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La ‘guerra’ dei buoni

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La ‘guerra’ dei buoni

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Giovanni AIELLO

Troppo spesso ascoltiamo attraverso i media, quasi fosse un dato di natura, che ilmondo è come un’arena di scontro per pochi Paesi egemoni che si contendono ilcontrollo su territori, risorse, tecnologie e informazioni. Queste “potenze” sono

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quelle uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale e sono le stesse che oggi compongono il Consiglio di sicurezza dell’Onu: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina. Naturalmente questi paesi sono anche coinvolti, sebbene non sempre direttamente, nella maggioranza dei conflitti in corso (come si rileva bene da atlanteguerre.it), e soprattutto, fatte le debite proporzioni, sono anche quelli più pesantemente armati. Come emerge dai dati pubblicati annualmente nel report Fas (Federation American Scientist), delle quasi 15mila testate nucleari censite, oltre il 90% di queste è infatti diviso fra Usa e Russia. La Cina invece ne possiede quasi 400, Francia e Gran Bretagna rispettivamente 300 e poco più di 200. Ma a questo elenco vanno aggiunti anche Pakistan, India, Corea del Nord e Israele, che disporrebbero anch’essi di armamenti nucleari, sebbene in sostanziale violazione dei trattati internazionali.

Il principio sottinteso a tutto questo sembrerebbe dunque essere la follia più assoluta. Ed infatti ‘MAD’ (in inglese ‘pazzo’), è curiosamente anche l’acronimo di ‘Mutual Assured Destruction’ (mutua distruzione assicurata), concetto alla base della deterrenza nucleare e della famigerata Guerra fredda. A parziale compensazione di questo stato di cose va detto che i paesi del Consiglio di sicurezza aderiscono al TNP (Trattato di non Proliferazione Nucleare), grazie al quale negli ultimi trent’anni le testate risultano ampiamente ridotte (nel 1986 erano quasi 70mila). Ed inoltre, se anche ciò può essere di consolazione, sarebbero meno di 2mila le testate realmente “operative” e pronte per un impiego, mentre la maggioranza sono stoccate in siti appositi. Anche l’Italia, che fa parte della Nato e aderisce ad una alleanza nucleare europea, custodirebbe delle testate nei depositi di Aviano, in Friuli Venezia Giulia, e di Ghedi, nel bresciano. Ma il nostro governo non ne ha mai ammesso ufficialmente la presenza, sebbene da un documento

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pubblicato “per errore” nel 2019 dall’Assemblea Parlamentare della Nato (e diffuso dalla testata Business Insider Italia), sia arrivata un’involontaria conferma di queste indiscrezioni.

L’esercito dei buoni - Ma questa lunga ed angosciosa premessa “atomica” non avrebbe alcuna ragione se non per preparare il terreno ad un interrogativo all’apparenza scontato: chi di noi ritiene accettabile che i rapporti internazionali, fra popoli e culture, siano basati sulla minaccia (o sul ricatto) della distruzione reciproca così come impostato dai governi? I presunti ‘buoni’ saranno mai in grado di fare qualcosa per interferire con questi disequilibri, modificandoli?

Ora, a giudicare dai tesissimi brief di lavoro, dalle litigiose riunioni condominiali e di quartiere fino ai rancori sfogati sui social (attraverso il cosiddetto hate speech), verrebbe da credere che, sebbene in scala infinitamente ridotta, anche i microcosmi ripropongano esattamente le stesse dinamiche conflittuali del potere internazionale. Eppure, al netto delle scaramucce fra colleghi e vicini di casa, il panorama delle nostre attività si presenta per fortuna molto più complesso di così e ci dice che, volendo, sappiamo essere decisamente migliori di quanto non immaginiamo.

Forse non è un dato abbastanza noto, ma nel mondo infatti c’è oltre 1 miliardo di persone impegnato abitualmente in attività di volontariato, sia esso formale (ossia svolto nell’ambito di organizzazioni con vocazione sociale) o anche informale. La Charities Aid Foundation (CAF), un’associazione inglese attiva da quasi cinquant’anni, pubblica un report annuale con il World Giving Index, una sorta di indice che misura la ‘bontà’ verso gli altri e che attraverso una serie di interviste registra la propensione nei vari paesi del mondo ad aiutare uno straniero, donare denaro e fare volontariato. Quanto all’Europa, circa il 15% dei cittadini è coinvolto nel volontariato, ma la situazione è molto diversificata. La tendenza a far parte di

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una cittadinanza attiva, anche secondo dati Eurostat, aumenta proporzionalmente nei paesi a più alto livello medio di reddito ed istruzione. E dalle statistiche si scopre pure che il volontariato non ha invece relazione con l’età e tantomeno con il genere, visto che giovani o meno, uomini o donne, tutti vi sono a diverso titolo coinvolti. L’Italia infine, come emerge questa volta dal Rapporto dell’Onu sullo Stato del volontariato, può contare su circa 6 milioni di volontari che operano attraverso le 300mila e più associazioni attive nel paese. Dati incoraggianti, anche se le potenzialità del nostro paese probabilmente avrebbero consentito di fare meglio.

L’Italia negata delle persone ‘per bene’ - Ed effettivamente sembra che l’Italia debba giocare sempre ad handicap la sua personale partita con la storia. Forse perché una guerra nucleare in miniatura, fatta di meschine bombe artigianali, e condotta tra gli anni di piombo e le stragi di mafia dei primi anni novanta, ci ha pian piano costretti a credere di non poter mai diventare tanto “bravi” quanto avremmo potuto, producendo la sfiducia che poi ci ha indirizzati sulla via del ‘riflusso nel privato’. Non proprio un colpo di stato, ma uno ‘struscio di stato’, come lo definì Umberto Eco.

Un fenomeno spiegato in modo esemplare anche da Lucia Calzari, sorella gemella di una delle vittime della strage di Piazza della Loggia, avvenuta a Brescia nel 1974, ed essa stessa superstite di quell’attentato, la quale intervistata nel corso di una preziosa puntata della serie di inchieste tv ‘Blu Notte’, firmata dallo scrittore Carlo Lucarelli, ed intitolata proprio ‘Piazza della Loggia: il luogo della memoria’, ha chiarito quanto siano profondi e duraturi gli effetti dello shock prodotto dalla violenza su una società che si sta emancipando. «Quella strage ha mangiato la vita di tutti noi - dice la Calzari, che all’epoca aveva trentadue anni -, perché in quel

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momento eravamo nel pieno della nostra capacità di pensare, di studiare, di lavorare e di fare. Riconosco adesso che in quel momento c’era una carica vitale eccezionale, ci sentivamo quasi immortali e onnipotenti. Avevamo raggiunto un livello, a partire dalle nostre origini, guadagnandoci gli studi, la laurea, il posto di lavoro, la sicurezza economica e avevamo una situazione affettiva che in quel momento ci sembrava più che soddisfacente. D’un colpo tutto questo si è dissolto».

Insomma, i buoni fanno paura. E quanto facessero paura gli italiani “impegnati” di quel periodo emerge a pieno anche dal libro-inchiesta del 2019 ‘Colonia Italia’, scritto da Giovanni Fasasella e Mario José Cereghino per l’editore Chiarelettere, nel quale si riportano documenti inglesi recentemente desecretati (sebbene non integralmente) e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, nei pressi di Londra. Si tratta di prove inquietanti, risalenti già al gennaio del 1969 (prima della strage di Piazza Fontana), nelle quali si fa riferimento ad “altri metodi”, presumibilmente più incisivi della semplice propaganda occulta, necessari per piegare la classe dirigente italiana. Riscontri di analogo tenore raccolti nel volume rimandano poi ad un altro piano britannico del 1976 (condiviso anche con Francia, Germania e Stati Uniti) per bloccare in modo violento la politica di Aldo Moro.

Ma anche le persone che 25 anni dopo erano presenti a Napoli e poi al G8 di Genova del 2001, quelle del movimento ‘No Global’ e de ‘La Sinistra l’Arcobaleno’, a- vevano evidentemente già suscitato sufficienti preoccupazioni, tanto da meritarsi quel trattamento, di stampo inconfondibilmente fascista, sfociato poi nell’uccisione di Carlo Giuliani, nel massacro della Diaz e nelle torture di Bolzaneto.

La lezione della pandemia e del clima: ci sono risposte che non hanno bandiera - Si tratta evidentemente di storie dure. Ma proprio da queste scaturisce ancora una volta la prova certa che i buoni esistono (in Italia e nel mondo), che sono tanti

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ed anche temuti per tutti i cambiamenti che sono in grado di determinare. Chissà quanto potrebbero essere incisivi allora se agissero unitariamente (si domanda forse un ideale multimiliardario 4.0 nel silenzio del suo studio, mentre siede sulla sua poltrona Chesterfield in pelle di bufalo color ciliegia). Potrebbero fare leva sulla rete di organizzazioni già esistente e che, ad esempio, confluisce proprio nella Giornata Internazionale del Volontariato, che si celebra ogni anno il 5 dicembre, da quando è stata istituita dall’Onu nel 1985. Senza dimenticare i presidi delle varie organizzazioni umanitarie, che già si occupano da decenni di fame nel mondo (World Food Programme), di infanzia (Save the Children), di diritti umani (Amnesty International), di ambiente (Greenpeace), di cure mediche (Emergency), di migrazioni (Sea-Watch).

Abbiamo già appreso a nostre spese come la crisi climatica, o la stessa pandemia da coronavirus, non abbiano certo colpito tenendo conto di confini naturali e tantomeno politici. Sono servite e serviranno quindi sempre di più misure unitarie di contrasto, come sta accadendo per la campagna vaccinale coordinata dall’Oms, e come presto accadrà anche per i protocolli produttivi a impatto ambientale negativo (ossia più virtuoso ancora dell’impatto zero, visto che la ‘carbon neutrality’ da sola non sarà sufficiente).

Per queste ragioni, qualsiasi iniziativa politica di rinascita che punti ad avere un vero impatto, dovrà poggiare d’ora in poi su una partecipazione che sia altrettanto integrata e di lungo respiro, secondo la linea già indicata ad esempio da Wikileaks e più di recente dai Fridays For Future, e tenendo bene a mente l’unica vera distinzione di campo oggi accettabile: fra chi pretende il mondo tutto per sé e chi invece si augura di dividerlo con tutti gli altri. Fra il ‘solo noi’ e il ‘tutti noi’.

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