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l’Unità Laburista - Europa o barbarie - Numero 36 del 9 gennaio 2021
Europa
La UE soffre di lobbismo. Il lobbyingnell’Unione europea, fra bisognodi trasparenza e opacità delsistema
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Giovanni AIELLO
La pagina garzantilinguistica.it definisce piuttosto duramente una lobby come un “gruppo di interesse che, esercitando pressioni anche illecite su uomini politici, ottiene provvedimenti a proprio favore”.
Il significato attuale della parola ha però una origine incerta. Senza dubbio il termine “lobby“deriva dal latino laubia, ovvero loggia, con riferimento alla tribuna a- perta al pubblico dalla quale i cittadini ascoltavano direttamente le discussioni politiche. Ma un’altra accezione, affermatasi originariamente nel mondo anglosassone, rimanda invece ai corridoi e alle anticamere delle sale assembleari, proprio
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quelle nelle quali era allora (ed è tutt’oggi) possibile incontrare i governanti per sottoporre loro questioni e richieste specifiche.
Nomen omen, quindi, come si usa dire, visto che il termine contiene già in sé la profonda contraddizione che ritroviamo ancora, per niente intaccata, nell’odierna attività di lobbying, la quale si pone infatti esattamente a metà strada fra un’idea di partecipazione dei comparti economici al dibattito decisionale (attualmente nell’Unione agiscono oltre 10mila organizzazioni lobbiste) e la possibilità di forzare invece i processi istituzionali attraverso interventi più o meno espliciti per garantire interessi che un tempo avremmo definito corporativi.
La situazione attuale nella UE
Come accennato, il lobbismo è tradizionalmente associato alla Gran Bretagna e, in particolar modo, agli Stati Uniti, paese nel quale questa realtà è da tempo consolidata e in un certo senso regolamentata attraverso appositi albi professionali. Ma anche l’Unione europea è tutt’altro che estranea al fenomeno, tanto che Bruxelles pare sia diventata in questi ultimi tempi la capitale mondiale del lobbying, ancora più di Washington. Ma ciò non toglie che già nei primi anni novanta, in tempi non sospetti, si fosse sentita l’esigenza di regolamentare le diverse attività dei gruppi di pressione all’interno della UE.
Il primo risultato importante in tale direzione si è fatto attendere però fino al 2011, con l’istituzione del Registro per la trasparenza (che riguarda Commissione e Parlamento), cui si iscrivono, ma solo su base volontaria, le organizzazioni che fanno lobbying nell’Unione. Inoltre, dal 2014, durante la presidenza di Jean-Claude Juncker, è stato stabilito che i membri della Commissione debbano pubblicare la lista dei loro incontri con i rappresentanti delle organizzazioni presenti nell’elenco. E nel 2019, in concomitanza con l’approvazione del bilancio, l’Unione ha approvato anche vari emendamenti che estendono al Parlamento europeo le stesse disposizioni previste per i commissari, perfezionando ulteriormente il meccanismo in termini sia di legalità che di accessibilità ai documenti da parte di operatori e cittadini.
Questo obiettivo viene raggiunto incrociando i dati presenti nel registro per la trasparenza (contenente informazioni anche sugli obiettivi e sulla forza finanziaria delle organizzazioni di lobbying) con l’agenda degli incontri, ma anche con l’osservatorio legislativo, che raccoglie tutta la produzione normativa in via di de-
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finizione. Ciò consente oggi di comprendere molto meglio lo sviluppo del processo decisionale, mettendo in fila i protagonisti presenti ai meeting, il periodo di riferimento e le proposte analizzate, per effettuare così una comparazione con il testo finale dei provvedimenti e valutare quanto e come l’incontro degli esponenti istituzionali con i lobbisti abbia di volta in volta influito nel merito. Rimane invece e- scluso da questo meccanismo di verifica incrociata, almeno fino ad oggi, il Consiglio dell’Unione Europea. Anche se proprio in queste settimane si è giunti ad un compromesso che pare preluda alla prossima creazione di un registro unico che riguarderà tutti e tre gli organi e al quale questa volta sarà obbligatorio iscriversi per i lobbisti che vogliano accreditarsi.
Lobbisti: chi sono e cosa fanno
Tra le migliaia di organizzazioni coinvolte in questo articolato processo (dal 2014 il loro numero è aumentato del 50%) ci sono realtà tra loro molto diversificate. In prevalenza si tratta di associazioni commerciali e professionali. In seconda battuta sono numerosissime le ONG, e poi seguono gli studi specializzati nella consulenza e le associazioni che raggruppano enti locali e sindacati.
Ma a fare la differenza sono soprattutto le finalità, e ancora di più le modalità di intervento di questi interlocutori (che il Consiglio stesso definisce in una sua nota “IG”, ovvero interest groups) nei lavori dell’Unione. In queste attività di pressione sono infatti coinvolte complessivamente quasi 100mila persone (delle quali circa il 10% ha accesso diretto alle assemblee) che agiscono ad ogni livello, ricalcando a specchio la complessa governance della UE.
Partendo dagli stati membri, fino ad arrivare a Bruxelles, e presenziando dalla fase di iniziativa fino alle votazioni in aula (secondo il principio del cosiddetto venue shopping, da tradurre come ‘canale più appropriato’), i lobbisti operano infatti sia proattivamente che con campagne ostruzionistiche, attraverso strategie dirette o indirette, a seconda che esse siano mirate a condizionare in modo specifico i rappresentanti delle istituzioni (commissari, eurodeputati, funzionari permanenti) o invece l’opinione pubblica. Il tutto sempre con l’intento di alimentare un clima favorevole in rapporto a certi risultati da raggiungere e mettendo in campo una forza finanziaria spesso gigantesca, che nel complesso si conta in decine di miliardi di euro all’anno (con riferimento solo a quelli censiti), sotto forma di investimenti im-
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mediati, ma anche di finanziamenti ricevuti dall’Unione, progetti e potenziali vantaggi fiscali. Senza dimenticare infine che ogni provvedimento europeo diventa molto spesso anche nazionale (in materia ambientale ed energetica, ad esempio, la percentuale dei recepimenti è vicina all’80%), con ricadute che si amplificano ulteriormente.
Le opacità (forse insuperabili) del sistema
Eppure, malgrado le recenti misure di trasparenza, rimangono forti le perplessità sul genere di influenza che il lobbismo è in grado di esercitare sulle scelte della UE. E i motivi sembrano essere principalmente tre. In primo luogo, non tutti i soggetti attivi nel lobbying sono iscritti nel registro. Tra gli assenti troviamo ad esempio i consulenti indipendenti, gli studi legali e i cosiddetti think-tank (letteralmente ‘serbatoi di pensiero’, composti da esperti impegnati su temi di interesse strategico), che svolgono spesso un lavoro di supporto molto importante ma non facile da monitorare con gli strumenti attuali.
In secondo luogo, va sottolineato quanto siano ritenute preziose per l’apparato dell’Unione tutte le “notizie” confidenziali e le expertise che si ricavano dai rapporti con associazioni di categoria e gruppi di interesse. Non a caso in una nota ufficiale del Consiglio queste informazioni vengono definite come “beni di accesso” che favoriscono i lavori delle istituzioni, l’accesso al consenso e l’integrazione europea. E ciò sembra legittimare una logica di scambio e di interdipendenza fra lobbismo e UE, che complica non poco qualsiasi valutazione.
Infine, non convincono le transizioni di molti esponenti istituzionali dall’una all’altra realtà, e viceversa. Un principio dei vasi comunicanti questo, che ha riguardato, fra gli altri, il celebre caso di José Manuel Barroso, ex presidente della Commissione, che al termine del suo mandato, nel 2014, è entrato nella grande banca d’affari Goldman Sachs. Ma anche il nostro Mario Monti, Commissario europeo per dieci anni consecutivi (dal 1995 al 2004), con responsabilità in tema di finanza e di concorrenza, ha poi rivestito com’è noto incarichi per la stessa Goldman Sachs e per Moody’s, oltre ad avere partecipato come componente di spicco alle riunioni di importanti gruppi di interesse internazionali, prima di diventare ca-
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po del governo in Italia.
E a riprova ulteriore di questa fungibilità dei ruoli, lo stesso presidente Monti, proprio in questi mesi, è tornato a capo di una commissione europea voluta dall’OMS, per la ‘Salute e lo Sviluppo sostenibile’ alla luce della pandemia. E coerentemente con quanto appena detto in tema di opacità, e come puntualmente riportato da Nicoletta Dentico su Altreconomia.it, “la locuzione ‘salute pubblica’ non compare mai. Né nel comunicato stampa di annuncio della commissione né nell’intervento inaugurale del presidente Monti che introduce il terreno di lavoro dei commissari”. Con buona pace dell’emergenza pandemica e della sostenibilità.
Gli obiettivi principali dell’Unione
Eppure, se consultiamo la pagina ufficiale dell’Unione europea e leggiamo quali sono i suoi obiettivi principali, al primo punto troviamo “promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi cittadini”. E appena poche righe più in basso quegli stessi valori sono descritti come “condivisi dagli Stati membri in una società in cui prevalgono l’inclusione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la non discriminazione.”.
Ora, senza indugiare troppo sui pur gravi casi di corruzione verificatisi negli anni (nel 2011 tre eurodeputati furono smascherati da inviati del “Sunday Times” che si erano finti lobbisti e avevano promesso soldi in cambio di sostegno ad un provvedimento), e ricordando come il lobbying non solo sia una pratica legale, ma anzi possa essere finanche virtuoso (si parla a tal proposito di lobbismo soft, fatto da associazioni dei consumatori, ambientaliste o impegnate sui temi legati ai diritti civili), viene comunque da chiedersi quante energie, professionali ed economiche, siano sottratte al perseguimento di quegli obiettivi fondanti dell’Unione proprio a causa delle estenuanti negoziazioni con potenti lobbies, come ad esempio il Cefic (Consiglio Europeo delle Indusrie Chimiche), o con i grandi nomi del settore tecnologico come Google e Microsoft, senza ovviamente dimenticare quelli delle pubbliche relazioni e della finanza, come Fleishman-Hillard e Fti.
E appare dunque legittimo domandarsi, in conclusione, se la vocazione al lobbismo contenga almeno qualcosa di “comunitario”, o se sia, invece, del tutto incompatibile con i valori di cui si parla nel sito della UE.
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