UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO since 1806
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Maurizio Carta
RICERCHE MOSTRE FUTURI
2017-18
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Maurizio Carta
RICERCHE MOSTRE FUTURI
2017-18
CREANDO PENSAMUS di Maurizio Carta
L’università moderna considera il territorio un laboratorio aperto e plurale, luogo di sperimentazione sensibile e dialogico, spazio reticolare e molteplice. È il luogo in cui si incrociano molteplici punti di vista e interessi e si confrontano, ibridandosi e arricchendosi, discipline e scale. Per la didattica e la ricerca è il campo necessario della sperimentazione attraverso cui sfuggire alle rischiose aporie che spesso deformano le teorie. L’università, quindi, deve essere sempre più aperta, radicata nel territorio ed embricata con la comunità. Il nuovo ruolo dell’università richiede di integrare in maniera innovativa ed efficace le sue tre missioni: la didattica, la ricerca e i rapporti con il territorio. Una integrazione che non si accontenti dello scambio di occasioni, ma che promuova modalità in cui ricerca, didattica, ingaggio e disseminazione siano totalmente integrate e indistinguibili. Questo consente alla ricerca di alimentare l’innovazione didattica e all’educazione di fornire nuovi spunti alla ricerca, ed entrambe possono arricchire i rapporti con i territorio rafforzando il ruolo delle università come agenzie territoriali di ricerca e sviluppo.
Per le discipline del progetto è un ritorno al Creando Pensamus, pensiamo attraverso il fare, il motto di Patrick Geddes. Per tornare ad esercitare un ruolo propulsivo l’università deve, quindi, riannodare la teoria con la pratica, perché «quelli che s’innamorano della pratica senza la scienza, sono come i nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola, che mai hanno certezza dove si vadano. Sempre la pratica dev’essere edificata sopra la buona teorica», scriveva Leonardo Da Vinci nel Trattato della Pittura, ma – aggiungo io – non vi è teoria solida che non sia eretta sulle solide fondamenta della pratica, per non essere virginali nocchieri che non abbiano mai sentito l’ululare del mare tempestoso. Questo volume racconta tre esperienze in cui didattica, ricerca e trasferimento di conoscenze si sono integrate in maniera totale, producendo tre importanti mostre di ampiezza internazionale e offrendo al territorio altrettanti progetti di futuro per le comunità coinvolte nei progetti: il Belice, Palermo e Detroit, e per esse tutte le città e i territori che vogliano rinascere dalle ceneri utilizzando la forza propulsiva della cultura e della creatività.
Mario Cucinella Maurizio Carta Marco Alesi Alberto Cusumano Cristina Calì Vincenzo Messina Peppe Zummo Stefania Lattuile Barbara Lino Federica Scaffidi
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ARCIPELAGO ITALIA
BIENNALE DI ARCHITETTURA, Venezia, maggio 2018 - novembre 2018
Biennale Internazionale di Architettura 2018
Padiglione Italiano: ARCIPELAGO ITALIA
TEAM SICILIA
CURATORE: Mario Cucinella
Strategie e progetto per l’Arcipelago Belice
STAFF DEL CURATORE: Giulia Floriani, management and sponsorship
Irene Giglio, coordinatore progetto Giuliana Maggio, process development Valentina Porceddu, ricerca e sviluppo Valentina Torrente, ricerca e sviluppo Laura Zevi, ricerca e sviluppo Giovanni Sanna, allestimento Cecilia Perotti, allestimento Yuri Costantini, modelli Andrea Genovesi, modelli Alessia Ravaldi, social media
Università degli Studi di Palermo, Dipartimento di Architettura Responsabile scientifico: Maurizio Carta
Barbara Lino, Daniele Ronsivalle, Annalisa Contato, Carmelo Galati Tardanico, Marilena Orlando, Cosimo Camarda, Jessica Smeralda Oliva, Stefania Piazza, Luca Torrisi
ADVISOR DEL CURATORE: Mario Abis, Antonella Agnoli, Francesca Arcuri, Aldo Bonomi, Maurizio Carta, Luca De Biase, Roberta Franceschinelli, Alex Giordano, Ezio Micelli, Antonio Navarra, Federico Parolotto, Fabio Renzi, Paolo Testa
Ascolto Attivo Stefania Lattuile
Studio AM3 Marco Alesi, Cristina Calì, Alberto Cusumano
con Vincenzo Messina e Peppe Zummo
con la collaborazione di Francesca Mazzola, Alice Franchina, Stefania Miccichè, Liucija Berezanskyt, Carlo Mastrosimone
Urban Reports Hu-Be Emanuele Sferruzza Moszkowicz
ARCIPELAGO ITALIA di Maurizio Carta
Nell'Italia contemporanea non esistono solo i nuovi 14 organismi metropolitani, ma dobbiamo riconoscere l’esistenza – o più spesso facilitare la nascita – degli arcipelaghi territoriali, nuovi modelli insediativi policentrici e reticolari composti da città medie, da villaggi e borghi che, attingendo alla proprie storie locali profonde e alle apparenti marginalizzazioni, sono oggi in grado di offrirsi come sistemi insediativi alternativi all’aggregazione e alla congestione, come cicli di vita più circolari, come importanti hub per la connessione alle necessarie reti globali (attraverso le reti tematiche, per esempio) dei piccoli reticoli urbani e rurali locali, altrimenti esclusi dalla connessione diretta alle reti di maggiori dimensioni. In Italia è in corso una profonda trasformazione degli spazi del vivere e del produrre che coinvolge non solo le
città metropolitane e le grandi conurbazioni urbane, ma anche i territori intermedi e quelli interni. E’ proprio in questi ultimi che si stanno sperimentando alcune delle più interessanti pratiche cooperative innovative, circolari e condivise che sono le scintille di un nuovo motore di cambiamento diffuso. L’Italia è un arcipelago di spazi tenuti insieme dalle identità, animato dalle comunità e trattenuto dalle sue geografie impervie: un arcipelago fluido di connessioni implicite, talvolta privo di un progetto consapevole ma generato da storie locali resistenti nel tempo, capace di produrre una potente visione di futuro. In Italia l’armatura urbana non metropolitana rappresenta più del 50% dei Comuni, in cui vive il 23 % della popolazione, estendendosi per più del 60% della superficie nazionale.
ARCIPELAGO BELICE: LABORATORIO DI FUTURO di Maurizio Carta
Il cinquantenario del terremoto del Belìce – che spostò anche l’accento facendolo scivolare sulla prima vocale – è l’occasione per riprendere un percorso dopo esserci liberati dei falsi idoli dello sviluppo ed esserci disintossicati dei loro effetti allucinogeni. Gli errori del passato ci impongono di ripensare il modello di città e di comunità, perché la ricostruzione delle città del Belìce ha prodotto ricostruzioni in situ e trasferimenti parziali o totali che hanno generato città nuove senza anima e lasciato città fantasma con troppe anime vaganti, tra quartieri antisismici isolati e centri storici diruti desolati. Il terremoto del Belìce nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 causò circa 300 morti e lasciò più di 100.000 persone senza casa, ma soprattutto svelò all’Italia che esisteva la Sicilia interna del sottosviluppo, della fragilità e delle lotte per la vita. Dobbiamo perseguire un cambio radicale di impostazione: più che solo di edifici che resistano ai terremoti abbiamo bisogno di "comunità antisismiche" che resistano agli smottamento quotidiani del degrado, dell'incuria, dell'abbandono, oltre che alle scosse violente di un terremoto. E il Belìce da cinquant’anni è una poderosa sineddoche della Sicilia: della sua fragilità, ma anche della sua
resilienza, della memoria sepolta ma anche della volontà quotidiana. Ricordarne il terremoto vuol dire affrontare questioni di interesse nazionale: l’inefficacia dell’intervento statale muscolare, il ruolo dell’arte pubblica nella costruzione dell’identità e della rinomanza dei luoghi, la forza evocativa delle visioni, le sperimentazioni progettuali non germogliate. Significa parlare di successi e fallimenti, di tensioni ed intenzioni. Ma è con una utopia – fallita, ma pur sempre una utopia – che oggi dobbiamo fare i conti! Cinquanta anni fa l’utopia urbanistica dei piani di ricostruzione dell’Ises, figlia miope delle contemporanee utopie radicali che attraversavano l’Italia e l’Europa, ha scelto di ricostruire altrove i centri urbani maggiormente colpiti, adattando – tradendole – le utopie urbanistiche delle città del Movimento Moderno, simulando città-giardino senza comprenderne anche la sottesa visione politica e sociale, riproducendo in modo sbiadito le topografie iper-urbane delle avanguardie architettoniche. Ma lo spostamento di Gibellina, Poggioreale e Salaparuta e il ridislocamento dei quartieri negli altri centri colpiti dal sisma, ha riguardato solo edifici, strade e piazze.
Danilo Dolci al Congresso sulle condizioni igienico–sanitarie in una zona sottosviluppata della Sicilia occidentale svoltosi dal 27 al 29 aprile 1960 a Palma di Montechiaro (Agrigento).
Arcipelago Belice: laboratorio di futuro
Le consuetudini, invece, le trame ed i tessuti urbani ed umani non sono stati spostati, sono rimasti – testardi – nei luoghi originari, sepolti nel funerario Cretto di Burri, sommersi dalle analisi e dai progetti, assordati dai proclami e dalle promesse, ma certamente ancora vivi ed oggi potenti produttori di identità, fragorosi postulanti di riscatto e pretendenti di futuro. Nella ricostruzione statale del Belìce si riversarono le aspettative di un’intera stagione di intervento pubblico e pianificazione (che nei medesimi anni stava lavorando al Progetto 80), animata dall’idea che solo un’attenta organizzazione del territorio e delle sue forme, della popolazione e delle sue attività, delle risorse e dei loro usi poteva garantire uno sviluppo armonioso e mettere fine al secolare svantaggio del Mezzogiorno che il terremoto aveva rivelato in diretta televisiva a tutto il paese. La soluzione scelta, contro altre proposte democratiche e più efficaci proposte dagli esperti locali, fu un piano di ricostruzione che trasformasse radicalmente la struttura territoriale, economica e sociale dell’intera zona, attuato, da una parte, da un piano comprensoriale di competenza regionale che unificava più paesi e, dall’altra, i piani di trasferimento, di esclusiva competenza ministeriale, per i paesi per i quali si giudicava indispensabile il trasferimento totale o parziale in altra sede. Il coordinamento tra questi due livelli e tra i livelli inferiori sarebbe stato assicurato dal piano di coordinamento territoriale che avrebbe coperto l’intera area del disastro e l’avrebbe inserita in un più vasto programma di
ristrutturazione territoriale e sviluppo economico per la Sicilia occidentale. Il Ministero dei Lavori Pubblici e la Regione Siciliana affidarono la redazione dei piani all’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia Sociale), un istituto – un carrozzone pubblico nei fatti – nato dalle ceneri del GESCAL (Gestione Case per i Lavoratori) che fino a quel momento aveva gestito solo alcuni programmi di edilizia popolare e la ricostruzione del quartiere di Villaseta ad Agrigento a seguito della frana del 1966. L’ISES aprì il cassetto dell’urbanistica moderna per copiarne approcci e linguaggi ma non ne capì il senso utopico e innovativo e si limitò a replicare geometrie senza capirne il senso, a riprodurre linguaggi senza comprenderne il significato. Prese utopie dal design sublime e le trasformò in prodotti prêt-à-porter che non si adattavano al corpo sensibile, fragile, minuto ma seducente delle città e dei paesaggi del Belìce. La vera utopia del Belìce degli anni Sessanta aveva portato amministratori, urbanisti, sociologi, architetti ed economisti ad affrontare le condizioni di povertà, rese poi ancora più drammatiche dalla distruzione tellurica, attraverso nuovi metodi e strumenti di sviluppo sostenibile che avrebbero potuto far rinascere la Sicilia occidentale mortalmente ferita. Già nel 1966 la mobilitazione nei paesi del Belìce fece nascere una ventina di comitati popolari che si ispiravano alle idee di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera, e che avevano come organo di stampa il mensile Pianificazione Siciliana.
Belice 1968
la ricostruzione: le utopie prĂŞt-Ă -porter
Arcipelago Belice: laboratorio di futuro
Dal 5 all’11 marzo 1967 si snoda per 200 Km, da Partanna a Palermo, la marcia “Per la Sicilia occidentale e per un nuovo mondo” promossa da Danilo Dolci per contrastare la Mafia attraverso obiettivi concreti per la vita delle persone: rendere efficaci le dighe esistenti e costruirne di nuove, attuare il rimboschimento, rendere vivibili i villaggi della Riforma Agraria. E ancora, garantire la scuola per tutti e valorizzare il patrimonio culturale, soprattutto l’area archeologica di Selinunte. Un ambizioso programma politico che affrancasse le popolazioni belicine dal bisogno e quindi dalla sottomissione all’apparato politico-mafioso. In questa turbolenza civica amplificata dal dramma del terremoto, si inserisce la visione potente di Ludovico Corrao, e la sua caparbietà politica, per fare di Gibellina Nuova un centro mondiale di sperimentazione di un possibile dittongo città-arte in cui l’arte e l’architettura contemporanee potessero essere il catalizzatore sociale che mancava a quelle mura e strade mal disegnate dall’Ises. Anche quell’utopia, tuttavia, rivelò presto la presunzione che la qualità si potesse importare, ottenendola come solo risultato della volontà politica, del progetto e delle opere d’arte, e non anche come esito di strategie, investimenti, modelli di sviluppo e, soprattutto, dinamiche del lavoro. Danilo Dolci in quei luoghi e in un altro tempo insegnava, invece, che il bene e il bello vanno maieuticamente estratti dalla memoria, dalla vita quotidiana e dalle idee di coloro che abitano i luoghi,
devono essere il frutto di un’operazione di cura di identità latenti e di estrazione di risorse sommerse. Nel maggio del 1958, prima che il Belìce fosse un’emergenza e le condizioni di tutta la Sicilia interna erano il campo di battaglia dei riformisti, Danilo Dolci fondava a Partinico il Centro studi e iniziative per la piena occupazione. L’obiettivo politico è la formazione di élite locali, di quadri dirigenti, attraverso un processo che si sviluppa internamente alla società, facendo emergere e valorizzando le attitudini latenti negli individui. Per Danilo Dolci, militante in una Sicilia che voleva riacquisire responsabilità di futuro, la formazione dei quadri avrebbe avuto una fondamentale funzione di leva per suscitare negli individui una disposizione al comportamento autonomo e per favorire lo sviluppo di forme di auto-organizzazione della società attraverso cooperative o consorzi. E nello stesso tempo, prima che l’azione muscolare – ma anche pericolosamente palliativa dobbiamo dirlo – della ricostruzione prevalesse sulla razionalità e sulla accuratezza, urbanisti, sociologi, economisti e architetti raccolti attorno al Centro Studi e Iniziative di Partinico diretto da Danilo Dolci immaginavano un percorso di sviluppo democratico per le Valli del Belice, del Carboi e dello Jato che desse ai quei territori affranti dal sottosviluppo, e poi devastati dal sisma, un progetto di vita prima che soluzioni tecniche, una speranza di futuro che intercettasse la nascente maieutica territoriale.
Gibellina Nuova
Arcipelago Belice: laboratorio di futuro
Un progetto ambizioso, utopico e pragmatico allo stesso tempo, di una struttura organizzativa decentrata formata da una rete di centri strategici dislocati in vari comuni, in grado di utilizzare la conoscenza accurata dei diversi contesti per assicurare una continuità di dialogo con la popolazione, sia promuovendo iniziative di cooperazione ma anche agendo come elemento di controllo sull’attività dei diversi enti locali. Il Piano di sviluppo democratico per le Valli del Belice, del Carboi e dello Jato”, pubblicato su Urbanistica, n. 56 (marzo 1970) fu il punto di arrivo del Congresso sulle condizioni igienico–sanitarie in una zona sottosviluppata della Sicilia occidentale svoltosi dal 27 al 29 aprile 1960 a Palma di Montechiaro (Agrigento): «un convegno degli uomini del popolo, dei piccoli, dei poveri che guardano se stessi, e parlano e imparano a conoscersi, e ci insegnano a conoscerli». Il piano di sviluppo democratico, guidato dalla forza e dalla visione di Danilo Dolci, fu redatto con la passione e l’amore per quei luoghi e per quelle genti da mio padre, Giuseppe Carta, come sintesi di un lavoro
corale delle «migliaia di persone che sono state ascoltate, consultate: dagli analfabeti – che pur hanno fondata esperienza della loro terra – ai colti, ai tecnici, agli esperti». Quello per mio padre fu un lavoro affrontato con l’amore per la terra in cui era appena nato suo figlio e a breve sarebbe nata sua figlia. Un lavoro – ancora oggi denso di indicazioni per il futuro – figlio della razionalità dell’urbanista e dell’emotività del padre. Niente a che vedere con l’azione fredda e eterodiretta dei piani statali di ricostruzione, il cui esito fu tenere quei territori nell’anestetica attesa di una utopia che non si realizzava per mancanza di energia interna che la potesse vivificare. E’ la prima proposta di “città-territorio” – con l’eco evidente della città-regione di Patrick Geddes – fondata su una responsabilità degli individui verso una rinnovata produttività agricola connessa ad un sistema reticolare dell’abitare rur-urbano retto da un asse attrezzato che connettesse i porti e gli aeroporti, anche nuovi. Una visione di futuro che fu sepolta anch’essa sotto le macerie del sisma e sopraffatta da consueti egoismi.
Gibellina Nuova
le utopie radicali degli anni Sessanta e Settanta: flessibilitĂ , partecipazione, adattamento
Giuseppe Carta presenta il Piano di sviluppo democratico delle valli del Belice, del Carboi e dello Jato.
Belice 1968
ritornare all’utopia della città -territorio
Belice 2018
criticitĂ e opportunitĂ
ARCIPELAGO BELICE: LA VISIONE di Maurizio Carta
A cinquant’anni dal terremoto, da utopia modernista della città funzionalista e da eresia artistica resistente alla città iper-competitiva che hanno prodotto “contenitori” oggi in gran parte dismessi, il Belice può diventare avanguardia della qualità insediativa, della diversità culturale, della sostenibilità ambientale e dell’innovazione sociale: dimostrazione empirica che si può ancora immaginare un diverso futuro possibile, come invocava Danilo Dolci, pioniere di una visione olistica dello sviluppo locale, frutto di sapienze antiche e rinnovate etiche. Per rilanciare il Belice come arcipelago di un diverso futuro, le strategie da mettere in atto partono dalla riattivazione dei potenziali latenti o esclusi dalle scelte di un modello di sviluppo per la ricostruzione drogato da politiche territoriali inefficienti e omologanti. Arcipelago Belice significa ripensare i rapporti con la dimensione rurale che è ancora oggi un ciclo vitale del territorio e che può essere messo alla base di un diverso modello di sviluppo, se rafforzato attraverso una nuova alleanza tra creatività e produttività, tra urbanità e ruralità. La strategia generale mira a trasformare le numerose isole di eccellenza dell’armatura territoriale del Belice (la produzione agricola di eccellenza, i centri
storici ancora vitali, il patrimonio architettonico di qualità) in un arcipelago culturale e creativo, in cui le connessioni contino quanto i nodi, in cui i paesaggi relazionali e di contesto siano i luoghi di commutazione tra identità e innovazione, tra patrimonio e creatività, tra residenza e produzione. La geografia dell’arcipelago ci impone di definire non solo le funzioni dei luoghi con la più elevata qualità e resilienza, ma anche i ruoli degli spazi connettivi detentori di risorse potenti: agroalimentare, paesaggio culturale, formazione specializzata, energia da fonti rinnovabili, spazi condivisi. Il potenziamento delle relazioni rur-urbane del Belice passa attraverso strategie reticolari delle forme insediative, capaci di abilitare differenti cicli insediativi e produttivi, utilizzando infrastrutture e luoghi dell’architettura in obsolescenza per occasioni di socialità e come nuovi attivatori urbani. In questo modo la forma insediativa dell’arcipelago si arricchisce di nodi che hanno il necessario legame con le tradizionali geografie del lavoro dell’entroterra siciliano, permettono di produrre nuovi cicli semantici sulle aree in trasformazione e in dismissione capaci di indirizzare il mutamento.
Belice 2018
criticitĂ e opportunitĂ
Belice 2018
criticitĂ e opportunitĂ
Belice 2018
criticitĂ e opportunitĂ
Belice 2018
criticitĂ e opportunitĂ
Mario Cucinella, Maurizio Carta, il Team Sicilia e Hu-Be al Teatro di Consagra durante l’evento di partecipazione per la redazione del progetto strategico.
RIPARTIRE DALLA CITTÀ-TERRITORIO di Maurizio Carta
Per progettare il futuro del Belìce il Team Sicilia del Padiglione Italia è partito dalle radici profonde di questa terra che fin dagli anni Sessanta è stata luogo di sperimentazione. Qui Danilo Dolci e altri visionari combatterono per sconfiggere mafia, fame, sete dei campi e ignoranza, immaginando una città-territorio fondata sull’agricoltura di qualità connessa all’abitare rur-urbano e connessa alle infrastrutture. Una potente visione di futuro, anch’essa sepolta sotto le macerie del sisma del gennaio 1968 e sopraffatta dalla distopia urbanistica della ricostruzione, figlia miope delle utopie radicali che attraversavano Italia ed Europa, che ha scelto di ricostruire altrove i centri maggiormente colpiti, tradendo il piano per lo sviluppo democratico delle valli del Belice, Carboi e Jato, simulando città-giardino senza comprenderne la sottesa visione sociale. Noi siamo ripartiti da quelle battaglie, con un lavoro corale e intenso, guidato da Mario Cucinella e condiviso con la comunità, per ridare a questo territorio resiliente un progetto di futuro che integri l’agricoltura di qualità, l’arte e l’architettura contemporanee, gli incubatori
digitali, i castelli e borghi medievali, i sistemi museali diffusi, i paesaggi viticoli e le cantine. Il Belìce città-territorio che abbiamo proposto è un arcipelago per 80.000 abitanti, scalabili a dimensioni sempre più estese nello sviluppo del programma. Una visione policentrica e reticolare composta da 3 strategie (agricoltura e innovazione d’impresa, borghi e turismo rurale, patrimonio e creatività) che ibridino in maniera fluida le diverse vocazioni e potenzialità, individuando per ognuna gli epicentri e i sistemi complementari. Una strategia che si fa progetto attraverso il riciclo creativo del Teatro di Consagra come laboratorio territoriale che ibridi agricoltura, formazione, arte e comunità. Un dispositivo vivo e aperto che genera paesaggio e rigenera la comunità. Per non ripetere gli errori del passato, la strategia proposta è incrementale e adattiva e non si attua con un programma funzionale precompilato, ma si arricchisce della partecipazione con il territorio, si adatta agli usi, e soprattutto cresce con una comunità che si sviluppa insieme all’arcipelago rur-urbano del Belìce.
Il Grande Cretto di Alberto Burri sulle rovine di Gibellina (foto di Urban Reports)
Le tre strategie territoriali per i comuni del Belice redatte dal Dipartimento di Architettura di Unipa e approfondite dal Team Sicilia per il Padiglione Italia.
Il Teatro di Consagra a Gibellina Nuova (foto di Urban Reports).
Belice 2028
3 strategie policentriche e scalabili
BElì28 ARCIPELAGO BELICE PIANO STRATEGICO DEMOCRATICO PER LO SVILUPPO DEL BELICE
committente
GAL Belice, Comuni del Belice progetto Università di Palermo, Dipartimento di Architettura anno 2017-18 popolazione 78.000 abitanti
Belice 2028
Strategia integrata per la produzione agricola e l’innovazione d’impresa
Belice 2028
Strategia integrata per il turismo rurale e la valorizzazione dei borghi
Belice 2028
Strategia integrata per il patrimonio culturale e la creativitĂ
Mario Cucinella e il Team Sicilia al lavoro durante l’evento di partecipazione a Gibellina Nuova.
Mario Cucinella e il Team Sicilia al lavoro durante l’evento di partecipazione a Gibellina Nuova.
Con Lorenzo Barbera, il Team Sicilia e Valentina Torrente e Irene Giglio dello Studio MCA al lavoro durante l’evento di partecipazione a Gibellina Nuova.
Il Teatro di Consagra a Gibellina Nuova.
La montagna di sale di Mimmo Paladino a Gibellina Nuova.
Il Museo delle Trame Mediterranee a Gibellina Nuova.
Il Museo delle Trame Mediterranee a Gibellina Nuova.
Mario Cucinella, Lorenzo Barbera e il Team Sicilia al Teatro di Consagra durante l’evento di partecipazione per la redazione del progetto strategico.
Mappa concettuale del racconto della storia, del diverso presente e del futuro dell’arcipelago Belice (Unipa).
Dati e misure dell’arcipelago Belice e programma funzionale del laboratorio territoriale a Gibellina (Studio AM3 con Unipa)
UN PROGETTO OPEN SOURCE di Maurizio Carta
Il progetto di rigenerazione del Teatro di Consagra è stato elaborato dallo studio AM3 (Marco Alesi, Cristina Calì, Alberto Cusumano) con Vincenzo Messina e Peppe Zummo come un dispositivo ibrido delle sue componenti rurali e urbane e delle relazioni lunghe e corte, indispensabile per riattivare Gibellina come epicentro della strategia rur-urbana: un “Laboratorio Territoriale”, struttura innovativa proposta dal MIUR per fare della formazione-ricerca-azione una parte integrante del processo di sviluppo. Le attività di formazione e ricerca del Laboratorio trovano spazio all'interno del Teatro, mentre il parco diventa un mosaico di campi a servizio delle sperimentazioni agrarie. In particolare, il Teatro viene interpretato nella sua natura scultorea e viene riabitato da un nuovo edificio che, come un paguro in una conchiglia, si innesta sulla sua griglia strutturale, ma ne occupa solo parzialmente il volume. Un luogo ibrido che connette funzioni didattiche e sperimentali dedicate all’agricoltura, una interfaccia architettonica tra il potente paesaggio agricolo che entra a Gibellina e il minuto reticolo vegetale che rinaturalizza una città che torna giardino. L'edificio, quindi, genera uno spazio pubblico nuovo, aperto a una pluralità di usi
che potranno essere definiti anche nel corso del tempo. Il parco, invece, rappresenta una natura che torna ad essere attrice della città donandole densità vegetale, riconnettendo trasversalmente le due aree dell'abitato e facendo tornare in primo piano i viali e cortili vegetali tra le abitazioni. L’intero progetto, alla scala dell’edificio, a quella urbana e a quella territoriale, è un free space incrementale e adattivo che non si conclude con un programma funzionale precompilato, ma che si arricchisce della relazione open source con i diversi fruitori, che si adatta agli usi e soprattutto cresce con una comunità che si consolida e si sviluppa a partire dalla strategia dell’arcipelago rur-urbano del Belìce. Non più progetti incompiuti e innestati in tessuti senza adeguati anticorpi, ma l’azione generativa della buona architettura in grado di farsi catalizzatore sociale. Mai più deportazioni, trasferimenti, baraccopoli, ma l'esercizio della buona urbanistica e architettura capaci di ricomporre i tessuti comunitari insieme a quelli lapidei, in grado di suturare le fratture sociali insieme alle crepe nei muri, abile nel riattivare i cicli di vita dopo la tragedia per far ripartire le comunità.
Workshop a Bologna per la redazione dei progetti strategici.
Schema funzionale del progetto per il Rural-Hub dentro il Teatro di Consagra a Gibellina Nuova (progetto di Studio AM3 con Vincenzo Messina e Peppe Zummo).
Workshop a Bologna per la redazione dei progetti strategici.
Massimo Alvisi ad uno dei workshop a Bologna per la redazione dei progetti strategici.
Mario Cucinella con i cinque Team per la redazione dei progetti strategici.
Il tavolo del progetto strategico per il Belice e Gibellina Nuova realizzato per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia.
Il modello del progetto per il Teatro di Consagra a Gibellina Nuova esposto al Padiglione Italia della Biennale di Venezia.
Rendering del progetto per il Teatro di Consagra a Gibellina Nuova (Studio AM3).
Rendering del progetto per il Teatro di Consagra a Gibellina Nuova (Studio AM3).
Rendering del progetto per il Teatro di Consagra a Gibellina Nuova (Studio AM3).
Maurizio Carta Barbara Lino Daniele Ronsivalle Annalisa Contato Carmelo Galati Tardanico Federica Scaffidi Luca Torrisi Cosimo Camarda
AUGMENTED PALERMO MANIFESTA 12 STUDIOS, Palermo, giugno 2018 - novembre 2018
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UniversitĂ degli Studi di Palermo PALERMOLAB/DARCH: 5 Labs for augmenting Palermo CreativeCity Lab, Augmented Palermo Docente: Maurizio Carta
Tutors: Barbara Lino, Daniele Ronsivalle, Annalisa Contato, Carmelo Galati Tardanico
Assistenti: Jessica Smeralda Oliva, Federica ScaďŹƒdi, Luca Torrisi, Cosimo Camarda
Advanced Scholars: Elena Agliata, Vittoria Attardi, Rebecca Billi, Federica Bonello, Federica Bono, Emanuela Cammarata, Sonia Di Prima, Sara Ebreo, Gaetano Giordano, Silvia Macaluso, Francesca Marchese, Marina Pozzan, Luca Sancilles, Dalila Sicomo, Federico Urso.
Studenti del Laboratorio di Urbanistica 2
MANIFESTA 12 STUDIOS
Manifesta 12 Studios è un progetto di Ippolito Pestellini Laparelli, Creative Mediator di Manifesta 12 e partner di OMA, che mette insieme in un’unica piattaforma quattro rinomati centri di ricerca di architettura: • Università degli Studi di Palermo, Italia, Scuola Politecnica, Dipartimento di Architettura: Maurizio Carta, Alessandra Badami, Renzo Lecardane, Marco Picone, Filippo Schilleci, Zeila Tesoriere • The Architectural Association School of Architecture di Londra, UK: Giulia Foscari, Harikleia Karamali, Giacomo Ardesio • Delft University of Technology, Olanda: Paul Cournet, Ippolito Pestellini Laparelli, Giulio Margheri, Mariapaola Michelotto. • The Royal College of Art, Londra, UK: Anna Puigjaner, Ippolito Pestellini Laparelli, Marina Otero Verzier.
Lungo l’arco di due semestri, i quattro laboratori internazionali hanno investigato, studiato e delineato scenari futuri per la città di Palermo. Concepito come un progetto di ricerca a lungo termine e sviluppo progettuale all’interno di Manifesta 12, e liberamente ispirato al Palermo Atlas realizzato da OMA, i quattro studi coinvolti hanno lavorato a stretto contatto con esperti del territorio, attivisti, accademici e cittadini affrontando diversi temi: Palermo come centro di produzione culturale e il suo rapporto con Manifesta come evento temporaneo e come istituzione; natura e “giardinaggio” come possibili piattaforme per formulare nuove dimensioni di coesistenza e pratiche urbane; domestic institutions come modelli alternativi di partecipazione politica e rappresentanza civica; il ruolo del digitale nel processo di pianificazione di città resilienti. Gli esiti dei progetti condotti dagli studi sono esposti in una mostra collettiva nel novecentesco ex Mulino di Sant’Antonino – una delle principali sedi di UNIPA – e, durante i mesi di Manifesta, attiveranno una serie di performance e azioni in città.
La “Scuola di Palermo�, foto dei componenti del Palermo Lab al Teatro Libero Grassi nella Costa Sud di Palermo.
HYPER-CITY STUDIO: PALERMO LAB di Maurizio Carta
Nell’ambito dei Manifesta 12 Studios, il contributo del Dipartimento di Architettura di Unipa si svolge nell’ambito dell’accordo quadro siglato dal Magnifico Rettore, Prof. Fabrizio Micari, e si sostanzia attraverso il PalermoLab, un collettivo di laboratori progettuali che agisce come una agenzia di didattica-ricercaprogettazione per produrre soluzioni innovative. Palermo è affrontata come una hyper-city, città di città, arcipelago di spazi e comunità multiple e plurali che richiedono un approccio transcalare per re-immaginare spazi pubblici, architetture, infrastrutture e paesaggi per i tempi che cambiano. La mostra rivela una Palermo del diverso presente raccontando storie di luoghi e persone, ibridando punti di vista e metodologie e proponendo progetti, politiche ed azioni concrete sullo spazio urbano. Creatività, energia, innovazione, resilienza e partecipazione sono risorse e potenza per progettare una città fondate sulla cultura, sulla creatività, sulla cooperazione, sul ritorno della natura e della manifattura. Palermo è progettata come città aumentata, dispositivo abilitante e generativo, attraverso alcune aree progetto disposte lungo due dorsali: il Waterfront e la
Circonvallazione, proponendo nuove funzioni ecologiche, culturali, sociali e produttive per gli spazi in transizione, attorno ai seguenti temi: spazi temporanei, riciclo e riuso, community hub, interculturalità dello spazio pubblico, fabcity, epicentri creativi, efficientamento energetico, natura urbana, infrastrutture verdi e blu, pianificazione partecipata, la città del mercato. Gli studenti dei laboratori coinvolti hanno elaborato più di venti progetti, tutti realizzabili che, oltre a dare risposte alle esigenze dei luoghi presi in esame, coinvolgono direttamente le comunità nella loro realizzazione e soprattutto nella loro cura. L’obiettivo didattico e sperimentale è ridisegnare la città, ricomponendo conflitti, tra centro e periferie, tra città e mare, tra sotterraneo ed aereo, tra natura e artificio, tra architettura e infrastruttura, tra spazio e società. Sarà l’occasione per produrre effetti creativi di rigenerazione urbana e umana attorno ai luoghi interessati dagli eventi della Biennale, e per completare il processo già avviato a Palermo di restituzione dello spazio urbano ai cittadini attraverso la creatività e il rigore del progetto.
RESEARCH STUDIOS
Augmented Palermo
Ingresso della mostra Manifesta 12 Studios all’ex Mulino di Sant’Antonino dell’Università di Palermo (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
AUGMENTED PALERMO IS SENTIENT
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Maurizio Carta, coordinatore del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Augmented Palermo� del Palermo Lab di Unipa (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
Manifesta 12 Studios, sezione “Radical Gardening� di TU Delft (foto di Santo Eduardo Di Miceli).
CREATIVE CITY LAB: AUGMENTED PALERMO di Maurizio Carta
Tutta la mostra è basata sull’interattività, con il visitatore che è stimolato a interagire con i progetti, a portarne via alcune parti, ad avere un approccio sensoriale ed emozionale con le proposte in modo che diventino proposte corali e come tali possano essere portate avanti come esito di una comunità, nello spirito di Manifesta 12. Il cambiamento ambientale e il ripensamento dei modelli di sviluppo chiedono di progettare le città come risorse generative per riattivare i meccanismi vitali per entrare nel Neoantropocene. Palermo è pensata e progettata come una città aumentata, un dispositivo abilitante e generativo di spazi e comunità disposti lungo il waterfront, che propone nuove funzioni ecologiche, culturali, sociali e produttive
per le aree di transizione. Le 12 aree sono basate su progetti per spazi di riciclo, centri di comunità, luoghi interculturali, epicentri creativi, insediamenti a zero emissioni, infrastrutture blu e verdi, rigenerazione degli spazi interstiziali come spazi pubblici, valorizzazione del patrimonio culturale, riattivazione delle borgate marinare, riparazione e restituzione alla collettività dei luoghi in attesa. La mostra racconta storie di luoghi e persone, ibridando punti di vista e metodologie e proponendo progetti, politiche e azioni concrete sullo spazio urbano a bassa intensità finanziaria, ad alto impatto sociale e attuabili con strategie incrementali e adattive.
Manifesta 12 Studios
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Ogni progetto è accompagnato da un dispositivo con cui il visitatore può interagire per comprendere il livello di compartecipazione della comunità alla rigenerazione urbana.
Manifesta 12 Studios
L’opera “Icons” di Domenico Pellegrino dedicata al centro storico di Palermo e le scatole sonore dedicate ai suoni identitari dei quattro mandamenti di Palermo con le foto dei Quattro Canti di Francesco Ferla.
Manifesta 12 Studios
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Visita e discussione con l’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Palermo.
Visita e discussione con l’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Palermo.
I 12 libri della collana Augmented Palermo (Unipa University Press).
Andrea Bartoli Maurizio Carta Vittorio Bongiorno
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DETROIT SYNDROME FARM CULTURAL PARK, Favara, giugno 2018 - giugno 2019
Farm Cultural Park, Favara DETROIT SYNDROME A cura di
Andrea Bartoli Vittorio Bongiorno Maurizio Carta con
Florinda Saieva
Marco Claude
Francesca Berardi
Arianna Arcara e Luca Santese
“IT’S TIME. TIME TO THINK BIG”: FUTUREDESIGN DETROIT di Maurizio Carta
Sono convinto che siamo di fronte ad una grande metamorfosi urbana e alla nascita delle prime forme di una urbanistica re-ciclica, basata sul riciclo di aree, infrastrutture, paesaggio e su una post-obsolescenza programmata che ponga le condizioni per il loro riutilizzo continuo. Nel passaggio dal Paleoantropocene, erosivo e consumatore di risorse, opportunità e talenti, al Neoantropocene generativo e sensibile ai valori e alle identità, serve un nuovo approccio urbanistico che sappia rispondere alla metamorfosi del tradizionale modello di città basate sulla densità, sulla centralità e sull’identità della forma urbana verso forme dell’abitare e del lavorare in ambienti più suburbani che urbani, più vegetali che lapidei, più reticolari che confinati, più produttivi che consumatori. Ed è Detroit la prima città del Neoantropocene, il prototipo della città che crolla e rinasce dalle sue ceneri, anzi che “ricicla le sue ceneri”. Dopo essere stata la capitale dell’industria automobilistica, negli anni Trenta era la città con il più alto tasso di crescita al mondo, a partire dalla fine degli anni Ottanta inizia un inesorabile declino, diventando l’emblema delle città in contrazione (shrinking cities). Teatri sontuosi che gareggiavano con il
mondo della lirica abbandonati e trasformati in parcheggi per garantirne la manutenzione (come si vede in una delle scene dello splendido film Only Lovers Left Alive di Jim Jarmush del 2013 ambientato in una lugubre Detroit), il patrimonio artistico dei musei in vendita per pagare i debiti, case costruite con vorace fame di alloggi disabitate da inquilini che fuggono lasciando ancora il caffè a bollire per sottrarsi all’ufficiale giudiziario che pretende il pagamento di un affitto impossibile da pagare, e poi scuole senza più alunni che diventano rifugi per le gang e migliaia di officine, negozi e chiese abbandonate come se la città fosse stata attraversata da un tornado (come mostra con struggente realtà il film Detropia di Heidi Ewing e Rachel Grady del 2012). E ancora strade su cui correvano macchine sempre più potenti lasciate in balia della natura che si riprende l’asfalto, recinti che delimitano le aree di influenza di una criminalità che imperversa (ricordate le scene iniziali di Robocop di Paul Verhoeven del 1987? Sono un concentrato dell’immaginario negativo che Detroit incarnava) e la violenza si fa musica quotidiana di quella che era stata la capitale del rock e della techno.
Immagine della locandina del film “Detropia� di Heidi Ewing e Rachel Grady (2012).
“Detroit Disassembled” di Andrew Moore (2010).
“Detroit Disassembled” di Andrew Moore (2010).
“It’s time. Time to think big”: Futuredesign Detroit
All’alba del XXI secolo Detroit è una città che si contrae sempre di più – sorella maggiore di Milwaukee, Cleveland, Youngstown, St. Louis, Pittsburgh e Flint, le città della “cintura della ruggine” (Rust Belt) che morde e oscura il sogno americano. Una città che si ritrae spaventata entro i confini della sua 8 Mile Road come racconta a ritmo del rap di Eminem il film di Curtis Hanson del 2002. Una città che sembrava destinata alla scomparsa, profezia realizzata del monito di Jane Jacobs del 1961 sulla crisi del dogma dell’urbanistica modernista. Una lenta agonia che sembrava non arrestarsi, fino a quando la stessa comunità non comprende lo straordinario valore creativo del riciclo di quella straordinaria qualità di patrimonio urbano in disuso o in abbandono, capace di rinascere dopo la sua obsolescenza per trasformarsi in boschi, frutteti, fattorie urbane, stagni e laghi artificiali, ridisegnando completamente la fisionomia della città, senza costringere gli ultimi residenti a spostarsi, ma riattivando i meccanismi di localizzazione. Quella che era una “zona di guerra in piena America”, la città emblema della crisi dell’antropocene diventa la prima città della nuova era, un esperimento sociale di rigenerazione, non senza difficoltà, conflitti e contraddizioni. L’entusiasmo dei pionieri che tornano a colonizzare Detroit si scontra con la rabbia dei vecchi abitanti, riflettendo le fragilità di un’intera nazione di fronte all’aumento delle disuguaglianze sociali e al declino del settore industriale, come racconta Benjamin Markovits nel suo romanzo
Esperimento americano, dedicato alla gentrificazione di Detroit, specchio di un paese dove anche l’iniziativa più utopica, votata a «un’idea filosofica della felicità», può celare gli interessi del grande capitale. Mentre la città riallineava servizi e infrastrutture alle mutate e contratte domande della popolazione locale, ricucendo periferie desolate e riattivando luoghi abbandonati, uno Scientific Board ha elaborato un piano strategico, coinvolgendo urbanisti, paesaggisti, ingegneri, economisti e sociologi insieme agli abitanti con un investimento di quasi 4 milioni di dollari. Il prodotto è stato alla fine del 2012 l’elaborazione del documento Detroit Future City che persegue una missione articolata in alcuni impegni: a) la ri-energizzazione dell’economia della città per aumentare le opportunità di lavoro e rafforzare la base imponibile e per attrarre nuovi residenti; b) l’utilizzo di approcci innovativi per trasformare i suoli inutilizzati in forme che aumentino il valore e la produttività promuovendo la sostenibilità a lungo termine e il miglioramento della salute dei cittadini; c) la promozione di una gamma diversificata di densità residenziali sostenibili, dimensionando anche le reti per una popolazione più piccola, che li renda più efficienti, più accessibili e con migliori prestazioni; d) la promozione di un sistema gestionale per tutte le zone della città adottando l’equilibrio tra strategie a breve e lungo termine, anche attraverso adeguate forme di collaborazione regionale.
“Detroit Disassembled” di Andrew Moore (2010).
Uno dei living lab della Detroit Urban Farmers Initiative.
“It’s time. Time to think big”: Futuredesign Detroit
Un quarto di Detroit, in gran parte in disuso o in abbandono, entro cinque anni verrà trasformato in boschi, frutteti, fattorie urbane, stagni e laghi artificiali, ridisegnando completamente la fisionomia della città, senza costringere gli ultimi residenti a spostarsi, ma riattivando nuovi meccanismi di localizzazione. Detroit Future City è un approccio globale orientato a guidare il processo decisionale per rimettere i beni pubblici al centro di una urbanistica più coordinata, strategica e produttiva. Detroit Future City è quindi un grande propulsore di impegno civico verso la realizzazione delle aspirazioni di una intera città: un obiettivo ambizioso ma raggiungibile. Il motto ricorrente della nuova Detroit è “It’s time. Time to think big”. E’ una città dove molte idee audaci sono diventate reali e vuole di nuovo dare l’esempio al mondo ancora una volta attraverso un paradigma urbanistico in grado di reimmaginare Detroit ri-attivando i suoi punti di forza. Affrontando e sconfiggendo paure e contraddizioni, temperando la gentrificazione e riattivando la comunità locale, in pochi anni Detroit diventa Unesco Creative City of Design, nel 2015, ed una delle capitali mondiali dell’agricoltura urbana (i Detroit’s Urban Farmers oggi sono un movimento ampio e potente). E’ oggi uno dei luoghi più vibranti di sperimentazione dell’architettura basata
sul riuso, dell’arte come catalizzatore sociale e dell’urbanistica partecipata. Ed è tornato un epicentro della nuova scena musicale funk e R&B con la rinascita del famoso gruppo Parliament-Funkadelic. Ha persino ritrovato l’orgoglio produttivo, come raccontano efficacemente gli spot della Chrysler trasmessi durante il Super Bowl del 2011 e del 2012 (il primo affidato alla voce narrante di Eminem, e il secondo a Clint Eastwood). Una parabola esemplare per comprendere direzione e azione delle città del Neoantropocene, una lezione importante – applicata da numerose altre città americane ed europee – per capire in che modo progettare le città delle transizione riciclando le risorse in disuso e pianificando il loro riuso dopo l’obsolescenza. Detroit ci insegna, quindi, che progettare una città che ricicla i suoi spazi in obsolescenza significa soprattutto abbandonare la tradizionale logica espansiva per adottare una nuova intelligenza urbanistica capace di generare una città più sostenibile, più responsabile ma anche più creativa. Una “città aumentata” in grado di ripensare modelli di comunità urbana per reinventare le forme dell’insediamento, a partire dalla ri-attivazione dei capitali urbani in dismissione, in mutamento, in crisi e dei capitali umani in fermento creativo e desiderosi di riappropriarsi del loro futuro.
Eminem.
The Parliament Funkadelic.
“The Ziggurat” di Scott Hocking (2007).
“It’s time. Time to think big”: Futuredesign Detroit
Detroit ci insegna a ripensare e progettare una città intelligente, sensibile al contesto e resiliente al cambiamento, che ridisegni il modo con cui ci muoviamo, che ritessa rapporti creativi con l’ambiente e il paesaggio e che alimenti nuove culture insediative urbane, in grado di riattivare gli organi vitali della città e i suoi cicli di vita, ma anche di reagire tempestivamente agli scenari di declino. Il Futuredesign delle città aumentate del diverso presente per il futuro che vogliamo, dovrà agire entro un nuovo urbanesimo che operi, non più come un set lineare di istruzioni fondiarie alimentate dal consumo di suolo e
dalla rendita, ma come un sistema vivente, che evolve con le persone, che si sviluppa circolarmente non producendo rifiuti, che si reinventa e si rinvigorisce attraverso la metamorfosi. Il Futuredesign richiede un urbanesimo capace di essere nuova guida sapiente dei processi insediativi attraverso l’integrazione con la sostenibilità ecologica, con la gestione dell’uso dei suoli, con l’efficienza energetica, con la progettazione di nuove forme dell’abitare, senza sottrarsi dalla produzione di valore, ma anzi accettando la sfida di tornare a produrre valori, materiali e immateriali.
Il flagship store della Shinola, il simbolo della rinascita produttiva della cittĂ .
La console per il DJ del O.N.E. Mile project.
Le strategie incrementali e adattive del O.N.E. Mile project.
“Demotown” di Jesse Honsa & Gregory Mahoney (2011).
L’ingresso della mostra “Detroit Syndrome” a Farm Cultural Park a Favara.
Mary Ellen Countryman, Console Generale degli Stati Uniti a Napoli, visita con Andrea Bartoli la Mostra “Detroit Syndrome� a Farm Cultural Park a Favara.
I curatori della Mostra “Detroit Syndrome� a Farm Cultural Park a Favara.
Consigli di lettura per la mostra: “Reimagining Urbanism� di Maurizio Carta (2013)
Consigli di lettura per la mostra: “Detour in Detroit� di Francesca Berardi (2015)
Consigli di lettura per la mostra: “City Blues� di Vittorio Bongiorno (2016)
Le parole chiave della mostra tra criticitĂ e opportunitĂ .
Il Console Generale degli Stati Uniti visita con Geoff George la Mostra “Detroit Syndrome� a Farm Cultural Park a Favara.
Una delle shared house di Farm.
Il racconto dell’iniziativa di Veronika Scott dedicata ad un abito-sacco a pelo per gli homeless.
Il Console Generale degli Stati Uniti a Napoli visita la mostra con Francesca Berardi.
The Heidelberg Project per la rinascita di Detroit alimentata dall’arte.
Tyre Guyton, uno dei protagonisti del Heidelberg Project per la rinascita di Detroit.
Geoff George, Vittorio Bongiorno e Maurizio Carta.
Geoff George e Vittorio Bongiorno.
Maurizio Carta, Andrea Bartoli, Mary Ellen Countryman e Florinda Saieva.
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Le mostre sono state promosse da
Maurizio Carta
RICERCHE MOSTRE FUTURI 2017-18
Le ricerche sono state finanziate da
Contributo alla mostra “Augmented Palermo� di
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO since 1806