boia a cui appartiene anche il protagonista del suo romanzo, realmente esistita e che ha svolto il mestiere per 300 anni. La prima che gli parlò dei Kuisl era stata sua nonna, ma fu il cugino di sua nonna, Fritz Kuisl, a svelare a Pötzsch ogni

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L’IMPRONTA RUBRICA NOIR DI RICCARDO SEDINI ASSOCIAZIONE CULTURALE “GIALLOMANIA”

www.giallomania.it

“ZONA FRANCA” di Massimo Cassani - TEA editore L’alba di Milano è un preludio che dura un amen. È il nanosecondo che anticipa il colpo dello starter, è un soffio di tempo tra l’immobilità della notte inoltrata e il sorgere del sole. E proprio poco prima di quell’amen, qualcuno uccide Luigi Pecchi detto Gigi Sciagura, un ottuagenario stralunato e inoffensivo che predica in giro per Milano la necessità di abbattere il Duomo. Ma chi ha deciso di farlo fuori con tre proiettili parabellum sparati da una pistola da guerra? Davvero quell’imprenditore edile contro cui Sciagura lancia i suoi strali? Oppure i parenti interessati a ereditare la casa di via Padova per mettersi in tasca i danari della vendita? Oppure ancora un misterioso personaggio che con Sciagura ha condiviso l’adolescenza e il primo amore durante la Guerra? O forse qualcuno che v o l e v a impossessarsi del suo misterioso tesoro? A tutte q u e s t e domande dovrà dare una risposta il commissario Micuzzi, investig atore pigro e smemorato, silurato dalla Questura e parcheggiato per punizione a l commissariato Città Studi. Fra le rinnovate avance della ex moglie, un brutale pestaggio di un’amica giornalista, l’incontro con una simpatica

danzatrice, morti sul lavoro e traffico di stupefacenti, il commissario Micuzzi conduce personaggi e lettori alla scoperta di una Milano popolare e multietnica che brulica incessante lungo i marciapiedi di via Padova. Dopo gli studi classici a Varese, Massimo Cassani si trasferisce a Milano per frequentare l'Università e l'Istituto per la formazione al giornalismo. Giornalista professionista, esordisce nella narrativa nel 2008, con Sottotraccia - Le inchieste del commissario Micuzzi (pubblicato da Sironi editore), con il quale lancia il personaggio del commissario Sandro Micuzzi, poliziotto svagato, distratto e meditabondo che si muove per Milano come un naufrago che ha perso la bussola. Sandro Micuzzi è il protagonista anche del secondo romanzo della serie dal titolo Pioggia battente, pubblicato sempre nei tipi di Sironi editore, nel 2009. Nel 2010 si stacca dalla narrativa di genere con Un po' più lontano (Laurana Editore), un romanzo che ha per temi la solitudine, il rapporto con il passato e l'agnizione d'identità. Nel 2006 è finalista al concorso letterario Letti in un sorso organizzato da Cantine Santa Margherita in collaborazione con laFeltrinelli, con il racconto Ombre cinesi - Noir in cinquemila battute nel quale fa rivivere le tipiche atmosfere chandleriane in chiave enogastronomica. Tiene lezioni di "Intreccio narrativo" presso la "Bottega della narrazione"' di Laurana a Milano diretta dallo scrittore e consulente editoriale Giulio Mozzi. Bibliografia: 2008, Sottotraccia - Le inchieste del commissario Micuzzi 2009, Pioggia battente - Le inchieste del commissario Micuzzi 2010, Un po' più lontano

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YOGA NON E’ YOGURT*... ... ma molto altro RUBRICA DI YOGA E DINTORNI A CURA DI FRANCESCA PROTTI

Un modo per affrontare e convivere con il dolore, per esempio. Mi sono fatta male. Capita, se non si sta attenti, se si sopravvalutano le proprie possibilità o se si sottovaluta un movimento. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, ma è la prima volta in cui il dolore non mi abbandona. La sua causa risale, ormai, a diversi mesi or sono, ma purtroppo da allora non mi ha mai abbandonato, cronicizzandosi, diventando una sorta di compagno con cui imparare a convivere. Dico dolore, ma in realtà è più che altro un fastidio, una seccatura che condisce il mio quotidiano. No, di dolore non si può parlare. Se questo è dolore, non oso immaginare quelli del parto… Una conoscente, quando le confidai che avevo iniziato a praticare yoga, mi raccontò di una donna in travaglio. Tranquilla se ne stava nel letto d’ospedale, i medici nemmeno le credevano quando diceva loro che stava per partorire. Eppure… Lo yoga, la consapevolezza del respiro, l’esperienza in tecniche di rilassamento e di meditazione le davano le armi per affrontare la grande prova che stava passando, una prova che molte donne, me compresa, si augurano di vivere almeno una volta nella vita. “Partorirai con dolore”, sentenziò Qualcuno una volta. Tutti noi in un modo o nell’altro ci dobbiamo confrontare con il dolore, dobbiamo scegliere come combatterlo o conviverci. Puoi imbottirti di medicinali e aggirarti per questo vasto mondo con la mente ovattata, oppure puoi decidere di dialogare con la voce di quel dolore. Noi, uomini comuni, ma anche personaggio famosi come Tim Parks. La prima volta che sentii parlare di Parks ero ancora in università. Seguivo un corso di storia della lingua inglese incentrato sul tema del tradurre, tema tanto ostico quanto infinito. Questa non è la sede per dissertarne, ma fino a poco tempo fa per me Tim Parks era il provocante autore di Translating Style, un lungo interrogarsi su come fosse possibile tradurre lo stile di uno scrittore. Di recente, ho scoperto che lo scrittore inglese nato a Manchester da una famiglia opprimente e rigidamente anglicana, ma da trent’anni residente in Italia, ha dato alle stampe un testo particolare, molto in linea con questa rubrica. “Insegnaci la quiete” (ed. Mondadori 2010) è un racconto autobiografico, una confessione che l’autore fa ai suoi lettori, una descrizione del percorso attraverso la malattia descritto in modo autoironico, avvincente, umile. Parks, come molti di noi, aveva sempre considerato il proprio corpo come qualcosa di estraneo, lontano da sé, qualcosa da usare, da cui pretendere efficienza, forza, coraggio, destrezza. Qualcosa da interpellare solo quando richiesto. Poi, tutto ad

un tratto, questo corpo inizia a soffrire di un dolore bruciante alle pelvi. Nessuno sa dire da dove origini questo male. Non è u n a m a l at t i a d e l l a p ro s t at a , n o n è u n t u m o re (fortunatamente) gli dicono i medici occidentali cui si rivolge. Nessuno sa dargli una diagnosi certa, un rimedio efficace. Con un nulla di fatto in mano, Parks rivolge il quesito e le sue attenzioni verso l’Oriente, in India un medico ayurvedico, dopo avergli tracciato un piano astrologico, consiglia enteroclismi di olio di sesamo ed erbe, insieme alla possibilità che il problema trovi origini nella psiche, nell’anima, nel carattere. Tim Parks, razionalista scettico, rabbrividisce davanti a quella terapia e sta per abbandonarsi alla rassegnazione quando si imbatte in un libro di due medici dell’Università di Stanford, Headache in the pelvis di D. Wise e R. Anderson. Tra queste pagine, Parks apprende come il dolore pelvico sia dovuto a una contrazione protratta dei muscoli della zona, inconscia risposta ad eventi stressanti. La cura?, si domanda Parks. Respira e rilassati. Wise e Anderson non sono sciamani, non parlano di astrologia né in termini medici incomprensibili. Appartengono allo stesso mondo da cui proviene Parks, quello delle persone serie, razionali, colte, fiduciose nella scienza. Parks accetta il loro consiglio. E respira. Concentrarsi sul proprio respiro è il miglior modo per calmare la mente, zittire il suo continuo vociare, confrontarsi con i messaggi che il corpo manda. Non è qualcosa di semplice, non tanto quanto può apparire. La difficoltà non sta (solo) nel dover rimanere fermi e concentrati sull’aria che entra ed esce dal naso, che gonfia e svuota i polmoni, ma sta (soprattutto) nell’accettare di abbandonarsi all’onda del respiro. Meditazione, malattia… sono termini che spaventano, chi per un verso chi per un altro. Erano parole che non piacevano nemmeno a Parks. Ciò di cui lo scrittore sceglie di narrare è la sua vicenda personale e in questa scelta sta la forza del libro. Trattare di meditazione e respiro in termini astratti è il modo migliore per renderli inaccessibili. Denudare le proprie difficoltà, confessarle senza vergogna, invece, è l’unica via per renderli raggiungibili. In un’intervista lo scrittore inglese fa una dichiarazione che trovo illuminante… “ormai ho finito con l’accettare che la mente e il corpo sono separati solo nel dizionario, che se il corpo si risana, la mente cambia.” Come già detto più volte, in questa stessa rubrica, se la mente acconsente ad ascoltare il corpo, a usarlo come strumento per pensare e interpretare se stessa, beh, la sua esistenza cambia. Come dice sempre il mio insegnante di yoga… provare per credere.

*Liberamente tratto dall'incipit di “Yoga per negati” Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com


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PAROLE E CARNE... RUBRICA DI EROTISMO E POESIA A CURA DI GRETA LEDER

Kawabata Yasunari, nato ad Osaka nel 1899 di famiglia borghese colta, è considerato uno dei più grandi scrittori del ventesimo secolo. Premio Nobel per la letteratura nel 1968, è noto per la perfezione formale dei suoi testi, accostata alla grande capacità di analisi dei sentimenti e degli stati d’animo dei personaggi. Insieme ad altri scrittori fonda il movimento d’avanguardia alla cui base c’era la percezione della realtà attraverso le sensazioni. Scrittore prolifico, scrisse numerosi romanzi e racconti. Grande sostenitore ed amico di Mishima che curò anche la prefazione de “ La casa delle belle addormentate” (Mondadori).

Kawabata è fra i miei autori giapponesi preferiti e questo breve romanzo scritto in punta di penna, lento eppure avvincente è esempio di eleganza, stile e raffinatezza. Leggendo questo libro ci si rende conto di quanto sia diversa la sensibilità giapponese rispetto al nostro sentire occidentale. Un racconto delicato e introspettivo, intriso di sofisticato erotismo.

Se il lettore si aspetta da questo libro un qualche voyerismo o perversione, si sbaglia e farebbe bene a non scegliere questo romanzo se va alla ricerca di un linguaggio porno-soft. Anche se l’argomento può sembrare scabroso, qui è affrontato in modo raffinatissimo, lontano anni luce da certi libri erotici che invadono il mercato. Tutto è sussurrato, immaginato. E’ un racconto sul sentire con l’anima e non con il corpo, sul percepire l’altro e su come questa percezione scateni sensazioni. Un testo veramente elegante. Nel 1972 Kawabata si tolse la vita, per anni aveva parlato di mote nei suoi scritti, descrivendola come momento di pace e simbolo di bellezza. Protagonista di questo racconto di raffinato erotismo è il vecchio Eguchi, il quale parlando con un amico viene a sapere dell’esistenza di una casa dove uomini anziani posso dormire insieme a giovanissime donne vergini addormentate con un potente narcotico. Incuriosito decide di passarci una notte. Una casa sul mare, una stanza dove la padrona di casa riceve gli anziani ospiti offrendo loro una tazza di thé e accanto la stanza dove la giovane vergine dorme, in attesa che il cliente vada a riposare vicino a lei. Un mondo scuro, separato dal mondo reale, dove nemmeno i suoni del mare e del vento non arrivano, se non attutiti, grazie alle pesanti tende di velluto alle pareti. Le regole della casa sono ferree: gli anziani ospiti dovranno avere un comportamento corretto e non approfittare delle giovani narcotizzate. Quello che questa casa offre è la possibilità, per questi uomini ormai sfioriti, di godere della compagnia di giovani corpi e di poter sentirsi anch’essi giovani di nuovo. Eguchi è un uomo con ancora forti pulsioni sessuali, più volte tentato di infrangere il divieto, destando le ragazze o facendo loro violenza, ma ogni volta desiste dai suoi propositi. Si limita così a toccare la fresca pelle delle giovani, in un contatto che gli trasmette energia vitale e al contempo lo spinge a riflettere sull’inesorabile avvicinamento della morte. La magia di quei corpi di donna addormentati induce questo anziano signore rispettabile a tornare più volte in quel luogo.

Libreria Le mille e una pagina, C.so Garibaldi 7 27036 Mortara (PV) | 0384.298493 | www.lemilleeunapagina.com


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Ogni volta che Eguchi riposa accanto ad una ragazza viene assalito dai ricordi che lo riportano alle sue passate esperienze sentimentali: ripensa alla sua amante di un tempo, ricordo scatenato dall’odore latteo della prima bella addormentata, e poi in uno strano incrocio di pensieri, il viaggio intrapreso con la terza figlia poco prima del suo matrimonio in un tempio famoso per la fioritura delle camelie, e poi il ricordo della madre. Sono visioni intrise di una forte carica onirica, a tratti filtrate dal dormiveglia, che scaturiscono dalla contemplazione delle

Lo scrittore giapponese Kawabata

I vincitori del Premio Nobel del 1968; sulla destra, lo scrittore Kawabata, vincitore per la Letteratura giovani donne, il cui corpo nudo viene descritto fin nei minimi dettagli. Seni piccoli oppure floridi, mani infantili oppure lunghe con dita laccate di smalto, labbra innocenti oppure tinte di rossetto. Ogni cosa fa affiorare i ricordi che Eguchi ha sepolti nella sua memoria. I sensi, tra cui l’olfatto, fa rinascere vividi e intensi sprazzi di vissuto. Dal corpo di passa alla visione onirica, la quale scaturisce in tutta la sua potenza mischiando ricordi reali a immagini di sogno, in una immersione nel profondo di se stessi. Il recarsi in una casa di appuntamenti si trasforma in un dialogo di Eguchi con il proprio io interiore, già minacciato dal senso di morte tipico della vecchiaia ma ancora prepotentemente attaccato alla vita. Un romanzo malinconico, in cui l’erotismo è sogno, sensazioni e percorsi della memoria espressi in una prosa elegante che non scade mai nell’ordinario. Un libro breve, inteso, poetico. Assolutamente da leggere.

Bibliografia dei romanzi: “La banda di Asakusa” (1930 - Einaudi 2007) “Il paese delle nevi” (1948 - Einaudi 2007) “Arcobaleni” (1951 - Guanda 2010) “Mille gru” (1952 - Se Studio Editoriale 2010) “il disegno del piviere” (1953 - Einaudi 2005) “Il maestro di go” (1954 - Einaudi 2012) “Il suono della montagna” (1954 - Bompiani 2002) “Il lago” (1955 - Guanda 2005) “La casa delle belle addor mentate” (1961 Mondadori 2011) “Koto ovvero i giovani amanti dell’antica città imperiale” (1962 - Rizzoli 2009) “Bellezza e tristezza” (1965 - Einaudi 2007) “Romanzi e racconti” per la collana “I Meridiani” di Mondadori (2003)

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Ospiti in libreria:

Marzo a aprile sono stati due mesi d’intensa attività per la libreria. Abbiamo ospitato molti autori importanti: l’8 marzo è stata nuovamente con noi Mariapia Veladiano per la presentazione del suo secondo romanzo “Il tempo è un dio breve” (Einaudi); il 16 marzo, Marco Missiroli ha presentato “Il senso dell’elefante” (Guanda); il 29 è stata la volta del più grande giallista italiano, Loriano Macchiavelli con “L’ironia della scimmia” (Mondadori), primo appuntamento della rassegna “Primavera in Giallo” organizzata con Riccardo Sedini di Giallomania; il secondo incontro della rassegna ha visto protagonista un altro importante scrittore, Hans Tuzzi con “Un enigma dal passato” (Bollati Boringhieri); e infine, uno scrittore lomellino “doc”, Pier Emilio Castoldi che ha presentato il suo giallo ambientato in Lomellina “Theudelinda”. I prossimi appuntamenti saranno: 11 maggio ore 17,30 presentiamo Laura Lepri e il suo “Del denaro o della gloria” (Mondadori), la straordinaria storia del primo “bestseller” della letteratura italiana e del suo “editore” nella Venezia del ‘500 8 giugno ore 17,30 presentiamo Claudio Vercelli con “Il negazionismo” (Laterza), uno dei pochi testi in circolazione sulla negazione della Shoah 15 giugno ore 17,30 presentiamo Mario Mazzanti con il giallo “Il segreto degli Humiliati” (Leone editore) Inoltre il 4 maggio ore 15,30 saremo nella Biblioteca Civico 17 p e r A n d r e a Fa z i o l i c h e p r e s e n t a “ U n o s p l e n d i d o inganno” (Guanda)

Indovina l’autore:

Chi vuole partecipare, può inviare una mail oppure passare in libreria e lasciare la risposta. Il primo lettore che ci invierà o porterà la risposta giusta vincerà un buono da spendere nella nostra libreria.

Soluzione del numero precedente:

L’oggetto da indovinare era un orsachiotto, nel romanzo “Gli scheletri nell’armadio” di Framcesco Recami (pagg. 59 - 60)

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DA: L IB R E R IA L E M IL L E E U N A PA G IN A C .s o G ar ib al di 7 2 7 0 3 6 M or ta ra (P V ) 0 3 8 4 .2 9 8 493 in fo @ le m il le eu na pa gi na .c om

Marzo - Aprile 2013

A CURA DI:

Laura Fedigatti Alberta Maffi Greta Leder Francesca Protti Riccardo Sedini Antonio Segrini

Anno 3 - Numero 14


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