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Il verde e il grigio delle città
Urbanistica
Il verde e il grigio delle città
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Rosanna Marina RUSSO
Difficile capire cosa esattamente sia oggi una città visto il processo ormai in corso da tempo di inarrestabile perdita di identità. Perché l’idea di città moderna, creata secondo criteri di ordine, pulizia, buon governo, in realtà si è arresa, davanti alle trasformazioni così volubili e difficili da descrivere, davanti a una degradazione che non è conseguenza solo di una crisi generale, ma nasce come frutto di incapacità della città a divenire plasticamente funzionale ai rapporti sociali e ad adattarsi alle contingenze di turno. E ce ne sono di contingenze, come quella pandemica che
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stiamo vivendo e altre, come l’immigrazione, che si sono irrobustite per colpa di luoghi e strutture totalmente inefficaci. Ciò che abbiamo saputo fare è stato fissare solo linguisticamente queste trasformazioni, perché come afferma Indovina: “la lingua che la città parla si fa diversa”.
Ma se questi agglomerati possono declinare una grammatica linguistica diversa perché si sono modificati fino ad assumere forme molto complesse, ora devono rinascere, mutando la sintassi degli spazi, proponendo alternative più funzionali, nel senso di quel diritto alla città di cui parlava Henri Lefebvre: bellezza, varietà, fruibilità, sicurezza, capacità di stupire e sostenibilità.
Perché se è vero che i cambiamenti sono scritti nel codice genetico delle città, è altrettanto vero che se non prendono la direzione giusta, tutto il nostro sistema organizzativo può implodere. Nel 2050 il 75% degli abitanti del pianeta vivrà nelle città, il 20% in più di adesso. L’esodo previsto è pari all’1% annuo dei 7 miliardi e 600 milioni di persone che oggi abitano la Terra e che lascerà le campagne o i piccoli centri.
Se questo è il futuro prossimo, va conosciuta fino in fondo la domanda degli abitanti nella sua espressione dicotomica bisogni/desideri. “D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda” (Calvino). Solo in questo modo si potranno orientare le scelte, programmare gli interventi, trasformare la città, progettare o riprogettare gli spazi, quelli grigi e quelli verdi, il godimento di cose belle, la conservazione della memoria e dei legami con il passato e la trasmissione di un patrimonio materiale e ideale alle future generazioni. Le persone non stanno in città per vivere, ci stanno per convivere.
Ma, in concreto, cosa si può fare?
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Forse è meglio qualche esempio già attuato. Uno nostrano: Modena. Ha iniziato creando nel 2005 Il Laboratorio della città nel quale in fase teorica c’è stato un approfondimento dei temi della qualità urbana e delle attese dei cittadini, soprattutto in relazione alla fruizione degli spazi collettivi, e la redazione tecnica e giuridica dello strumento di piano da porre a fondamento stesso del progetto.
E, dopo Modena, tutti i capoluoghi di provincia emiliano-romagnoli hanno aderito a questo processo. Sono stati organizzati 10 “laboratori aperti” delle città per promuovere la partecipazione e la condivisione dei cittadini alle scelte degli obiettivi.
L’obiettivo primario è stato definito nella riqualificazione dei centri storici. Sono stati redatti piani in cui, in dettaglio, ogni città ha indicato gli spazi individuati per il riuso: ex chiese, chiostri, aree industriali dismesse e la somma necessaria per attuare la programmazione. Chi ha pagato? La Regione. Fondi Por- Fesr 2014-2020 (asse 6). E come ha potuto la Regione sovvenzionare questi progetti per un totale di 14 milioni? In realtà questo asse 6 dà attuazione all’Agenda urbana europea che riconosce alle città un ruolo centrale allo snodo territoriale e prevede azioni di qualificazione del patrimonio culturale e lo sviluppo di tutti i fattori che possono favorire la partecipazione dei cittadini alle scelte strategiche della città, soprattutto attraverso l’uso delle nuove tecnologie.
Come dire: avere idee, conoscere le possibilità di concretizzarle e mettere in pratica.
Ma ritorniamo a Modena. Ebbene grazie a quei Fondi ha aperto nel 2016 la riqualificazione dell’ex centrale AEM, edificio di archeologia industriale del 1912, situato in un’area adiacente al centro storico. Sono state ricavate due aree coworking, due Labspace, una sala conferenze, una galleria polivalente di 545 metri quadri e uno spazio ristorazione. L’edificio è stato inaugurato nel gennaio 2018. Oggi è un luo-36
go di ricerca, innovazione, sperimentazione per la cultura, lo spettacolo e la creatività; è un’area in cui si fa impresa e si sviluppano nuovi prodotti; è un punto di incontro tra professionisti, start up e istituzioni; è un luogo aperto ai cittadini in cui si svolgono mostre, performance, iniziative di divulgazione, festival, manifestazioni. Nel periodo di lockdown è stato utilizzato per attività formative online.
So di essere entrata troppo nel dettaglio, ma continuavo a pensare alla mia Bagnoli e all’area ex Italsider. Una “carta sporca e nisciuno se ne importa”. Sì, in Campania qualche riutilizzo di beni confiscati alla camorra c’è stato, e qualche chiostro è stato restaurato e sono state realizzate persino opere architettoniche fantastiche come la stazione di Afragola di Zaha Hadid, ma una progettazione, frutto di una visione unica per rigenerare le città campane con la partecipazione attiva dei cittadini neanche l’ombra.
Si può obiettare che Napoli non è una città media come Modena e che questo sposta tutti gli equilibri regionali.
Può darsi.
È innegabile che le città metropolitane come Napoli (14 in Italia) necessitino non solo di rigenerazione dei centri storici, ma anche di veri e propri interventi ricostruttivi nelle periferie, quelle certe, periurbane, e quelle di fatto che sono all’interno della città, come capita appunto a Napoli.
Ma è altresì innegabile che qualcosa vada pensata. Spostiamoci per un attimo al nord e al centro Europa. Strano a dirsi, con triste ironia, sono molto più avanti.
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Difatti, avendo superato molte delle nostre problematiche con gestioni più accorte, ora si dedicano a progettare interi ecoquartieri con interventi ad hoc di edilizia, creando con la partecipazione degli abitanti che li popoleranno anche una nuova economia urbana, basata sulla circolarità, il riuso e la sostenibilità.
Solo un esempio di sostenibilità per non sbavare troppo: i condomìni sono ora progettati con fontane/macchinette che garantiscono l’acqua potabile dell’acquedotto regolando la temperatura e dosando la gasatura desiderata.
Il costo può essere ripartito con tessere ricaricabili individuali. Si risparmiano costi, fatica e bottiglie di plastica. Un sogno per il Sud Europa. E per chi è nel sud del sud, in una specie di Matrioska di sud, un infinito miraggio. E il verde?
Voglio bypassare il resto d’Europa, perché il paragone è impietoso: da noi il verde è sempre più grigio.
Almeno al sud Italia. Il parco della Reggia di Caserta e poi La Favorita a Palermo. Null’altro. E le città della mia regione, quelle campane, sempre più “inguaiate”.
La Campania, dopo la Lombardia e il Veneto, è la regione col maggior consumo di suolo con una perdita importante di superficie a copertura vegetale.
Nessun Piano del verde è presente nei cinque capoluoghi di provincia.
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Tantomeno a Napoli dove non è stato effettuato neanche il censimento delle specie vegetali presenti sul territorio, chiesto da Legambiente, dove non si mettono a dimora nuovi alberi per ogni bimbo nato nel Comune, che è obbligo di legge per i comuni con più di 15.000 abitanti, dove ci si trova, col suo misero 6, molto al di sotto della media nazionale come numero di alberi ogni cento abitanti e dove all’interno del suo 9,57% di densità di verde non si individua una preponderante tipologia di verde attrezzato.
Ciò vuol dire che l’amministrazione non è affatto green e la liberazione dal traffico di alcune zone della città, come il lungomare, non è il frutto di una ecovisione, ma ricerca di ecorisonanza.
La rigenerazione di una metropoli deve passare attraverso non uno svuotamento di alberi in intere zone, ma una implementazione di verde.
Perché questo non solo migliora l’aspetto estetico delle città, non solo ha una funzione ricreativa e sociale, ma riveste un ruolo importantissimo nella mitigazione degli inquinanti atmosferici, molto più che qualche sporadica isola pedonale.
L’intenzione di essere sindaco green è solo una intenzione se mancano sempre risorse per la manutenzione, la gestione, la sicurezza delle aree verdi pubbliche e se queste spesso vengono abbandonate o chiuse.
Il bilancio di un’amministrazione è lo specchio di una scelta, risponde a bisogni e desideri, rende fattibile una rinascita.
Che non ci può essere senza un equilibrio cromatico tra il verde e il grigio, senza comprendere la necessità di dover perseguire “un solo sistema”,
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