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“Abracadabra”... il potere è nelle parole

Società

“Abracadabra”... il potere è nelle parole

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Marianna PACE

Oggi l’interscambio umano, a causa anche della pandemia in corso, è prevalentemente imbottigliato nel virtuale, un virtuale che a volte diviene maschera o specchio ponendo in evidenzia ancor più il modo in cui ciascuno di noi entra in dialogo con l’altro da sé. Tra i fenomeni in esponenziale incremento in questo periodo c’è quello del dilagare di contenuti d’odio online, sulle piattaforme social in particolare. È evidente che si tratta di un tema di drammatica attualità, in quanto le costanti

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recenti vicende di cronaca “in rete” ci impongono di riflettere sulla complessità di tale fenomeno che alla violenza verbale spesso si accompagna a forme di manipolazione e violenza psicologia.

Sull’“incitamento all’odio”, o come più generalmente viene definito hate speech, ci si può riferire alle riflessioni dottrinali e giurisprudenziali elaborate tanto a livello nazionale che internazionale; in sintesi, e semplificando, tale espressione indica una comunicazione sia verbale che non verbale che esprime odio e intolleranza e, al contempo, incita all’avversione e alla paura, istillando pregiudizio, verso una persona o un gruppo di persone appartenenti ad una stessa etnia, orientamento sessuale, politico, religioso o disabilità.

Tale forma di comunicazione alimenta ignoranza, intolleranza, razzismo e violenza, come dimostrato dai numerosi casi citati in un documento presentato al Comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale già nel 2017. L’ambiente digitale, in particolare quello dei social network, ha un potere di diffusione “delle idee” molto più capillare rispetto ai media tradizionali nonché una notevole capacità di persistenza e di divulgazione. Inoltre, l’incontrollato uso di e- spressioni d’odio online, come è stato autorevolmente osservato, sovente si traduce in violenza reale off-line. A ben vedere, infatti, gli abusi raramente rimangono confinati al mondo digitale, traducendosi spesso in offese verbali, stalking e violenze fisiche, ma soprattutto perché tali condotte, nascendo e circolando in rete, si moltiplicano esponenzialmente. E non è un caso, soprattutto se si considerano i recenti studi sul profilo psicologico degli “haters”.

Un cenno ai predittori psicologici degli “haters” - Alcuni recenti studi avrebbero identificato quelli che si possono definire i predittori psicologici di coloro che assumono un atteggiamento denigratorio, i cosiddetti “haters”. Tali studi hanno con-

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siderato i seguenti elementi: la presenza di personalità patologiche (cd. triade oscura: narcisismo, psicopatia e machiavellismo), il livello di frustrazione, di invidia e la soddisfazione nella vita. Più in particolare, gli studi hanno confrontato le caratteristiche di persone che hanno pubblicato commenti di odio su Internet nei confronti di atleti polacchi durante i Giochi Olimpici invernali a Pyeongchang del 2018.

Dopo l’identificazione, tali utenti sono stati sottoposti ad un’indagine psicologica attraverso la compilazione di una serie di questionari. I risultati hanno evidenziato che i punteggi più alti nei tratti psicopatici come nei livelli di invidia erano predittori significativi della pubblicazione di commenti di odio online. Per le altre scale non si sono registrate differenze sensibili. Si tratta insomma dei primi studi diretti a ricostruire un background psicologico degli “haters” online: le ricerche future potranno dirci di più rispetto ad un fenomeno sempre più diffuso, le cui contromisure sono ancora poco efficaci.

E il diritto come si pone rispetto a tal fenomeno? - Già nella Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948) ritroviamo un obbligo per gli Stati di punire non solo gli atti concreti di genocidio ma anche l’incitamento a commetterlo. Nella stessa direzione anche la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965), in virtù della quale gli Stati devono condannare ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti e a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e discriminazione razziale. Ancora, il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 prevede restrizioni alla libertà d’espressione a condizione che siano espressamente stabilite

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dalla legge e necessarie al rispetto dei diritti o della reputazione altrui o alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche e, inoltre, richiede agli Stati di vietare nell’ordinamento interno ogni propaganda a favore della guerra e qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza.

Sul piano degli strumenti giuridici regionali, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1953) proibisce le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a u- na minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione. Nella stessa direzione, ma estendendone la portata, si muove la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000) che vieta qualsiasi discriminazione fondata su sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.

Il sistema giuridico italiano ha previsto la possibilità di perseguire penalmente gli autori di tali condotte d’odio a seguito di querela delle persone offese da detti reati; tuttavia, una reazione successiva e repressiva nei confronti di tali condotte rischia di rivelarsi inefficace, perché difficilmente riesce ad essere tempestiva: si pensi a quanti di questi fatti vengono effettivamente denunciati; le autorità pubbliche e la magistratura dispongono di risorse insufficienti per perseguire un fenomeno così massiccio; infine, nell’ambiente online, vi sono problemi legati all’individuazione

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del locus commissi delicti (il luogo di provenienza di tali messaggi) con tutte le relative conseguenze in tema di legge applicabile e giurisdizione.

A ben vedere, una reazione meramente successiva e repressiva nei confronti di tali condotte rischia di rivelarsi inefficace; oltretutto difficilmente una tale reazione riesce ad essere tempestiva. In effetti, i discorsi di odio online, richiedono, nei limiti del possibile, interventi di tipo preventivo, e ciò a maggior ragione ove si consideri il disarmante grado di diffusione ormai raggiunto da tale fenomeno, che non rende più possibile pensare di affrontarlo con le sole misure repressive (come ad esempio quelle di natura penale). Piuttosto è sempre più necessario articolare una risposta che operi anche sul piano sociale e culturale.

Un ruolo determinante dovrebbe essere svolto anche dagli attori privati (veri e propri operatori economici) che gestiscono le piattaforme virtuali ed i social network che sempre più sono veicolo dei discorsi di odio. Ciò richiede la predisposizione di un adeguato sistema di controllo sulla pubblicazione online da parte dei singoli u- tenti, che operi tanto ex post che ex ante secondo regole di massima trasparenza. L’obiettivo “minimo” dovrebbe essere, dunque, quello di poter garantire tempi certi di reazione nei confronti di quei contenuti segnalati come lesivi e discriminatori. In questo senso, potrebbe applicarsi all’hate speech lo stesso sistema di monitoraggio che Facebook ha recentemente introdotto contro le “fake news”, ad esempio, affidandolo ad associazioni ed ONG impegnate nella lotta alle discriminazioni e nella promozione della tutela dei diritti umani.

In ogni caso, accanto a sistemi di autoregolamentazione predisposti dai media e social network, si presenta comunque necessario prevedere in via legislativa una responsabilità in capo ai soggetti che operano sulla rete e a coloro che gestiscono tali

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siti, in modo da obbligare questi ultimi a predisporre un controllo di quanto pubblicatoonline dagli utenti.

Conclusioni - In un contesto così frastagliato ed eterogeneo, come quello descritto, è necessario riaffermare l’importanza della preminenza dell’autorità pubblica nell’individuazione di standard uniformi e organici e soprattutto preventivi. Un’azione che deve mirare anche all’instaurazione di un’effettiva democrazia digitale, che garantisca il rispetto dei diritti umani online, la vigilanza sulla neutralità della rete, la costruzione di una libera identità, al fine di promuovere un utilizzo della rete volto all’utilità sociale e alla garanzia dei diritti di ognuno.

Insomma si rende necessario oggigiorno uno sforzo maggiore volto ad educare le persone all’utilizzo della rete, come spazio non di polarizzazione, bensì di libera espressione e circolazione delle conoscenze, e che possa fungere da supporto per i processi decisionali e per il progresso democratico della società stessa, sempre più proiettata verso, e nella, rete.

La prevenzione ed il contrasto ai discorsi d’odio online non possono prescindere, quindi, da un incisivo programma di sensibilizzazione degli utenti, attraverso iniziative di formazione da porre in essere, innanzitutto, negli istituti scolastici e di alta formazione, nell’ottica dell’educazione permanente alla cittadinanza digitale per una coscienza civica piena, consapevole e responsabile non solo nella logica di una “netiquette” ma anche al fine di prevenire la nascita stessa dei sentimenti d’odio, contrari ai principi costituzionali ed internazionali di solidarietà, tolleranza e di rispetto della dignità umana.

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