Microeconomia 7/ed - Capitolo 14 - I mercati dei fattori

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I mercati dei fattori

Obiettivi di apprendimento 1. costruire la curva di domanda di lavoro e di capitale per un’impresa e per l’intero mercato; 2. determinare la curva di offerta di lavoro individuale; 3. conoscere alcune problematiche particolari inerenti al mercato del lavoro, quali le leggi sul minimo salariale, e il ruolo dei sindacati; 4. calcolare il valore attuale netto di un flusso di profitti futuri; 5. capire in che modo le risorse naturali non rinnovabili siano allocate in un mercato competitivo.

Nel momento in cui si stava scrivendo questo libro, Mariano Rajoy, Primo Ministro spagnolo, guadagnava circa €78 000 l’anno. Questa cifra è quasi il quadruplo della retribuzione media in Spagna, ma è abbastanza semplice intuire che la responsabilità di guidare un Paese meriti un compenso ragionevole. Rahoy, tuttavia, è ben lontano dall'essere la persona più pagata di Spagna. Infatti, l’attaccante del Real Madrid Christiano Ronaldo può vantare guadagni che sfiorano gli €18,2 milioni, ma la star del Barcellona Leonel Messi, con i suoi €20,8 milioni, fa ancora meglio. Anche il fan più sfegatato del mondo avrebbe qualche difficoltà a giustificare il motivo per cui un calciatore guadagna 250 volte di più di un Primo Ministro o di uno dei migliori chirurghi. Quindi, perché Ronaldo e Messi vengono pagati così tanto? In molti sarebbero disposti a svolgere il loro lavoro per una cifra inferiore. In effetti, essi stessi preferirebbero esibirsi negli stadi di tutto il mondo in cambio di una paga di sussistenza, invece di lavorare tutta la vita nell’anonimato in qualche azienda del settore privato. L’alta remunerazione che ricevono è però legata a due importanti fattori: (1) sono in grado di fare cose di valore che il resto di noi non è in grado di realizzare; e (2) c’è più di un datore di lavoro che può offrire loro un posto sotto i riflettori. Notate che solo il primo di questi fattori è valido per diverse posizioni di alto profilo. Se volete essere Primo Ministro di Spagna o capo della Banca Centrale Europea, infatti, c’è un solo datore di lavoro per cui potete lavorare. Se invece desiderate diventare calciatori professionisti, diverse squadre possono avanzare un’offerta per procurarsi i vostri servizi. Nel caso di Ronaldo, se il Real Madrid non gli assicurasse uno stipendio così alto, altre squadre sarebbero felici di farlo. Il Real Madrid sa che potrebbe ingaggiare noi a una cifra molto più bassa di quella di Ronaldo. Ma è abbastanza intelligente da capire che, anche gratis, noi saremmo un cattivo affare.

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Parte 3

14.1  Presentazione del capitolo Il nostro obiettivo in questo capitolo è quello di esaminare le forze economiche che regolano i salari e le altre condizioni dell’occupazione, nonché il mercato dei servizi del capitale. Alcuni modelli relativamente semplici, come vedremo, fanno luce su diverse questioni importanti; per esempio: quanto guadagnerà un lavoratore con determinate competenze? Perché le condizioni di lavoro variano da un’occupazione all’altra? Qual è il ruolo dei sindacati? E così via. Inizieremo costruendo la curva di domanda di lavoro sia nel breve sia nel lungo periodo. Affronteremo quindi il lato dell’offerta del mercato del lavoro dal punto di vista di un lavoratore che deve decidere quanto lavorare per un dato livello salariale. Tratteremo poi la questione delle compensazioni dei differenziali salariali, cioè delle remunerazioni che riflettono le differenze negli ambienti in cui lavorano gli individui. Come vedremo, il risultato in generale sarà che l’attrattiva dell’insieme del pacchetto remunerativo (che comprende sia lo stipendio, sia i fattori ambientali nel loro complesso) tende a uguagliarsi nelle varie occupazioni per i lavoratori che si collocano allo stesso livello di abilità. Applicheremo, inoltre, la teoria del mercato del lavoro a questioni come i sindacati e le leggi sul minimo salariale. Concluderemo questo argomento chiedendoci perché le differenze remunerative sembrano alcune volte sovrastimare le differenze di produttività, e altre volte sottostimarle. Passeremo poi a esaminare il mercato dei servizi del capitale. Per molti aspetti, i risultati dell’analisi compiuta con riferimento al lavoro rimarranno invariati. Una caratteristica che differenzia il capitale dagli altri fattori produttivi è però che, mentre gli altri input sono normalmente “affittati” da un’impresa periodo per periodo, i beni capitali sono spesso di proprietà dell’impresa. Ciò significa che il nostro primo obiettivo sarà quello di analizzare le variabili che influenzano la decisione d’acquisto di un bene capitale da parte di un’impresa. Analizzeremo poi la distinzione fra tasso di interesse nominale e reale. Questo ci aiuterà a spiegare perché il tasso di interesse imposto dalle banche e da altri prestatori di capitale tende a crescere di pari passo con il tasso di inflazione. Procederemo, infine, a esaminare come vengono fissati i tassi di interesse nei mercati del credito, in particolare nel mercato delle azioni e delle obbligazioni. Gli ultimi temi trattati saranno le rendite, la diversificazione dei prezzi nei periodi in cui la domanda è più intensa e le risorse non rinnovabili.

14.2  L a domanda di lavoro di breve periodo per un’impresa in concorrenza perfetta Consideriamo un’impresa che impiega due input, lavoro (L) e capitale (K). Supponiamo che nel breve periodo il suo stock di capitale sia fisso. L’impresa vende tutto il suo prodotto in un mercato in concorrenza perfetta, al prezzo corrente di mercato, e può ingaggiare tutta la forza lavoro che vuole a un salario pari a 12 €/ora; quante unità di manodopera dovrebbe impiegare? Un manager che ragiona da economista dovrebbe argomentare nel modo seguente: “Il beneficio che deriva dall’impiego di un’ulteriore unità di lavoro è il ricavo che si ottiene dalla vendita del maggior prodotto. Il costo è il saggio di salario. Quindi bisogna accrescere la quantità di lavoro impiegato fino a quando il primo è maggiore del secondo. D’altra parte, se il costo è maggiore del beneficio, la quantità di lavoro impiegata va ridotta”.

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Capitolo 14

Prodotto marginale del lavoro (unità di output/unità di lavoro)

Valore del prodotto marginale (€/unità di lavoro)

8

16

6

w = 12

4

8

Quantità ottimale di lavoro per w = 12

VMPL = 2 × MPL

MPL

40

80 (a)

120 L (ore-uomo/giorno)

40

80

120 L (ore-uomo/giorno)

(b)

Questo ragionamento può essere espresso in un semplice grafico che illustra la domanda di lavoro. Nella Figura 14.1a è riportata la curva del prodotto marginale per il fattore lavoro quando il capitale è fisso (si veda il Capitolo 9): essa ci indica la quantità aggiuntiva di output che l’impresa ottiene dall’impiego di un’unità addizionale di lavoro. Così, per esempio, se vi sono 40 unità di manodopera, l’impiego di un’ulteriore unità accrescerà la produzione di altre 8 unità di output. L’inclinazione negativa della curva del prodotto marginale riflette la legge dei rendimenti decrescenti. La Figura 14.1b riporta sull’asse delle ordinate il risultato della moltiplicazione del prodotto marginale per il prezzo dell’output, in questo caso P = 2 €. Si ottiene in tal modo il valore del prodotto marginale del lavoro (P × MPL, indicato con VMPL, dall’inglese Value of Marginal Product of Labor), che corrisponde al maggior guadagno realizzato dall’impresa quando vende l’output che deriva dall’impiego di un’unità addizionale di lavoro. La regola che governa la domanda di lavoro di un’impresa è scegliere la quantità di lavoro per il quale il VMPL è esattamente uguale al saggio di salario. Perciò nella Figura 14.1b la regola ci dice che, a un saggio di salario di 12 €, l’impresa deve impiegare 80 unità di lavoro. Per capire la logica di questa regola, supponiamo che l’impresa impieghi solo 40 unità di lavoro. Con tale occupazione, il valore dell’ulteriore output prodotto da un lavoratore addizionale (16 €) è maggiore del costo del lavoratore (12 €), quindi l’impresa può aumentare i suoi profitti impiegando un maggior numero di lavoratori. All’opposto, supponiamo che l’impresa impieghi 120 unità di lavoro. Il VMPL per L = 120 è solo di 8 €, valore che è minore del saggio di salario pari a 12 €; di conseguenza l’impresa può aumentare i suoi profitti licenziando alcuni lavoratori. Solo quando L = 80 l’impresa non può accrescere i suoi profitti.1 La Figura 14.1a rappresenta graficamente l’equazione MPL = (10 − 1/20L). Quando P = 2, il valore del prodotto marginale della manodopera visualizzato nella Figura 14.1b è:

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Figura 14.1 Curva di domanda di lavoro di breve periodo da parte di un’impresa concorrenziale. Quando il saggio di salario è di 12 €/unità di lavoro (b), in un regime di concorrenza perfetta l’impresa impiegherà 80 unità di lavoro; per questo livello di occupazione, il VMPL e il saggio di salario sono uguali.

Valore del prodotto marginale del lavoro (VMPL) Valore, al prezzo corrente di mercato, dell’output aggiuntivo derivante da un’unità addizionale di input.

VMPL = P (MPL) = 2(10 − 1/20 L) = 20 − 1/10 L  Vi è un importante limite all’applicazione della regola w = VMPL. Supponiamo che il saggio di salario sia maggiore del valore del prodotto medio del lavoro (dato dal prodotto medio del lavoro moltiplicato per il prezzo e indicato con VAPL). Se l’impresa paga un salario maggiore di VAPL, pagherà più del valore totale di ciò che i lavoratori producono, cosicché subirà una perdita per ogni lavoratore impiegato. Ne segue che, per valori di w maggiori di VAPL, un’impresa perfettamente concorrenziale non impiegherà alcun lavoratore. 1

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Parte 3

Se il salario è w = 12, la quantità di manodopera richiesta dall’impresa sarà: w = VMPL ⇒ 12 = 20 − 1/10 L ⇒ 8 = 1/10 L ⇒ L* = 80

Esercizio 14.1 Con un saggio di salario pari a 12 €, quale sarà l’occupazione per l’impresa della Figura 14.1, se il prezzo del prodotto non è 2, ma 3 €?

14.3  L a domanda di lavoro di lungo periodo per un’impresa in concorrenza perfetta Nel breve periodo, per un’impresa in concorrenza perfetta l’unica reazione possibile di fronte a una riduzione del saggio di salario è impiegare più lavoro. Nel lungo periodo, invece, tutti gli input sono variabili. Come abbiamo rilevato nel Capitolo 10, una riduzione del prezzo del lavoro porterà l’impresa a sostituire il capitale con il lavoro, riducendo ulteriormente il costo marginale. L’effetto di questa riduzione addizionale dei costi è una maggiore espansione dell’output: la reazione di lungo periodo sarà quindi ancora più ampia di quella di breve periodo. Le due curve di domanda di lavoro sono confrontate nella Figura 14.2. La curva di domanda di lavoro dell’impresa è tanto più elastica quanto più elastica è la domanda per il suo prodotto. Se una riduzione del prezzo stimola un notevole incremento nella quantità di prodotto domandata, notevole sarà anche l’incremento nella quantità di lavoro necessaria a produrlo. Infine, la domanda di lavoro di un’impresa è tanto più elastica quanto più ampia è la sostituibilità del lavoro con altri tipi di input. Ceteris paribus, un’impresa che presenta degli isoquanti a forma di L avrà una curva di domanda di lavoro con elasticità minima.

14.4  La curva di domanda di lavoro di mercato

Figura 14.2 Curve di domanda di lavoro nel breve e nel lungo periodo. La domanda di lavoro è più elastica nel lungo periodo perché l’impresa ha la possibilità di sostituire il lavoro al capitale. Nel breve periodo, invece, può solo aumentare l’output.

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Salario (€/giorno)

Nel Capitolo 4 si è visto che, per derivare la curva di domanda di un prodotto per l’intero mercato, si sommano orizzontalmente le singole curve di domanda. Il procedimento per ricavare la curva di domanda di lavoro di mercato è simile, tranne

Curva di domanda di lavoro nel lungo periodo Curva di domanda di lavoro nel breve periodo Lavoro (ore-uomo/giorno)

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€/L

Capitolo 14

D

w1 w2

ΣVMPL, P = P2

ΣVMPL, P = P1

D L1

L2

L

che per un’importante differenza. Nella Figura 14.3 la curva denominata (ΣVMPL, P = P1) è la somma orizzontale delle singole curve VMPL, quando il prezzo dell’output è pari a P1. A quel dato prezzo dell’output, le imprese nel loro insieme domandano, nell’unità di tempo, L1 unità di lavoro quando il saggio di salario è pari a w1. Ipotizziamo ora una diminuzione del saggio di salario a w2: ogni impresa aumenterà la quantità di lavoro impiegata, scendendo lungo la propria curva di domanda di lavoro. Questo processo di espansione porterà ogni impresa a immettere sul mercato una quantità maggiore di output. Ora, in concorrenza perfetta, se una sola impresa espande il suo output, il prezzo di mercato rimane inalterato; ma se tutte le imprese agiscono allo stesso modo, allora vi è uno spostamento verso il basso lungo la curva di domanda di mercato del bene in questione. Così, l’aumento della produzione comporterà necessariamente una riduzione di prezzo dell’output, il che determinerà, a sua volta, lo spostamento verso il basso della curva VMPL di ciascuna impresa. Se il prezzo dell’output diminuisce da P1 a P2, la domanda aggregata di lavoro è data dal punto che corrisponde a w2 sulla curva denominata (ΣVMPL, P = P2). Si può così rilevare che la curva di domanda di lavoro di mercato (la curva DD) risulta più inclinata della somma orizzontale delle curve VMPL. Quanto detto presume implicitamente una situazione in cui vi è un solo tipo di lavoro, impiegato in un’unica industria in concorrenza perfetta. Nella realtà le cose sono più complesse: vi sono innumerevoli categorie di lavoratori (falegnami, elettricisti, ingegneri, insegnanti, avvocati e così via), ognuna delle quali può trovare collocazione in diversi settori industriali. Gli elettricisti, per esempio, vengono impiegati nell’edilizia residenziale, nell’industria automobilistica, della costruzione di edifici commerciali, dell’acciaio, dell’informatica o anche nell’industria del pesce, per menzionare solo alcune possibilità. Quindi la curva di domanda globale di elettricisti è composta dalle domande di singole imprese appartenenti a differenti industrie. Ipotizziamo che le retribuzioni degli elettricisti da parte delle singole imprese nei diversi settori industriali costituiscano una frazione molto bassa (per esempio lo 0,1%) dei rispettivi costi totali. Una piccola variazione (10%) nel salario degli elettricisti porterebbe a una variazione impercettibile (0,01%) dei costi totali di ciascuna impresa, e quindi non si verificherebbe alcun cambiamento apprezzabile nei rispettivi prezzi dell’output. In questo caso, la curva di domanda per elettricisti può essere approssimata dalla somma orizzontale delle singole curve di domanda delle diverse imprese, e le complicazioni illustrate nella Figura 14.3 possono essere ignorate.

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Figura 14.3 Curva di domanda di lavoro per l’intero mercato. Quando il saggio di salario scende da w1 a w2, ogni impresa impiega una quantità maggiore di lavoro. L’aumento di produzione fa diminuire il prezzo dell’output; questo porta a una riduzione del valore del prodotto marginale del lavoro. La curva di domanda di lavoro per l’intero mercato è quindi più inclinata della somma orizzontale delle singole curve di domanda.

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Parte 3

14.5  La domanda di lavoro in concorrenza imperfetta

Ricavo marginale del prodotto del lavoro (MRPL) Incremento nel ricavo totale derivante dall’impiego di un’unità addizionale di input.

La discussione precedente sulla domanda di lavoro presupponeva che l’impresa si trovasse di fronte a una domanda per il proprio prodotto perfettamente elastica; in questo caso, qualsiasi quantità aggiuntiva di output prodotta da lavoratori addizionali poteva essere venduta al prezzo corrente. In caso di concorrenza imperfetta, invece, le cose saranno naturalmente diverse: ogni impresa ha una curva di domanda inclinata negativamente, e se assume personale addizionale deve diminuire i prezzi per poter vendere l’output addizionale. Si è visto che in concorrenza perfetta il valore dell’output aggiuntivo, derivante dall’impiego di un lavoratore in più, è pari al prezzo del bene moltiplicato per il prodotto marginale del lavoro. Nel caso di concorrenza imperfetta, invece, questo valore si ottiene moltiplicando il ricavo marginale per il prodotto marginale del lavoro. Il risultato viene denominato ricavo marginale del prodotto del lavoro ed è indicato con MRPL (dall’inglese Marginal Revenue Product of Labor). Dalle definizioni di ricavo marginale e di prodotto marginale, MRPL è pari a:

MRPL =

ΔQ ΔTR × ΔL ΔQ

(14.1)

ΔTR ΔL

(14.2)

ovvero:

MRPL =

VMPL e MRPL esprimono entrambi l’incremento nel ricavo totale dovuto all’impiego di un’unità addizionale di lavoro. La differenza risiede nel fatto che MRPL include l’effetto di riduzione del prezzo del bene che deriva dalla vendita di un’unità di output addizionale. VMPL valuta l’output addizionale al prezzo corrente, perché questo, in concorrenza perfetta, rimane inalterato rispetto alle variazioni di output; MRPL valuta l’output addizionale al suo ricavo marginale, che è minore del prezzo. Quale sarà la domanda di lavoro di un’impresa con una curva di domanda del proprio prodotto inclinata negativamente? La risposta è che l’impresa impiegherà una quantità di lavoro tale che il saggio di salario e MRPL siano uguali. La giustificazione di ciò è essenzialmente simile a quella espressa per la condizione w = VMPL in concorrenza perfetta. In concorrenza perfetta, la domanda di lavoro di breve periodo è inclinata negativamente, a causa della legge dei rendimenti marginali decrescenti. Quanto più lavoro viene impiegato dall’impresa, tanto minore sarà MPL, quindi tanto più basso sarà VMPL. Anche per il monopolista la legge dei rendimenti marginali decrescenti determina una curva di domanda di lavoro nel breve periodo inclinata negativamente; ma nel caso del monopolista vi è una ragione in più: la sua curva del ricavo marginale è anch’essa inclinata negativamente. Per le stesse ragioni discusse nel caso di concorrenza perfetta, la domanda di lavoro di lungo periodo per il monopolista sarà più elastica della sua domanda di breve periodo. Non è invece necessario aggiustare ulteriormente la curva MRPL passando dalla curva di domanda della singola impresa a quella dell’industria, né nel breve né nel lungo periodo. In monopolio la domanda di lavoro per l’impresa coincide con la domanda di lavoro per l’industria; la curva corrispondente tiene quindi già conto del fatto che un aumento della produzione provoca una diminuzione del prezzo.

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Capitolo 14

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14.6  L’offerta di lavoro

Reddito (€/giorno)

Per semplicità, immaginiamo che vi sia una sola categoria di lavoro e che ogni lavoratore possa scegliere quante ore lavorare ogni giorno. L’alternativa al lavoro è il “tempo libero”, ovvero le ore dedicate al sonno, al divertimento, ai pasti e a qualunque altra attività che non sia oggetto di remunerazione sul mercato del lavoro. Se il salario è pari a 10 €/ora, quante ore deciderà di lavorare un lavoratore? Come è facile capire, l’interrogativo si riduce a un semplice problema di scelta del consumatore, dello stesso tipo che abbiamo affrontato nel Capitolo 3: in questo contesto la scelta è tra due beni che possiamo denominare “reddito” e “tempo libero”. Come nel classico problema di scelta del consumatore, si assume che le preferenze dell’individuo tra i due beni possano essere espresse sinteticamente da una mappa di indifferenza. Nella Figura 14.4, le curve indicate con I1, I2 e I3 rappresentano tre curve di indifferenza di un ipotetico lavoratore. La retta B, nello stesso grafico, rappresenta il vincolo di bilancio. Se l’individuo dedica l’intera giornata al tempo libero, non guadagna alcun reddito; quindi il punto (24, 0) costituisce l’intercetta orizzontale di B. Se, al contrario, egli lavora 24 ore/ giorno per un salario unitario pari a w0 = 10 €/ora, il suo reddito giornaliero sarebbe 24w0 = 240 €. Dunque il punto (0, 240) deve essere l’intercetta verticale di B. Il tratto rimanente di B è la retta che unisce questi due punti. La sua equazione è: M = w (24 − h) = 10(24 − h) = 240 − 10h, dove M è il reddito giornaliero espresso in euro, mentre h rappresenta il tempo libero. La pendenza di B è semplicemente il salario orario con il segno meno: −w0 = −10. Date le sue preferenze e dato il vincolo di bilancio, la cosa migliore che questo ipotetico consumatore possa fare è portarsi nel punto A, il punto di tangenza tra B e la curva di indifferenza I2, nella Figura 14.4. Qui la combinazione ottimale di reddito e tempo libero è data dall’impiego di h* = 15 ore/giorno in tempo libero e di 24 − h* = 9 ore dedicate al lavoro remunerato. Il reddito giornaliero del consumatore in euro ammonterà a (24 − h*) w0 = 90. Nel punto A il saggio marginale di sostituzione tra tempo libero e reddito è esattamente pari a w0, il saggio di salario orario. Ciò significa che in corrispondenza della combinazione ottimale il valore marginale di un’ora extra dedicata al tempo libero coincide esattamente con il suo costo opportunità, pari ai 10 € che il consumatore avrebbe guadagnato se in quell’ora extra avesse lavorato. Figura 14.4 Scelta ottimale tra tempo libero e reddito. Il livello ottimale di tempo libero è h* = 15 ore/giorno, che corrisponde al punto di tangenza tra il vincolo di bilancio (B) e la curva di indifferenza I2. Il tempo lavorativo remunerato è quindi pari a 24 − h* = 9 ore/giorno, il che comporta un reddito giornaliero di (24 − h*) w0 = 90 €/giorno.

I3 I2 I1

24w0 = 240 B (24 – h*)w0 = 90

A

h* = 15

24

Tempo libero (ore/giorno)

Pendenza = –w0

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Parte 3

Esercizio 14.2 Supponete che il salario unitario sia w = 20 €/ora. Trovate l’equazione che descrive il vincolo di bilancio reddito/tempo libero ed esprimetela graficamente. Supponete che, a fronte di questo salario, un individuo scelga h = 14 ore di tempo libero. Trovate il reddito giornaliero M di quel lavoratore per questa quantità di tempo libero.

Per costruire la curva di offerta di lavoro di un lavoratore ci chiediamo come varia l’ammontare ottimale di lavoro retribuito al variare del saggio di salario. La Figura 14.5 mostra la scelta ottimale di tempo libero per tre diversi saggi di salario orario, w = 4 €, w = 10 € e w = 14 €. L’offerta di lavoro corrispondente a w = 4 € è 24 − h*1 = 6 ore; quella corrispondente a w = 10 €, 24 − h*2 = 9 ore; infine, quella corrispondente a w = 14 €, 24 − h*3 = 7 ore. La Figura 14.6 illustra la relazione tra il saggio di salario e le ore di lavoro offerte dall’ipotetico lavoratore la cui mappa di indifferenza è visualizzata nella Figura 14.5: questa relazione è la curva di offerta dell’i-esimo lavoratore ed è rappresentata dalla curva Si. Rispetto alle altre curve di offerta che abbiamo incontrato finora, l’aspetto saliente di questa curva di offerta è che essa non è sempre crescente; presenta invece un andamento decrescente per i valori di w superiori di 10 €/ora, in corrispondenza dei quali l’aumento del salario porta a un’offerta minore di ore lavorative. Molti imprenditori che impiegano lavoratori non specializzati nei Paesi in via di sviluppo interpretano come un segno di arretratezza il fatto che i loro dipendenti lavorano meno quando il loro salario aumenta. Ma, come mostra l’Esempio 14.1, questo comportamento è perfettamente coerente con il perseguimento di un obiettivo razionale. Non tutti gli individui presentano delle curve di offerta di lavoro decrescenti in corrispondenza di salari elevati. Un incremento del salario ha sia un effetto di reddito, sia un effetto di sostituzione sulla quantità di tempo libero domandata. Rendendo il tempo libero più costoso, un incremento salariale porta gli individui a consumarne meno, e quindi a lavorare di più (effetto di sostituzione). Ma un incremento nel salario

24 (14) = 336

Reddito (€/giorno)

Figura 14.5 Scelta ottimale del livello di tempo libero in corrispondenza di differenti saggi salariali. Quando il salario orario aumenta da 4 a 10 €, il livello ottimale di tempo libero diminuisce da 18 a 15 ore/giorno. Ma quando il salario cresce ulteriormente a 14 €, il livello ottimale di tempo libero aumenta a 17 ore/ giorno.

24 (10) = 240

w = 14 I2

I3

w = 10 I1

24 (4) = 96 w=4

h*2 = 15

h*1 = 18

24

h*3 = 17 Tempo libero (ore/giorno)

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Capitolo 14

Salario (€/ora)

Figura 14.6 Curva di offerta di lavoro di un lavoratore. Per questo lavoratore, un aumento del salario comporta un aumento dell’offerta di lavoro se il salario è inferiore a 10 €/ ora, ma una diminuzione se il salario è maggiore di 10 €/ora.

Si

14

10

4

6

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7

9

Offerta di lavoro (ore/giorno)

fornisce alle persone anche un maggior potere di acquisto reale e, nella plausibile ipotesi che il tempo libero sia un bene normale, le spinge a domandarne di più (effetto di reddito). Se l’effetto di reddito supera l’effetto di sostituzione per certi valori del saggio salariale, la curva di offerta di lavoro diventa decrescente per quei valori. Altrimenti, la curva dell’offerta di lavoro sarà sempre crescente.

Esempio 14.1 Rossi vuole guadagnare 200 €/giorno, perché con questa cifra può far fronte a tutti i suoi impegni finanziari e vivere comodamente. Disegnate la curva di offerta di lavoro di Rossi. Il numero di ore al giorno che Rossi sceglie di impiegare lavorando, LS, deve soddisfare il vincolo wLS = 200, dove w è il salario che Rossi percepisce all’ora. La curva di offerta di lavoro di Rossi sarà quindi data da LS = 200/w, come illustrato nella Figura 14.7. Ottenere un determinato livello di reddito non è ovviamente l’unico obiettivo che una persona razionale potrebbe perseguire, ma non vi è niente di “economicamente arretrato” in ciò, e una persona che abbia questo obiettivo diminuirà sempre il numero di ore lavorate quando il suo salario unitario aumenta. Figura 14.7 Curva di offerta di lavoro di un lavoratore con un obiettivo di reddito prefissato. Più alto è il saggio di salario orario, minore è il numero di ore che Rossi deve destinare all’attività lavorativa per guadagnare il reddito giornaliero desiderato, pari a 200 €.

w 40

20

0

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5

10

20

LS

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Parte 3

Esercizio 14.3 Tracciate la curva di offerta di lavoro di una persona che abbia l’obiettivo di guadagnare 120 €/giorno.

Nel suo complesso, il mercato del lavoro statunitense ha presentato una tendenza costante nel tempo alla riduzione della settimana lavorativa media, mentre i salari reali sono cresciuti. Per esempio, rispetto al 1914, nel 1980 l’orario lavorativo medio degli occupati nell’industria manifatturiera è diminuito di un 20%, ma il salario reale è aumentato più di quattro volte. Questa correlazione negativa tra saggio salariale e orario medio settimanale non implica naturalmente che l’incremento dei salari sia l’unica causa di riduzione della settimana lavorativa. Ma la teoria dell’offerta di lavoro individuale suggerisce plausibilmente che la crescita salariale possa avere presumibilmente svolto un ruolo importante. Questa interpretazione è sostenuta dall’osservazione che una modesta riduzione dei salari nell’industria manifatturiera statunitense dal 1985 è stata accompagnata da un leggero incremento della durata media della settimana lavorativa.

Esercizio 14.4 Considerate questi programmi contro la povertà: un’indennità giornaliera di 24 € o un’integrazione salariale del 40%. Assumendo che i poveri abbiano la possibilità di lavorare a 5 €/ora, spiegate quale sarebbe l’incidenza di ciascun programma sul vincolo di bilancio di un tipico lavoratore a basso reddito. Quale sarebbe il programma più idoneo a ridurre il numero delle ore lavorate?

La teoria dell’offerta di lavoro svolge un ruolo cruciale nella logica di riforma del welfare. L’obiettivo del welfare è assicurare un reddito addizionale ai poveri. Esiste, peraltro, il fondato timore che questo tipo di assistenza economica possa diminuire l’interesse per la ricerca di un’occupazione. Sotto questo aspetto, la forma specifica assunta dal supporto economico alle famiglie disagiate è importante. Come dimostra l’Esercizio 14.4, trasferimenti monetari diretti sono più idonei a ridurre l’offerta di lavoro rispetto alle integrazioni salariali, perché generano un effetto di reddito più elevato rispetto all’effetto di sostituzione nell’offerta di lavoro.

14.7  Il tempo libero è un bene di Giffen? Nel problema standard di scelta del consumatore trattato nel Capitolo 3, abbiamo visto che la curva di domanda individuale di un bene è inclinata negativamente, eccetto nel caso anomalo del bene di Giffen. Che la curva di offerta di lavoro possa essere decrescente equivale a dire che la curva di domanda di tempo libero possa essere inclinata positivamente. Si può quindi dire, in tali casi, che il tempo libero è un bene di Giffen? La risposta è no. Ricordate che il bene di Giffen è un tipico bene inferiore, per cui esistono dei sostituti attraenti, ma più costosi. Per un bene di questo tipo, se manteniamo costante il reddito e aumentiamo il prezzo, la quantità domandata aumenta, perché l’effetto di reddito compensa abbondantemente l’effetto di sostituzione. Nel caso della domanda di tempo libero, invece, un incremento del salario unitario costituisce non soltanto un incremento del prezzo (o del costo opportunità)

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Capitolo 14

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del tempo libero, ma anche un incremento del reddito (per qualunque numero dato di ore lavorate). Come avviene per qualunque altro bene, l’effetto di sostituzione di un prezzo relativo più alto del tempo libero è quello di ridurre la quantità di tempo libero domandata. Ma se il tempo libero è un bene normale, il reddito aggiuntivo fa aumentare la domanda di tempo libero. La curva dell’offerta di lavoro può mostrare un andamento negativo solo quando l’effetto di reddito dell’incremento salariale supera l’effetto di sostituzione. Perciò, se il tempo libero è un bene inferiore, la curva dell’offerta di lavoro non può mai mostrare un andamento negativo: se lo mostra, vuol dire che il tempo libero non può essere un bene inferiore. E poiché solo i beni inferiori possono essere beni di Giffen, è evidente che il tempo libero non può rientrare in questa categoria.

14.8  Tasse e riforma del welfare La teoria dell’offerta di lavoro gioca un ruolo cruciale nella riforma del welfare, il cui obiettivo è offrire entrate supplementari ai meno abbienti. Tuttavia, una delle preoccupazioni è che questo meccanismo possa costituire un disincentivo alla ricerca di un lavoro. Sotto questo aspetto, di particolare importanza è la forma di sostegno sociale che si decide di adottare. I sussidi statali e le imposte sul reddito hanno l’effetto di cambiare il vincolo di bilancio del lavoratore. Per spiegare questo fenomeno, metteremo a confronto due consumatori, Davide e Sara. Dato che i sistemi di welfare e di imposte sono notoriamente di grande complessità, adotteremo, per semplicità, un sistema ipotetico che si avvicini a quello in vigore nei Paesi europei. Consideriamo in primo luogo Davide e supponiamo che possa lavorare per un salario medio di 5 € l’ora. Se non lavora, avrà 160 ore di tempo libero la settimana e diritto a un sussidio di disoccupazione di 110 €, situazione che corrisponde al punto A della Figura 14.8. Se lavora, perderà l’assegno di disoccupazione ma, guadagnando

Davide

Sara Pendenza –12

D Pendenza –4

690 Reddito (€/settimana)

Reddito (€/settimana)

210

Pendenza –1,33 C

150

B

130

A

110

G F Pendenza –24

510

I2 E

150 110

I1 115

130 145 160 Tempo libero (ora/lavoro) (a)

125

140 155 160 Tempo libero (ora/lavoro) (b)

Figura 14.8  Vincolo di bilancio con sussidi e imposte sul reddito. Davide può guadagnare una paga lorda di 5 € l’ora. Non lavorando, con il sussidio si disoccupazione ottiene 110 €. Il sussidio a sostegno del basso reddito gli garantisce un salario minimo, ma lo disincentiva a lavorare. Sara può guadagnare una paga lorda di 30 € l’ora. Un’aliquota del 60 su un reddito superiore ai 600 € riduce l’incentivo a lavorare più di 20 ore la settimana.

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Parte 3

meno di 150 € a settimana, sarà nelle condizioni per richiedere un assegno di sostegno al suo basso reddito. Lavorando 15 ore la settimana otterrà un assegno di 55 €, per un totale di (5 €) (15) + 75 € = 130 €. Invece, lavorando 30 ore a settimana, guadagnerà (5 €) (30) = 150 €, come illustrato dai punti B e C della Figura 14.8. Una volta che le entrate di Davide saranno superiori a 150 €, pagherà un’imposta del 20 per cento su tutti i redditi supplementari, il che riduce la sua paga netta a 4 € l’ora. Quindi, se lavora 45 ore la settimana, guadagnerà 150 € + (45 − 30) (4 €) = 210 €, il punto D della Figura 14.8. L’effetto del sussidio di disoccupazione e del sostegno al basso reddito è quello di disincentivare Davide al lavoro, come illustrato dal vincolo di bilancio, che è relativamente piatto. In concreto, Davide riceve 1,33 € l’ora. Dal

Naturalista economico 14.1

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Perché può non avere senso tassare i ricchi? Capita spesso di sentire appelli che chiedono un aumento delle imposte per i più ricchi. Il ragionamento tipico è il seguente: è moralmente sbagliato che alcuni guadagnino moltissimo mentre altri faticano a sfamare i loro figli; quindi, si dovrebbe tassare di più i ricchi e distribuire le entrare extra ai poveri. Una logica di questo genere ha costituito una delle componenti chiave, risultata poi vincente, della campagna alla presidenza francese di François Hollande. Il candidato promise di aumentare le imposte sul reddito dei miliardari al 75 per cento e i votanti apprezzarono l’idea. Per quanto la ridistribuzione della ricchezza a favore dei meno abbienti sia certamente desiderabile, tuttavia è necessario fare attenzione prima di cercare di raggiungere l’obiettivo con un aumento dell’imposizione fiscale. E, una volta ancora, una conoscenza basilare dei principi economici spiega i motivi. Il problema base è che, dopo l’aumento dell’aliquota, le persone non lavoreranno più come prima. Come illustrato dalla Figura 14.8, più il vincolo di bilancio è piatto, minore è l’incentivo al lavoro, e una tassazione al 75 per cento lo rende decisamente piatto. Inoltre, i lavoratori possono decidere di spostarsi in Paesi con una politica di imposizione più favorevole. Infatti, mentre François Hollande prometteva la tassazione al 75 per cento, i politici inglesi reclamizzavano i vantaggi di lavorare a Londra. Supponendo anche che chi ha redditi molto alti non si posti a Londra, è possibile che decida di fare una chiacchierata con il commercialista, dal momento che tanto più alte sono le imposte, tanto maggiore è l’incentivo a trovare un modo per evitare di pagarle. Quindi, l’aumento dell’imposizione fiscale non garantisce automaticamente un gettito più alto. La storia abbonda di esempi che lo provano. Il Regno Unito, per esempio, nel 2010 ha alzato l’aliquota delle fasce di reddito più alte dal 40 al 50 per cento. Al contrario, il reddito è diminuito e il provvedimento è stato presto revocato. Ma cosa accade se in effetti l’imposta sul reddito sale? Ritorniamo a quanto visto nell’Appendice al Capitolo 2, dedicata all’influenza dell’imposizione fiscale. Poiché l’incidenza legale dell’imposta non ha alcun effetto sull’incidenza economica della stessa, è probabile che, come reazione all’aumento, chi ha i redditi più alti pretenda un maggiore ricavo lordo, in modo da mantenere lo stesso ricavo netto. Se ciò accade, le entrate del governo aumenteranno, ma a pagare non saranno necessariamente i più ricchi. Invece, il loro desiderio di ottenere ricavi maggiori graverà sui consumatori sotto forma di rincaro dei prezzi. E se i consumatori sono poveri, è difficile che questa scelta aiuti a ridistribuire la ricchezza a loro favore. La lezione da trarre da quanto sopra esposto e dall’analisi del comportamento di Davide e Sara non è che gli economisti siano contrari alla redistribuzione dai ricchi ai poveri. Non è questo il problema. Ciò che possiamo dire è che occorre stare attenti se si vuole che la redistribuzione funzioni come desiderato.

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Capitolo 14

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momento che questa situazione non sembra conveniente, Davide può decidere che non lavorare rappresenta la sua scelta ottimale, presentata nella Figura 14.8. La società deve così affrontare il problema di riuscire a creare una rete di sostegno ai bassi redditi senza ridurre l’incentivo a lavorare di più. Ma non è questo l’unico scoglio. Consideriamo ora infatti il caso di Sara, che può lavorare per una paga base di 30 € l’ora. Che abbia diritto a meno all’assegno di disoccupazione o di sostegno non è importante, perché il suo salario supera di gran lunga questa cifra. Come prima, i salari inferiori ai 150 € non sono soggetti a tassazione. Quindi, lavorando 5 ore la settimana, guadagnerà 150 €, ossia il punto E della Figura 14.8. L’imposta sui redditi tra i 150 € e i 600 € è pari al 20 per cento, il che implica una paga netta di 24 € l’ora. Lavorando 20 € ore alla settimana guadagnerà allora 150 € + (20 − 5) (24 €) = 510 €, cioè il punto F della Figura 14.8. I redditi superiori ai 600 € sono tassati al 60 per cento, con una conseguente paga di 12 € l’ora. Così, lavorando 35 ore settimanali, guadagnerà 510 € + (35 − 20) (12 €) = 690 €, il punto G della Figura 14.8. L’aumento dell’aliquota fiscale ha come risultato quello di disincentivare Sara al lavoro. Di nuovo, la situazione è illustrata dal relativo appiattirsi del vincolo di bilancio. Infatti, l’aumento delle imposte ha l’effetto di ridurre l’incentivo al lavoro di Sara. Ancora una volta, il fenomeno è rappresentato dal relativo appiattirsi del vincolo di bilancio. Per ogni ora lavorata oltre le 20 ore settimanali, Sara in concreto guadagna 12 € l’ora. Certo, è più di Davide, ma molto meno dei 30 € della sua paga lorda. Quindi, Sara può decidere che la sua scelta ottimale è lavorare 20 ore, evitando così l’aliquota più alta.

14.9  L a reazione dei non-economisti al modello dell’offerta di lavoro Quando si confrontano per la prima volta con il modello economico dell’offerta di lavoro, molti non-economisti lo considerano una descrizione estremamente irrealistica del modo in cui gli individui effettivamente allocano il loro tempo tra il lavoro e il tempo libero. La maggior parte delle occupazioni, infatti, offre scarsa libertà di scelta in relazione al numero di ore di lavoro da svolgere ogni giorno. Indubbiamente si può scegliere tra lavoro a tempo parziale e a tempo pieno, ma gli impieghi a tempo parziale sono spesso così poco attraenti che la maggior parte dei lavoratori non li prende neppure in considerazione. Questa critica nasce però da una visione troppo angusta del modello, che non afferma affatto che gli individui abbiano la possibilità di scegliere letteralmente il numero di ore di lavoro da svolgere ogni giorno. Le critiche hanno ragione a sottolineare che la maggior parte dei lavoratori non ha questa libertà di scelta. Ma su un arco di mesi, o di anni, si può ottenere un più ampio potere di decisione. Per esempio, i laureati in legge possono scegliere di entrare nei grandi studi associati, dove la routine lavorativa prevede 14 ore di attività al giorno per 7 giorni alla settimana, oppure possono scegliere studi legali in cui la giornata lavorativa finisce regolarmente alle cinque. Le persone possono scegliere occupazioni come l’insegnamento, che garantiscono le estati libere; possono scegliere di assumere anche un secondo incarico da svolgere nelle ore serali, oppure possono cambiare lavoro frequentemente, in modo da prendere una vacanza tra un lavoro e l’altro. Tuttavia, anche tenendo conto di queste possibilità, è vero che la maggior parte degli individui ha una scelta limitata. Se le imprese potessero offrire una completa flessibilità senza perdite di produttività, tornerebbe a loro vantaggio concedere libertà di scelta ai lavoratori. Ma la maggior parte delle imprese impiega gruppi di lavoratori che devono interagire, e ciò richiede che tutto il personale sia presente

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Parte 3

nelle stesse ore di lavoro. Imprese diverse possono però essere caratterizzate da giornate lavorative di diversa lunghezza, cosa che, come abbiamo visto, si verifica, anche se entro certi limiti: se i lavoratori di un’impresa devono interagire con quelli di un’altra, sia pure solo per scambiarsi delle informazioni telefonicamente, ci deve essere un arco di tempo in cui i lavoratori dell’una possono contare sulla presenza sul posto di lavoro di quelli dell’altra e viceversa. Quindi per molte persone l’ammontare di tempo destinato al lavoro è più un risultato dei vincoli imposti dai datori di lavoro che una loro libera scelta.

14.10  La curva di offerta di mercato La curva di offerta di mercato per ogni categoria di lavoro si ottiene sommando orizzontalmente le curve di offerta individuali di tutti i lavoratori, effettivi e potenziali, che appartengono a quella categoria. Anche se molti individui possono presentare curve di offerta con un tratto discendente (anzi, anche se tutte le curve individuali hanno questo andamento), la curva di offerta per una determinata categoria di lavoro è quasi sicuramente inclinata positivamente. La ragione di ciò risiede nel fatto che un incremento di salario per una categoria di lavoro non comporta solo cambiamenti nel numero di ore lavorate dalle persone che già appartengono a quella categoria, ma attira anche persone appartenenti ad altre categorie. Come un incremento del prezzo del grano invoglia i coltivatori di cotone a passare al grano, così un aumento dei salari dei parrucchieri induce impiegati comunali, commessi e altri tipi di lavoratori a diventare parrucchieri.

Esempio 14.2 Negli Stati Uniti, un aumento delle iscrizioni ai corsi MBA ha aumentato la domanda di insegnanti di economia nelle facoltà aziendali. Se gli economisti insegnano oggi prevalentemente nelle facoltà di scienze sociali, ci si chiede come verranno influenzati i salari e l’occupazione nei due ambiti didattici. Figura 14.9 Incremento nella domanda di lavoro da parte di una particolare categoria di datori di lavoro. L’aumento della domanda da parte delle facoltà aziendali (b) comporta un aumento della curva di domanda dell’intero mercato del lavoro degli economisti (c). Il livello di impiego al nuovo salario (più elevato) risulta dalla combinazione della domanda da parte delle facoltà di scienze sociali (a) e da parte delle facoltà aziendali (b).

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Nel grafico (c) della Figura 14.9, la retta indicata con S rappresenta la curva di offerta di mercato degli economisti. Essa è inclinata positivamente, nell’ipotesi che i salari più alti inducano un numero maggiore di persone a scegliere quest’attività professionale.

w

w

w

w2

w2

w2

w1

w1

w1

QA2 QA1 (a)

LA

QB1

QB2 (b)

DA + DB2

S

DB2

DB1

DA

DA + DB1

LB

Q1

Q2

L

(c)

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Capitolo 14

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La curva della domanda di economisti da parte di facoltà di scienze sociali è rappresentata nel grafico (a). Nel grafico (b) vengono riportate la vecchia e la nuova curva di domanda di economisti nelle facoltà aziendali, indicate rispettivamente con DB1 e DB2. Sommando orizzontalmente le curve di domanda da parte delle facoltà di scienze sociali e delle facoltà aziendali (partendo dal presupposto che gli stipendi corrisposti agli economisti rappresentino una frazione troppo modesta dei costi totali dell’università per incidere significativamente sulle tasse di iscrizione), nel grafico (c) otteniamo le curve della domanda totale di economisti (quella originaria e quella nuova), denominate rispettivamente DA + DB1 e DA + DB2. Si noti che l’aumento di domanda da parte delle facoltà aziendali comporta un incremento, da w1 a w2, nel saggio di salario degli economisti in entrambi gli ambienti accademici. Verifichiamo l’effetto sull’occupazione nei due ambienti: basta tracciare la retta w2 alla sinistra delle rispettive curve di domanda. L’impiego di economisti nelle facoltà aziendali aumenta di QB2 − QB1, mentre nelle facoltà di scienze sociali si riduce di QA1 − QA2. L’incremento occupazionale nelle facoltà aziendali sarà pari alla risultante complessiva della riduzione dell’occupazione nelle facoltà di scienze sociali (QA1 − QA2) e dell’aumento nell’offerta complessiva di economisti (Q2 − Q1). Questo esempio mette in luce due aspetti particolarmente interessanti. In primo luogo, i salari di una determinata categoria di lavoratori tendono a uguagliarsi in tutti i diversi settori in cui questa viene occupata. Se aumenta la domanda di falegnami a causa di un’espansione dell’edilizia commerciale, anche il privato che vuole ristrutturare la propria tavernetta si troverà a pagare di più. Ciò avviene per una ragione molto semplice: se non aumentasse anche il salario nell’edilizia residenziale, molti falegnami di questo settore si trasferirebbero nell’edilizia commerciale. Se il lavoro nei due settori è ugualmente desiderabile, la condizione di equilibrio è che il salario sia uguale nei due settori. Il secondo aspetto suggerito dall’esempio è che in un piccolo sottosettore occupazionale si può verificare un incremento relativamente grande della domanda senza un aumento apprezzabile dei salari. Dato che le facoltà aziendali impiegano solo una piccola frazione degli insegnanti di economia, esse possono aumentare la quantità di occupati senza aumentare significativamente i salari. La regola generale è che l’effettiva elasticità dell’offerta sarà molto più alta in un piccolo sottosettore occupazionale che nel mercato più ampio di riferimento. Di fatto, però, negli Stati Uniti, gli economisti che insegnano nelle facoltà aziendali guadagnano circa il 20% in più rispetto a quelli che insegnano nelle facoltà di scienze sociali. Si tratta di un divario abbastanza grande, che suggerisce che vi sia qualcosa che non va nella teoria che vuole che i salari siano uguali in ogni settore. Non è sufficiente rilevare che le facoltà aziendali sono “più ricche” e quindi possono pagare di più. Il problema è: perché pagano di più, se l’unica alternativa per gli economisti è insegnare nelle facoltà di scienze sociali a un salario più basso? L’ipotesi del modello che più probabilmente va modificata è che gli economisti considerino i due lavori ugualmente desiderabili. Per ragioni che spiegheremo più avanti in questo capitolo, è necessario “premiare” gli economisti per indurli a spostarsi dalle facoltà di scienze sociali alle facoltà aziendali.

14.11  Il monopsonio Considerate un’area geografica in cui operi una sola impresa: i lavoratori non possono o non vogliono abbandonare la zona, e nuove imprese non vi possono entrare. Un’impresa in questa posizione è monopsonista (cioè, è l’unico acquirente) nel mercato del lavoro. Possiamo dire che un monopsonista sfrutterà i suoi dipendenti pagandoli troppo poco e offrendo loro margini di sicurezza troppo bassi? Consideriamo in primo luogo la questione dei salari. Un’impresa che impiega manodopera in un mercato del lavoro perfettamente concorrenziale si trova di

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Parte 3

€/L

Figura 14.10 Costi medi e marginali del fattore. Quando la curva di offerta (S) di un monopsonista è inclinata positivamente, il costo dell’impiego di un’unità addizionale di lavoro (MFC) non coincide più con il salario che tale unità riceve. A questo valore va infatti aggiunto il pagamento addizionale ai lavoratori già impiegati (rettangolo ombreggiato).

Curva di costo medio del fattore (AFCC) Altro nome dato alla curva di offerta di un input. Costo totale del fattore (TFC) Livello di occupazione di un input moltiplicato per il costo medio di quel fattore. Costo marginale del fattore (MFC) Misura della variazione del costo totale di un fattore conseguente all’impiego di un’unità addizionale di input.

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MFC = ΔTFC/ΔL

8,04 S = AFCC

4,04 4,00

100 101

L

fronte a una curva di offerta di lavoro completamente orizzontale in corrispondenza del salario di mercato. Le sue decisioni sui livelli di lavoro da impiegare non hanno praticamente alcun effetto sul salario di mercato. Per il monopsonista, al contrario, la curva di offerta di lavoro è la curva di offerta del mercato stesso. Supponiamo che essa sia inclinata positivamente, come la curva indicata con S nella Figura 14.10. S si può anche definire curva di costo medio del fattore (AFCC, dall’inglese Average Factor Cost Curve), perché indica la spesa media per lavoratore a ogni dato livello di occupazione. Il costo totale di un dato livello di occupazione, cioè il costo totale del fattore (TFC, dall’inglese Total Factor Cost), è dato semplicemente dal livello di occupazione moltiplicato per il corrispondente valore di AFCC. Per esempio, il costo totale del fattore di un livello di occupazione di 100 lavoratori/ora nella Figura 14.10 è uguale a 100 × 4 € = 400 €/ora. Ora, supponiamo che l’impresa abbia già 100 dipendenti e che stia considerando il costo derivante dall’assunzione del 101esimo. Per aumentare il suo personale di un’unità, l’impresa deve incrementare il salario nella misura di 0,04 €/ora, non solo per l’unità di lavoro addizionale che impiega, ma anche per le 100 unità correntemente impiegate. Il costo totale del fattore di 101 lavoratori è 4,04 € × 101 = 408,04 €. Il costo marginale del fattore (MFC, dall’inglese Marginal Factor Cost) relativo al 101esimo lavoratore indica di quanto varia il costo totale del fattore in seguito all’assunzione di quel lavoratore:

MFC =

ΔTFC ΔL

(14.3)

Nell’esempio della Figura 14.10 noi otteniamo quindi: MFC = 408,04 € − 400 € = 8,04 €/ora. Il MFC relativo al 101esimo lavoratore è la somma dei 4,04 €/ora, con cui viene remunerato, e degli altri 4 €/ora in più che devono essere divisi tra i 100 lavoratori correntemente impiegati. Poiché impiegare un lavoratore in più significa sempre pagare di più i lavoratori già impiegati, la curva MFC giacerà sempre sopra la corrispondente curva AFCC. Se quest’ultima è una linea retta in base alla formula AFCC = a + bL, allora la corrispondente curva MFC sarà anch’essa una linea retta con la stessa intercetta e pendenza doppia rispetto ad AFCC, vale a dire MFC = a + 2bL. La Figura 14.11 descrive il salario e il livello di occupazione di equilibrio in un mercato in cui opera un monopsonista. La curva di domanda di lavoro da parte di un

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Capitolo 14

MFC = ΔTFC/ΔL

€/L

S = AFCC w*

D = VMPL o MRPL L*

L

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Figura 14.11 Livelli di occupazione e di salario che massimizzano i profitti del monopsonista. In L* il costo di un’espansione o di una riduzione del livello di occupazione coincide con il beneficio. Entrambi i valori sono maggiori di w*, che è il livello di salario che rende massimi i profitti.

monopsonista si costruisce allo stesso modo di quella di una qualsiasi impresa. Se il monopsonista opera in condizioni di concorrenza perfetta sul mercato dei beni, la sua domanda di lavoro sarà definita da VMPL. Se la curva di domanda dei suoi prodotti è inclinata negativamente, la sua domanda di lavoro sarà data dal ricavo marginale del prodotto (MRPL). Data la curva di domanda, il livello ottimale di occupazione è quello in corrispondenza del quale MFC e la domanda di lavoro si intersecano, L* nella Figura 14.11. A questo livello di occupazione l’impresa deve pagare un salario dato dal valore corrispondente sulla sua curva di offerta, ovvero w*. L* è il livello di occupazione che consente la massimizzazione dei profitti per ragioni analoghe a quelle viste nelle altre strutture di mercato del lavoro. La curva di domanda di lavoro, come ricorderete, rappresenta l’incremento nel ricavo totale dell’impresa derivante dall’impiego di un’unità addizionale di lavoro, mentre la curva MFC rappresenta il corrispondente aumento nel suo costo totale. A sinistra di L*, il primo è maggiore del secondo, cosicché il profitto dell’impresa crescerà se l’impresa espande l’occupazione. A destra, il secondo supera il primo, cosicché all’impresa conviene contrarre l’occupazione.

Esercizio 14.5 La curva di domanda di lavoro di un monopsonista è data da w = 12 − L. Quale saggio di salario offrirà e quanto lavoro impiegherà, se la curva AFCC è data da w = 2 + 2L, con la curva corrispondente MFC = 2 + 4L?

Come si possono confrontare i livelli di salario e di occupazione in monopsonio con quelli che si determinano in un mercato del lavoro concorrenziale? Se la domanda di lavoro provenisse non da una, ma da molte imprese, il livello di occupazione sarebbe L**, il punto in corrispondenza del quale la curva di domanda interseca quella di offerta nella Figura 14.12. Analogamente, il saggio di salario sarebbe non w*, ma w**. Rispetto a quanto accade in concorrenza perfetta, l’equilibrio in monopsonio presenta sostanzialmente lo stesso tipo di inefficienza che contraddistingue l’equilibrio di monopolio nel mercato dei beni (non vengono esauriti tutti i benefici potenziali dello scambio). Si noti nella Figura 14.12 che, quando il livello di occupazione è pari a L*, i lavoratori sarebbero disposti a offrire un’ora addizionale di lavoro in cambio di una remunerazione pari soltanto a w*, mentre il ricavo addizionale che risulterebbe da

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Parte 3

€/L

Figura 14.12 Confronto tra monopsonio e concorrenza nel mercato del lavoro. Dato che il monopsonio tiene conto degli effetti dell’espansione del livello di occupazione sui salari dei lavoratori già impiegati, impiegherà meno lavoratori e li pagherà meno rispetto a quanto accade in regime di concorrenza.

MFC = ΔTFC/ΔL

S = AFCC

MFC* w** w*

D = VMPL o MRPL

L*

L**

L

quella unità in più è MFC*. Se l’impresa potesse in qualche modo incrementare l’occupazione totale senza dover aumentare le remunerazioni dei lavoratori già impiegati, sia l’impresa sia il lavoratore addizionale si troverebbero in una situazione migliore. Ma poiché questi scambi sono ostacolati dal calcolo del massimo profitto, la struttura monopsonista è meno efficiente rispetto alla struttura concorrenziale. Quanto è rilevante il monopsonio? Bisogna ricordare che la condizione di concorrenza perfetta nel mercato del lavoro postula la completa mobilità dei lavoratori. Molti lavoratori, specialmente quelli meno giovani, hanno invece dei vincoli (amicizie, mutui da pagare, scuola dei figli e così via) che ne ostacolano la mobilità. Tuttavia, non è così evidente che ciò alimenti le possibilità di sfruttamento. Prima dell’assunzione, la maggior parte dei lavoratori è relativamente libera nei movimenti e ha la possibilità di esaminare attentamente le varie opportunità di impiego. Stephen Marston stimò che solamente tra il 1970 e il 1978 i flussi migratori tra una città e l’altra degli Stati Uniti superarono il 25% della popolazione urbana.2 Anche in Italia i flussi migratori interni, principalmente dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord, furono di notevole intensità negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale e in quelli del boom economico. Successivamente, nel corso degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, essi diminuirono notevolmente, per riprendere poi, più recentemente, ad aumentare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. In particolare, è stato posto in luce come, in quest’ultimo periodo, il fenomeno abbia interessato principalmente gli individui più istruiti (laureati e diplomati).3 Nessuna impresa può sopravvivere a lungo senza un afflusso costante di nuovi lavoratori e, senza offrire una remunerazione complessiva concorrenziale, qualunque impresa avrebbe difficoltà ad attrarli. Riguardo a questa osservazione, si è sostenuto che le imprese offrono condizioni concorrenziali ai lavoratori di nuova assunzione, per poi ridurre i salari e i benefici (o per farli crescere in misura insufficiente) una volta che questi abbiano messo radici. Ma le imprese si costruiscono una reputazione anche sul mercato del lavoro, proprio come fanno sul mercato dei beni. A parità di tutte le altre condizioni, un’impresa con la reputazione di pagare salari concorrenziali a tutti i suoi lavoratori sarà in grado di attirare i migliori lavoratori che entrano nel mercato, a discapito delle imprese che hanno la reputazione di sfruttare i lavoratori già impiegati. 2

Marston S. T., “Two Views of the Geographic Distribution of Unemployment”, Quarterly Journal of Economics, 1985, pp. 57-79. 3  Piras R., “Il contenuto di capitale umano dei flussi migratori interregionali: 1980-2002”, Politica Economica, XXI, 2005, pp. 461-491.

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Capitolo 14

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Anche se nessun lavoratore fosse disposto a trasferirsi, le imprese non potrebbero comunque sfruttare i loro dipendenti nel lungo periodo. Se in un mercato del lavoro circoscritto i salari pagati fossero molto minori rispetto al valore di ciò che i lavoratori producono, nuove imprese potrebbero entrare in tale mercato e porsi in concorrenza con quelle già esistenti nell’acquisto dei servizi offerti dai lavoratori. Per esempio, molte imprese ingegneristiche si sono spostate nella zona di Seattle (sede della Boeing) intorno agli anni Settanta, in concomitanza con la recessione dell’industria aerospaziale, che aveva lasciato senza lavoro migliaia di tecnici.

14.12  Le leggi sul minimo salariale Al contrario di quanto accade in alcuni Paesi, tra i quali gli Stati Uniti, in Italia non esiste una legge che stabilisca un livello salariale minimo. Nel nostro Paese, e in molti altri, il salario minimo, le indennità accessorie, nonché le prestazioni lavorative richieste ai lavoratori, compreso l’orario di lavoro, sono stabiliti dalla contrattazione collettiva che avviene, per le diverse categorie di lavoratori, tra i rappresentanti dei lavoratori (i sindacati) e quelli dei datori di lavoro (le imprese). L’obiettivo che si cerca di perseguire stabilendo un salario minimo, sia che esso risulti da una legge oppure da un accordo tra sindacati e imprese, è quello di migliorare le condizioni economiche delle categorie di lavoratori più svantaggiati, in particolare di quelli meno qualificati. Gli economisti, d’altra parte, sono in generale scettici circa la capacità effettiva del governo di regolare un qualsiasi tipo di prezzo e, in effetti, questo tipo di iniziative spesso produce conseguenze negative di altra natura. Una di queste è la possibilità che si venga a creare un eccesso di offerta di lavoro, con conseguente disoccupazione involontaria, qualora il salario minimo venga fissato a un livello superiore rispetto a quello di equilibrio. La Figura 14.13 rappresenta le curve di domanda e di offerta per il lavoro non qualificato. Il punto di intersezione tra le due curve indica il saggio di salario reale, w0, per il quale il livello di occupazione è L0. Se il salario minimo obbligatorio è pari a wm, l’occupazione verrà ridotta al livello Dm e l’offerta di lavoro aumenterà a Sm. La differenza, Sm − Dm , rappresenta la disoccupazione che deriva dall’introduzione del minimo salariale. Secondo il semplice modello della Figura 14.13, la legge sul minimo salariale produce sia vincitori sia perdenti: gli operai non qualificati che mantengono il proprio impiego guadagnano di più; coloro che lo perdono, essendo disoccupati, guadagnano ovviamente di meno.

w

S Disoccupazione

wm w0

D Dm

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L0

Sm

Lnon qualificato

Figura 14.13 Minimo salariale fissato dalla legge. L’effetto del minimo salariale è quello di ridurre l’impiego dei lavoratori non qualificati da L0 a Dm e di aumentare l’offerta da L0 a Sm. La differenza risultante, Sm − Dm, rappresenta la disoccupazione causata dal minimo salariale.

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496

Parte 3

Figura 14.14 La legge sul minimo salariale in caso di monopsonio. Il minimo salariale fissato a wm rende orizzontale la curva MFC del monopsonista, nel tratto tra 0 e L1; il livello di occupazione aumenta quindi da L* a Lm.

€/L

MFC

MFC* S

wm w*

D 0

L*

Lm

L1

L

Deve essere, tuttavia, segnalata un’importante eccezione alla regola secondo la quale il minimo salariale causa una riduzione dell’occupazione. La Figura 14.14 mostra il caso di un’impresa monopsonista, che senza un minimo salariale impiegherebbe una quantità di lavoro L*, per un salario pari a w*. In presenza di un minimo salariale wm, la sua curva di costo marginale del fattore diventa orizzontale nel tratto compreso tra 0 e L1. Qualunque sia la quantità di lavoro impiegata, il costo marginale di un lavoratore addizionale rimane costante al livello wm. Se l’impresa desidera espandere l’occupazione oltre L1, deve offrire un salario superiore a wm, come indicato lungo la curva di offerta originaria. Con il mimino salariale la curva di domanda di lavoro del monopsonista interseca la sua nuova curva MFC in corrispondenza del livello Lm. In condizioni di monopsonio, quindi, la legge fa aumentare sia il livello salariale sia il livello di occupazione. Non sempre il minimo salariale porta a un incremento dell’occupazione in un mercato del lavoro monopsonistico. Se il minimo salariale fosse stabilito sopra MFC*, per esempio, ne deriverebbe una diminuzione dell’occupazione. E a qualunque livello maggiore di w* si ha l’effetto di una riduzione del saggio di rendimento globale sull’investimento del monopsonista. Se il profitto del monopsonista fosse fin dall’inizio prossimo al livello normale, l’effetto di lungo periodo sarebbe quello di indurlo ad abbandonare il mercato. È inutile dire che anche in questo caso si determinerebbe una riduzione dell’occupazione dei lavoratori non qualificati.

Esercizio 14.6 La curva di domanda di lavoro di un monopsonista è data da w = 12 − L. Se la sua curva AFCC era originariamente data da w = 2 + 2L, con una corrispondente curva MFC = 2 + 4L, che effetti avrà una legge che imponga un minimo salariale w ≥ 8 sul livello di salario e di occupazione che egli è disposto a offrire? E quali effetti avrà un salario minimo w ≥ 10?

14.13  I sindacati In Italia e nei maggiori Paesi europei continentali, l’applicazione degli accordi siglati tra i sindacati e le imprese si estende anche ai lavoratori non iscritti al sindacato. In questi Paesi il tasso di copertura sindacale, vale a dire la percentuale di lavoratori comunque tutelati dagli accordi indipendentemente dall’iscrizione o

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Capitolo 14

meno al sindacato, è più elevato rispetto al tasso di sindacalizzazione, vale a dire la percentuale di lavoratori iscritti al sindacato. Altrove, per esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, questo non avviene, e tra gli iscritti e i non iscritti al sindacato possono sorgere differenze anche notevoli in merito alle condizioni contrattuali. In questi Paesi, la differenza principale tra forza lavoro sindacalizzata e non sindacalizzata è elementare: i lavoratori sindacalizzati contrattano collettivamente i termini e le condizioni di impiego; i lavoratori non sindacalizzati ricevono da parte delle imprese un’offerta, che possono accettare o rifiutare, rimanendo nell’impresa o abbandonandola. I sindacati, inoltre, fungono da canale di comunicazione tra il personale dipendente e la direzione. Per buona parte del secolo scorso gli economisti si sono concentrati quasi esclusivamente sugli aspetti dell’attività sindacale relativi alla contrattazione collettiva. Si riteneva che i sindacati fossero, nel mercato del lavoro, l’analogo dei cartelli nel mercato dei beni; che avessero, cioè, il fine di servire gli interessi dei loro membri a scapito del benessere economico generale. L’argomento di base a sostegno di questa tesi è semplice. Consideriamo un’economia con due settori, l’uno sindacalizzato, l’altro non sindacalizzato. Supponiamo che l’offerta totale di lavoro rivolta ai due settori sia fissa e pari a S0 e che le curve di domanda di lavoro sindacalizzato e non sindacalizzato siano rispettivamente indicate con DU e DN, nei grafici (a) e (b) della Figura 14.15. Senza contrattazione sindacale lo stesso salario, w0, si affermerebbe in entrambi i settori, e i livelli di occupazione sarebbero pari rispettivamente a LU0 e a LN0, dove LU0 + LN0 = S0. La contrattazione collettiva porta i salari del settore sindacalizzato al valore wU > w0. Poiché la curva di domanda di lavoro è inclinata negativamente, le imprese del settore sindacalizzato sono indotte a ridurre l’occupazione da LU0 a LU1. I lavoratori espulsi dal settore sindacalizzato cercheranno impiego nel settore non sindacalizzato, e i salari di questo settore diminuiranno a wN. A prima vista, questo processo assomiglia a un gioco a somma zero, in cui i guadagni dei lavoratori sindacalizzati sono esattamente compensati dalle perdite dei lavoratori non sindacalizzati. Un’analisi più attenta, tuttavia, porta a concludere che il processo determina una riduzione effettiva dell’output nazionale. Si ricordi, dal Capitolo 10, che la condizione per la massimizzazione dell’output in presenza di due processi produttivi è che il valore del prodotto marginale dei fattori sia lo stesso in ogni processo. Quando il livello salariale iniziale era w0 in entrambi i settori, quella condizione era soddisfatta. Ma con le divergenze salariali causate da un processo di contrattazione collettiva, il valore dell’output totale non può rimanere wU

wN

Settore sindacalizzato

Settore non sindacalizzato

wU w0

w0 wN DU LU1 LU0 (a)

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DN LU

LN0 LN1 (b)

LN

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Figura 14.15 Effetti allocativi della contrattazione collettiva. In assenza di contrattazione collettiva, in ogni settore vi sarà lo stesso salario w0. Con un salario fissato wU, nel settore sindacalizzato il livello di occupazione diminuisce. I lavoratori eccedenti cercano impiego nel settore non sindacalizzato, dove conseguentemente diminuisce il livello di salario. Il risultato finale è una riduzione dell’output totale.

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Parte 3

al suo massimo livello. Se un lavoratore è sottratto al settore non sindacalizzato, infatti, la riduzione che si verifica nel valore sarà pari solo a wN < wU, dove wU costituisce l’incremento di valore del prodotto che si determina quando quello stesso lavoratore è aggiunto al settore sindacalizzato. La distorsione economica implicita dall’analisi della Figura 14.15 è, in una certa misura, esagerata. Se l’impresa sindacalizzata è costretta a concedere aumenti salariali, attrarrà un eccesso di offerta di lavoratori. Nella realtà, però, i livelli di professionalità differiscono molto fra i lavoratori, e la reazione naturale dell’impresa sindacalizzata sarà quella di selezionare la manodopera più qualificata tra i candidati disponibili. Il rovescio della medaglia è che le imprese non sindacalizzate non avranno altra scelta che quella di assumere lavoratori meno produttivi della media. Studi empirici hanno dimostrato che la differenza salariale tra lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati, una volta che si elimina l’effetto di differenze professionali, ammonta solo al 10% circa. Ciò significa che il guadagno derivante da uno spostamento dei lavoratori dal settore non sindacalizzato a quello sindacalizzato sarà più piccolo di quanto appaia a prima vista. Anche se il maggior salario per i lavoratori sindacalizzati ammonta solo al 10%, ci dovremmo interrogare sulla capacità delle imprese sindacalizzate di competere con successo di fronte ai concorrenti non sindacalizzati. Certo, le imprese non sindacalizzate riescono qualche volta a estromettere le imprese sindacalizzate dal mercato, ma, nella maggior parte dei casi, imprese sindacalizzate e imprese non sindacalizzate restano in competizione per lunghi periodi di tempo. Con costi significativamente più elevati, come fanno a sopravvivere le imprese sindacalizzate? Indirizzi recenti della ricerca in economia suggeriscono che i sindacati possono portare a un aumento della produttività in diversi modi.4 Un punto di vista sottolinea il ruolo dei sindacati nella comunicazione tra direzione e dipendenti. Se la comunicazione non è agevole, l’unica opzione per un lavoratore insoddisfatto è quella di abbandonare l’impresa e cercare un altro posto di lavoro: un ruolo dei sindacati è allora quello di offrire ai lavoratori la possibilità di esprimere la propria insoddisfazione in forme diverse dalle dimissioni. L’istituzione di procedure formali per esprimere le proprie lamentele, insieme a una remunerazione più elevata, innalza il morale dei lavoratori sindacalizzati e, di conseguenza, il livello di produttività. I casi di dimissioni nelle imprese sindacalizzate, per esempio, sono in numero notevolmente inferiore rispetto a quello delle imprese non sindacalizzate; ciò, a sua volta, permette di risparmiare sul costo di assunzione e di addestramento del nuovo personale. Recenti studi empirici rivelano che la maggior produttività dovuta ai sindacati sembra essere così elevata da compensare i differenziali salariali. Ciò significa che, benché i salari siano più alti nelle imprese sindacalizzate, il costo del lavoro per unità di output può non esserlo. Se questa conclusione è corretta, abbiamo risolto il paradosso della sopravvivenza delle imprese sindacalizzate. La soluzione del paradosso solleva però una domanda ancora più difficile: se i sindacati portano a un morale più alto e a maggiori salari, e non aumentano il costo unitario del lavoro, perché vi sono imprese non sindacalizzate? Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il tasso di iscrizione dei lavoratori ai sindacati negli Stati Uniti ha mostrato un andamento decrescente, e ciò contrasta con le considerazioni sopra sviluppate. A partire dal 1970, il tasso di sindacalizzazione ha registrato andamenti differenziati. In alcuni Paesi (prevalentemente del Nord Europa) è risultato crescente; in altri (tra i quali l’Italia) esso è rimasto più o meno stabile; in altri ancora, 4

Si vedano, in particolare, Hirschman A. O., Exit, Voice and Loyalty, Harvard University Press, Cambridge, MA 1973 [Trad. it. Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982], e Freeman R. B., Medoff J., What Do Unions Do?, Basic Books, New York 1985.

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Capitolo 14

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al contrario, è diminuito.5 Dai dati in nostro possesso, si sarebbe tentati di concludere che i sindacati favoriscono la produttività in alcune industrie e non in altre. La questione è tuttavia aperta e nuovi studi sono necessari prima di avere un quadro preciso dell’operato dei sindacati.

14.14  La struttura dei salari all’interno di un’impresa A una prima analisi, la struttura dei salari all’interno di numerose imprese sembra molto più egualitaria di quanto prevede la teoria del salario basata sulla produttività marginale. Molte imprese, per esempio, seguono delle procedure salariali rigide, basate sull’esperienza, l’istruzione e la continuità lavorativa dei dipendenti all’interno dell’impresa, anche quando esistono ampie ed evidenti differenze di produttività tra i lavoratori egualmente remunerati in base a queste procedure. In realtà, i meccanismi di remunerazione come quelli previsti dalla teoria della produttività marginale sono di fatto inesistenti. Una semplice modifica alla teoria ci aiuta però a renderla compatibile con i meccanismi retributivi osservabili empiricamente.6 Tale modifica si basa su due assunti elementari: (1) la maggior parte degli individui preferisce una posizione autorevole a una subordinata rispetto ai propri colleghi; (2) nessuno può essere obbligato a rimanere in un’impresa contro la sua volontà. Per le leggi elementari dell’aritmetica, non tutte le preferenze per una posizione elevata nella scala dello status professionale di un’azienda possono essere soddisfatte; dopotutto, solo il 50% dei membri di ogni gruppo può trovarsi nella metà superiore. Ma se gli individui sono liberi di associarsi con chi vogliono, perché coloro che sono assegnati ai livelli più bassi accettano di rimanere? Perché non se ne vanno per formare nuovi gruppi in cui non debbano più rivestire ruoli subordinati? Benché molti lavoratori indubbiamente si comportino in questo modo, è possibile osservare molti gruppi stabili ed eterogenei. Non tutti i contabili della Fiat hanno le stesse capacità; e in ogni studio legale alcuni avvocati richiamano più clientela di altri. Se ciascuno preferisce collocarsi vicino al vertice del proprio gruppo professionale, che cosa tiene insieme questi gruppi eterogenei? La risposta è che, evidentemente, i membri di minor rango ricevono dei compensi extra. Andandosene, ricaverebbero un beneficio in termini di status; allo stesso modo, i dipendenti di rango più elevato passerebbero a uno status inferiore, perché non avrebbero più subordinati. Se i guadagni derivanti da una posizione elevata nella scala professionale sono maggiori dei costi sopportati dai membri di minor rango, il gruppo non avrà motivo di sfaldarsi: tutti saranno avvantaggiati se i lavoratori ai livelli più alti indurranno i loro colleghi a rimanere in cambio di una parte della loro paga. Ovviamente, non tutti attribuiscono la stessa importanza a uno status elevato: quelli che vi sono meno interessati sceglieranno di lavorare in imprese dove gli altri lavoratori sono più produttivi di loro; cosicché, come lavoratori di basso livello, avranno paghe più alte. Invece, le persone che sono più interessate alla propria posizione nella gerarchia dell’impresa sceglieranno di lavorare in imprese dove la maggior parte degli altri lavoratori è meno produttiva di loro. In cambio del privilegio di essere ai massimi livelli professionali in quell’impresa, dovranno lavorare per una remunerazione inferiore al valore di ciò che producono. 5

Si veda Brucchi L., Manuale di economia del lavoro, il Mulino, Bologna 2001, pp. 185-186.  Per una trattazione più completa della questione, si veda Frank R., Choosing the Right Pond, Oxford University Press, New York 1985. 6

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Parte 3

Figura 14.16 Struttura salariale e posizione gerarchica nell’impresa. Quanto più è alto il livello medio della produttività dell’impresa, tanto più bassa sarà la collocazione di un dato lavoratore nella gerarchia dell’impresa. I lavoratori che scelgono posizioni di alto livello (A) dovranno accettare una riduzione del proprio salario a favore dei colleghi impiegati a livelli gerarchici inferiori (C).

Salario

500

Impresa 3 C Impresa 2

M0

B Impresa 1

A

45° 0

M0

Produttività (VMPL)

I lavoratori possono quindi collocarsi all’interno di una gerarchia di aziende a seconda delle proprie preferenze. La Figura 14.16 illustra le possibilità di scelta a disposizione dei lavoratori la cui produttività è data e pari a M0. Le rette colorate indicano le strutture di salario offerte da tre imprese diverse e, di conseguenza, quanto guadagnerà ciascun lavoratore in base alla sua produttività. La produttività media è più alta nell’impresa 3, intermedia nella 2 e più bassa nella 1. Il problema dei lavoratori con produttività M0 è quello di scegliere in quale impresa impiegarsi. I lavoratori che sono più interessati allo status professionale vorranno “comprarsi” una posizione prestigiosa, come quella corrispondente al punto A nell’impresa 1. In questa posizione, guadagnano meno di quanto producono. Invece, coloro che sono meno interessati allo status professionale sceglieranno di ricevere una remunerazione più alta, come quella corrispondente al punto C nell’impresa 3. I lavoratori moderatamente interessati alla collocazione nella gerarchia aziendale saranno attratti dalla posizione intermedia corrispondente al punto B nell’impresa 2, dove non devono né pagare, né ricevere una compensazione per la loro posizione. Si noti inoltre, nella Figura 14.16, che, anche se non tutti i lavoratori in ogni impresa vengono pagati in base al valore di quanto producono, nel loro insieme i salari eguagliano il valore del prodotto. La remunerazione extra che ricevono i lavoratori di basso livello è esattamente pari alla somma a cui rinunciano quelli di alto livello. Quanto sono ampi i differenziali salariali che vanno a compensare la collocazione nella gerarchia dell’impresa? La risposta sarà diversa a seconda del tipo di occupazione. Nelle attività in cui non si viene molto in contatto con i colleghi, i lavoratori non saranno disposti a pagare molto per una posizione elevata. Dopotutto, i paragoni che importano di più sono quelli che avvengono tra le persone che interagiscono spesso. Il prezzo pagato per una collocazione ad alto livello (e ricevuto per una a basso livello) sarà più alto nelle occupazioni in cui i colleghi sono a stretto contatto per lunghi periodi. Il modello che abbiamo appena esposto prevede che il salario aumenterà meno di un euro per ogni euro addizionale di valore prodotto e che la differenza tra la produttività e la remunerazione crescerà all’aumentare del grado di interazione con i colleghi. Le previsioni del modello originale sono confrontate con quelle del modello modificato nella Figura 14.17. La Tabella 14.1 presenta, per tre tipi di occupazione, delle stime dei tassi ai quali le retribuzioni aumentano all’aumentare della produttività; le occupazioni sono classificate in base al grado di interazione tra colleghi. Gli agenti immobiliari,

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Capitolo 14

Salario

Struttura del salario che dipende solo dal VMPL Struttura del salario con bassa interazione

Struttura del salario con interazione elevata

501

Figura 14.17 Struttura del salario e intensità di interazione in un’impresa. Quanto maggiore è l’interazione tra i lavoratori, tanto più alta dovrà essere la compensazione per le differenze di status nella struttura interna dei salari.

45° VMPL

Occupazione

Renumerazione extra per ogni euro addizionale di produzione Effettiva

Prevista dal modello VMPL

Agenti immobiliari

0,70 €

1€

Venditori di automobili

0,24 €

1€

Ricercatori chimici

< 0,09 €

1€

Tabella 14.1 Guadagni e produttività in tre diversi tipi di occupazione.

I differenziali salariali a compensazione della collocazione nella gerarchia d’impresa sono più elevati in quelle occupazioni in cui vi è un alto grado di interazione tra i lavoratori.

che hanno il grado più basso di interazione, rinunciano a una somma minore per uno status elevato. All’altro estremo, i ricercatori chimici, che lavorano insieme per periodi relativamente lunghi in gruppi fortemente connessi, rinunciano a una cifra molto alta. Nel campione esaminato, ai ricercatori chimici più produttivi era attribuibile una produttività, in valore, più elevata di oltre 200 000 € all’anno rispetto ai colleghi meno produttivi; nonostante ciò, essi ricevono salari solo leggermente più elevati. I venditori di automobili non interagiscono tra loro così tanto come i ricercatori chimici ma, al contrario degli agenti immobiliari, lavorano nello stesso luogo. Come previsto, “il prezzo” per uno status elevato è in questo caso intermedio rispetto ai “prezzi” pagati nelle altre due professioni. I dati della Tabella 14.1 suggeriscono che, almeno per alcune professioni, i differenziali salariali che vanno a compensare la collocazione nella gerarchia d’impresa sono notevoli. Prendendo in considerazione questi differenziali, la struttura egualitaria all’interno delle imprese torna a essere coerente con la teoria della remunerazione basata sul modello della produttività marginale. Anche in questo caso, è evidente che i suoi critici hanno liquidato troppo frettolosamente il modello. Le possibili preferenze tra status e salario aiutano a spiegare il caso degli economisti che insegnano nelle facoltà aziendali guadagnando il 20% in più rispetto ai colleghi che insegnano nelle facoltà di scienze sociali. Le facoltà aziendali devono pagare alti salari ai docenti di altre materie (contabilità, marketing, finanza) a causa delle opportunità di elevati guadagni nel settore privato. (Si racconta che un rettore abbia risposto a un professore di lettere classiche che si lamentava degli elevati stipendi pagati ai docenti della facoltà di legge: “Se non è soddisfatto, dia le dimissioni e apra uno studio di lettere classiche”). Gli economisti che accettano di lavorare in una facoltà aziendale si ritrovano al fondo della gerarchia di status rispetto ai colleghi.

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Parte 3

Il maggior salario che ricevono rispetto agli economisti che insegnano nelle facoltà di scienze sociali può essere interpretato, in parte, come un differenziale che va a compensare la collocazione in una posizione di rango inferiore.

14.15  L’economia delle “superstar” In questo paragrafo vedremo come piccole differenze di abilità comportino a volte grandi differenze nel valore del prodotto marginale di un fattore.7 L’idea di fondo può essere raccontata con il seguente esempio. Immaginiamo che Samsung abbia fatto causa a Apple, chiedendo il risarcimento di 1 miliardo di euro per la violazione di un brevetto. Da come sono messe le cose, il caso è talmente controverso che è quasi certo che la causa verrà vinta da chi si avvale del miglior avvocato. Supponiamo che Dotto e Cranio siano i due migliori avvocati del mondo, con Cranio leggermente più bravo di Dotto. Naturalmente sia Samsung sia Apple vogliono ingaggiare Cranio e quindi entrambe faranno delle offerte per ottenerne i servizi. Quanto dovrà pagare chi farà l’offerta più alta? Dopo una breve riflessione la risposta è: 1 miliardo. Se Samsung offrisse solo 999 milioni, sarebbe nell’interesse di Apple alzare a sua volta la propria offerta, dato che l’alternativa è perdere la causa. A meno che Samsung e Apple colludano, l’unica soluzione stabile è che Cranio venga pagato 1 miliardo di euro. Il valore di Dotto, anche se di poco meno abile, è esattamente 0, perché, per ipotesi, la parte che lo ingaggia perderà la causa. L’esempio è estremizzato, ma coglie l’essenza di quanto accade in diversi contesti del mercato del lavoro. Consideriamo, per esempio, la struttura remunerativa nel tennis professionistico. Dato il tempo limitato che la maggior parte degli individui è disposta a trascorrere guardando le partite di tennis, solo un numero limitato di partite verrà visto nel corso di un dato anno. E, fatta una scelta, la maggior parte degli appassionati sarà disposta a pagare qualcosa di più per vedere giocare i campioni ai vertici della classifica. Il risultato è che la domanda di giocatori di tennis di alto livello è centinaia di volte maggiore di quella relativa ai giocatori classificati al 100esimo posto, benché le differenze nell’abilità tennistica siano spesso molto piccole tra le due categorie. Se il giocatore piazzato al 101esimo posto della classifica incontra il giocatore piazzato al 102esimo posto, la partita sarà tanto esaltante quanto quella tra il primo e il secondo classificato. Ma il problema, per i due giocatori meno quotati, è che la maggior parte degli appassionati dispone soltanto del tempo necessario a seguire un’unica partita e preferisce naturalmente assistere a quella tra i due giocatori più quotati. Il risultato è che i giocatori più quotati guadagnano svariati milioni ogni anno e quelli di second’ordine guadagnano a stento abbastanza per coprire le spese di viaggio. Simili effetti superstar sono riscontrabili pressoché in ogni sport praticato da professionisti (dal calcio al basket), nel mondo dello spettacolo, e anche nelle vicende quotidiane del mondo degli affari. Le imprese che operano nei settori soggetti a regolamentazione spendono somme enormi per aggiudicarsi i servizi professionali dei pochissimi esperti qualificati. Un numero ristretto di attori ha la possibilità di scegliere sempre i ruoli migliori. Affinché si verifichi l’effetto superstar, ci deve essere un meccanismo del tipo “il vincitore-piglia-tutto” all’interno del processo produttivo. Nel tennis questo 7

La discussione sviluppata in questo paragrafo è tratta da Frank R., The Economics of Buying the Best, Cornell University Department of Economics Working Paper, 1978, e Rosen S., “The Economics of Superstars”, American Economic Review, settembre 1981. Si veda inoltre Frank R., Cook P., The Winner-Take-All Society, The Free Press, New York 1995.

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Capitolo 14

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meccanismo risiede nel fatto che i giocatori più quotati catturano l’attenzione di quasi tutti gli appassionati. Nell’esempio Samsung-Apple, l’avvocato migliore vinceva la causa. Affinché l’effetto superstar sia rilevante, la posta in gioco deve essere cospicua, come in ognuno degli esempi fatti. La teoria secondo cui la produttività marginale è alla base della determinazione delle retribuzioni è stata criticata con l’argomento che i lavoratori con capacità pressoché identiche percepiscono redditi fortemente disuguali. A prima vista, tali considerazioni sembrano confutare quella teoria; ma, a uno sguardo più attento, vediamo che i critici sono stati troppo frettolosi nel condannare il modello. La difficoltà, come abbiamo visto, è che piccole differenze di capacità talvolta si traducono in ampie differenze nei valori del prodotto marginale.

14.16  Il capitale finanziario e il capitale reale Quando si utilizza il termine “capitale”, normalmente ci si può riferire a due cose molto differenti. Si può parlare del capitale finanziario, che consiste essenzialmente nella moneta e in altre forme di attività cartacea che hanno la stessa funzione. Oppure si può parlare del capitale reale, cioè dell’attrezzatura produttiva (per esempio, un tornio o una pressa) che genera un flusso di servizi produttivi nel tempo. Quando si parla di capitale come fattore produttivo, ci si riferisce quasi sempre al capitale reale.8 Parlando del “mercato dei capitali”, invece, ci si riferisce generalmente al mercato del capitale finanziario, ovvero ai prestiti bancari, al capitale azionario e alle obbligazioni. Nei paragrafi successivi ci occuperemo principalmente del capitale reale, ma siccome le imprese hanno bisogno di capitale finanziario per acquistare capitale reale, dovremo considerare anche i mercati finanziari.

Capitale finanziario Moneta e altre forme di attività cartacea che hanno la stessa funzione. Capitale reale Attrezzatura produttiva che genera un flusso di servizi produttivi nel tempo.

14.17  La domanda di capitale reale La teoria, già esposta, della domanda di lavoro della singola impresa può essere applicata direttamente alla domanda di altri fattori produttivi. Nel breve periodo un’impresa che può acquistare i servizi di un determinato bene capitale pagando un prezzo per unità di capitale impiegata, r/anno, che è indipendente dalla quantità acquistata, deve impiegare la quantità di capitale in corrispondenza della quale il ricavo del prodotto marginale (MRPK) coincide con il prezzo: MRPK = MR × MPK = r

(14.4)

dove MR è il ricavo marginale dell’impresa e MPK è il prodotto marginale del capitale. Se l’impresa opera in concorrenza perfetta, e quindi il ricavo marginale è uguale al prezzo del prodotto, l’Equazione 14.4 diventa: VMPK = P × MPK = r

(14.5)

dove VMPK indica il valore del prodotto marginale del capitale e P è il prezzo dell’output dell’impresa. In un’industria in concorrenza perfetta, l’aggregazione delle curve di domanda di capitale da parte delle singole imprese in un’unica curva di domanda per l’intera 8

Fa eccezione quello che viene chiamato “capitale circolante”, cioè il denaro che l’impresa tiene a portata di mano per poter effettuare i pagamenti tempestivi, quando le entrate correnti non sono sufficienti. Dato che permette all’impresa una maggiore efficienza, il capitale circolante è un fattore di produzione a pieno titolo, tanto quanto il lavoro e i macchinari.

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Parte 3

Retribuzioni lorde e nette nei paesi dell’area euro

Applicazione 14.1

Le retribuzioni nette effettivamente percepite dai lavoratori in busta paga in genere sono inferiori rispetto a quelle lorde pagate dalle imprese. Da un lato vi sono le imposte a carico dei lavoratori, normalmente prelevate “alla fonte” direttamente dai datori di lavoro, dall'altro possono contenere altri emolumenti che non hanno nulla a che fare con la prestazione lavorativa effettuata dal lavoratore quali, ad esempio, assegni per familiari a carico. Da qui la differenza, talvolta notevole, tra la retribuzione netta e quella lorda che, come si osserva dai dati riportati nella Tabella 14.2*, per l’Italia nel 2015 è pari a oltre 10 mila euro, ma che supera i 19 mila euro per il Belgio e i 18 mila euro per la Germania. Inoltre, negli ultimi anni l’andamento delle retribuzioni medie, sia lorde che nette, è stato differenziato da paese a paese. Nel 2015, le retribuzioni lorde più elevate sono state quelle percepite in Lussemburgo, Olanda e Germania, Tabella 14.2  Retribuzioni lorde e nette nei 19 paesi dell’area euro. Retribuzioni lorde

Retribuzioni nette

Tassi di crescita % 2003/2015

2003

2007

2015

2003

2007

2015

Retrib. lorde

Retrib. nette

Austria

32 288

36 228

43 484

21 957

23 970

28 307

2,48

2,12

Belgio

34 643

38 659

46 693

20 098

22 397

27 062

2,49

2,48

Cipro

15 915

22 337

14 912

20 434

8,47

7,88

Estonia

5332

8694

12 926

4106

6942

10 545

7,38

7,86

Finlandia

30 414

35 559

43 536

20 724

26 475

30 065

2,99

3,10

Francia

28 847

36 980

37 792

20 500

27 301

26 856

2,25

2,25

Germania

37 200

45 170

47 042

21 067

15 347

28 383

1,96

2,48

Grecia

12 960

20 603

20 296

10 753

26 324

15 357

3,74

2,97

Irlanda

26 546

32 380

34 847

22 228

26 861

27 991

2,27

1,92

Italia

23 113

29 704

30 710

16 618

20 487

20 702

2,37

1,83

Lettonia

6690

9830

4780

6902

4,81

4,59

Lituania

6322

8116

4726

6284

3,12

3,56

Lussemburgo

39 587

52 902

55 553

29 859

37 426

38 490

2,82

2,12

Malta

14 241

16 669

20 500

11 755

12 893

16 584

3,04

2,87

Paesi Bassi

36 600

48 109

49 235

25 207

33 114

34 499

2,47

2,62

Portogallo

13 350

16 091

17 280

10 347

12 415

12 390

2,15

1,50

Slovacchia

4165

7997

10 616

3309

6213

8170

7,80

7,53

Slovenia

11 932

17 610

18 109

7703

11 789

12 072

3,48

3,74

Spagna

19 385

26 027

26 259

15 549

20 062

20 618

2,53

2,35

Fonte: Eurostat (2016). I dati riferiti a Cipro si fermano al 2007; per Lettonia, Lituania e Malta gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2014. I tassi di crescita riferiti a questi tre paesi sono calcolati per il periodo 2003/2014, mentre quelli per Cipro per il periodo 2003/2007. *La retribuzione presa in esame è quella media annua di un lavoratore del settore industriale e dei servizi senza figli a carico.

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Capitolo 14

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quelle più basse sono quelle dei Paesi di recente adesione all’euro (Lettonia e Lituania). In riferimento alle retribuzioni nette, il Lussemburgo e l’Olanda sono in testa, seguiti dalla Finlandia, mentre in fondo alla graduatoria si collocano ancora una volta Lettonia e Lituania. Infine, anche il tasso di crescita delle retribuzioni è stato molto differenziato tra paesi nel corso del periodo considerato. In particolare, il tasso di crescita delle retribuzioni nette è stato in generale più elevato nei Paesi che partivano da livelli di reddito più bassi; mentre è risultato contenuto sotto il 2% in Irlanda, Italia e Portogallo.

industria comporta gli stessi problemi incontrati nel caso della domanda di lavoro: un’espansione dell’output dell’industria causa una riduzione del prezzo del prodotto e, per questa via, una diminuzione del capitale domandato. Anche la curva di domanda in caso di monopolio tiene conto di questo effetto. Una sostanziale differenza tra i mercati del lavoro e del capitale è che, mentre i lavoratori tendono a specializzarsi in particolari attività, il capitale finanziario è quasi completamente fungibile: una quantità data di capitale può finanziare la costruzione di una gelatiera come quella di una pressa, oppure la produzione di un cartone animato. Tuttavia, una volta che il capitale finanziario è utilizzato per acquistare capitale reale, la fungibilità si riduce notevolmente. E anzi, mentre la forza lavoro può, a un certo costo, essere riaddestrata per svolgere nuove mansioni in circostanze mutate, è molto più difficile trasformare un trapano in una macchina da cucire.

14.18  I l rapporto tra il prezzo dei servizi del capitale e il tasso di interesse Qual è il rapporto che lega il prezzo dei servizi di un’unità di capitale reale per unità di tempo e il tasso di interesse a cui viene prestato il capitale finanziario? Per rispondere a questa domanda, mettetevi dal punto di vista di un’impresa che dà in affitto macchinari. Supponiamo che l’acquisto di un particolare macchinario comporti una spesa di 1000 € e che il tasso di interesse sui depositi bancari, che per l’impresa rappresenta un mancato guadagno, sia pari al 5% all’anno. Per coprire appena il costo opportunità derivante dal fatto di aver investito 1000 € nel macchinario, occorrerebbe affittarlo a 50 €/anno. Generalmente, però, vi saranno anche altri costi. Supponiamo che il macchinario necessiti di manutenzione per un valore di 100 €/anno; il prezzo che copre appena i costi diviene 150 €/anno. Infine, si devono considerare le variazioni nel prezzo futuro del macchinario. Per semplicità, supponiamo che il livello generale dei prezzi sia stabile (più avanti esamineremo che cosa succede quando questa ipotesi viene meno). Anche se ben tenuto, un macchinario perderà parte del suo valore ogni anno. Inoltre, quando vengono messi sul mercato macchinari nuovi e più efficienti, un macchinario può perdere improvvisamente il suo valore economico, anche se continua a funzionare perfettamente da un punto di vista tecnico. Tale fenomeno è detto obsolescenza tecnologica. Se il risultato di questi due fattori (deterioramento fisico e obsolescenza tecnologica), relativamente al macchinario dell’esempio, è una diminuzione di prezzo di 100 €/anno, il costo totale sarà 250 €/anno (50 € per gli interessi mancati, 100 € per la manutenzione e 100 € per la perdita di valore di mercato). Qualsiasi costo aggiuntivo relativo alle spese di gestione (per esempio, i salari del personale) dovrà essere aggiunto a tale somma.

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Obsolescenza tecnologica Processo in base al quale un bene perde valore non a causa di un deterioramento fisico, ma perché il progresso tecnologico rende più attraenti altri beni sostitutivi.

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Parte 3

Indichiamo con m le spese annuali di manutenzione, espresse come quota del prezzo del bene capitale, e con ∂ il deprezzamento fisico e tecnologico, sempre come quota del prezzo del bene capitale. Se i corrisponde al tasso di interesse di mercato, allora il prezzo dei servizi del capitale, k, sarà pari alla somma di i, m e ∂:

k = i + m + ∂

(14.6)

Alle volte, il valore di un macchinario può aumentare nel tempo anziché diminuire. Questo accade, per esempio, quando un input fondamentale per la costruzione di un determinato macchinario diventa più costoso. In questi casi, il termine ∂ nell’Equazione 14.6 è negativo. Per esempio, se l’impresa citata precedentemente si fosse aspettata un aumento del prezzo del macchinario pari a 100 € nel corso dell’anno successivo, avrebbe potuto imporre un canone di soli 50 €, 200 € in meno rispetto al caso in cui il prezzo del macchinario fosse diminuito di 100 €. Le aspettative di futuri aumenti nel prezzo delle attività possono spiegare il fatto che, quando i prezzi delle case stanno crescendo rapidamente, gli affitti sono spesso più bassi dei corrispondenti interessi pagati sui mutui.

Esercizio 14.7 Supponiamo che una macchina che distribuisce Coca-Cola abbia un prezzo di acquisto pari a 5000 €. Se, in termini unitari, il tasso di interesse annuale è 0,08, il costo di manutenzione è 0,02 e il tasso di deprezzamento fisico e tecnologico è 0,10, quale sarà il canone annuale per l’affitto della macchina?

14.19  I calcoli che guidano l’acquisto di un bene capitale Un altro elemento che differenzia il capitale dal lavoro è il fatto che le imprese possono scegliere se acquistare un bene capitale o meno. Gli atleti professionisti alle volte vengono comprati né più né meno come se fossero macchine, ma non possono essere obbligati a giocare indefinitamente in una squadra contro la loro volontà. I contratti lavorativi, in genere, permettono ai lavoratori di andarsene quando i termini non sono più favorevoli; sarebbe infatti irrealistico, a meno di non ripristinare un regime di schiavitù, obbligare un lavoratore scontento a lavorare in modo efficiente per un’impresa. Una macchina non gode di tale libertà: viene venduta al miglior offerente, punto e basta. Quali sono le variabili che spingono un’impresa a decidere se comprare un determinato bene capitale? Come sempre, l’impresa vorrà confrontare i benefici derivanti dalla proprietà di quel bene con i relativi costi. Per quanto concerne i benefici, il macchinario farà aumentare il livello della produzione, non solo per il periodo corrente, ma anche in futuro. Supponiamo che l’output aggiuntivo accresca i ricavi dell’impresa di R in ognuno dei prossimi N anni. Supponiamo, inoltre, che il macchinario abbia un costo annuale di manutenzione pari a M, e che alla fine degli N anni abbia un valore di S euro. Infine, supponiamo che l’impresa che acquista questo macchinario si prefigga di utilizzarlo per N anni e di rivenderlo poi al valore S. Quale sarà il valore attuale del maggior flusso dei profitti dell’impresa? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tradurre i ricavi netti che l’impresa otterrà in futuro in valori attuali equivalenti. Come si è visto nel Capitolo 5, il valore attuale di un euro di cui si avrà disponibilità tra un anno è pari a 1/(1 + i), dove i è il tasso di interesse di mercato. Il valore attuale netto (NPV, dall’inglese Net

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Capitolo 14

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Present Value) del flusso dei profitti generati dal macchinario, incluso il guadagno derivante dalla rivendita finale, sarà quindi dato da: NPV =

R−M R−M R−M S + + ... + + 1+i (1 + i) 2 (1 + i) N (1 + i) N

(14.7)

Il costo del macchinario è semplicemente il suo prezzo d’acquisto, PK. Il criterio decisionale dell’impresa dovrebbe essere quello di acquistare il macchinario se e solo se NPV è maggiore o uguale a PK. Vediamo dall’Equazione 14.7 che NPV è inversamente correlato al tasso di interesse di mercato. Quindi, come nel caso dell’impresa che prende in affitto i propri macchinari, l’impresa proprietaria dei suoi beni capitali vorrà impiegarne una quantità tanto maggiore quanto minore è il tasso di interesse.

Esercizio 14.8 Supponiamo che un macchinario generi un ricavo pari a 121 € alla fine di ciascuno dei 2 anni della sua vita economica; trascorso questo periodo, può essere rivenduto a un’impresa di rottami per 242 €. Se il tasso annuale unitario di interesse è 0,10, qual è il valore massimo che un’impresa sarebbe disposta a spendere per questo macchinario?

14.20  Come si determina il tasso di interesse Come si è visto, la domanda di beni capitali da parte di un’impresa dipende dal tasso di interesse, dal prezzo di acquisto del capitale e dai tassi di deprezzamento tecnologico e fisico. Il tasso di interesse è, a sua volta, determinato dall’intersezione delle curve di domanda e di offerta dei fondi che possono essere presi e concessi a prestito. Dato che il capitale finanziario è perfettamente flessibile, il mercato dei fondi prestabili è l’espressione concreta della nozione ideale di mercato di un prodotto omogeneo e standardizzato. Si ha così un unico mercato nazionale (anzi, addirittura internazionale) dei fondi prestabili, dove il tasso di interesse pagato da una determinata categoria di operatori è virtualmente uguale dappertutto. Qual è il legame tra la domanda di fondi prestabili e la domanda di beni capitali? La domanda di capitale da parte di un’impresa indica quanto capitale fisico essa sia disposta a impiegare per ogni dato prezzo dei servizi del capitale k. Se l’impresa è attiva da un certo tempo, probabilmente avrà già a disposizione buona parte del suo fabbisogno di capitale. Ipotizziamo allora che, nel corso dell’anno corrente, l’impresa decida di colmare il divario tra il capitale che ha già e quello che vorrebbe avere. Tale divario corrisponde quindi alla sua domanda di fondi prestabili. Analogamente, per l’intera industria, la domanda di fondi prestabili corrisponde alla differenza tra il capitale che le imprese nel loro complesso vorrebbero avere e quello che hanno già. Il prezzo che si determina nel mercato dei fondi prestabili è il tasso di interesse. Le imprese non sono le sole a operare su questo mercato. I consumatori prendono fondi a prestito per finanziare l’acquisto di case, automobili e altri beni. Lo Stato prende fondi a prestito per costruire scuole e strade e, sempre più frequentemente, per finanziare il proprio deficit di bilancio. La curva di domanda di tutti i fondi prestabili è la somma orizzontale di questi diversi tipi di domanda. Analogamente, dal lato dell’offerta vi sono diverse fonti di credito. I risparmi dei consumatori si aggiungono ai fondi derivanti dai profitti delle imprese; negli ultimi

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Parte 3

Figura 14.18 Equilibrio nel mercato dei fondi prestabili. La quantità di fondi prestabili richiesti (D) per ogni tasso di interesse è pari alla differenza tra lo stock di capitale desiderato per quel livello di tasso di interesse e la quantità di capitale già posseduta. L’offerta di fondi prestabili (S) viene dai consumatori, dalle imprese e dagli investitori esteri. Il ruolo crescente degli investitori esteri sui mercati dei capitali assicura che la curva di offerta dei fondi prestabili sia inclinata positivamente.

Tasso di interesse

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S

i*

D LF*

Fondi prestabili (€/anno)

anni, inoltre, ha avuto crescente importanza nei mercati finanziari dei Paesi occidentali la partecipazione di prestatori esteri. Come si è visto nel Capitolo 5, la teoria del comportamento del consumatore ci dice che un incremento del tasso di interesse può causare sia un aumento sia una diminuzione dei risparmi dei consumatori. Il risultato totale è dato dalla combinazione dell’effetto di sostituzione e di quello di reddito, e la teoria non è in grado di dire quale dei due prevarrà. Gli studi empirici mostrano che il risparmio presenta un’elasticità rispetto al tasso di interesse che è a volte positiva, a volte negativa, ma comunque sempre piuttosto bassa. Per quanto riguarda il risparmio delle imprese, non vi è un effetto di reddito analogo a quello operante nel caso dei consumatori, cosicché l’offerta di fondi sarà positivamente correlata al tasso di interesse. La maggior parte dei prestatori esteri è disposta a offrire fondi sul mercato italiano quando da noi il tasso di interesse è uguale o superiore a quello che ricaverebbero nei rispettivi Paesi di origine. Sommando orizzontalmente tutte le fonti di credito disponibili, otteniamo la curva di offerta per l’intero mercato dei fondi prestabili. Nella Figura 14.18, l’intersezione di questa curva con la curva di domanda di fondi determina sia il tasso di interesse di mercato, i*, sia il volume totale di fondi prestati, LF* (dall’inglese Loanable Funds).

14.21  I tassi di interesse reali e nominali Supponiamo che otteniate da una banca un prestito di 1000 €, con l’obbligo di rimborsarlo dopo un anno a un tasso di interesse del 5%. Se, dopo un anno, il livello generale dei prezzi aumenta del 10% (come accadrebbe se, per esempio, ogni singolo prezzo aumentasse del 10%), quale sarà il costo reale del vostro prestito? Per rispondere a questa domanda, immaginiamo che, quando avete preso a prestito il denaro, l’abbiate impiegato per comprare 1 kg di argento. Poiché il prezzo dell’argento, come il prezzo di qualsiasi bene, aumenta del 10% all’anno, potrete rivendere l’argento a 1100 € quando il vostro credito maturerà. Il ricavo di questa vendita vi frutterà 50 € in più dei 1050 € che dovete restituire alla banca. Il costo reale del vostro prestito, misurato nel giorno della scadenza, è quindi −50 €. Non solo non avete sopportato un costo reale in termini di risorse, ma anzi il prestito vi ha fatto guadagnare 50 €. Dal lato opposto della transazione, invece, la banca ha perduto 50 €. Ovviamente una banca non può sperare di fare molti affari se continua a concedere prestiti a termini così svantaggiosi. Quando le banche reputano che il livello generale dei prezzi aumenterà, imporranno una maggiorazione di prezzo per

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Capitolo 14

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neutralizzare l’erosione del potere di acquisto reale del rimborso futuro del credito. Il valore indicato nel contratto di credito bancario è denominato tasso di interesse nominale (5% nel nostro esempio). Se indichiamo con n il tasso annuale di interesse nominale, espresso in percentuale, e con q il tasso annuale di inflazione, sempre in percentuale, allora il tasso di interesse reale sarà dato da: i=

n−q 1+q

(14.8)

Usando i valori dell’esempio precedente, abbiamo i = (0,05 − 0,10)/1,10 = −0,0455, ovvero −4,55%. Possiamo vedere dall’Equazione 14.8 che, se il tasso di inflazione è sufficientemente piccolo, il tasso di interesse reale si approssima alla differenza tra il tasso di interesse nominale e il tasso di inflazione, n − q. In tutti gli esempi precedenti si ipotizzava implicitamente che il tasso di interesse fosse il tasso di interesse reale. Nelle decisioni d’investimento, un’impresa confronta i costi reali del capitale con i benefici reali, e investe solo se i primi sono minori dei secondi.

Perché si verificano le corse agli sportelli delle banche? Nel film Mary Poppins, il signor Banks, impiegato alla Grande Banca di Credito, Risparmio e Sicurtà Dawes Tomes Mousley Grubbs, porta i suoi figli a visitare la banca. Mentre è là, i proprietari, il signor Dawes Junior e Dawes Senior, cercano di convincere Michael a investire i suoi due penny nel loro istituto, ma il bambino rifiuta. Un cliente fraintende la discussione e comincia una corsa alla banca. La scena è insieme divertente e spaventosa, perché dimostra la vera fragilità degli istituti di credito. Questa fragilità è diventata fin troppo evidente durante la crisi del 2007, quando migliaia di clienti si sono messi in coda davanti alle filiali della banca inglese Northern Rock, decisi a ritirare i loro risparmi. Le corse alla banca costituiscono un esempio di crisi che si autoalimenta. Infatti, se tutti lasciassero i soldi in banca, questa sopravvivrebbe e il denaro sarebbe al sicuro. Se invece tutti ritirassero i soldi dalla banca, questa non sopravvivrebbe e il denaro andrebbe perso. Ciò implica un’interdipendenza tra i correntisti, che sarebbero disposti a fare un versamento alla Northern Rock se e solo se anche altri lo facessero. È importante ricordare, quindi, che la curva di offerta di capitale è derivata rispetto a precise aspettative di mercato. La curva di offerta di Northern Rock è cambiata all’improvviso quando i clienti hanno cominciato a mettersi in fila per ritirare i loro risparmi. Una dinamica simile si riscontra nel caso del debito degli Stati. Mentre la crisi dell’Eurozona si estendeva a Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, uno dopo l’altro i governi trovavano le loro riserve di capitale esaurite. Le crisi che si autoalimentano dovrebbero essere evitabili: basterebbe, infatti, eliminare l’elemento che le innesca. Il governo britannico attuò questo meccanismo fornendo la garanzia che, in caso di bancarotta dell’istituto, i risparmiatori non avrebbero perso il loro denaro. Allo stesso modo, i governi dell’Eurozona hanno stabilito misure con cui proteggersi contro ulteriori crisi di debito. Queste garanzie servono a rassicurare i creditori sul fatto che non si possano verificare crisi, in modo da non dovervi mai ricorrere. Gli scettici, tuttavia, sostengono che tali garanzie incoraggino cattive pratiche, per cui le banche si assumono certi rischi perché sanno che qualcun altro pagherà il conto e i governi continuano ad accumulare debiti. Non è stato del tutto casuale il fatto che la corsa alla banca si sia verificata proprio alla Northern Rock e sul debito greco.

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Naturalista economico 14.2

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Parte 3

14.22  Il mercato delle azioni e delle obbligazioni

Rendita perpetua Obbligazione che paga per sempre una somma fissa di denaro ogni anno.

Un metodo ampiamente utilizzato dalle imprese per raccogliere fondi per nuovi investimenti è quello di emettere titoli obbligazionari. Un’obbligazione è essenzialmente una promessa di pagamento emessa da un’impresa. L’investitore presta una somma di denaro all’impresa (per esempio, 10 000 €). Questa, in cambio, gli consegna un certificato con cui promette di pagare un dato tasso di interesse (per esempio, il 10%) per un determinato periodo. Il valore nominale dell’obbligazione corrisponde alla somma pagata dall’investitore al momento dell’emissione da parte dell’impresa. Le scadenze dei titoli obbligazionari possono variare notevolmente; le obbligazioni a breve termine spesso hanno una scadenza di soli 90 giorni, mentre molte obbligazioni a lungo termine maturano solo dopo 30 anni, e alcune hanno scadenze ancora più lunghe. Una volta acquistata, un’obbligazione può essere scambiata sul mercato. Se è un’obbligazione a breve termine, il suo prezzo non sarà molto diverso dal suo valore nominale. Per obbligazioni a più lungo termine, invece, il prezzo di mercato può scostarsi notevolmente dal valore nominale. Per comprendere il motivo, consideriamo un esempio: ipotizziamo che il tasso di interesse di mercato sia il 10%. Nel momento in cui un investitore acquista un’obbligazione del valore di 10 000 € dalla società emittente, l’obbligazione promette di pagare un interesse di 1000 €/anno per i prossimi 30 anni e di restituire interamente il valore di 10 000 € alla scadenza. Fino a quando il tasso di interesse rimane al 10%, l’obbligazione continuerà a “valere” 10 000 €, in quanto il pagamento dell’interesse annuale di 1000 € compensa pienamente l’investitore del costo opportunità relativo al dover fare a meno dei suoi 10 000 €. Ma supponiamo che il tasso di interesse diminuisca improvvisamente al 5%: ora il costo opportunità, da 1000 €/anno, si riduce a soli 500 €/anno. Il detentore di un’obbligazione che garantisce il pagamento di 1000 €/anno non sarà disposto a venderla per soli 10 000 €: con un tasso di interesse del 5%, gli servirebbero 20 000 € per guadagnare i 1000 €/anno che potrebbe ottenere se si tenesse l’obbligazione. Il prezzo dell’obbligazione in questo esempio non aumenterà fino a 20 000 €, poiché il nuovo acquirente sa che alla scadenza l’obbligazione varrà solo 10 000 €. Se la data di scadenza è vicina, il prezzo non sarà molto diverso da 10 000 €, indipendentemente dal tasso di interesse; ma più è lontana la data di scadenza, meno il valore nominale influenzerà il prezzo corrente di mercato. In realtà, vi è un particolare tipo di obbligazione, detto rendita perpetua, per cui il valore nominale non conta affatto. Una rendita perpetua è una promessa di pagare per sempre al portatore una somma fissa di denaro ogni anno. Approssimativamente, il prezzo corrente di mercato di una rendita perpetua corrisponde alla somma che sarebbe necessaria, dato il valore corrente del tasso di interesse, a generare lo stesso ammontare di interessi garantiti dalla rendita perpetua; così una rendita perpetua che garantisca un pagamento di 1000 €/ anno varrà 10 000 € quando il tasso di interesse è del 10% e 20 000 € quando è del 5%. Più in generale, se I rappresenta il pagamento annuale della rendita perpetua e i è il tasso di interesse di mercato, il prezzo della rendita perpetua, PC, sarà dato da:

I PC = i

(14.9)

Esercizio 14.9 Si consideri una rendita perpetua che garantisce al detentore un pagamento di 120 €/anno. Di quanto aumenta il prezzo di questa obbligazione se il tasso di interesse diminuisce dal 10 al 5%?

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Capitolo 14

Le imprese non sono le uniche istituzioni che emettono obbligazioni: anche lo Stato e gli enti pubblici hanno un ruolo importante nel mercato obbligazionario. Gli esempi discussi finora ipotizzavano implicitamente che vi fosse un unico tasso di interesse uniforme su tutto il mercato, ma in effetti esistono diversi tassi di interesse. La regola generale è che, quanto più alto è il rischio che il debitore non rimborsi il debito alla scadenza, tanto maggiore sarà il tasso di interesse che dovrà essere pagato. Le obbligazioni del Governo italiano presentano, nel mercato obbligazionario, un rischio di inadempienza più basso rispetto a quelle emesse dalla Fiat, e quindi tassi di interesse minori. Supponiamo, per esempio, che un’obbligazione di 10 000 € della Fiat con una scadenza di 30 anni garantisca un tasso di interesse annuale del 5%, mentre un’obbligazione analoga emessa dal Governo paghi solo il 3%. La differenza, in questo caso di due punti percentuali, è denominata premio per il rischio, e compensa l’investitore del fatto che la Fiat presenti una probabilità più alta di essere inadempiente rispetto al Governo italiano. Il proprietario di un’obbligazione non è proprietario di una quota della società: la sua posizione finanziaria è simile a quella di una banca che ha concesso un prestito. I proprietari effettivi sono gli azionisti. Un’impresa che vuole raccogliere fondi per investire in beni capitali si rivolge a un intermediario (broker) affinché organizzi l’emissione di nuove azioni. L’intermediario prepara una descrizione delle proposte di investimento dell’impresa e, avvalendosi della sua rete di contatti con gli altri intermediari, mette in vendita il nuovo pacchetto di azioni. Se un’impresa vende 1 000 000 di azioni, ognuna costituisce un diritto a una quota pari a 1/1 000 000 dei profitti presenti e futuri dell’impresa. I profitti possono essere distribuiti direttamente agli azionisti sotto forma di dividendi, oppure possono essere reinvestiti, cosa che farà aumentare i profitti futuri. Quale sarà il prezzo delle azioni? Supponiamo che il valore corrente e futuro dei profitti della nostra ipotetica impresa sia noto e pari a 500 milioni di euro. Il prezzo di un’azione dovrebbe quindi essere 500 €. Se il prezzo fosse minore, gli investitori potrebbero aumentare immediatamente la loro ricchezza acquistando azioni dell’impresa; per un prezzo maggiore, nessuno sarebbe incentivato ad acquistarle. È molto difficile, o addirittura impossibile, che il flusso dei profitti futuri di un’impresa sia noto con certezza. Il prezzo che gli investitori sono disposti a pagare per un’azione dipende dalle loro stime sulle prospettive dell’impresa. Per imprese di recente formazione o che operano in settori non ancora consolidati, il rischio è notevole. Se un’azienda nel settore delle biotecnologie scoprisse il modo di riprodurre una proteina in grado di distruggere il virus dell’AIDS, i suoi profitti sarebbero enormi: ma se vi sono molte società che vogliono arrivare per prime a quel risultato, sicuramente tutte tranne una falliranno. In altri settori, invece, le prospettive economiche di un’impresa sono più facili da prevedere. La Hertz noleggia automobili da decenni e in questo settore non si vedono particolari sorprese all’orizzonte. Ma, come non ha quasi alcuna possibilità di avere un grosso colpo di fortuna, così la Hertz ha alte probabilità di continuare a sopravvivere. Si considerino due imprese il cui valore atteso dei profitti correnti e futuri sia lo stesso. Tuttavia, mentre il valore attuale del flusso dei profitti dell’impresa 1 è 100 milioni di euro, con certezza, il valore attuale del flusso dei profitti dell’impresa 2 ha la stessa probabilità di essere pari a 200 milioni di euro o a zero. Se fossero in vendita allo stesso prezzo, di quale impresa preferireste acquistare le azioni? Se siete come la maggior parte degli investitori, sarete avversi al rischio (si veda il Capitolo 6) e quindi preferirete l’impresa 1, che rappresenta l’investimento più sicuro. Dato che molti investitori hanno questo tipo di preferenze, le azioni delle imprese con guadagni futuri a più alto rischio sono generalmente vendute a prezzi

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Premio per il rischio Differenza necessaria a compensare chi fornisce un bene o un servizio per il fatto di dover correre un rischio.

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Parte 3

Figura 14.19 Il trade-off tra sicurezza e rendimento atteso. Dato che molti investitori sono avversi al rischio, le azioni più rischiose verranno acquistate solo se il loro rendimento atteso è maggiore di quello delle azioni meno rischiose. La specifica azione acquistata dipenderà dalle preferenze dell’acquirente. Investitori relativamente prudenti preferiranno azioni più sicure come quelle corrispondenti al punto C. Investitori meno prudenti rinunceranno in parte alla sicurezza a favore di rendimenti attesi maggiori relativi a investimenti come quelli corrispondenti al punto A.

Rendimento atteso

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Curva di indifferenza di un investitore meno prudente A B

Curva di indifferenza di un investitore più prudente C B Sicurezza

più bassi, per la stessa ragione per cui le obbligazioni più rischiose garantiscono tassi di interesse più elevati. Un investitore che opera nel mercato azionario ha una sorta di vincolo di bilancio simile alla curva BB nella Figura 14.19. Lungo BB, più sicuro è l’investimento, minore è il saggio atteso di rendimento. Inoltre, la curva BB è convessa in quanto, dato un investimento molto rischioso, è possibile aumentare relativamente di molto la sicurezza di tale investimento, rinunciando a poco rendimento. Infine, la quasi verticalità dell’ultimo tratto della curva suggerisce che, per avere molta sicurezza, occorre rinunciare quasi completamente a ottenere un saggio di rendimento positivo. Gli investitori con saggi marginali di sostituzione tra rendimento e sicurezza relativamente bassi sceglieranno investimenti rischiosi, che offrono rendimenti attesi relativamente alti, come A. Coloro che presentano saggi marginali di sostituzione tra rendimento e sicurezza più elevati preferiranno investimenti come C. Tutti vorrebbero avere azioni caratterizzate sia da rendimenti attesi elevati sia da un elevato grado di sicurezza; ma il mercato costringe ognuno a scegliere tra queste due caratteristiche.

14.22.1  L’ipotesi dei mercati efficienti È molto diffusa tra gli economisti la convinzione che il mercato azionario sia efficiente; con questo termine si intende che il prezzo di un’azione rispecchi tutte le informazioni disponibili sulle prospettive di redditività presente e futura dell’impresa. Si consideri l’esempio di una società di biotecnologia, di recente formazione ma di notevole successo, la Genentech. Supponiamo che, alla luce delle sue attuali prospettive di guadagno, il valore di un’azione della Genentech sia di 100 €. Ipotizziamo ora che uno dei ricercatori della Genentech scopra improvvisamente una cura miracolosa contro il cancro. La scoperta può essere facilmente brevettata; la società otterrà certo l’approvazione dalle autorità pubbliche per la sua scoperta e questo farà aumentare vertiginosamente le sue entrate; ma, a causa delle complesse procedure burocratiche, il processo di approvazione non impiega mai meno di tre anni. Leggendo su Il Sole 24 Ore di questa scoperta, decidete di comprare alcune azioni della Genentech. Si tratta di una mossa accorta da parte vostra? La risposta è quasi sicuramente negativa, ma non perché l’impresa non abbia le rosee prospettive future che le sono state pronosticate. La difficoltà, secondo l’ipotesi dei mercati efficienti, risiede nel fatto che il valore della scoperta viene immediatamente considerato dal mercato e si riflette subito nel prezzo delle azioni. Nel momento in cui venite a sapere della scoperta, l’aumento di prezzo è sicuramente già avvenuto.

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I critici dell’ipotesi dei mercati efficienti spesso muovono l’obiezione che essa si riferisce a un mondo ideale senza attriti. Essi sostengono che, nel mondo reale, le informazioni possono circolare molto lentamente, cosicché i conseguenti effetti saranno graduali e protratti nel tempo; concludono, quindi, che, se la notizia della scoperta della Genentech è solo di una settimana prima, vi sarà ancora spazio per ulteriori aumenti di prezzo. Questo approccio è quasi certamente sbagliato: si basa su un malinteso derivante dal fatto che le nuove informazioni, in genere, non sono così certe come quella del nostro esempio. Nella realtà sarebbe molto più plausibile che, per esempio, si venisse a sapere che un ricercatore della Genentech ha fatto notevoli progressi nello studio di una cura contro il cancro. Questa informazione più limitata giustificherebbe un incremento molto più moderato del prezzo delle azioni, seguito da ulteriori aumenti se le ricerche continuassero a essere promettenti; ma vi sarebbe una drastica riduzione dei prezzi se, invece, le ricerche si risolvessero in un nulla di fatto. In tutti i casi, in ogni momento il prezzo delle azioni rifletterebbe l’intero valore dell’informazione. Dato che le informazioni relative alle nuove prospettive di profitto emergono gradualmente, molti osservatori giungono alla conclusione errata che anche la reazione del mercato alle nuove informazioni sia graduale. Diversamente dal nostro esempio ipotetico, nel mondo reale è generalmente difficile quantificare in modo esatto l’informazione disponibile in un determinato momento. Inoltre, vi è sempre un certo margine per differenti interpretazioni di una stessa informazione. Per queste ragioni è estremamente difficile verificare empiricamente l’ipotesi dei mercati efficienti; ciononostante, la maggior parte degli economisti è convinta che essa, in generale, sia corretta. Se l’ipotesi è impossibile da verificare direttamente, perché gli economisti la trovano così convincente? La risposta è che l’ipotesi alternativa (ovvero che i prezzi delle azioni non rispecchino tutte le informazioni disponibili) porta a conclusioni difficilmente accettabili. Per illustrare ciò, consideriamo nuovamente il nostro esempio della cura contro il cancro, e supponiamo che il prezzo non si aggiusti immediatamente sul mercato in modo tale da riflettere i futuri profitti conseguenti alla scoperta. Allora qualunque investitore potrebbe semplicemente alzare il telefono e ordinare al proprio agente di cambio di comprare tutte le azioni della Genentech che può permettersi di acquistare; potrebbe, quindi, sedersi e aspettare che il prezzo delle azioni salga, fino a riflettere pienamente le nuove informazioni disponibili, ottenendo con certezza un guadagno notevole. La convinzione più profonda degli economisti è che l’unico modo per ottenere tale guadagno sia dato da una combinazione di talento, duro lavoro e fortuna. Ma se neghiamo l’ipotesi dei mercati efficienti, vi possono essere guadagni certi alla portata di tutti, come nel nostro esempio. Non abbiamo bisogno di talento; non è necessario lavorare duramente e, visto che l’informazione è sicura, non dobbiamo nemmeno essere fortunati. Dobbiamo solo telefonare a un intermediario finanziario e aspettare i soldi. Molti sarebbero contentissimi di guadagnarsi da vivere senza fatica in questo modo. Il fatto che nella realtà sia pressoché impossibile farlo basta agli economisti per convalidare l’ipotesi dell’efficienza dei mercati. L’ipotesi dei mercati efficienti ci aiuta a spiegare perché le azioni delle imprese meglio gestite, di norma, non hanno rendimenti più alti della media del mercato. Se hanno effettivamente profitti più elevati dovuti a una migliore gestione, e se gli investitori ne sono al corrente, allora i prezzi delle loro azioni saranno più alti fin dall’inizio e non vi è ragione di aspettarsi che aumentino più rapidamente dei prezzi delle altre azioni, consentendo, in tal modo, di realizzare rendimenti superiori rispetto alla media del mercato.

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14.23  Il mistero dei bollettini finanziari Mi diverto sempre quando mi viene chiesto un consiglio da esperto sul mercato finanziario. Per esempio, quando durante una festa la gente viene a sapere che sono un economista, spesso mi chiede che tipo di azioni dovrebbe comprare. In genere rispondo loro che, se sapessi la risposta, non avrei bisogno di lavorare per guadagnarmi da vivere. Molti agenti di Borsa, non sapendo che sono un economista, trovano il mio nome su una mailing list e mi offrono i loro servizi. Di nuovo sono costretto a declinare l’offerta, e certo non perché sappia già quali sono le azioni che frutteranno di più. Per l’ipotesi dei mercati efficienti, la maggior parte degli economisti crede che sia generalmente inutile seguire i consigli finanziari. L’unica importante eccezione a questa regola generale si verifica quando il consiglio è basato su informazioni non disponibili ad altri investitori. Supponiamo, per esempio, che il ricercatore della Genentech che ha scoperto la cura miracolosa contro il cancro sia vostro fratello. Voi siete al corrente del fatto che lui sta lavorando a questo problema, e un giorno improvvisamente lo sentite gridare “Eureka!” e capite che ha appena trovato la soluzione. Poiché avete avuto questa informazione prima di chiunque altro, potete essere sicuri di guadagnare molto comprando azioni della Genentech.Ma si noti che nemmeno questo esempio vìola la regola per cui guadagni significativi richiedono talento, duro lavoro o fortuna: in questo caso, siete semplicemente fortunati a ricevere l’informazione prima di chiunque altro. Generalmente, le informazioni che riceviamo riguardo a nuove possibilità di profitto risalgono a giorni, settimane o mesi prima. È difficile credere che notizie di questo genere possano avere ancora un valore economico; eppure anche gli investitori accorti e navigati si comportano spesso come se notizie ormai vecchie fossero di gran valore. Uno degli esempi più misteriosi di questo comportamento è costituito dai bollettini finanziari. La maggior parte delle società di intermediazione impiega un gran numero di analisti finanziari per mantenersi al passo con gli sviluppi dei settori industriali. Le deduzioni di questi analisti sono spesso raccolte in bollettini, che vengono inviati agli abbonati. Normalmente abbonarsi a questi bollettini, che in genere escono solo una volta al mese, costa diverse centinaia di euro l’anno. La domanda che si pongono gli economisti è: perché qualcuno dovrebbe reputare che valga la pena di agire sulla base di questi consigli? Si consideri il seguente esempio. Il 1° giugno, un analista scopre che procedure contabili sbagliate hanno comportato una sottostima dei profitti di una data società. Poiché gli investitori reputavano che l’impresa fosse meno redditizia di quanto era in realtà, le sue azioni erano state vendute a un prezzo troppo basso. L’analista discute questa scoperta con i suoi colleghi e superiori, che procedono ad alcune verifiche confermando la sua deduzione. Il 15 giugno egli scrive un articolo in proposito per il bollettino della società: il bollettino viene inviato in composizione il 22 giugno e restituito per la correzione delle bozze il 6 luglio; vengono corretti gli errori e il tipografo consegna le copie finite il 20 luglio. Il personale prepara i bollettini da spedire, e questi arrivano nelle mani degli abbonati il 1° agosto. Durante i due mesi intercorsi tra la scoperta iniziale e il momento in cui la notizia raggiunge gli abbonati, numerose persone si sono trovate nella posizione di trarre vantaggio da essa. Tutto il personale della società di intermediazione, per esempio, ha quasi 60 giorni per acquistare le azioni in questione. Con le ampie risorse a cui gli agenti di cambio possono attingere, sarebbero sufficienti 60 minuti per sfruttare pienamente la scoperta. Certamente molti bollettini vengono pubblicati più di una volta al mese, ma anche con un bollettino a pubblicazione quotidiana il

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problema rimarrebbe sostanzialmente lo stesso. Anche su Internet, il mezzo di comunicazione istantaneo, è difficile essere i primi a scoprire un aggiornamento; in fondo, c’è sempre qualcuno che deve scrivere la pagina web. Perché un investitore dovrebbe pensare di poter guadagnare in base alle indicazioni di un bollettino finanziario? E, conseguentemente, perché dovrebbe essere disposto a spendere diverse centinaia di euro l’anno per ricevere questo tipo di informazioni? Forse molti investitori comprano questo bollettino non per ottenere consigli finanziari, ma per mantenersi informati sugli sviluppi dei settori industriali. L’acquisto e la vendita di attività finanziarie implicano transazioni tra esseri umani. Nelle riunioni sociali e negli incontri d’affari è naturalmente più vantaggioso sembrare ben informati, e la lettura di un bollettino può aiutare a raggiungere questo scopo, ma è difficile credere che qualcuno possa fare soldi seguendo i consigli che vi si leggono.

14.23.1  Consigli utili per chi investe La discussione precedente può dare l’impressione che i consulenti finanziari siano inutili. Al contrario, la consulenza finanziaria a livello professionale riveste un ruolo di grande importanza, solo che ha un contenuto diverso da quello che vorrebbero attribuirle molti investitori. L’ipotesi dei mercati efficienti suggerisce che i consulenti finanziari non saranno in grado di dirvi come scegliere le azioni che avranno rendimenti più alti, ma possono dirvi come selezionare il tipo di investimento che più si adatta ai vostri obiettivi finanziari. Più specificamente, possono aiutarvi a decidere in modo intelligente quale combinazione di rischio e rendimento atteso si adatta meglio ai vostri scopi. Se siete giovani e volete risparmiare per la pensione, sarà normalmente sensato acquistare un portafoglio di azioni più rischioso con rendimenti medi più alti. Tali azioni possono avere un andamento deludente durante alcuni periodi, ma, se la vostra preoccupazione effettiva è di avere l’incremento maggiore nel lungo periodo, questa è la combinazione migliore. Se, invece, siete vicini alla pensione, un consulente competente vi inviterà probabilmente a scegliere azioni più sicure ma con rendimenti attesi più bassi, poiché, in questa situazione, il vostro obiettivo principale non è quello di ottenere una crescita nel lungo periodo, ma di assicurarvi che i vostri risparmi non perdano di valore.

14.24  La rendita Nell’uso quotidiano, il termine “rendita” indica il pagamento percepito dal proprietario di un bene economico reale che ne cede l’uso a un altro soggetto. Nell’analisi economica, il termine ha una definizione particolare. La rendita economica è la differenza tra il pagamento effettivamente percepito dal proprietario di un fattore produttivo e il suo prezzo di riserva (la somma minima necessaria per indurlo a impiegare il fattore produttivo nell’uso attuale). Così, per esempio, se il proprietario di un terreno preferisse vederlo inutilizzato piuttosto che lasciarlo coltivare per meno di 100 €/mese, allora dei 250 € che riceve attualmente come canone mensile solo 150 € costituiscono una rendita economica. Quando la curva di offerta di un fattore produttivo è perfettamente rigida (ovvero quando il proprietario lo offrirebbe comunque, anche per un prezzo estremamente basso), allora l’intero pagamento costituisce la rendita economica; la situazione è illustrata nella Figura 14.20a. Supponiamo, invece, che il proprietario di un input abbia una curva di offerta inclinata positivamente, e che questa intersechi la curva di domanda dell’input in corrispondenza del prezzo r*1 (Figura 14.20b). Se tutti gli acquirenti si accordassero e facessero un’offerta del tipo “prendere o

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Rendita economica Differenza tra la remunerazione di un fattore di produzione e la somma minima necessaria per indurre il suo titolare a impiegarlo nella sua funzione corrente.

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Figura 14.20 Rendita economica. (a) Quando l’offerta di un fattore è perfettamente rigida, l’intero pagamento che esso percepisce costituisce una rendita economica. (b) La rendita economica percepita da un fattore con una curva di offerta inclinata positivamente corrisponde all’area ombreggiata al di sopra della curva di offerta.

r

r

S0

S1

r *0

r *1

D K *0 (a)

K

D K *1

K

(b)

lasciare” relativamente all’intero stock di K*1 unità dell’input, la somma minima che il proprietario sarebbe disposto ad accettare è quella corrispondente all’area sottostante la curva di offerta fino a K*1 (l’area in colore nel grafico b). Ma se gli acquirenti non si accordano, il proprietario riceverà per ogni unità il prezzo r*1 e quindi incasserà più della somma minima accettabile. La sua rendita economica è l’area ombreggiata sopra la curva di offerta. La rendita economica rappresenta l’omologo nel mercato dei fattori del surplus del produttore nel mercato dei beni. Ricordate che il surplus del produttore è il ricavo eccedente il minimo necessario per fornire una data quantità di output nel mercato dei beni. Analogamente alla rendita economica, il surplus del produttore è tanto maggiore quanto più rigida è la curva di offerta del prodotto, a parità delle altre condizioni. Il fatto che il pagamento di un fattore produttivo costituisca una rendita economica dipende, in parte, dal punto di vista da cui viene osservato. Considerate, per esempio, il terreno su cui si trova il quartier generale della McGraw-Hill Italia a Milano. Dal punto di vista del proprietario del terreno, il canone mensile di affitto non costituisce una rendita economica; dopotutto, se la casa editrice volesse pagare di meno, il proprietario potrebbe ottenere il canone desiderato affittando il terreno a qualcun altro. In questo senso, la McGraw-Hill non paga un centesimo più del necessario. Ma se guardiamo la transazione dal punto di vista del sistema economico nel suo complesso, il canone è costituito in gran parte da rendita economica, poiché il proprietario affitterebbe il terreno comunque, anche se il prezzo fosse molto più basso. Benché la rendita sia comunemente vista come reddito tipico dei proprietari di beni capitali, le rendite economiche sono forse ancora più importanti nel mercato del lavoro. Ricordate, in particolare, la nostra discussione sull’economia delle “superstar” in questo stesso capitolo; individui dotati di raro talento o particolari abilità spesso ricevono degli stipendi altissimi, anche se, in molti casi, sarebbero disposti a svolgere il loro lavoro per molto meno. I guadagni favolosi di alcuni personaggi dello spettacolo e dello sport sono in gran parte delle rendite economiche, non certo una compensazione per lo svantaggio di dover sacrificare il loro tempo libero.

14.25  L a differenziazione dei prezzi nei periodi in cui la domanda è più intensa La domanda di capitale da parte di un’impresa dipenderà non solo dal costo dei servizi dei beni capitali, ma anche da come vengono distribuiti questi costi tra gli acquirenti del prodotto finale. Per spiegare la natura di questa relazione (chiarendo

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allo stesso tempo un’importante questione di politica economica), consideriamo il caso dell’erogazione di energia elettrica, servizio la cui domanda varia notevolmente nel corso della giornata. Storicamente, questo servizio è stato gestito dallo Stato, che imponeva un prezzo uniforme per l’elettricità venduta in qualsiasi momento della giornata. Il prezzo veniva normalmente fissato a un livello sufficiente a coprire i costi del lavoro, dei macchinari, del combustibile e così via, oltre al normale rendimento degli investimenti. Recentemente, anche in Italia l’Enel ha deciso di cambiare politica tariffaria e di applicare a richiesta dell’utente una struttura di tariffe differenziate, in modo che i prezzi venissero adattati direttamente all’intensità dell’uso complessivo al momento del consumo. Quindi, per esempio, se la domanda è maggiore durante il giorno, possono essere imposti dei prezzi più alti per l’elettricità usata tra le 7 di mattina e le 7 di sera, rispetto alle altre ore del giorno. Questa struttura dei prezzi viene comunemente definita differenziale nei periodi in cui la domanda è più intensa (peak-load pricing). Per illustrare gli effetti di questa differenziazione dei prezzi, si consideri un servizio di fornitura di energia elettrica che utilizzi solo due input, i generatori e il combustibile. Supponiamo che, nel breve periodo, la domanda dei consumatori vari in base all’ora del giorno nel modo illustrato nella Figura 14.21. La curva di domanda durante le ore di ufficio è indicata con la denominazione “ore di punta”, la curva di domanda durante il resto della giornata è indicata con “ore non di punta”. Supponiamo che l’impresa inizialmente venda tutta l’energia allo stesso prezzo, 10 centesimi/kWh, e che i suoi ricavi a quel prezzo coprano esattamente i costi. Si noti nel grafico che, quando tutta l’energia viene venduta a 10 centesimi/kWh, la domanda dei periodi di punta è 250 MWh/mese. Se il costo medio di produzione è 10 centesimi/kWh, il costo marginale dell’energia fornita nelle ore non di punta deve essere inferiore, mentre il costo marginale relativo alle ore di punta deve essere maggiore. Questo è evidente, poiché è possibile servire un ulteriore utente nell’orario non di punta senza modificare gli impianti, mentre dovremmo aggiungere degli altri generatori per fornire energia a utenti addizionali nell’orario di punta. L’unico costo addizionale per fornire energia agli utenti nelle ore non di punta consiste nella maggiore quantità di combustibile necessaria per i generatori già in funzione. Supponiamo che questo costo marginale sia di 5 centesimi/kWh. Il costo addizionale durante il periodo di punta non includerà solo il costo del combustibile, ma anche il costo del capitale aggiuntivo, vale a dire il costo relativo al maggior numero di generatori da porre in funzione. Sempre a scopo espositivo, supponiamo che questi costi dei periodi di punta assommino a 12 centesimi/kWh.

Domanda delle ore non di punta

P (centesimi/kWh)

Domanda delle ore di punta

Costo delle ore di punta = 12 Costo medio = 10 Costo delle ore non di punta = 5 100

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140

205

250

Q (MWh/mese)

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Peak-load pricing Pratica che consiste nel fissare prezzi più alti per beni e servizi nei periodi in cui sono consumati più intensamente.

Figura 14.21 Effetto della differenziazione dei prezzi nei periodi di punta. Se i prezzi sono più alti nelle ore di punta (P = 12) rispetto alle ore non di punta (P = 5), i consumatori sono incentivati a trasferire parte della loro domanda alle ore non di punta. La conseguente riduzione del consumo nel periodo di punta permette di offrire il servizio ricorrendo a un numero notevolmente inferiore di macchinari.

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Supponiamo adesso che il prezzo per il consumo dell’energia venga fissato a 12 centesimi/kWh nel periodo di punta e a 5 centesimi/kWh nel periodo non di punta. Come si può notare nella Figura 14.21, il risultato è una riduzione del consumo durante il periodo di punta pari a 45 MWh/mese, in gran parte compensato da un aumento del consumo nel periodo non di punta. Questo spostamento della domanda si può realizzare in diversi modi. Per esempio, gli utenti possono acquistare dei timer in modo da far funzionare lo scaldabagno, i condizionatori d’aria o le stufe elettriche solo nei periodi non di punta. Analogamente, possono evitare di utilizzare le lavastoviglie, le lavatrici e gli aspirapolvere durante il periodo di punta. Il risultato netto di queste modifiche nelle consuetudini di consumo è che gli utenti si possono servire con una capacità, in termini di generatori installati, molto più piccola. Il conseguente risparmio di costi rappresenta un incremento reale del benessere dei consumatori. La differenziazione dei prezzi nei periodi in cui la domanda è più intensa non è assolutamente limitata all’erogazione dell’energia elettrica. Le compagnie aeree differenziano i prezzi in base ai periodi di punta, annullando in tutto o in parte i loro sconti durante i periodi di grande traffico. Molte stazioni sciistiche impongono prezzi più alti in corrispondenza delle principali festività. Differenze stagionali nei prezzi sono molto diffuse nei grandi alberghi. Come si era notato nel Capitolo 12, i biglietti di ingresso di molti cinema costano meno il pomeriggio. L’esperienza di queste differenziazioni dei prezzi ci indica che, quando i costi di capitale vengono fatti pagare direttamente agli utenti che ne sono responsabili, il livello globale di capitale richiesto viene ridotto notevolmente.

14.26  Le risorse naturali come fattori produttivi Oltre alle macchine e alle attrezzature che sono prodotte dall’uomo, anche le risorse naturali costituiscono un importante input in molti processi produttivi. Ai fini dell’analisi economica, le risorse naturali vengono generalmente distinte in due categorie: (1) risorse rinnovabili (per esempio, gli alberi) e (2) risorse non rinnovabili, che sono disponibili in quantità finite e non possono essere rimpiazzate una volta consumate (per esempio, il petrolio, l’oro, il titanio e l’alluminio). In particolare per queste ultime, appare interessante domandarsi in che modo vengano allocate in un mercato competitivo. Il proprietario di una risorsa non rinnovabile ha due possibilità: (1) tenersi la risorsa, oppure (2) venderla. Nel primo caso, vi è un costo opportunità implicito nella scelta: l’interesse che si otterrebbe se la risorsa venisse venduta e il ricavato venisse depositato in banca (o utilizzato per acquistare azioni od obbligazioni). L’unica ragione economica per la quale il proprietario può essere portato a non vendere la risorsa naturale consiste nell’aspettativa di un incremento nel prezzo della risorsa rispetto ai prezzi degli altri beni e servizi. Supponiamo che voi possediate alcuni milioni di barili di petrolio, che hanno un prezzo corrente pari a 50 €/barile. Se il tasso di interesse reale è del 5%, di quanto deve aumentare il prezzo del petrolio nel corso dell’anno perché voi siate disposti a tenervi almeno una parte del vostro petrolio? Supponiamo che il prezzo aumenti del 10% fino a 55 €/barile. Se voi vendeste tutto il petrolio adesso e depositaste il ricavato in banca al tasso del 5%, il vostro patrimonio totale aumenterebbe del 5% in un anno. Se invece non vendeste il petrolio, il vostro patrimonio aumenterebbe del 10%. Dato che la seconda alternativa è ovviamente più redditizia, è probabile che non venderete nemmeno un barile del vostro petrolio. Invece, se si prevedesse che il prezzo del petrolio aumenti a solo 51 €/barile nel corso dell’anno, sarebbe più conveniente vendere

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tutto il petrolio e investire il ricavato al tasso del 5%. Un incremento di 1 €/barile significa che il valore del petrolio aumenta solo del 2%. Risulta chiaro da questo esempio che, per mantenere in equilibrio il mercato di una risorsa non rinnovabile, il suo prezzo deve avere un tasso di crescita esattamente pari al tasso di interesse reale. Un tasso di crescita leggermente inferiore condurrebbe tutti i proprietari a vendere; un tasso di crescita leggermente superiore comporterebbe un totale arresto degli scambi. Supponiamo che P0 indichi il prezzo corrente di una risorsa non rinnovabile, per esempio il petrolio. Se questo prezzo cresce al tasso annuo i, allora l’espressione matematica del prezzo dopo t anni sarà data da:9 Pt = P0 (1 + i)t

(14.10)

Prezzo

il cui grafico è rappresentato dalla Figura 14.22. Il fatto che i prezzi delle risorse non rinnovabili tendano a crescere a un tasso pari al tasso di interesse reale porta a due importanti conclusioni. Primo, dato che le curve di domanda per le risorse non rinnovabili sono inclinate negativamente, come tutte le curve di domanda, l’incremento del prezzo porterà a una graduale riduzione della quantità domandata. Questo, a sua volta, implica che la scorta iniziale verrà esaurita gradualmente, e non in modo immediato. Man mano che si riduce la scorta iniziale, i prezzi più alti rallenteranno il tasso a cui la risorsa viene ulteriormente utilizzata. Un secondo importante effetto dei prezzi crescenti è quello di stimolare la ricerca di sostituti delle risorse non rinnovabili. Presto o tardi, la Terra finirà le sue scorte di petrolio e le attività che oggi ne richiedono l’utilizzo dovranno un giorno farne a meno, oppure dovranno essere eliminate del tutto. All’aumentare del prezzo del petrolio, gli imprenditori saranno fortemente incentivati a scoprire modi alternativi per continuare a svolgere quelle attività. Nonostante l’incertezza relativa al volume delle riserve di petrolio esistenti e ai costi futuri delle tecnologie alternative, i mercati del petrolio e delle altre risorse non rinnovabili operano, in generale, in modo ordinato. Le brusche oscillazioni di prezzo sono normalmente il risultato di contrazioni dell’offerta dovute a ragioni politiche. A maggio del 2006, per esempio, la tensione internazionale creata dalla crisi politica tra Iran e Stati Uniti, congiuntamente ad altre crisi locali in Nigeria e Bolivia, ha portato il prezzo del petrolio a superare i 75 €/barile. A ciò si aggiunga il fatto che anche dal lato della domanda, negli ultimi anni, la spinta determinata dalla Cina e dall’India, che crescono al ritmo del 7-8% all’anno, ha contribuito a

P0 (1+i)t1 P0 0

t1 Tempo (anni)

Figura 14.22 Il sentiero dei prezzi di equilibrio per una risorsa non rinnovabile. Quando il mercato per una risorsa non rinnovabile è in equilibrio, il prezzo crescerà al tasso di interesse reale.

Se il prezzo cresce in modo continuativo, la relazione esatta sarà data da: Pt = P0 e dove e indica la costante 2,7183. L’Equazione 14.10 costituisce una buona approssimazione di questa relazione. 9

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determinare l’impennata del prezzo del greggio. A parte tali difficoltà, forse la minaccia più grande al funzionamento di questi mercati è data dalle politiche che cercano di frenare la crescita naturale dei prezzi delle risorse esauribili. Nel tentativo di mantenere il prezzo dell’energia alla portata degli individui a basso reddito, anche in Italia, che molto più di altri Paesi dipende dal petrolio come fonte energetica, è stata avanzata la proposta di ridurre il prelievo fiscale, in particolare sulla benzina. Gli economisti, tuttavia, ritengono che questo tipo di interventi comporti una serie di problemi e di difficoltà oggettive. Il problema principale di un governo che decidesse di intervenire direttamente nella fissazione del prezzo della benzina sarebbe del tutto simile al problema che incontrerebbe nel cercare di fissare o di regolamentare qualunque prezzo: si creerebbe una distorsione nell’allocazione ottimale delle risorse e si manderebbero segnali sbagliati agli agenti economici. Dopotutto, ricordiamoci che il prezzo di un bene segnala anche la sua scarsità relativa e, in questo senso, il suo aumento fa sì che gli agenti economici siano spinti a sostituirlo con altri beni. Anche per il petrolio un aumento del prezzo è indice di una sua progressiva diminuzione e cercare di ostacolarne la crescita rallenta notevolmente il passaggio ad altre fonti energetiche, magari rinnovabili, come l’energia eolica e quella fotovoltaica. In definitiva, è molto meglio lasciare che i prezzi siano governati dalle forze di mercato e trovare qualche altro modo di alleviare i problemi degli indigenti (parleremo ancora di questa questione nel Capitolo 17).

Sommario • Nella prima parte di questo capitolo abbiamo analizzato le forze economiche che governano il lavoro, ovvero i salari e le altre condizioni dell’occupazione. La regola per un’impresa che assume i lavoratori in concorrenza perfetta nel breve periodo è quella di espandere le assunzioni finché il valore di quanto è prodotto dall’ultimo lavoratore (VMPL) uguaglia esattamente il saggio di salario. Nel lungo periodo la curva di domanda di lavoro dell’impresa è più elastica che nel breve periodo, perché l’impresa ha la possibilità di sostituire ulteriormente il lavoro al capitale. • Aggregare le curve di domanda individuali in una curva di domanda di lavoro dell’intera industria richiede qualcosa di più della semplice somma orizzontale delle curve di domanda delle singole imprese. Si deve introdurre un aggiustamento, giacché l’aumento dell’output dell’industria determina una riduzione nel prezzo del prodotto. • La curva di domanda di lavoro di un monopolista sul mercato dei beni è costruita confrontando il salario non con il valore

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del prodotto realizzato dal lavoratore, ma con la variazione del ricavo totale indotta dal maggior prodotto del lavoratore (MRPL). Diversamente da un’impresa che opera in concorrenza perfetta, i monopolisti devono prendere in considerazione il fatto che un incremento dell’output li porta a vendere l’intero prodotto a un prezzo più basso. • Lo studio del lato dell’offerta nel mercato del lavoro ha considerato in primo luogo la decisione del singolo lavoratore relativa alla quantità di lavoro da vendere a un dato saggio salariale. Quanto più egli lavora, tanto più guadagnerà, ma tanto meno potrà dedicarsi ad attività extralavorative. Ne deriva un problema standard di scelta del consumatore, analogo a quello esaminato nel Capitolo 3. Nel caso del consumatore, un aumento del prezzo di un bene si accompagna a una riduzione nella quantità domandata (eccetto il caso anomalo in cui si tratti di un bene di Giffen). Al contrario, nel contesto dell’offerta di lavoro, non è raro che gli individui offrano meno ore di lavoro quando i saggi di salario aumentano. Per costruire la curva di offerta

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di mercato, dobbiamo sommare orizzontalmente le curve di offerta individuali. Le curve di offerta e di domanda di mercato si intersecano, determinando il saggio di salario e il volume totale dell’occupazione relativi all’industria. La visione convenzionale del ruolo dei sindacati è che essi accrescano il potere contrattuale dei lavoratori rispetto alla direzione, aumentando la quota di prodotto di cui si appropriano. Ricerche recenti, d’altra parte, mostrano che i sindacati possono in realtà migliorare la produttività dei lavoratori, aumentando non solo la loro quota, ma anche l’intero prodotto. I fautori delle leggi sul minimo salariale affermano che esse sono necessarie per tutelare i lavoratori dallo sfruttamento operato dai datori di lavoro con eccessivo potere di mercato. Se l’attuale legislazione sia funzionale a questo obiettivo è una questione difficile, che va verificata empiricamente. Sembra tuttavia opportuno che questa legge non valga per i più giovani, che finiscono per esserne svantaggiati. Un’apparente anomalia è data dal fatto che alle volte lavoratori con produttività solo lievemente differenti guadagnino somme molto diverse. Questa volta la chiave per risolvere la contraddizione consiste nell’osservare che, in molti casi, il valore di ciò che viene prodotto dipende non solo dal valore assoluto delle abilità individuali del lavoratore, ma anche da come queste abilità si rapportano a quelle degli altri lavoratori. Nella lotta libera essere appena un po’ più forti dell’avversario garantisce una sicura vittoria. Così, nel mercato del lavoro essere leggermente al di sopra della concorrenza a volte comporta un guadagno molto superiore. Nella seconda parte di questo capitolo abbiamo esaminato il mercato dei servizi del capitale. In buona misura, i risultati della nostra analisi riferita al fattore lavoro possono essere applicati anche al fattore capitale; infatti, la domanda dei servizi di un bene capitale da parte di un’impresa corrisponde al ricavo derivante dal prodotto marginale di quel fattore (che, nel caso in cui l’impresa operi in un contesto di concorrenza perfetta, corrisponde al valore del prodotto marginale del capitale).

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• Una caratteristica che distingue spesso il capitale dagli altri fattori produttivi è che i beni capitali sono generalmente di proprietà dell’impresa. Nel decidere se comprare un macchinario l’impresa deve stabilire di quanto aumenterà l’output, non solo nel periodo corrente, ma anche nei periodi futuri. La regola decisionale dell’impresa è acquistare il macchinario se e solo se il variare attuale degli incrementi di ricavo presenti e futuri che si prevede ne derivino è maggiore del prezzo di acquisto. Questa regola esplicita i fattori che determinano il costo del capitale: il tasso di interesse, o costo opportunità dei fondi presi a prestito, il tasso di deprezzamento fisico e tecnologico e l’evoluzione attesa dei prezzi dei beni capitali. • Il tasso di interesse reale misura l’interesse in termini di quantità effettive di beni e di servizi. Se, per esempio, una banca prestasse 1 kg d’oro e richiedesse un pagamento di 1,05 kg dopo un anno, il tasso di interesse reale sarebbe pari al 5%. Quando il tasso di inflazione è basso, il tasso di interesse nominale è approssimativamente uguale alla somma del tasso di interesse reale e del tasso di inflazione. Questa relazione ci aiuta a spiegare perché il tasso di interesse imposto dai creditori tenda a crescere di pari passo con il tasso globale di inflazione. • La domanda di credito da parte di un’impresa riflette la differenza tra la quantità desiderata di beni capitali e quella già a disposizione. L’offerta dei fondi prestabili è altamente sensibile ai tassi di interesse, almeno nei Paesi in cui i mercati dei capitali sono aperti all’estero. Il livello di equilibrio dei crediti erogati e il tasso di interesse di mercato sono determinati dall’intersezione delle curve di offerta e di domanda dei crediti. • Il mercato delle azioni e delle obbligazioni è per le imprese una delle principali fonti di finanziamento delle spese in nuovi beni capitali. Un titolo obbligazionario emesso da un’impresa rappresenta un prestito da parte dell’acquirente dell’obbligazione nei confronti dell’impresa. Quando un’obbligazione si avvicina alla data di scadenza, il suo prezzo sul mercato converge verso il valore nominale, ma quando le obbligazioni sono lontane dalla data di scadenza, vi sarà una relazione inversa tra i tassi correnti di interesse

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Parte 3

e i prezzi delle obbligazioni. Il prezzo di un’azione corrisponde al valore attuale, debitamente scontato in relazione al rischio, dei profitti presenti e futuri sui quali l’azione garantisce un diritto. • L’ipotesi dei mercati efficienti afferma che, per un dato livello di rischio, tutte le informazioni disponibili sui rendimenti presenti e futuri di una società vengono immediatamente incorporate nel prezzo delle sue azioni; ne consegue che chi investe finirà con l’avere lo stesso rendimento globale indipendentemente dall’azione specifica che acquista. L’ipotesi dei mercati efficienti ci aiuta così a spiegare perché i consigli sugli investimenti da parte di “esperti” non abbiano, in realtà, molto valore. • Il termine “rendita” nella terminologia economica ha un significato particolare, diverso dal linguaggio comune: è il pagamento per un

fattore produttivo che eccede il valore minimo richiesto per mantenere quel fattore nel suo uso corrente. Secondo questa definizione, una quota significativa dei pagamenti ricevuti dai proprietari di beni capitali costituisce una rendita economica. Le rendite possono anche rappresentare una quota cospicua dei redditi pagati sul mercato del lavoro. • Quando i mercati operano in condizioni di concorrenza perfetta, i prezzi delle risorse non rinnovabili, come il petrolio o il titanio, tendono a crescere di pari passo con il tasso di interesse reale. Questo non solo riduce progressivamente il ritmo al quale vengono utilizzate le risorse, ma stimola lo sviluppo di possibili sostituti; e assicura, inoltre, una transizione graduale tra l’utilizzo di una risorsa non rinnovabile e quello dei suoi sostituti.

Domande di ripasso  1. Che cosa distingue la curva VMPL in concorrenza perfetta dalla curva MRPL in concorrenza imperfetta?  2. Se un monopolista acquistasse tutte le imprese operanti in un mercato in concorrenza perfetta e con esse anche il diritto di precludere nuove entrate, quali conseguenze vi sarebbero sul livello di occupazione?  3. Perché i lavoratori ottengono una retribuzione corrispondente al valore di ciò che producono, anche se non possono o non vogliono trasferirsi in un’altra zona geografica in cui troverebbero impieghi migliori?  4. Qual è la differenza tra capitale reale e capitale finanziario? Perché interessarsi dell’uno

significa doversi inevitabilmente interessare anche dell’altro?  5. Spiegate perché il deprezzamento fisico e tecnologico è un costo economico come tutti gli altri.  6. Perché tassi di interesse più elevati riducono l’influenza economica degli eventi futuri?  7. Perché i tassi di interesse nominali crescono approssimativamente di pari passo con il tasso di inflazione?  8. Perché i prezzi delle obbligazioni e i tassi di interesse sono inversamente correlati?  9. Perché è probabile che i consigli finanziari pubblicati su riviste siano di scarso valore? 10. Si diano tre esempi di differenziazione dei prezzi al variare dell’intensità della domanda.

Appendice 14  Altri aspetti dei mercati del lavoro e delle risorse naturali

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