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Capitolo 22
IL
PREFISSO NEURO NELLO STUDIO DELLO SVILUPPO Dolores Rollo
VECCHI DIBATTITI E NUOVE RISPOSTE Negli ultimi anni si è realizzata una vera e propria rivoluzione, sia teorica sia metodologica, nell’ambito degli studi sullo sviluppo infantile. Sono state numerose le ricerche condotte nell’ambito delle neuroscienze che, infatti, hanno stimolato e dato impulso a una grande mole di lavori sullo sviluppo cognitivo e socio-emotivo, e che hanno suggerito una rilettura dei dibattiti storici della psicologia dello sviluppo. Tra gli altri, gli studi sui neuroni specchio (mirror neurons) scoperti da parte di alcuni ricercatori dell’Università di Parma (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996; Fogassi et al., 2005), ha dato un notevole impulso agli studi neuroscientifici applicati allo sviluppo infantile. Questi neuroni, infatti, essendo attivati sia durante il compimento di un’azione sia durante la sua osservazione (per es., sia quando si danza sia quando si osserva qualcuno danzare), forniscono il corrispettivo neuronale di diversi fenomeni cognitivi e socio-emotivi dello sviluppo, dall’immaginazione al riconoscimento delle emozioni altrui, fenomeno alla base dell’empatia (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006; Ammaniti e Gallese, 2014). Lo sviluppo dell’uomo scaturisce da processi sia biologici sia cognitivi e socioemotivi. Pensiamo, per esempio, al sorriso di un bambino in seguito alla carezza di sua madre. Anche questa risposta molto semplice dipende da processi biologici (la natura fisica della carezza e l’abilità di rispondere a essa), cognitivi (la capacità di comprendere azioni intenzionali) e socio-emotivi (il sorriso spesso manifesta un’emozione positiva e sorridere aiuta il bambino a stabilire una relazione con altri esseri umani) (Santrock, 2013). Attualmente la connessione tra processi biologici, cognitivi e socio-emotivi è particolarmente evidente in due campi di studio emergenti: 1) le neuroscienze cognitive dello sviluppo, che esplorano i collegamenti tra processi cognitivi e attività neurale, tra lo sviluppo dei processi cognitivi e quello del cervello, nel tentativo di chiarire come il primo sia vincolato dal secondo e come, allo stesso tempo, lo plasmi (Surian, 2009; Macchi Cassia et al., 2012); 2) le neuroscienze sociali dello sviluppo, che esaminano le relazioni tra sviluppo dei processi socio-emotivi e il cervello, tra le connessioni relazionali tra individui diversi e le connessioni sinaptiche (Siegel, 2013).
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Capitolo 22
Alle diatribe classiche della psicologia dello sviluppo (nature vs nurture, continuità vs discontinuità, dominio-generale vs dominio-specifico), il contributo degli approcci neuro sembra fornire risposte nuove. Oppure, per dirla in altri termini, sembra che i dilemmi che hanno stimolato la ricerca sullo sviluppo umano nei secoli scorsi siano più attuali che mai per effetto del contributo delle neuroscienze. Prendiamo il dibattito natura/cultura: “I bambini sono tabule rase o sono portatori di concetti innati, cioè presenti nella loro mente prima di qualsiasi esperienza rilevante? I bambini hanno un ruolo attivo nel formare il loro carattere, o sono creature passive manipolate dai genitori, dagli insegnanti e dalle altre agenzie socio-educative?” La posizione a favore delle determinanti “naturali”, biologiche, dello sviluppo sembra essere rinforzata dagli studi di neuroscienze dello sviluppo, volti all’identificazione dei precursori neuronali di fenomeni cognitivi e socio-emotivi: cosa succede nel cervello mentre pensiamo o piangiamo? D’altra parte, se i risultati inerenti al cervello forniscono una spiegazione biologica al comportamento umano sia nello sviluppo tipico sia in quello atipico (per es., è rilevante il corpus di ricerche che attualmente sta cercando di spiegare l’autismo rivolgendosi al funzionamento neuronale), questa spiegazione non dovrebbe essere vista come unica e assoluta. In altri termini, nella questione natura-cultura andrebbero evitate posizioni deterministiche e riduzionistiche sia da parte dei sostenitori della natura sia da parte degli ambientalisti: è l’interazione tra biologica e ambiente che contribuisce a determinare lo sviluppo. Le Neuroscienze Cognitive dello Sviluppo (Developmental Cognitive Neuroscience), emerse negli anni ’90 dall’insoddisfazione per la capacità esplicativa delle scienze cognitive, rappresentano la cornice teorica e metodologica all’interno della quale si inseriscono attualmente i quadri esplicativi sul ruolo dello sviluppo cerebrale nell’ontogenesi delle funzioni psicologiche, ma anche delle basi neurali delle funzioni cognitive, emotive e sociali nell’adulto (Macchi Cassia et al., 2012). L’approccio, seppure composito e non ancora sistematico, ha come maggiori punti di forza il carattere interdisciplinare e il fatto di scaturire dall’intersezione tra discipline diverse come biologia, etologia, embriologia, genetica e neuroscienze. Se è vero che quando si parla di sviluppo cognitivo ci si riferisce, in un’accezione ampia, ai cambiamenti evolutivi che avvengono nelle attività mentali, quali attenzione, percezione, apprendimento, pensiero e memoria, grazie alle quali si ricercano, ottengono, raccolgono, immagazzinano e trasformano le informazioni provenienti dall’ambiente (Rollo, 2005), allora gli studi delle neuroscienze cognitive forniscono affascinanti dati empirici sul ruolo del cervello in tutti questi processi. Inoltre, sappiamo che parlando di sviluppo cognitivo non si può non richiamare la teoria di Piaget, studioso che sullo sviluppo mentale costruì un modello (costruttivismo) che ancor oggi è punto di riferimento per coloro che studiano lo sviluppo cognitivo. E i concetti centrali del neurocostruttivismo, approccio all’interno delle neuroscienze cognitive dello sviluppo, sono attinti proprio dalla teoria piagetiana, rivalutata e “svecchiata” dai dati empirici sui correlati neurali della cognizione. Anche per i neurocostruttivisti, come per Piaget, il bambino costruisce attivamente la sua conoscenza e lo sviluppo è una progressione che scaturisce dall’interazione bidirezionale tra geni e ambiente.
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I dati di un’ampia varietà di ricerche sulle competenze infantili indicano che in molti casi i processi biologici, cognitivi e socio-emotivi sono bidirezionali. Sebbene spesso i differenti processi di sviluppo (biologici, cognitivi e socio-emotivi) siano studiati in sedi separate, non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando dello sviluppo di un individuo completo, la cui mente e il cui corpo sono interdipendenti. Le neuroscienze cognitive, concettualizzando questa interdipendenza, per esempio con il concetto di epigenesi (di cui parleremo nei prossimi paragrafi), sembrano suggerire il ricompattamento dell’uomo nella sua totalità, dal cervello che comanda alla mente che pensa, dalle capacità neurali a quelle motorie e percettive, neuroni e comportamento, geni all’interno dell’individuo e ambiente in cui l’individuo agisce. Questa globalità, però, spesso non è nemmeno suggerita e, anzi, la microanalisi agita dai neuroscienziati sembra far perdere di vista l’uomo come un tutto e il rischio del riduzionismo è in agguato: lo sviluppo cognitivo è spiegato riduzionisticamente nei termini dello sviluppo del sistema nervoso centrale. La base materiale del sistema cognitivo è sì costituita dal sistema nervoso, senza però che il mentale possa essere ridotto completamente al biologico e la mente al cervello. “Un equivoco comune consiste nel percepire il riduzionismo delle neuroscienze cognitive come una sorta di necessaria teoria totalitaria sull’identità tra cervello e comportamento, cervello e psicologia, o cervello e cognizione. Talvolta, forse, le neuroscienze avallano tali teorie identitarie; tuttavia questo non dovrebbe essere necessariamente il caso […]. Le neuroscienze cognitive dovrebbero studiare la natura umana chiarendo, in primo luogo, di che cosa sia fatta l’esperienza umana […], cosa significa amare od odiare, sentirsi amati od odiati, sentirsi protetti o insicuri, dinamici o apatici, commossi o indifferenti, aperti all’altro o autocentrati” (Ammaniti e Gallese, 2014, p. 10). Alimentato dagli studi delle neuroscienze dello sviluppo, attualmente ha assunto un peso rilevante il dibattito dominio-generale versus dominio-specifico. Nel primo caso si pensa che lo sviluppo coinvolga simultaneamente e uniformemente tutto il sistema cognitivo, mentre nel secondo si ritiene che avvenga secondo modi e ritmi diversi nelle diverse aree della conoscenza. Le due diverse posizioni teoriche rimandano a diversi modi di concepire la mente: nel caso dominio-generale la mente è paragonata a una mela, frutto dalla polpa omogenea e compatta; invece la mente dominio-specifica è paragonata a un’arancia dove i diversi spicchi corrisponderebbero ai diversi domini dell’attività cognitiva (Fodor, 1988; Macchi Cassia et al., 2012). Nell’ambito del neurocostruttivismo entrambe le spiegazioni sembrano convivere, rispetto agli approcci innatisti modulari che chiamano in causa contenuti di conoscenza prespecificati (innati e specifici per dominio): le predisposizioni innate che guidano e facilitano lo sviluppo sono dominio-generali, mentre le rappresentazioni che emergono nel corso dello sviluppo sono dominio-specifiche. Le predisposizioni innate “vincolano lo sviluppo, poiché dirigono e incanalano l’attenzione del bambino verso particolari categorie di input ambientali, garantendo in tal modo che tali input possano influenzare e plasmare lo sviluppo cerebrale e cognitivo dell’individuo” (Macchi Cassia et al., 2012, p. 249). Un esempio di manifestazione dell’esistenza di una predisposizione innata è la preferenza per il volto: i neonati guardano più a lungo, e quindi preferiscono, lo stimolo-volto rispetto a quello che pur presentando tutti gli elementi di un volto (occhi, naso,
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Capitolo 22
bocca) non li ha disposti nella configurazione tipica del volto. È la specializzazione cerebrale a favorire l’emergere della modularizzazione e pertanto di sistemi di conoscenza dominio-specifici. I circuiti neurali nell’ontogenesi sono progressivamente selezionati per eseguire differenti computazioni dominio-specifiche e, pertanto, l’organizzazione dominio-specifica del cervello e della mente nell’adulto è il risultato del processo di sviluppo e non è, invece, un punto di partenza innato che si estrinseca (maturazione) nel corso dell’ontogenesi. Evolutivamente, si passa da una fase in cui molti circuiti neurali si attivano in modo indifferenziato in risposta a un’ampia tipologia di stimoli a una fase in cui la risposta di ogni circuito diventa sempre più specifica e sintonizzata su una specifica categoria di input (specializzazione), così che la porzione di corteccia che si attiva in risposta a specifiche categorie di stimoli è sempre più circoscritta (localizzazione) (Macchi Cassia et al., 2012). Specializzazione e localizzazione sarebbero, pertanto, i termini che esplicitano a livello cerebrale che è in corso un processo di modularizzazione. Lo sviluppo cognitivo sarebbe continuo – nell’ambito del dibattito continuitàdiscontinuità volto a determinare se lo sviluppo è costituito da cambiamenti graduali e cumulativi (continuità) o da fasi distinte tra loro (discontinuità) – e qualitativo: dallo studio dei cambiamenti pre– e postnatali del cervello e delle caratteristiche che gli sono distintive, si ricavano informazioni cruciali sul modo con cui procede la cognizione nel corso dello sviluppo. I cambiamenti nelle strutture anatomiche del cervello si traducono in cambiamenti funzionali che, a loro volta, si riverberano sulle modificazioni cognitive e comportamentali osservate nel corso dello sviluppo ontogenetico. Alcuni aspetti dello sviluppo cerebrale sono particolarmente importanti: la crescita di volume, l’incremento della densità sinaptica, il periodo di immaturità prolungato e la plasticità neurale. In particolare, per lo studio dello sviluppo cognitivo è importante sapere che prima della nascita sono principalmente i geni a dirigere i pattern di connessione tra le cellule nervose, mentre dopo la nascita gli stimoli esterni aiutano le connessioni neurali del cervello a prendere forma. Lo sviluppo del cervello nel corso dei primi 2 anni di vita è caratterizzato dall’incremento importante delle ramificazioni dendritiche e delle sinapsi e, anche per effetto delle stimolazioni ambientali, sia prima sia dopo la nascita si specializzano le diverse funzioni cerebrali. Le connessioni sono generate per essere usate, e infatti le connessioni che sono usate sopravvivono e sono rinforzate, mentre quelle non usate sono sostituite da altre o eliminate. Questo fenomeno è definito “potatura” (pruning) e le connessioni non usate vengono potate (Santrock, 2013). Inoltre, lo sviluppo pre– e post natale del cervello avviene in modo simile a quello di altri mammiferi, ma è più lento e si protrae entro una finestra temporale più ampia. Questo periodo di immaturità prolungato fa sì che sia maggiore il tempo a disposizione perché l’ambiente e l’esperienza possano esercitare la loro influenza. È l’esperienza, infatti, a “decidere” quali connessioni sinaptiche verranno mantenute e quali eliminate. Le trasformazioni funzionali a livello delle connessioni sinaptiche sono provocate da numerosi fattori, come per esempio l’apprendimento, le modificazioni ormonali, i processi di crescita e invecchiamento, le lesioni cerebrali, le malattie degenerative, le deprivazioni sensoriali, l’uso di droghe o alcol. L’insieme dei cambiamenti subiti dalle sinapsi in presenza di un nuovo apprendimento rientra nei meccanismi della plasticità sinaptica (Moro e Rodolfi, 2012).
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La plasticità è oggetto di studio di due filoni principali: da una parte coloro che studiano gli effetti di un ambiente arricchito, mentre dall’altra coloro che analizzano gli effetti provocati nelle relative aree corticali da situazioni di deprivazione sensoriale. Grazie a entrambe le aree tematiche oggi si può dire che l’ambiente fisico e culturale “influenza fortemente la struttura e il funzionamento del sistema nervoso centrale. A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, insieme alla plasticità sinaptica è stata studiata la plasticità rappresentazionale, termine con cui si fa riferimento a modificazioni macroscopiche di strutture del sistema nervoso” (Moro e Rodolfi, 2012, p. 18). Se è vero che, in presenza di un’adeguata esperienza, il cervello può rimanere plastico per gran parte della vita, in particolare in riferimento alle funzioni cognitive dell’apprendimento e della memoria (Nelson, 1997), è anche vero che sono precise le condizioni che rendono possibile la riorganizzazione cerebrale. Per esempio, la plasticità è tanto più accentuata quanto inferiore è l’età dell’individuo, e cioè quanto minore è il livello di specializzazione raggiunto dalle diverse aree della corteccia per l’elaborazione di specifiche categorie di input (Macchi Cassia et al., 2012). Da quanto si è detto, appare chiaro che anche il dibattito prime esperienzeesperienze successive, che si concentra sulla misura in cui le prime esperienze (specialmente durante la prima infanzia) o le esperienze successive sono fattori chiave nello sviluppo infantile, acquisisce una rilettura alla luce degli studi neuroscientifici. La contrapposizione tra prime esperienze ed esperienze successive ha una lunga tradizione. Platone era convinto che i bambini che venivano cullati frequentemente sarebbero diventati atleti migliori. Alcuni studiosi dello sviluppo affermano che, a meno che non riceva calore e attenzioni durante il suo primo anno di vita, il bambino non si svilupperà in maniera ottimale. Per contro, i sostenitori delle esperienze successive sostengono che i bambini sono plasmabili durante tutto il loro sviluppo e che le cure sensibili durante la prima infanzia non sono più importanti di quelle successive. Secondo Greenough, Black e Wallace (1986) occorre distinguere due modi diversi con cui l’esperienza agisce sul cervello per determinare particolari esiti evolutivi: 1) processi in attesa di esperienza (experience-expectant); 2) processi dipendenti dall’esperienza (experience-dependent). I primi sono processi che riguardano vie neurali presenti alla nascita e funzionali a gestire esperienze ambientali specie-specifiche. Per esempio, il bambino è predisposto a preferire il volto fin dai primi istanti di vita, oppure a riconoscere la voce della madre. I processi dipendenti dall’esperienza, invece, non sono relativi a vie neurali specializzate, bensì dipendenti dal tipo di input sensoriale a cui l’individuo è esposto nel corso della sua vita. Gli stimoli linguistici e cognitivi che ciascuno incontra contribuiscono a determinare le connessioni neurali che, perciò, riflettono le caratteristiche dell’esperienza (Schaffer, 2008). I due tipi di processi si differenziano, oltre che per il carattere innato dei primi e acquisito dei secondi, anche per il ruolo attribuito ai periodi sensibili che, evidentemente, “pesano” solo per i processi in attesa di esperienza, per i quali occorre che gli stimoli ai quali si è predisposti a rispondere si presentino in determinati periodi e non in altri. Com’è noto si può definire il periodo critico come un breve periodo dello sviluppo durante il quale l’organismo è recettivo a particolari influenze ambientali e l’individuo è particolarmente aperto a certi apprendimenti; oltre questo periodo le stesse influenze hanno scarso o nes-
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Capitolo 22
sun effetto. Ciò che caratterizza i periodi critici sono le cosiddette tre “i”: l’acquisizione di un nuovo schema di comportamento è istantanea, il periodo è immutabile e gli effetti prodotti sono irreversibili. In realtà, numerosissimi dati di ricerca (vedi, per es., i dati sull’attaccamento dei bambini adottati) hanno dimostrato che per acquisire un nuovo schema comportamentale occorre più di un’esposizione, il periodo non è immutabilmente rigido e i cambiamenti prodotti non sono irreversibili perché possono essere influenzati da effetti ambientali successivi (Schaffer, 2008). Da qui l’evoluzione del concetto di periodo critico a quello di periodo sensibile, meno ineluttabile e più probabilistico: sebbene vi siano dei momenti nel corso dello sviluppo durante i quali l’organismo è particolarmente sensibile a specifiche esperienze, non si può escludere che queste possano continuare a esercitare la loro influenza anche in momenti successivi dell’ontogenesi. LA PROBABILITÀ DELLO SVILUPPO Il concetto di epigenesi probabilistica introdotto da Gottlieb (1992) diventa centrale nelle ipotesi esplicative dello sviluppo secondo gli approcci neuroscientifici. Epigenesi non è preformazione, come nel maturazionismo geselliano, bensì probabilismo di sviluppo (Fig. 22.1). Nel concetto di epigenesi probabilistica (Gottlieb, 1992) lo sviluppo del genotipo non è contenuto esclusivamente nei geni ma emerge dall’interazione tra geni e ambiente. Da uno stato globale, indifferenziato e disorganizzato la mente passa a uno stato di progressiva differenziazione e crescente complessità attraverso continui scambi tra mente e ambiente. Se vengono sollevati pochi dubbi in merito all’esistenza di un programma innato per il raggiungimento delle tappe fondamentali dello sviluppo in ambiti come il comportamento motorio e le abilità cognitive, vi è accordo anche nel ritenere che il
EPIGENESI PREDETERMINATA GENI
STRUTTURE
FUNZIONI
ESPERIENZA
Neurali, muscolari,
Psicologiche,
Ambiente
scheletriche
comportamento
EPIGENESI PROBABILISTICA GENI
STRUTTURE
FUNZIONI
ESPERIENZA
Neurali, muscolari,
Psicologiche,
Ambiente
scheletriche
comportamento
Figura 22.1 La relazione unidirezionale e quella bidirezionale dell’approccio epigenetico.
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ricorso alla sola maturazione come fattore principe, se non unico, non sia giustificato: sono troppe le prove a sostegno del ruolo dell’ambiente (deprivazione, malnutrizione, ma anche recupero e plasticità). Negli approcci deterministici, come quello maturazionistico, sono solo le istruzioni genetiche che, in assenza di perturbazioni ambientali, danno luogo alle diverse strutture del nostro corpo e alle funzioni psicologiche. Le abilità cognitive, in quest’ottica, sono il risultato diretto della maturazione e della derivante entrata in funzione di una determinata area della corteccia cerebrale. Per l’epigenesi probabilistica, invece, esiste una reciproca interdipendenza tra fattori biologici e ambientali nello sviluppo del comportamento, e la stimolazione ambientale assolve quattro funzioni nel corso dello sviluppo (Gottlieb, 1997): 1.
2. 3. 4.
inducente (inductive): è la stimolazione che guida il comportamento in una direzione piuttosto che in un’altra (vedi, per es., l’effetto della lingua madre nell’apprendimento e sviluppo del linguaggio); facilitatrice: è la stimolazione che influenza il momento di comparsa di una nuova funzione (per es., la sollecitazione fisica nello sviluppo motorio); conservatrice: è la stimolazione che mantiene attive strutture e funzioni già esistenti, senza la quale le funzioni peggiorerebbero o andrebbero perdute; canalizzatrice: l’esperienza restringe le possibilità.
L’espressione dei programmi genetici assume percorsi differenti di sviluppo in relazione alle condizioni ambientali, e lo sviluppo è un continuo processo epigenetico in funzione del contesto e delle interazioni con gli altri. Le neuroscienze cognitive dello sviluppo fanno propri il concetto di epigenesi probabilistica e una visione dinamica dell’interazione geni/esperienza: anche l’ambiente influenza la maturazione e la relazione coi geni è complementare piuttosto che antagonista. Il processo di sviluppo è il risultato dell’interazione tra molteplici fattori, sia esterni sia interni al sistema-individuo; e il sistema non è solo l’intero organismo (che interagisce con l’ambiente esterno), ma può essere una singola cellula, una popolazione di cellule o il cervello. L’ambiente, a sua volta, è tutto ciò che sta al di fuori del sistema o lo influenza. Lo sviluppo consiste pertanto nel processo attraverso il quale i geni interagiscono con l’ambiente a vari livelli per creare strutture organiche complesse come il cervello e i processi cognitivi che esso supporta (Macchi Cassia et al., 2012). Lo sviluppo è allora visto come processo sistemico e legato al contesto, vale a dire che il cambiamento evolutivo avviene all’interno di un sistema e dipende dal contesto all’interno del quale il sistema è inserito. Assunto dalle scienze biologiche, questo concetto di sviluppo rimanda a quello di un sistema, che può essere da infinitamente semplice come un neurone a estremamente complesso come un organismo, e a quello di contesto sia interno sia esterno. Westermann e collaboratori (2007) utilizzano il termine “embodiment” per enfatizzare questo approccio sistemico e la dimensione fisica e corporea della cognizione (Fig. 22.2). Embodiment “si riferisce agli stretti legami esistenti tra il cervello e i processi mentali che esso supporta, il corpo e l’ambiente. L’utilizzo del corpo, vincolato dalle proprietà morfologiche e biomeccaniche che lo caratterizzano (morfologia del corpo), può generare nuove esperienze sensoriali, sia attraverso lo spostamento
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Capitolo 22
CERVELLO
CORPO Rappresentazioni
Circuiti neurali
Morfologia del corpo
Attività neurale Esperienza sensoriale ambientale
Ambiente
AMBIENTE
Figura 22.2 Raffigurazione del concetto di embodiment (Da: Westermann et al., 2007).
degli organi di senso, come per esempio gli occhi (esperienza sensoriale ambientale), sia attraverso la manipolazione dell’ambiente stesso (ambiente). La stimolazione conseguente all’esperienza ambientale genera attività neurale (attività neuronale), che a sua volta funge da stimolazione per altri circuiti neurali” (Macchi Cassia et al., 2012, p. 198). Vi è allora interdipendenza tra psicologia dello sviluppo e biologia, e non dipendenza della prima dalla seconda, e quella dello sviluppo è un’impresa probabilistica che, per realizzarsi, richiede che cervello, cognizione, corpo e ambiente si autorganizzino in ogni momento. TECNICHE E METODOLOGIE DI INDAGINE Tra le metodologie di indagine impiegate nelle neuroscienze cognitive dello sviluppo per indagare le connessioni tra sviluppo cerebrale e sviluppo cognitivo, le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale occupano senz’altro un posto di primo piano. Sono metodi di neuroimaging funzionale, derivati dalle neuroscienze e volti alla visualizzazione dell’attività neuronale in risposta alla presentazione di stimoli o durante lo svolgimento di particolari compiti. Le tecniche di neuroimaging includono vari metodi per produrre diversi tipi di immagini della struttura del cervello, della sua attività o di entrambe. Un metodo particolarmente efficace è la risonanza magnetica funzionale (functional magnetic resonance imaging o fMRI, oppure RMF), che usa onde elettromagnetiche per rilevare e visualizzare il flusso sanguigno cerebrale e, perciò, consentire di localizzare con elevata risoluzione spaziale le aree cerebrali che si attivano durante lo svolgimento di un compito o la presentazione di uno stimolo. Molto usati, perché anch’essi non invasivi, sono anche i potenziali evocati correlati all’evento (event-related potentials, ERP), che rilevano e visualizzano l’attività elettrica del cervello in risposta alla presentazione di uno stimolo o durante la produzione di un comportamento, consentendo di determinare con elevata risoluzione temporale la sequenza dell’attivazione cerebrale durante l’esecuzione di un comportamento o l’elaborazione di uno stimolo.
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Entrambe le tecniche sono particolarmente adatte per lo studio dello sviluppo perché consentono: 1) di indagare le competenze cognitive dei bambini all’interno di situazioni che implicano ridotti carichi attentivi e mnestici (maggiori sono le domande poste dal compito, minori sono le competenze che il bambino sembrerà avere); 2) di utilizzare lo stesso compito con soggetti di diverse età, ricavando misure confrontabili. Quest’ultima caratteristica è particolarmente importante dal punto di vista metodologico perché permette di eliminare il problema dell’equivalenza delle misure, così da mettere il ricercatore nella condizione di imputare le differenze rilevate tra i soggetti di diverse età a cambiamenti intrinseci ai soggetti e non a cambiamenti inerenti il contesto sperimentale o il compito utilizzato. Quale influenza possono avere questi metodi sullo studio della psicologia dello sviluppo? In primo luogo, forniscono nuovi strumenti per affrontare il dilemma della continuità-discontinuità. I bambini e gli adulti possono mostrare un comportamento simile che però rimanda a processi di natura diversa, oppure possono mostrare abilità comportamentali diverse prodotte da processi analoghi che rimangono costanti ma che si esprimono in modo diverso nel corso dello sviluppo. Le tecniche di neuroimaging consentono di andare all’origine delle manifestazioni comportamentali, verificandone le similitudini o meno nel corso del ciclo di vita: i substrati neurali attivati nei bambini e negli adulti alla presentazione del medesimo compito sono gli stessi o no? Mantengono la stessa localizzazione all’interno del cervello? Infine, queste metodologie consentono di esplorare il tema del rapporto tra fattori innati ed esperienziali nell’emergere di processi cognitivi specializzati: se vale l’ipotesi innatista, la presentazione dei medesimi stimoli implica molto precocemente, nel corso dello sviluppo, l’attivazione di specifiche aree neurali identificate nell’adulto; se invece vale l’ipotesi a favore dell’esperienza, allora si dovrebbe trovare che “nell’infanzia le risposte neurali sono maggiormente aspecifiche e diffuse, ossia generalizzate a oggetti di natura diversa e non localizzate in aree cerebrali specifiche” (Macchi Cassia et al., 2012, p. 192). Oltre a questi metodi specificatamente finalizzati all’osservazione e indagine degli aspetti neurologici, le neuroscienze utilizzano anche metodi comportamentali e comparativi per esplorare le competenze infantili precoci. Tra i metodi comportamentali troviamo i “classici” rappresentati dalla tecnica della preferenza e dal paradigma dell’abituazione. Con la preferenza visiva, per esempio, si può studiare se un bambino discrimina tra due stimoli, misurando i tempi di osservazione degli stessi stimoli. La procedura, introdotta da Fantz con la looking chamber, prevede che al bambino che giace sul dorso vengano presentati due stimoli visivi, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra rispetto a un punto centrale di fissazione, annotando la direzione del primo movimento oculare e il tempo totale di fissazione di ciascuno stimolo. Il tempo di fissazione dà informazioni su quale stimolo è preferito e sul tipo di caratteristica visiva che il bambino “sceglie” di mettere a fuoco. E se il bambino non presenta alcuna preferenza tra gli stimoli presentati? Non li discrimina o li trova entrambi interessanti; sono entrambe risposte possibili che però non rendono conto di quanto avvenga a livello di processazione delle informazioni. Un altro metodo più preciso, molto usato per studiare la percezione dei bambini consiste nel presentare uno stimolo (come un suono o un’immagine) un dato numero di volte. Se il neonato riduce la sua risposta allo stimolo dopo alcune presentazioni, questo indica che non è più interessato allo stimolo. Se il ricercatore
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Capitolo 22
presenta poi un nuovo stimolo, la risposta del bambino riprenderà, indicando così che il bambino può distinguere tra lo stimolo vecchio e quello nuovo. L’abituazione è il nome dato a una risposta diminuita rispetto a uno stimolo dopo ripetute presentazioni dello stesso, mentre la disabituazione è il recupero della risposta abitudinaria dopo un cambiamento di stimolo. Tra le risposte studiate nel paradigma dell’abituazione vi sono il comportamento di suzione (la suzione si interrompe quando il bambino è di fronte a un oggetto nuovo), il ritmo cardiaco e respiratorio e il comportamento di osservazione di un oggetto. Per valutare l’attenzione di un neonato verso il suono, un altro metodo comportamentale che implementa in modo originale l’abituazione consiste nel highamplitude sucking (ampiezza dei picchi d’onda): ai neonati viene data una tettarella senza nutrimento collegata a un sistema che genera un suono. Ciascuna suzione genera un suono, tale per cui il bambino impara presto che succhiare comporta l’emissione di tale suono. Al principio, i bambini succhiano molto e così il suono si ripete molte volte. Gradualmente poi perdono interesse alla ripetizione dello stesso suono e cominciano a succhiare più raramente. A questo punto lo scienziato cambia il suono generato. Se i bambini riprendono una suzione vigorosa, possiamo dedurre che distinguono il cambiamento di suono e che stanno succhiando di più perché interessati al nuovo suono (Santrock, 2013). Infine, una tecnica comportamentale è l’eye tracking, consistente nel movimento degli occhi che seguono (track) un oggetto in movimento. I ricercatori usano sempre più frequentemente sofisticati apparecchi di eye traking per incrementare le conoscenze sulla percezione infantile sia nello sviluppo tipico sia in quello atipico (significativi a riguardo sono gli studi sulle abilità percettive dei bambini autistici). L’interdisciplinarietà dello studio neuroscientifico dello sviluppo infantile e la “parentela” con la biologia si traduceono anche nell’utilizzo del metodo comparativo e di modelli animali, e cioè nello studio approfondito degli aspetti comportamentali, elettrofisiologici e neuroanatomici di un comportamento e della sua ontogenesi in una specie animale diversa dall’uomo al fine di ottenere indicazioni tanto teoriche quanto empiriche sullo stesso comportamento nell’uomo. Si vedano a tal proposito gli studi sulle basi neurali dell’imprinting visivo nel pulcino utilizzati per formulare il modello sullo sviluppo della capacità di riconoscere i volti nell’uomo. Le neuroscienze cognitive attingono anche allo studio clinico dei disturbi di origine genetica, cioè di malattie provocate da alterazioni genetiche che implicano specifiche dissociazioni nelle funzioni cognitive, sia all’interno di uno specifico dominio sia tra domini diversi. Queste sindromi, come per esempio l’autismo, sono classicamente state interpretate come conseguenza di deficit cognitivi selettivi derivanti dal danneggiamento di moduli cognitivi innati localizzati in specifiche aree del cervello. Per gli approcci di ispirazione neurocostruttivista, però, questi disturbi potrebbero nascondere deficit aspecifici lievi e diffusi a carico di diverse regioni cerebrali che assumono un’apparenza dominio-specifica perché il deficit che producono incide maggiormente sull’elaborazione di alcuni tipi di informazione. Le proprietà strutturali e funzionali atipiche del cervello che si accompagnano alle sindromi evolutive sarebbero il risultato del processo dinamico e plastico attraverso cui il cervello e il sistema cognitivo si riorganizzano nel corso dello sviluppo.
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Il prefisso neuro nello studio dello sviluppo
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CONSIDERAZIONI PER LA CLINICA Qual è il contributo delle neuroscienze alla clinica? Rispetto a condizioni evolutive caratterizzate da una compromissione più o meno grave – disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività, ritardo mentale, autismo – gli studi di neuroscienze cognitive assumono una particolare rilevanza dal punto di vista clinico dando un sostanziale contributo alla neuropsicologia dello sviluppo, in termini esplicativi e di trattamento. La neuropsicologia dello sviluppo ha lo scopo di scoprire le basi neurologiche sottostanti a disturbi evolutivi come i DSA e l’autismo. Se la neuropsicologia cognitiva adulta costruisce modelli esplicativi a partire da disordini che si osservano in seguito a lesioni funzionali intervenute in un sistema preesistente, la neuropsicologia cognitiva dello sviluppo parte dallo studio dei disturbi che si osservano all’interno del sistema in via di sviluppo. Quando un disturbo è acquisito “dopo un periodo di sviluppo normale, in seguito a lesione neurologica o a malattia, si determina un danno e la conseguente perdita di un’abilità precedentemente esistente” (Volterra, 2010, p. 12), nei disturbi evolutivi invece non vi è l’evidenza della perdita di una capacità precedentemente acquisita e il disturbo si presenta nel corso dello sviluppo (Volterra, 2010). Mentre nei deficit acquisiti degli adulti ci troviamo di fronte a un unico deficit selettivo, nei disturbi evolutivi di solito abbiamo un complesso pattern di deficit associati (Vicari e Caselli, 2010). In ambiente evolutivo è difficile trovarsi di fronte a un disturbo altamente selettivo. La spiegazione dell’anomalia rappresentata dal disturbo può derivare dall’interazione tra eventi genetici interni all’organismo e l’ambiente esterno: nella sindrome di Williams la delezione del gene dell’elastina causa il malfunzionamento di altri geni perché codifica per una proteina che ne influenza l’espressione (rapporti non lineari tra genotipo e fenotipo). Le ricerche, inoltre, hanno dimostrato che ripetendo una sequenza motoria o apprendendo un’abilità specifica si provocano cambiamenti nell’organizzazione della corteccia cerebrale (Moro e Rodolfi, 2012). Anche le prove a favore del fenomeno della plasticità in seguito a lesioni cerebrali sono sempre più numerose: l’attualità e il futuro della riabilitazione partono proprio da qui; non tanto dal verificare la possibilità di una riorganizzazione postlesionale, quanto piuttosto dal trovare modalità efficaci per tradurre questa possibilità nella pratica clinica. Il concetto di plasticità, ovviamente, non pone limiti alle opportunità di trattamento: le modificazioni strutturali del cervello si riflettono nei cambiamenti comportamentali che possono essere definiti come apprendimento, maturazione, recupero o altro, ma comunque si riferiscono a qualcosa che è radicato a livello biologico. Spesso viene utilizzata la metafora della scultura per tradurre i termini della relazione tra il cervello dell’uomo e il suo ambiente di vita: i nostri sensi catturano parti del mondo esterno che scolpiscono il morbido materiale plastico del cervello, l’esperienza scolpisce il cervello ed è scolpita nelle connessioni neuronali. L’educazione in questo senso diventa un processo di “riciclaggio neuronale”: è vero che il cervello ha un’architettura retta da forti vincoli genetici predisposti alla nascita, ma è anche vero che la relazione epigenetica con il contesto dà agli strumenti socio-culturali nuovo potere di trasformazione neuronale (Moro e Rodolfi, 2012).
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Capitolo 22
In definitiva, superato il rischio del riduzionismo e dell’identificazione cervello-mente, neuroscienze-psicologia, maturazione-sviluppo, questi nuovi approcci neuro riconciliano gli studiosi cognitivisti con quelli radicalmente empiristi e con l’idea che in definitiva l’ambiente ha lo stesso peso della biologia nel definire cosa sarà l’individuo. Perché se è vero che lo studio del cervello ci rivela che alla nascita sono già presenti circuiti prestabiliti e numerose connessioni, è anche vero che solo la ricompattazione dell’uomo nella sua globalità può rendere conto dello sviluppo della sua umanità.
LETTURE CONSIGLIATE PER L’APPROFONDIMENTO AMMANITI, M. e GALLESE, V. (2014). La nascita dell’intersoggettività. Lo sviluppo del sé tra psicodinamica e neurobiologia. Milano: Raffaello Cortina. GAZZANIGA, M.S., IVRY, R.B. e MANGUN, G.R. (2005). Neuroscienze cognitive. Bologna: Zanichelli. KANDEL, E.R. et al. (1999). Fondamenti delle neuroscienze e del comportamento. Milano: Casa Editrice Ambrosiana. MACCHI CASSIA, V., VALENZA, E. e SIMION, F. (2012). Lo sviluppo della mente umana. Dalle teorie classiche ai nuovi orientamenti. Bologna: Il Mulino. SIEGEL, D.J. (2013). La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Milano: Raffaello Cortina. VICARI, S. e CASELLI, M.C. (2010). Neuropsicologia dello sviluppo. Bologna: Il Mulino.