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Africa
from Tempo lontano
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Africa
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Finita la guerra eravamo tornati a Vicenza, in Viale Margherita, a venti passi dal crocevia di Porta Padova. In una stanza del nostro appartamento si era installato un abusivo: Orazio.
La stanza era l'ultima del nostro appartamento, quella con la porta sul pianerottolo proprio di fronte alla nostra porta di entrata. Si salivano quattro rampe di scale e si arrivava al pianerottolo del secondo piano: davanti era la finestra, a destra la porta di quella stanza e a sinistra la nostra entrata.
Tornavamo da un paese a una quindicina di chilometri. Vi avevo frequentato le prime classi delle elementari e vissuto gli ultimi anni di guerra. Durante la Campagna di Tunisia mio padre era là, “militarizzato”: guidava un camion cisterna per i rifornimenti del Regio Esercito Italiano. Era stato qualche tempo a Roma e mia madre ed io eravamo andati a trovarlo prima che traghettasse in Africa: il mio primo viaggio, per molto tempo unico e memorabile. Avevo 4 anni, ma credo di ricordare ancora le lunghe ore in treno, le fermate in stazioni di città mai viste, una lunghissima galleria.
Nelle foto mi sono visto in giro per Roma, mi ricordo in piedi in un ristorante. Da mia madre ho poi sentito che mi avevano complimentato per avere cantato “Lili Marleen” in tedesco: io non lo ricordo. So che la si sentiva cantare alla radio tutti i giorni ma so anche che all’asilo la suora mi dava una caramella da succhiare mentre gli altri cantavano. Dalla Tunisia mio padre scriveva lettere rassicuranti,
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chiudendole con un “vinceremo“: arrivavano aperte, censurate. Erano veline leggere in buste leggere, posta aerea. Restarono rassicuranti ma col passar del tempo sempre più gravi.
Scriveva che sotto bombardamento si metteva in una buca di bomba perché era impossibile che due bombe cadessero nello stesso posto. Scriveva di amici feriti o peggio. Scriveva che doveva ritornare ma non c'erano navi per farlo: il Mediterraneo era dominato dall'aviazione nemica e le navi italiane erano continuamente sotto tiro.
Ma alla fine tornò, indenne e dimagrito..
Dai nonni
Dopo i primi bombardamenti in città siamo sfollati dai nonni paterni. La casa aveva una grande cucina con un grande focolare, la cucina economica, ca§on (madia), credenza , tante sedie, la macchina per cucire, una grande tavola su cui mangiavamo noi cinque, i nonni, tre zie e talvolta altri zii e cugini.
Contro il freddo invernale la stanza veniva ridotta con provvisori tramezzi di legno e veniva posta una pedana nell’angolo dove le zie lavoravano. A ovest della cucina c’era un largo corridoio: varie cose alle pareti, la porta a sud. Nell’angolo nord-ovest, nel sottoscala, c’era il seciaro, una vasca di pietra di grande superficie e piccola profondità sopra la quale erano appesi quattro secchi e la ca§a, il mestolo dalla tazza capace e quasi cilindrica; a destra la scala di legno saliva a camere e granaio; poco prima, a destra, era l’entrata del “tinello”, diventato allora la nostra camera da letto.