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Privata proprietà
Donne
Privata proprietà
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Antonella BUCCINI
Comprare un’auto nuova è meglio che comprarne una usata. E fin qui non fa una piega. Oddio c’è anche chi sostiene che un’auto usata dia più vantaggi da diversi punti di vista. Ma la metafora in questo caso non reggerebbe. Dunque, l’acquirente accorto anche di un’auto nuova potrebbe non accontentarsi e magari decide di farsi un giro, così, giusto per capire. Dopo potrebbe anche rinunciarvi perché non ne apprezza, che so, la tenuta di strada, oppure, entusiasta, sente di non poterne più fare
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a meno. Ecco negli anni ’60, neanche tanto tempo fa, alle giovani da marito (così si definivano entro i 25 anni, dopo, zitelle, senza appello) succedeva qualcosa di analogo. La verginità era un po’ come un certificato di garanzia. Nuova di zecca, chilometri: zero. Punto. Si profilava però un rischio doppio. Il fidanzato avrebbe potuto richiedere un giro di prova.
La prova d’amore, un modo romantico spesso solo per carpire il premio in palio. La proposta andava valutata attentamente.
Si presupponeva in questo caso un rigurgito di discernimento nella giovanetta inesperta.
Se avesse accettato poteva indurre il fidanzato nella inequivocabile convinzione che fosse una poco di buono.
Come ha ceduto a me (si parlava di cedimento all’epoca o forse cessione come per i diritti, mah!) potrebbe farlo con chiunque, avrebbe pensato furbo l’aspirante.
Era possibile però anche che il ragazzo apprezzasse il dono incondizionato con sprezzo del pericolo della giovane innamorata.
Scelta complicata dunque.
Nell’ipotesi benevola sarebbe seguito il matrimonio che avrebbe tranquillizzato tutte le parti per l’articolo ormai fuori mercato. In chiesa, con un abito bianco, a quel punto un po’ abusivo (la verginità era bella che andata) la sposa, proprio all’incipit della cerimonia, magari per evitare equivoci, sarebbe transitata dal padre al marito, con una certa commozione, nei pressi dell’altare, trasferimento di proprietà con acclusa garanzia.
I tempi sono cambiati?
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Certo.
Eppure, in questi giorni i giornali hanno raccontato di un padre che si è visto negare a Roma la sepoltura della figlia, prematuramente scomparsa, nella cappella di famiglia.
La motivazione? Paradossale.
In pratica, in base ad una legge del 1921 il diritto alla tumulazione spetta al concessionario, al coniuge, ai figli maschi e alle loro mogli, alle figlie femmine nubili.
Se sono sposate no. E questa giovane donna lo era. E quindi anche le sue spoglie spettano al coniuge. Annoverare il fatto tra le discriminazioni di genere forse è fuorviante.
Qui eccelle lo zelo ottuso nell’applicazione di una norma aberrante in conflitto evidente con tutto l’attuale ordinamento in materia.
Ciò però che svuota il paradosso, da archiviare tra le perversioni burocratiche, non è il dato normativo ma quello culturale molto più affine a questa nefandezza.
Non è forse il vanto di un titolo di proprietà che emerge ancora, senza bisogno di carte bollate, nei femminicidi?
E l’arietta che spira e sa di “ragazza facile” “se l’è cercata” “ma quando ha denunciato, quando?” “un no è quasi sempre un si”.
Il corpo della donna, ancora oggi, senza padroni vacilla, è poco credibile, non ha autonomia né autorevolezza e se vittima ne deve dare conto, sempre.
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