
Ho conosciuto Luciano Crespi al Politecnico di Milano, dove è stato una figura centrale per l’evoluzione del suo dipartimento. Per me, al di là dei titoli accademici, è stato soprattutto un compagno di profonde riflessioni sul concetto di “messa in scena”, un tema che abbiamo esplorato a lungo. Abbiamo condiviso l’idea che il cuore della nostra professione risieda nella capacità di immaginare spazi come “palcoscenici”, dove gli esseri umani possano rappresentare il teatro delle proprie vite; ambienti capaci di aggiornarsi costantemente, adattandosi alle ambizioni e ai desideri anche delle nuove generazioni. Questo concetto del progettare guardando alla temporaneità mi è sempre più caro, non solo per il disegno degli interni, ma per tutta l’architettura. Aspirare all’eternità, a edifici e strutture che rimangano immutabili nel tempo, non è più possibile. L’architettura, per essere contemporanea, deve essere pronta ad accogliere il cambiamento in maniera repentina, in un processo che non ha fine.
Nei lavori di Luciano ritrovo la consapevolezza che tutto scorre, e noi siamo immersi in questo flusso dinamico che non solo ci trasforma, ma accelera anche il nostro desiderio di rinnovamento. Le quattro tematiche che scandiscono il ritmo del libro – riparare, sostituire, connettere e nonfinire – ci indicano una chiara direzione progettuale, volta alla creazione di un dialogo felice tra passato, presente e futuro. La maggior parte dei suoi progetti si concentra su aree dismesse ed edifici costruiti con tecnologie e funzionalità ormai superate, non più adatte al contesto attuale. La loro riattualizzazione diventa quindi una necessità. Non serve progettare altri spazi, ma inventarne un uso diverso. Non servono altre architetture che celebrino la vanità dell’autore, ma un nuovo paradigma che conduca a un diverso modo di ragionare: oggi è molto più importante lo spazio che riqualifichiamo o liberiamo di quello che costruiamo.
Da questa raccolta di lavori emerge con forza il tema del “non-finito”, che non è solo una filosofia progettuale, ma per me anche un concetto estetico. L’estetica del non finito è ciò che meglio rappresenta la modernità. Qualsiasi cosa completa, rigida, progettata nei minimi dettagli risulta fuori dal tempo, poiché non lascia quel
margine di trasformabilità che oggi è richiesto a tutte le cose.
Luciano ha tradotto queste riflessioni in numerosi progetti, molti dei quali realizzati per concorsi. Paradossalmente, il fatto che gran parte di questi non siano stati vinti gli ha permesso di esplorare con profondità e libertà le sfide proposte; se fossero stati vinti forse la sua ricerca avrebbe trovato un punto di arresto, cristallizzandosi in una produzione destinata a invecchiare presto.
Lo spirito con cui sviluppa i suoi progetti ci racconta di una coerenza rara, in un’epoca in cui spesso viene premiata l’esasperata innovazione piuttosto che la fedeltà a una visione. Mi piace come questa coerenza si manifesti anche nella scelta di rappresentare i progetti, sempre con i disegni a mano realizzati dal fratello. Il metodo di Luciano mi pare resistere al tempo, ma con la capacità di affrontare nuove modalità abitative e di vivere la città, come i coworking e gli spazi condivisi. In questo libro ritrovo un collega e amico che ha vissuto i miei stessi anni e affrontato le stesse sfide.
Ammiro la sua capacità di abbracciare il cambiamento senza tradire la propria visione, di pensare cioè a spazi che possano adattarsi e trasformarsi per accogliere ciò che verrà. Luciano ci invita a entrare in una ruota in movimento, per spingerla sempre in avanti affinché non si fermi mai.
INTRODUZIONE
Stop City Now è un manifesto politico. Il titolo è un omaggio a No-Stop City di Andrea Branzi ma, al tempo stesso, ne sovverte il senso. Anziché proporre “una città adeguata alla nuova modernità, dove il design prevale sull’architettura in quanto non ricerca più progetti definitivi, forti e concentrati, ma progetti provvisori mobili e incompleti che possono cambiare adattandosi alla storia del tempo”1, propone una città degli avanzi, dove il design prevale ancora sull’architettura ma attraverso la trasformazione di quella esistente abbandonata e dimenticata, per rispondere alle nuove domande di spazi da abitare. Sono stati i cambiamenti profondi, intervenuti negli ultimi trent’anni, delle condizioni dello scenario culturale e sociale entro cui operare che mi hanno convinto a indirizzare l’attività di progetto verso interventi di riuso degli “avanzi” presenti sul territorio, pervenendo a formalizzare la nozione di design del non-finito. Un modo, o una tattica si vedrà, per affrontare le sfide del “secolo nomade”2 e rispondere al grido d’allarme lanciato dal pianeta che ci ospita, sperimentando anche nuovi codici estetici per gli ambienti in cui vivere nella contemporaneità. È tempo di trovare, come gli Ultimi Uomini dei quali narra Umberto Galimberti nell’Etica del viandante3, nuove parole, un nuovo linguaggio capace di corrispondere all’urgenza di stabilire un’etica planetaria, della quale è il viandante a potersi fare carico “a partire dalla riconosciuta sua estraneità all’Universo”4, dalla condanna a errare senza una direzione, dalla consapevolezza che non sia l’uomo ma la vita della terra a essere la “misura di tutte le cose”5 e dalla capacità di “congedarsi dall’etica antropocentrica, che finora ha regolato il rapporto dell’uomo con la natura, perché quest’etica si è rivelata non funzionale alla vita”6. Ritengo che a quanti sono chiamati oggi a cimentarsi con il progetto possa interessare sapere come l’ha praticato chi, per quarant’anni, si è trovato a insegnarlo in università e a frequentarlo, soprattutto attraverso la partecipazione a concorsi di architettura: una forma di necessaria sperimentazione “sul campo” di quanto “predicato” nelle aule d’università7. I lavori scelti vengono suddivisi in quattro sezioni, che costituiscono come dei modi verbali, o delle indicazioni musicali di espressione, e riflettono l’evoluzione “darwiniana” del pensiero che li ha guidati, dovuta ai cambiamenti non
Casa Salvemini
Varese (VA)
con A. Del Corso (incaricato)
Il recupero ha assunto il valore di autentica riprogettazione del manufatto edilizio. Interventi come questi pongono ai progettisti il problema costituito dalla necessità di operare su architetture che non presentano valore di documento e questo consente margini di libertà molto ampi. Tuttavia non va smarrito, neppure in questi casi, un obiettivo di coerenza con gli elementi costruttivi dell’esistente, che vanno sempre e comunque ricercati. La villa esistente è degli anni Venti.


≥ EX POST Come in un moto circolatorio del tempo, uno dei primi progetti riguarda il riuso di un edificio esistente, non abbandonato, quindi non un “avanzo” ma un non finito gravemente compromesso dall’usura del tempo. Ne ha parlato Angelo Bugatti sul numero 77 del 1989 “Costruire” in un articolo dal titolo “La villa si trasforma”. Scrive che “gli elementi a cui fa riferimento la relazione sono costituiti dal balconcino con un parapetto metallico e dalla composizione verticale delle aperture, che vengono mantenuti. Ma la collocazione della casa, in un’area di grande suggestione naturalistica, non poteva limitarsi a una diversa utilizzazione dell’interno e della copertura. Infatti ha spaziato fino a una nuova immagine che si articola su pochi e sicuri elementi. Nella facciata principale si sono dilatati i balconi, gli aggetti sono inscritti in un sistema di telai, a travi e pilastri, che ridisegnano completamente la facciata. Semplificazione da una parte, ricomposizione dall’altra: la scelta rigorosa di scandire il volume con la riconferma e la citazione di caratteri del Movimento Moderno collega e definisce tutti gli elementi. L’elemento che in qualche modo si libera dalla tematica razionalista è stato il recupero del piano delle coperture, prima con tetto a falde e oggi parte a terrazzo e parte coperto a botte nella zona studio. Questo spazio si esprime come


elemento tecnologico che si impone nei due fronti principali e le pareti verticali di testa offrono straordinari punti di osservazione sul paesaggio”. L’ispirazione del progetto è in effetti al razionalismo italiano rivisitato da Richard Meier. Originariamente le superfici esterne erano di colore bianco, successivamente modificate. Ad essere ufficialmente incaricato è Angelo Del Corso, come nei successivi lavori svolti in collaborazione, dove risulto ufficialmente in veste di consulente non avendo ancora sostenuto, per scelta politico culturale, l’esame di stato per l’abilitazione allo svolgimento della professione, che sosterrò nel 2000.
Foto © Umberto Pozzi
Foto © Luigi Trentin
tridimensionale. Nonostante quanto detto in precedenza sul tema dell’opera di breve durata, rimane la convinzione che il disegno delle strade e delle piazze debba saper essere qualcosa di più della risposta elementare all’esigenza, da parte
di chi lo abita, di muoversi in un ambiente confortevole, pulito, elegante, per saper contenere significati anche simbolici, evocare memorie, suscitare interrogativi. Un po’ come sanno fare le opere d’arte, un romanzo, un film, una musica.
Riqualificazione di Piazza dei martiri
Gorla Maggiore (VA)
concorso
con M. Crespi, O.Pogliani (capogruppo)
Municipio
Cocquio Trevisago (VA)
progetto
con A. Del Corso (incaricato)
“Nel progetto per il nuovo Centro Civico di Coquio Trevisago sono molteplici gli elementi che concorrono alla sua definizione: dalla conformazione dell’area, collinare con forti dislivelli, alla collocazione relativamente decentrata, alla necessità di elaborare forme rappresentative – da reinventare data
la posizione – sintetizzando in un unico complesso funzioni diverse (amministrative, culturali e assistenziali) rendendo l’insieme facilmente accessibile da varie direzioni salvaguardando, allo stesso tempo, la particolare natura del luogo. Un insieme funzionale sintetizzato nell’embrione di una forma urbana, articolato in un sistema radiocentrico di vie e di edifici disseminati lungo il pendio”. (L’Arca, 39, 1990).
≥ EX POST Prima prova sul tema del palazzo municipale. La configurazione del terreno ha suggerito una soluzione che, sul piano icnografico, sembra ispirarsi più a dispositivi propri dell’architettura ellenica che alla tradizione del palazzo municipale. Un approccio progettuale attento al tema della relazione con il paesaggio che risente ancora delle suggestioni del Moderno, in particolare nella versione riproposta da Richard Meier.
Chiesa al Gallaratese
Milano (MI)
concorso
con M. Crespi, A. Del Corso (capogruppo)
≥ EX POST Presidente della giuria del concorso è Emilio Battisti. Alla premiazione è presente Romano Prodi, il cui governo è appena caduto. A concorso finito è circolata la voce, anche sulla stampa, che il progetto avesse convinto per il suo carattere un po’ ruffiano e “democristiano”, ammiccante nell’edificio con gli uffici a un’architettura d’ispirazione contemporanea, “portoghese” e nel palazzo con la sala consiliare a un’architettura littoria o “sovietica”.
A distanza di quasi trentacinque anni, e a opere realizzate, l’intento dichiarato nella relazione mi sembra avere retto la prova del cantiere, grazie anche al ruolo fondamentale svolto dall’architetto Francesco Pirera, allora colto dirigente del settore lavori pubblici. Come sempre accade nel passaggio dal progetto alla realizzazione alcuni pezzi si perdono per strada, altri si aggiungono. Si perdono le torri, bocciate, ma il percorso mantiene il suo carattere strategico, di liaison con
la città esistente e di collegamento non più ideale ma effettivo con l’altra sponda del fiume, in seguito alla successiva realizzazione del “Ponte della pace”. Si aggiungono la copertura superiore del porticato di collegamento dei due volumi, voluta dall’allora sindaco Luigi Castagna, e un ulteriore parcheggio a nord, il cui disegno asseconda l’andamento delle gradonate dello stadio. La “piazza municipale”, originariamente prevista con un disegno trapezoidale per inglobare al suo interno l’edificio della sala consigliare e avere come altro limite il lato perpendicolare al percorso d’ingresso, viene ridimensionata. I fronti dei due corpi svolgono il ruolo di quinte sceniche e il vuoto si presenta come spazio rettangolare, che si confronta con un nuovo tipo di ambiente aperto, non previsto in sede di concorso. Si tratta di un’ampia area a prato, delimitata a nordest dal percorso alberato parallelo a quello di accesso al Municipio: uno spazio quasi informale, in realtà dotato di sottile valore

simbolico, qualcosa che evoca luoghi come il Campo dei miracoli di Pisa: né piazza né giardino. La vista zenitale restituisce l’immagine di un dispositivo di rango urbano, che completa il disegno dello stadio, interagendo allo stesso tempo con alcuni dei tracciati fondanti l’impianto urbano di Casalecchio, in particolare con la via Ugo Bassi poi via dei Mille. Dal punto di vista dell’architettura convince la scelta del progetto di assegnare al palazzo municipale un valore identitario in grado di riprendere la tradizione dei palazzi municipali, soprattutto italiani, senza mortificarlo ad anodino palazzo per uffici, come nel caso di un nuovo importante municipio non lontano da Casalecchio. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, si tratta di uno dei primi edifici pubblici italiani a prevedere l’uso del fotovoltaico in copertura e del geotermico, grazie alla consulenza del professor Giancarlo Chiesa, docente del Politecnico di Milano. L’impianto con cortile interno mantiene
le promesse fatte in fase di concorso. La sua dimensione necessariamente ridotta, quasi una citazione del cortile, gli assegna funzioni diverse da quelle dei cortili storici e sembra presentare piuttosto il carattere di patio interno della casa, come nella domus romana. In questo caso della “casa dei cittadini”. Il taglio “a fetta di salame” del lato nord-ovest, che potrebbe sembrare dettato da ragioni stilistiche – o da suggestioni storicistiche, in quanto richiama il progetto di Francesco Di Giorgio di un palazzo della cultura mai realizzato – nasce dall’esigenza di assecondare il disegno dei tracciati che determinano l’ambito nel quale l’opera si inserisce, costituendo come un sistema di regole a livello del paesaggio. L’improvviso ripiegarsi su se stesso del fronte nordovest, introdotto nel progetto di concorso per rimarcare il nuovo limite della piazza, può apparire ora, dopo la modifica del limite, un capriccio ingiustificato. Come spesso accade, nel corso dell’evoluzione della fase di realizzazione di un’opera
Municipio
Rodano (MI)
concorso
con M. Crespi, O. Pogliani, F. Ruffa
Scuola Carracci e parco
Bologna (BO)
concorso
con M. Crespi, collaboratrice L. Squillacioti