Market-driven management 7e - Marketing strategico e operativo

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La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti

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egli ultimi due decenni la maggior parte delle imprese internazionali, in tutti i settori, ha adottato un marketing globale. Lo sviluppo del libero scambio, le fusioni e le acquisizioni, la forza del dibattito anti-globalizzazione, contribuiscono a far diventare la globalizzazione sempre più pervasiva. Oltre a ciò, la crisi economica e finanziaria globale ha generato un acceso dibattito da parte di diversi osservatori sociali, che criticano il sistema capitalistico, auspicando un cambiamento radicale dell’organizzazione economica globale. Infine, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile rappresentano oggi una priorità, così come è stato drammaticamente evidenziato dall’accelerazione del cambiamento climatico e dal progressivo esaurimento delle risorse naturali. In questo capitolo affronteremo le tematiche emergenti relative alla globalizzazione dei mercati, al problema della povertà nel mondo, alla governance e alla responsabilità sociale delle imprese.

obiettivi

Dopo aver letto il presente capitolo, dovreste essere in grado di comprendere: • i benefici e i limiti del libero scambio; • i driver della globalizzazione; • i diversi contesti internazionali; • i benefici e i limiti della globalizzazione e della localizzazione; • le sfide del marketing orientato ai poveri; • gli obiettivi dello sviluppo sostenibile; • il modello dell’inventario del ciclo di vita; • il potere emergente della società civile; • le implicazioni del dibattito relativo a shareholder e stakeholder; • le problematiche relative alla responsabilità sociale dell’impresa.

3.1

La globalizzazione e il libero scambio

La globalizzazione si riferisce a un processo storico mediante il quale le economie, società e culture regionali diventano integrate attraverso un network globale di comunicazione, trasporto e scambio.

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Il termine viene qui utilizzato con riferimento specifico alla globalizzazione economica, cioè l’integrazione di economie nazionali nell’economia internazionale attraverso scambi, investimenti diretti esteri, flussi di capitali, flussi migratori e diffusione della tecnologia (Bhagwati, 2010). Il libero scambio ha giocato un ruolo chiave nel processo di internazionalizzazione dei mercati mondiali.

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3.1.1

I postulati del libero scambio

Il libero scambio rappresenta un sistema di politiche di transazione che consente agli operatori di agire senza l’imposizione di restrizioni da parte dei Governi, sotto forma di sussidi, tasse, tariffe e barriere tariffarie. I postulati del libero scambio possono essere riassunti come segue: • la concorrenza stimola l’innovazione, aumenta la produttività e riduce i prezzi; • la divisione del lavoro genera specializzazione, aumentando anch’essa la produttività e riducendo i prezzi; • più le unità produttive sono grandi, maggiori sono la divisione del lavoro e la specializzazione, e maggiori sono i benefici. Oltre alla concorrenza, i due pilastri del libero scambio sono quindi la specializzazione e l’effetto di scala. La specializzazione si basa sulla legge del vantaggio comparato formulata da Ricardo (1817), secondo cui è interesse di ciascun Paese focalizzarsi esclusivamente nella produzione dei beni che sa realizzare in modo più efficiente. Ciascuna comunità o ciascuna nazione dovrebbe specializzarsi in ciò che sa fare meglio, rinunciando a produrre tanti tipi di beni, concentrandosi invece su pochi di essi, importando ciò che serve ed esportando ciò che produce (Morris, 1996). Il secondo pilastro del libero scambio è rappresentato dalla scala di produzione, che porta naturalmente al bisogno di mercati globali: più grande è il mercato, meglio è. Ogniqualvolta vengono innalzate barriere nei sempre più vasti mercati, si limita la possibilità di specializzazione, aumentando i costi e riducendo la competitività. La maggior parte degli Stati-nazione adotta politiche di scambio caratterizzate da un grado più o meno alto di protezionismo. I produttori spesso favoriscono sussidi domestici e tariffe sulle importazioni nei loro Paesi, rifiutando sussidi e tariffe nei mercati in cui esportano. Il GATT (General Agreement on Tariff and Trade) e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade Organization), furono creati per favorire l’apertura dei mercati e promuovere le transazioni internazionali basati sul paradigma del libero scambio. Anche se l’immagine del libero scambio non è sempre positiva, il dibattito accademico sta attualmente volgendo a suo favore, per i benefici derivanti dalla specializzazione, uniti all’aumento delle economie di scala, incrementando la produttività globale;

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inoltre la riduzione dei sussidi e dei livelli tariffari, in particolare nel settore agricolo, migliora il benessere dei poveri. Nel seguito esamineremo i vantaggi e gli svantaggi del libero scambio.

3.1.2

I vantaggi del libero scambio

È ipotizzabile che il libero scambio rappresenti una situazione win-win sia per le nazioni ricche sia per le nazioni povere. Per i Paesi ricchi il principale vantaggio è rappresentato dall’ampio accesso a prodotti stranieri per consumatori e imprese a prezzi inferiori rispetto a quelli ottenibili nell’ambito della produzione locale. Un secondo vantaggio viene perseguito mediante gli investimenti nei Paesi emergenti, che consentono di ampliare i propri mercati, generando economie di scala e ottenendo un significativo potenziale di crescita. Le economie in via di sviluppo, grazie al sistema di libero scambio adottato dalle economie industrializzate, sono indotte a investire nei propri Paesi nell’ambito dell’educazione, contribuendo così alla costruzione di moderne economie e riducendo la povertà. Il risultato complessivo della globalizzazione è dimostrato con esempi di successo come Taiwan, Corea del Sud, Cina e alcuni Paesi del Sud-Est Asiatico. L’analisi qualitativa suggerisce che il libero scambio stimola contatti cross-culturali e disseminazione di valori, quali gli ideali democratici, contribuendo alla creazione di un effettivo “villaggio globale” e riducendo le guerre. La Banca Mondiale menziona anche i seguenti motivi socio-economici a favore del libero scambio: riduzione della povertà nel mondo; miglioramento dell’economia e dello status sociale delle donne; progressi nell’assistenza sanitaria pubblica; diminuzione del lavoro minorile; emergere di una classe media; aumento di contatti cross-culturali; sviluppo del turismo; esportazione di prodotti locali; emergere di una cultura mondiale; miglioramento della sicurezza nazionale, e così via. Troppo spesso i Paesi poveri non partecipano al processo di globalizzazione a livello economico; tale partecipazione implica istituzioni pubbliche stabili, regole giuridiche chiare, assenza di corruzione e un buon livello di sviluppo in ambito sanitario e scolastico.

3.1.3 Gli svantaggi del libero scambio Gli oppositori della globalizzazione sottolineano che il libero scambio e la liberalizzazione del commercio

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internazionale possono anche introdurre nuove forme di inefficienza. • Metà di tutti i commerci internazionali coinvolgono simultaneamente importazioni ed esportazioni delle stesse merci tra Paesi nel mondo. • I costi dei trasporti internazionali, che richiedono ingenti risorse, dovrebbero essere inglobati nei prezzi, cosa non sempre opportuna, dal momento che il costo dell’energia è spesso supportato dai Governi. Se i prezzi riflettessero anche i costi di utilizzo dell’ambiente i beni diventerebbero troppo costosi, costringendo a riflettere più a lungo e meglio circa ciò che si dovrebbe produrre localmente o scambiare nei mercati internazionali e perché. • Il libero scambio permette alle imprese di esternalizzare la produzione dei beni da collocare nei mercati locali, danneggiando le economie dei Pae­si sviluppati, che perdono posti di lavoro a favore di altri Paesi. • Il libero scambio crea condizioni che permettono alle imprese di aggirare le regolamentazioni nei mercati domestici, incoraggiandole a trasferire le

proprie produzioni nei Paesi che presentano minori costi (social dumping). • La specializzazione contribuisce a ridurre le possibilità di scelte occupazionali, creando economie troppo dipendenti e troppo specializzate. • Il libero scambio mina la sicurezza delle nazioni, che diventano dipendenti da altri per beni chiave o per le importazioni di cibo. I Governi possono intervenire per ridurre l’impatto di alcune di queste inefficienze, per esempio compensando le tariffe sugli scambi con le nazioni che non esternalizzano costi ambientali o sociali.

3.1.4

Delocalizzazione o outsourcing

La delocalizzazione delle attività economiche rappresenta la principale preoccupazione delle nazioni ricche. La delocalizzazione o outsourcing consiste nel trasferimento di un’attività industriale da una nazione a un’altra.

approfondimento 3.1 Monitoraggio dell’ambiente macromarketing L’azienda deve sviluppare un sistema di monitoraggio che le permetta di essere costantemente aggiornata sulle tendenze demografiche, economiche, politico-legali, tecnologiche e socio-culturali in atto nell’ambiente in cui opera. Per fare ciò può: sviluppare un sistema di business intelligence; aderire a società o gruppi professionali; individuare i fattori di vulnerabilità per

l’impresa; costruire degli indicatori di preallarme sui fattori di vulnerabilità; sviluppare un piano anticrisi per gestire le incombenze strategiche; utilizzare il metodo dello scenario e della programmazione delle contingenze. Nella seguente tabella sono elencate le principali componenti del contesto macromarketing.

Fattori socio-culturali Popolazione, demografia, distribuzione del reddito, mobilità sociale, cambiamenti dello stile di vita, atteggiamento verso il lavoro e il tempo libero, consumismo, livello di istruzione, organizzazione sociale, sviluppo linguistico Tecnologia Supporto pubblico alla ricerca e sviluppo, specializzazione delle attività di ricerca industriale, intensità di innovazione, velocità di trasferimento delle tecnologie, tasso di obsolescenza Economia Fluttuazioni della produzione, crescita del PIL, tassi d’interesse, moneta, inflazione, disoccupazione, reddito disponibile, risparmi, costi e disponibilità dell’energia, integrazione economica, deregolamentazioni Ecologia Movimento ecologico, sviluppo del marketing ecologico, bilancio ambientale, forza del sostegno politico, tasse e imposte ambientali, smaltimento dei rifiuti Fattori politico-legali Legislazione anti-trust, leggi di tutela ambientale, legislazione fiscale, regolamentazione dei commerci con l’estero, sostegno all’occupazione, blocchi economici e commerciali, leggi di deregolamentazione e privatizzazione, stabilità del Governo ecc. Fonte: Autore.

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In senso stretto, una fabbrica viene chiusa in Italia e una nuova viene costruita in Cina per produrre gli stessi beni che verranno reimportati in Italia; in senso ampio, si tratta del trasferimento di alcune o di tutte le attività produttive in un’economia emergente caratterizzata da salari inferiori, mediante la creazione di una filiale, oppure utilizzando i servizi di un fornitore straniero o di un subappaltatore. In ogni caso l’outsourcing aumenta la redditività d’impresa laddove risulti essere vitale ridurre i costi di produzione. La maggior parte delle imprese europee delocalizza gli stabilimenti per penetrare nei mercati emergenti, ma soprattutto per ridurre i costi della manodopera. Diverse imprese dei settori elettronico, meccanico e della produzione di utensili si sono trasferite in Asia distruggendo diverse migliaia di posti di lavoro in Francia, in Italia e in altri Paesi europei. Nel settore automobilistico, le imprese di produzione di auto si sono trasferite nei Paesi dell’Est Europa (Artus e Virare, 2009, p. 22). Inoltre, la tendenza alla delocalizzazione si è diffusa al settore dei servizi con lo sviluppo di software, piattaforme di chiamata, analisi e informazioni finanziarie.

3.2

Il dilemma standardizzazioneadattamento

Di fronte all’emergere di un grande e dinamico mercato globale basato sulla libertà di scambio e caratterizzato da una concorrenza crescente, le imprese che adottano un marketing internazionale devono decidere quale strategia adottare nell’approccio con i mercati esteri. La scelta è tra un approccio multidomestico, in cui la strategia viene adattata alle caratteristiche di ciascun mercato, o un approccio globale che somigli alla standardizzazione, enfatizzando le caratteristiche comuni dei vari mercati. Le strategie di customizzazione o di adattamento sono più market-driven, mentre la standardizzazione o l’approccio globale sono più supply-driven; nella realtà il confine tra queste due strategie è sfuocato. Negli ultimi quindici anni, la globalizzazione ha interessato anche imprese precedentemente abituate a detenere la proprietà e occuparsi direttamente della gestione di servizi locali, come distributori (Carrefour, Ahold, Ikea), bar e caffetterie (caffè Starbucks), banche (Citybank, ABN AMRO ecc.), stampa e sviluppo foto (chioschi Fnac, Kodak ecc.), fast food e gelaterie (McDonald’s, Quick, Haagen Daz ecc.). Esempi italiani in tal senso sono rappresentati da aziende operanti nel settore dell’abbigliamento (Benetton, Diesel, Replay), banche (Intesa

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Sanpaolo, Unicredit), case di moda (Armani, Gucci, Prada), produttori di auto (Fiat, Ferrari), torrefazioni (illycaffè). Per un’evidenza empirica si veda l’indice di globalizzazione di A.T. Kearney (A.T. Kearney Inc., 2002) e Mizik e Jacobson (2009). In questo contesto, le imprese hanno concentrato gli sforzi sullo sviluppo di marche globali potenzialmente in grado di attrarre il massimo numero di clienti su basi mondiali, adottando il medesimo approccio standard di marketing. Queste marche globali sono diventate potenti strumenti di penetrazione dei mercati internazionali; esse costituiscono asset reali per le imprese e, di conseguenza, sono molto ben valutate dai mercati finanziari. Per esempio, secondo la classifica “Global Top 100” stilata da Eurobrand, che analizza il valore dei primi cento marchi al mondo, le cinque marche globali più importanti in termini di valutazione finanziaria (in miliardi di euro) sono: Apple (113); Google (67); Coca-Cola (65); Microsoft (62); Ibm (54); McDonald’s (48); P&G (48); Johnson & Johnson (47); At&T (45) e Philip Morris (45).

3.2.1

Tipologie di ambiente internazionale

La necessità di adottare un approccio globale di marketing dipende dalle caratteristiche del contesto di mercato in cui opera l’impresa. Ghoshal e Nohria (1993) suggeriscono di analizzare l’ambiente internazionale con riferimento a due dimensioni: 1. forze locali, espresse da clienti locali, preferenze e abitudini d’acquisto locali, nonché regole amministrative e fonti normative che creano un forte bisogno di reattività e adattamento locale; 2. forze globali, rappresentate da economie di scala, esigenze comuni dei clienti, competizione mondiale e uniformità dei prodotti, che rappresentano potenti incentivi all’integrazione e alla standardizzazione globali. Per entrambe queste dimensioni, è possibile identificare due livelli (forte e debole) e distinguere a grandi linee fra quattro condizioni ambientali che le multinazionali si trovano ad affrontare, come illustrato nella Figura 3.1. • Nell’ambiente globale le forze di integrazione globale sono prevalenti e la sensibilità locale è invece scarsa. In tali mercati, un’organizzazione caratterizzata da uniformità strutturale rappresenta la forma più adatta alle condizioni esistenti.

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Forze di standardizzazione globale

Forti

Deboli

Ambiente globale

Ambiente transnazionale

Ambiente internazionale tranquillo

Ambiente multidomestico

Deboli

Forti

Forze di responsabilità locale

Fonte: adattamento da Ghoshal e Nohria (1993).

Figura 3.1

Analisi dell’ambiente internazionale

È la situazione osservata in molti mercati ad alta tecnologia, in cui le forze locali sono trascurabili e inattive e in cui si tende alla standardizzazione e all’accentramento delle responsabilità. • Nell’ambiente multinazionale (o multidomestico), al contrario, le forze di sensibilità nazionale sono prevalenti e quelli di integrazione globale deboli. In un mercato di questo tipo, l’adattamento alle condizioni locali rappresenta un fattore chiave di successo e le imprese tendono ad adottare diverse modalità di gestione per conformarsi a ciascun contesto locale. Molte aziende alimentari fanno parte di questa categoria, in quanto le preferenze e le abitudini alimentari costituiscono fattori determinanti nel comportamento d’acquisto. • Nell’ambiente internazionale tranquillo, entrambe le forze sono deboli. Un esempio si può individuare nel settore della produzione del cemento. I prodotti a base di cemento presentano un elevato livello di standardizzazione e i sistemi di distribuzione nei vari Paesi sono molto simili. Pertanto, la domanda di adattamento locale è scarsa. Tuttavia, la produzione di cemento e i costi di trasporto presentano dinamiche economiche tali da rendere poco attraente l’integrazione globale di questi prodotti (Ghoshal e Nohria, 1993, p. 26). • Nell’ambiente transnazionale, entrambe le forze, locale e globale, svolgono un ruolo importante. È la situazione più complessa, nella quale è necessario un certo livello di standardizzazione e centralizzazione, ma occorre anche saper rispondere alle situazioni locali.

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È il caso di marche come Carlsberg, che possiede tutte le caratteristiche di una marca globale. Distribuita in 130 Paesi di ogni parte del mondo, presenta il medesimo sapore, logo e design della bottiglia. Ciononostante, la “cultura della birra” varia notevolmente da un Paese all’altro, anche all’interno dell’Europa. Un’organizzazione transnazionale, che combini centralizzazione e adattamento locale (o regionale), è in grado quindi di muoversi meglio nell’ambiente in cui opera questa marca. Organizzazioni fortemente centralizzate non sarebbero adatte a questo ambiente di mercato. Le imprese multinazionali dovranno quindi considerare le diverse condizioni di mercato, adottando di conseguenza strutture organizzative adatte a ciascun contesto.

3.2.2 I driver della globalizzazione Per garantirsi i vantaggi della globalizzazione, i manager devono capire quando il settore possiede le caratteristiche adatte a coglierne le opportunità. Come suggerito da Yip (1989) è necessario analizzare quattro driver di globalizzazione industriale, tenendo presente che essi cambiano nel tempo. Driver di mercato • I clienti dei diversi Paesi chiedono sostanzialmente lo stesso tipo di prodotto o servizio. • I clienti globali effettuano acquisti centralizzati o coordinati. • I canali di distribuzione possono acquistare su base globale o, quantomeno, regionale. • Elementi del marketing operativo, per esempio il

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per il trasferimento di tecnologia incidono direttamente sul potenziale della globalizzazione. • Differenze negli standard tecnici limitano le possibilità di standardizzazione dei prodotti. • L’ambiente di marketing e di promozione dei singoli Paesi incide sulle possibilità di impiego di approcci globali e comuni di marketing operativo. Driver competitivi • Quando attività, quali la produzione, vengono condivise in diversi Paesi, la quota di mercato del competitor di un Paese incide sulla sua posizione in termini di scala e costi complessivi nell’attività condivisa. • Può essere necessario adattarsi o anticipare le mosse di singoli competitor.

Una marca globale come Carlsberg opera in un ambiente transnazionale in cui occorre saper adattarsi alle situazioni locali.

nome e la promozione delle marche, richiedono uno scarso adattamento locale. Driver di costo • Il mercato di un solo Paese potrebbe non essere sufficientemente esteso affinché l’impresa locale ottenga tutte le economie di scala e di effetto di esperienza. • La partecipazione a un mercato più esteso e la concentrazione dell’attività possono accelerare l’accumulo di apprendimento ed esperienza. • Gli acquisti centralizzati possono contribuire in modo consistente alla riduzione dei costi. • Un rapporto soddisfacente tra valore delle vendite e costi di trasporto migliora la capacità di concentrazione della produzione. • Il costo dei fattori varia generalmente a seconda del Paese nonché della disponibilità di particolari competenze. • Lo sviluppo di pochi prodotti globali o regionali invece che di diversi prodotti nazionali può ridurre questi costi. Driver governativi • Dazi sulle importazioni, contingentamenti, barriere non tariffarie, sussidi all’esportazione, requisiti di contenuto nazionale, restrizioni valutarie e di circolazione dei capitali e, infine, condizioni

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L’importanza relativa di questi driver deve essere valutata in ciascun Paese. Una strategia globale è prevalentemente supply-driven e sviluppata a spese di una strategia più orientata al cliente o al mercato per ottenere i benefici della globalizzazione descritti qui di seguito. Il management deve riconoscere le circostanze in cui le condizioni settoriali sono favorevoli.

3.2.3

I vantaggi della globalizzazione del marketing

I benefici generati da una strategia di globalizzazione sono noti e diversi autori (Buzzell, 1968; Levitt, 1983; Quelch e Hoff, 1986; Boddewyn et al., 1986; Jain, 1989; Lambin, 2001; Bhagwati, 2010) hanno sottolineato i potenziali vantaggi che un approccio globale al marketing può offrire. Il vantaggio più importante della globalizzazione è sicuramente rappresentato dalla possibilità di generare notevoli economie di scala. La presenza di un effetto di scala riduce i costi e ciò consente di acquisire un vantaggio competitivo fondamentale e al quale mirano tutte le imprese. È possibile rilevare economie di scala in molte aree gestionali; in ambito R&S, concentrando la ricerca in poche località geografiche e su un numero ristretto di linee di prodotti; nella produzione industriale, concentrando l’attività su un numero limitato di stabilimenti in pochi Paesi del mondo; nella logistica, attraverso lo sviluppo di prodotti standardizzati destinati a essere commercializzati in tutto il mondo; nella vendita e distribuzione, mediante la standardizzazione del marketing operativo e, in particolare, il packaging e la comunicazione. La maggior parte delle imprese internazionali ha già provveduto a ri-

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organizzarsi per beneficiare di queste economie di scala. Il secondo importante vantaggio è rappresentato dalla velocità di penetrazione nel mercato. Le imprese globalizzate sono molto più centralizzate, per cui possono pianificare e organizzare a livello centrale il lancio di nuovi prodotti in tutto il mondo in tempi molto ristretti. Ciò non è possibile per un’organizzazione internazionale multidomestica, dove ogni filiale locale gode di un certo potere decisionale con riguardo alle politiche di prodotto o di marca. La centralizzazione di tutte le attività di R&S su un numero limitato di innovazioni produce un impatto anche sulla qualità e sui costi. Un terzo vantaggio chiave è rappresentato dall’opportunità di creare un’unica marca e un’unica identità di marca a livello globale. Ciò permette di conseguire notevoli risparmi nelle attività di comunicazione, concentrandosi sugli stessi segmenti di clienti in tutto il mondo con lo stesso concetto di prodotto. È un aspetto particolarmente importante per i beni di lusso e gli articoli di moda, per i prodotti alimentari globali (si veda l’Esempio 3.1), ma anche per i prodotti ad alta tecnologia (computer, telefoni, hi-fi ecc.) che si rivolgono a segmenti transnazionali di clienti.

3.2.4

Gli svantaggi della globalizzazione del marketing

È evidente che i vantaggi della standardizzazione riguardano prevalentemente il lato dell’offerta, piuttosto che quello del mercato; esistono tuttavia anche molti svantaggi che non possono essere sottovalutati. Un primo possibile problema è rappresentato dall’effetto negativo della centralizzazione, che può accelerare la velocità di lancio del prodotto principale su base mondiale, ma può anche rallentare altre decisioni di marketing. Reazioni troppo lente alle iniziative dei competitor locali o a problemi specifici dei consumatori locali possono essere pericolose. Ciò dipende dal fatto che all’interno di un’organizzazione centralizzata esistono troppi livelli che separano i brand manager locali e i responsabili di marketing operanti nella sede centrale della società. Il secondo potenziale inconveniente è rappresentato dalla scarsa sensibilità alle condizioni dei mercati locali e dalla conseguente minore reattività. Poiché la maggior parte delle iniziative e delle strategie viene sviluppata nella sede centrale della società, i responsabili di marketing intrattengono un minor numero di contatti con i mercati locali e conseguentemente non hanno una buona percezione e comprensione dei

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McDonald’s: una globalizzazione di successo? La gente che lavora da McDonald’s ama raccontare la storia della giovane giapponese che, arrivata a Los Angeles, si guardò intorno e disse alla madre: “Guarda, mamma, anche qui c’è McDonald’s”. È comprensibile che la ragazza fosse sorpresa del fatto che si trattasse di una azienda statunitense. Con 2000 ristoranti in Giappone, McDonald’s’s Japan rappresenta il più esteso franchising al di fuori degli Stati Uniti. “Non si possono raggiungere i 2000 punti vendita in Giappone se si viene considerati

un’azienda statunitense”, ha affermato James Cantalupo, capo di McDonald’s’s International. La struttura di cui McDonald’s si è dotata è quella di un’azienda “multilocale”. Insistendo su un elevato livello di partecipazione locale e fornendo il necessario adattamento dei suoi prodotti alle culture locali, la società ha evitato i contraccolpi culturali peggiori che alcune altre società statunitensi hanno sperimentato. Ora, ad attribuirsi una quota del successo di McDonald’s sono non soltanto le diverse località, ma anche i Paesi. La Polonia, per esempio, è emersa come uno dei maggiori fornitori regionali di carne, patate e pane per McDonald’s in Europa centrale. È un potere reale. McDonald’s sta passando gradualmente dall’approvvigionamento locale delle sue materie prime a quello regionale e globale. Presto, tutta la carne servita nei suoi ristoranti arriverà dall’Australia, e tutte le sue patate dalla Cina. Ormai, ogni singolo seme di sesamo contenuto nei panini McDonald’s di tutto il mondo arriva dal Messico. Si tratta di un elemento estremamente positivo, paragonabile alla scoperta del petrolio di un Paese.

Fonte: Friedman (1996).

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Ulteriori riflessioni sulla globalizzazione

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problemi dei consumatori locali. Il loro obiettivo consiste nello sviluppare analogie tra i mercati piuttosto che nell’evidenziarne le differenze, determinando alla fine una perdita di conoscenza dei bisogni dei consumatori locali. Il terzo potenziale inconveniente della globalizzazione di marketing è rappresentato dal pericolo di sviluppare prodotti non in linea con le esigenze dei consumatori. L’obiettivo della standardizzazione dell’offerta è basato sulla proposta di beni che soddisfano le esigenze della maggioranza dei clienti su basi globali. I prodotti vengono quindi sviluppati sulla base del minimo comune denominatore, con il rischio che, alla fine, i consumatori non siano soddisfatti del prodotto standardizzato. Un’ultima insidia che viene spesso trascurata è legata alla gestione del rischio. Un portafoglio di marche, costituito in maggioranza da brand globali, è più vulnerabile. Con l’aumentare dei legami e dell’interconnessione del mondo grazie ai media globali come la CNN e Internet, l’insorgere in un dato Paese di un problema relativo a una marca globale acquista rapidamente una dimensione pubblica e può essere comunicato a tutto il mondo nel giro di qualche ora, se non addirittura di qualche minuto. In definitiva, risulta quindi finanziariamente molto più rischioso per l’azienda. Se prendiamo l’esempio di una grande multinazionale alimentare o farmaceutica, l’insorgere di un problema di qualità relativamente a una delle sue marche potrebbe produrre un impatto devastante sui risultati dell’intera impresa (si veda l’Esempio 3.2).

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3.3

I benefici della localizzazione

I l marketing può alleviare la povertà nel mondo?

Una delle grandi sfide del XXI secolo sarà quello di affrontare il problema della povertà nel mondo. Circa quattro miliardi di persone − ovvero due terzi della popolazione mondiale − vive con meno di 1000 dollari l’anno. Esse superano i ricchi − o almeno coloro che guadagnano 10 000 dollari o più all’anno − in un rapporto di 8 a 1. È oggi fatto ben noto che la crescita economica di un Paese sia strettamente correlata alla creazione di nuove imprese al suo interno. Così, lo spirito imprenditoriale può costituire un potente strumento per ridurre la povertà (Rahul, 2002; Ponson, 2003).

3.3.1 Marketing e povertà nel mondo Per molti decenni varie istituzioni hanno cercato di affrontare questa sfida: i Governi dei Paesi sviluppati, le organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale e le Nazioni Unite, numerose società di consulenza (Little, 2003), le fondazioni private e le ONG. Dovremmo noi − studiosi e pro-

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Un mercato globale significa una vulnerabilità globale Coca-Cola, una delle società più influenti al mondo, ha scoperto, nella settimana fra il 14 e il 19 giugno 1999, che cosa significa quando la globalizzazione diventa un nemico. Il gigante delle bibite analcoliche è stato colpito da un allarme sanitario in Europa, che si è diffuso più rapidamente di un virus informatico. Le autorità pubbliche in Belgio, Francia, Lussemburgo e nei Paesi Bassi hanno ritirato dagli scaffali i prodotti della società a seguito di documenti che ne denunciavano la contaminazione. Il portavoce di Coca-Cola, dopo aver seccamente smentito l’esistenza di pericoli, si è affannato a offrire rassicurazioni e scuse. Il panico che ha investito Coca-Cola dimostra bene come, nell’economia globale, al pari dei capitali e delle tecnologie, anche le cattive notizie viaggino spedite. I problemi dei consumatori che si sono generati in Belgio possono attraversare l’intero pianeta, infangando la

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marca più potente al mondo e addirittura influenzando le quotazioni del suo titolo alla Borsa di Wall Street. Per gli ambiziosi dirigenti statunitensi, questa è l’altra faccia della globalizzazione. Infatti, benché rafforzi le società, la rivoluzione tecnologica sta anche incrementando il potere delle autorità di regolamentazione e delle associazioni di consumatori. Non esistono più “problemi locali”, come dimostra l’esperienza vissuta da Coca-Cola. “Il riconoscimento globale della marca presenta un tallone di Achille legato alla sua vulnerabilità”, sostiene il difensore dei consumatori Ralph Nader. In effetti, il valore della marca Coca-Cola, sviluppatosi nel corso di oltre un secolo, può essere scosso in modo improvviso e capriccioso al pari del valore del baht thailandese o della rupia indonesiana. Fonte: International Herald Tribune, 22 giugno 1999.

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Pedrollo e la soluzione del problema dell’acqua nei Paesi poveri Secondo Pedrollo, azien­da con sede in provincia di Verona, è l’acqua la vera ricchezza dell’umanità; senza l’acqua non ci sono sicurezza né prosperità, e tanto meno sviluppo. La sua attività internazionale è partita da Dubai, dove l’acqua costava più del petrolio, per poi estendersi a tutto il Medio Oriente, America Latina, Africa e Bangladesh, dove all’azienda fu richiesto di progettare una pompa per l’estrazione dell’acqua dal sottosuolo a basso consumo e che costasse poco. Ne venne costruita una che costava come due pizze e ne furono inviate a sufficienza per un’intera provincia: i contadini non dovevano più dipendere dalle piogge, e quell’anno il raccolto di riso fu abbondante. Oggi Pedrollo è una delle più importanti aziende produttrici di elettropompe del mondo, con un impegno che non è mai venuto meno: partecipare alla soluzione del problema idrico, progettando e realizzando pompe che contribuiscono a movimentare l’acqua laddove ce n’è più bisogno. Secondo Pedrollo la solidarietà è un impegno che va coltivato ogni giorno, le aziende devono avere una finalità sociale, sentire la re-

fessionisti del marketing − sviluppare anche forme di marketing low cost e con pochi fronzoli − sia nel marketing strategico sia nel marketing operativo − per fornire agli imprenditori dei Paesi poveri strumenti di marketing adeguati? Esperti di management e scuole di business hanno affrontato il problema. Si veda l’Esempio 3.3. In particolare Prahalad (2004), presso la University of Michigan Business School, ha sostenuto nel suo libro − Fortune at the Bottom of Pyramid − che vendere ai poveri può contemporaneamente essere redditizio e contribuire a sradicare la povertà. La proposta di Prahalad può essere riassunta come segue: • vi è un potere d’acquisto inutilizzato nella parte inferiore della piramide; le imprese private possono perciò realizzare profitti significativi, vendendo ai poveri; • vendendo ai poveri, le imprese private possono arrecare loro una certa prosperità, e quindi possono contribuire a sradicare la povertà; • le grandi imprese multinazionali dovrebbero svolgere un ruolo di primo piano in questo processo di vendita. Prahalad (2004, p. 18) sostiene che l’obiettivo prioritario dovrebbe essere quello di creare la capacità di consumo nei Paesi in via di sviluppo. Per raggiungere questo obiettivo, il management dovrebbe essere guidato da tre semplici principi:

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sponsabilità di concorrere a cambiare il mondo, aiutare a crescere le persone e i loro Paesi.

Fonte: www.pedrollo.com.

1. accessibilità, che si basa sulla realizzazione di packaging singoli di piccole dimensioni e quindi alla portata di tutti (la rivoluzione del monouso); 2. raggiungibilità dei negozi, perlopiù con una breve passeggiata (capillarità della distribuzione geo­grafica); 3. disponibilità, in quanto i consumatori nei mercati in via di sviluppo non possono procrastinare le decisioni di acquisto (efficienza della distribuzione). La visione di Prahalad ha attirato molta attenzione fra economisti e top manager. Le raccomandazioni di Prahalad sono ancora sostenute da dati empirici limitati, e molti studiosi di marketing pongono in discussione il fatto che vendere ai poveri con profitto rappresenti un modo appropriato per alleviare la povertà. Il marketing può davvero contribuire a sradicare la povertà o ciò è solo un miraggio, come suggerito da Karnani (2007)?

3.3.2

Una fortuna alla base della piramide?

Una delle principali ipotesi del libro di Prahalad è l’esistenza di un significativo mercato potenziale inutilizzato tra la gente più povera, “alla base della piramide”. I ricercatori non concordano sulle dimensioni di questo mercato target. Il livello di povertà è stato stabilito nel passato a circa 1 dollaro al giorno di parità di potere d’acquisto (PPP, Pur-

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54 Parte prima L’evoluzione del ruolo del marketing

chasing Power Parity). Nel 2008 la Banca Mondiale lo ha aggiornato a 1,25 dollari al giorno (aggiornato soprattutto per l’inflazione), quotato sui prezzi del 2005. A questo livello di povertà le esigenze di base della sopravvivenza sono soddisfatte, ma lo sono appena. Prahalad afferma che vi sono più di 4 miliardi di persone con un reddito pro capite inferiore a 2 dollari al giorno, mentre la Banca Mondiale ne stima 2,7 miliardi nel 2001. Il consumo medio delle persone povere è di 1,25 dollari al giorno. Con 2,7 miliardi di persone povere, si totalizza un mercato potenziale di 1,2 miliardi di dollari, a PPP nel 2002. Per molti economisti (Karnani, 2007; Landrum, 2007), questa cifra è ampiamente sopravvalutata e il mercato potenziale globale sarebbe inferiore a 0,3 miliardi di dollari, un mercato limitato rispetto agli 11 miliardi di dollari dell’economia dei soli Stati Uniti. Alcune imprese si stanno ora deliberatamente rivolgendo ai poveri, adattando la loro strategia di marketing (si vedano gli Esempi 3.3 e 3.4). Le imprese che si pongono l’obiettivo di vendere ai poveri possono considerare diverse opzioni.

3.3.3

Strategia di packaging di piccole dimensioni

Una strategia adottata di frequente è vendere i beni di consumo in confezioni più piccole, rendendole così accessibili ai poveri. La strategia della vendita di prodotti monouso è stata adottata per

shampoo, ketchup, tè, biscotti, sigarette, creme per la pelle, e così via. L’efficacia di questa strategia è dubbia, come illustrato dai seguenti esempi. In India, Coca-Cola ha lanciato una bibita gassata in confezioni da 200 ml e Amul, una grande cooperativa indiana, ha introdotto gelati da 50 ml (un lusso nell’India tropicale). Entrambi i prodotti sono stati venduti a 5 rupie, un prezzo cosiddetto “abbordabile”, ma che, tuttavia, rappresenta l’equivalente di 0,57 dollari (a PPP). Non sono molte le persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno che potranno considerarlo un vero affare (Karnani, 2007). Anche se in piccole confezioni, creare valore aumentando la comodità e aiutando a gestire i flussi di denaro, non aumenta l’accessibilità, né risolve il problema della fame e della malnutrizione. • L’unico modo con cui i poveri possono acquistare un nuovo prodotto disponibile è dirottare la spesa da altri prodotti, con il rischio di trascurare bisogni con più elevata priorità, quali l’istruzione o la sanità. • Molti prodotti venduti in packaging di piccole dimensioni sono commercializzati esattamente allo stesso prezzo al chilo delle confezioni più grandi. • La proliferazione di confezioni monouso in plastica ha un impatto negativo sull’ambiente; un

es em pi o 3. 4

Procter & Gamble e i clienti a basso reddito P&G si sta interessando al segmento di clienti che nel mondo sta crescendo più rapidamente: i miliardi di persone a basso reddito nei Paesi in via di sviluppo. L’obiettivo è quello di riuscire a produrre beni a prezzi bassissimi per servire questi segmenti di clientela. P&G dedica circa il 30% dei suoi 1,9 miliardi di dollari di spese annuali in R&S per i mercati a basso reddito (la cui crescita attesa è doppia rispetto ai mercati sviluppati nei prossimi cinque anni), il 50% in più di cinque anni fa. Ciò rappresenta un cambiamento radicale nel modello di business di P&G e un segnale che la crescita nel lungo termine della più importante impresa di beni di consumo del pianeta dipende dalla realizzazione di collegamenti sostenibili con clienti cinesi, brasiliani, russi. Ciò deriva da uno sforzo operato a più livelli. • La ricerca sul cliente: piuttosto che usare focus group e ricerche di mercato di tipo quantitativo, lo staff di P&G ha speso del tempo nelle case dei clienti per ca-

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pire quali fossero le loro abitudini e necessità per la progettazione di un prodotto adeguato. • Innovazione nei costi: per progettare prodotti al minor costo possibile P&G adotta la stessa tecnologia utilizzata nei laboratori di Los Alamos, nel New Mexico. • Innovazione nella produttività: P&G ha deciso già quattro anni fa di attingere nuove idee da fonti esterne. Negli ultimi due anni il 35% dei nuovi prodotti è stato realizzato per una parte importante con componenti ideati all’esterno. L’impresa usa InnoCentive e 9Sigma per individuare imprese o persone con idee interessanti. • Efficienza produttiva: P&G ha tagliato i costi di produzione sviluppando un network di fornitura in Cina, Brasile, Vietnam e India piuttosto che costosi sistemi produttivi negli Stati Uniti o in Europa. Fonte: Wall Street Journal.

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 55

grave problema nei villaggi poveri e nelle baraccopoli, dove la raccolta dei rifiuti è inadeguata.

istantanea), ma non cambiano la concreta accessibilità del prodotto, che è funzione del suo prezzo.

È chiaro che la semplice vendita ai poveri non ne migliora necessariamente il benessere e non ne riduce la povertà.

3.3.5

3.3.4 Strategia di basso prezzo

Per poter ridurre i costi, senza compromettere la strategia globale dell’impresa, è spesso necessario ridurre la qualità, in modo tale che il rapporto qualità-prezzo sia accettabile per i consumatori poveri.

L’unico modo per aiutare i poveri e alleviare la povertà è aumentarne il reddito reale. Ci sono solo due modi per farlo: diminuire i prezzi dei beni (con l’effetto di aumentare il potere d’acquisto) o aumentare il reddito che i poveri guadagnano. L’unico modo per aumentare l’accessibilità reale è quello di ridurre il prezzo per singolo uso e per farlo ci sono solo tre vie: ridurre i profitti, ridurre i costi senza ridurre la qualità, ridurre i costi riducendo la qualità. Il potenziale di riduzione del profitto, in generale, è molto limitato, perché i mercati per la vendita ai poveri sono costosi da servire. I poveri sono generalmente dispersi geograficamente e i mercati hanno scarse infrastrutture per il trasporto, la catena del freddo, la comunicazione, i media, e un limitato potenziale per ottenere economie di scala. Ciò contribuisce ad aumentare i costi del business. Praticare prezzi più bassi per marche della stessa qualità genera rischi di importazioni parallele da Paesi low-price verso Paesi high-price, rischio particolarmente elevato per i prodotti farmaceutici. Alcune imprese hanno già affrontato tale rischio. Un buon esempio in proposito proviene dal Gruppo Danone, che ha lanciato un prodotto lattiero-caseario a prezzo molto conveniente, sviluppato appositamente per soddisfare specifiche esigenze nutrizionali dei bambini del Bangladesh. Il progetto è stato lanciato nel 2006, in collaborazione con GAIN (Global Alliance for Improved Nutrition – www.gainhealth.org) e con il Grameen Group (www.grameen-info.org). Il piano prevedeva l’utilizzo di fornitori locali e la progettazione di attrezzature semplici per facilitarne l’appropriazione da parte dei lavoratori locali. L’obiettivo nel lungo termine è implementare gradualmente questo modello in tutto il Paese, con circa 50 piccoli impianti (www. csreurope.org/solutions). Alcune imprese forniscono credito, anche per consumatori con redditi bassi o precari, gravandoli di un basso tasso di interesse. Questi sistemi di finanziamento forniscono valore ai poveri (gratificazione

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Riduzione della qualità dei prodotti

Karnani (2007, p. 101) riporta l’esempio di un’impresa indiana, Nirma, che ha lanciato sul mercato un detergente a prezzo molto basso, chiaramente di qualità inferiore a quello di Surf, la marca commercializzata da Hindustan Lever. Per ridurre i costi, la marca Nirma non contiene sbiancanti, profumi o ammorbidenti. Tuttavia, in dieci anni, questa marca ha aumentato la propria quota di mercato dal 12% al 62%. Altri modi realistici per rendere i prodotti più convenienti sono: • l’adozione del modello di accesso condiviso per beni come telefoni cellulari, lavatrici, biciclette, che vengono affittati o che sono in condivisione; • l’adozione di tecnologie come i pannelli solari per generare energia elettrica nelle comunità a basso reddito; • il tentativo di ridurre i costi di transazione con l’adozione di sistemi di distribuzione appropriati, che colleghino vecchie e nuove tecnologie (biciclette e telefoni cellulari). Così, lo sviluppo di una strategia di marketing per la vendita ai poveri implica una ridefinizione del concetto stesso del prodotto, in cui l’accento è posto sul servizio o sulla funzione di base, trascurando fronzoli e benefici secondari. Allo stesso modo, le politiche di distribuzione e di comunicazione devono essere personalizzate per soddisfare i bisogni specifici e le caratteristiche di questi mercati.

3.3.6 Il ruolo del microcredito Aggiudicando il premio Nobel al pioniere del microcredito Muhammad Yunus, il Comitato del Nobel ha affermato che il microcredito svolge un ruolo importante per eliminare la povertà. In realtà, la maggior parte degli studi suggerisce che il microcredito è positivo, ma solo in misura limitata. Khawari (2004) individua varie ragioni:

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• il microcredito non allevia la povertà, ma riduce la vulnerabilità al consumo; • la maggior parte dei clienti del microcredito è coinvolta in attività di sussistenza, senza prospettive di conseguimento di un vantaggio competitivo; • le imprese che operano con il microcredito lavorano in una scala troppo modesta, senza personale retribuito, con poche attrezzature, bassa produttività e redditi modesti; • solo una piccola frazione del credito è utilizzata per finalità imprenditoriali. Si tratta di “lavoratori in conto proprio”, che fanno poco per creare posti di lavoro per altri. In Cina, dove l’incidenza della povertà è diminuita in maniera significativa, una grande e crescente frazione della popolazione è rappresentata da dipendenti salariati, e non da lavoratori autonomi o da agricoltori. Gli economisti concordano nel ritenere che la creazione di opportunità dignitose di lavoro sia il modo migliore per combattere la povertà.

3.3.7

La ricerca di un modello di business adeguato

Considerando i problemi e le ovvie limitazioni di un modello di business che abbia un puro scopo di lucro, si solleva il problema di individuare il modello di business da adottarsi da parte di imprenditori attenti ai temi sociali e ambientali, per contribuire

ad alleviare la povertà con successo; essi operano in uno spettro di categorie di imprese, da quelle puramente caritatevoli a quelle puramente commerciali. Dal lato di quelle puramente caritatevoli, i clienti pagano poco o nulla, il capitale proviene in forma di donazioni e contributi, il lavoro è in gran parte svolto da volontari e i fornitori contribuiscono con donazioni in natura. Al contrario, nel lato estremo delle imprese puramente commerciali, la maggior parte delle transazioni avviene a prezzi di mercato. Elkington e Hartigan (2008, p. 3) hanno osservato che gli esperimenti più interessanti coinvolgono le imprese collocabili nelle situazioni intermedie, dove organizzazioni ibride perseguono nuove combinazioni di valori e dove clienti più agiati sovvenzionano a volte clienti meno abbienti. Una combinazione di valori risulta quando le imprese − a fini di lucro o senza scopo di lucro − creano valore utilizzando più dimensioni: economica, sociale e ambientale. Questo concetto di mix di valori è alla base del sistema di reporting TBL (Triple Bottom Line) (Elkington, 1997) promosso da imprenditori attenti alle questioni sociali e ambientali. Nella storia economica si è assistito a una vera e propria separazione nella nozione di valore: mentre le imprese hanno cercato di massimizzare il valore economico, i gruppi di interesse pubblico hanno cercato di massimizzare il valore sociale e ambientale. Tuttavia, un crescente numero di operatori, investitori e filantropi sta promuovendo strategie

approfondimento 3.2 Le questioni etiche Se trarre profitto dalla povertà può avere senso dal punto di vista economico, lo è anche dal punto di vista etico? La questione è la seguente: se coloro che sono attualmente esclusi dalla società dei consumi non vengono inseriti nell’economia, il divario tra ricchi e poveri tenderà ad aggravarsi ulteriormente, creando maggiori tensioni sociali e compromettendo lo sviluppo futuro. I poveri sono più vulnerabili a causa della mancanza di istruzione, di informazioni e per le privazioni economiche, culturali e sociali. Un marketing operativo aggressivo potrebbe indurre i poveri a spendere per prodotti come televisione, tabacco e alcol piuttosto che per soddisfare bisogni con un più elevato grado di priorità, come l’alimentazione, l’istruzione e la salute. La tutela dei consumatori, le restrizioni in materia di pubblicità e “le tasse sui peccati” come alcol e tabacco, applicate nei Paesi ricchi, sono insufficienti o inesistenti nei Paesi in via di sviluppo.

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In conclusione, sembra che il marketing, e in particolare il marketing strategico, debba assumere un ruolo, seppur modesto e attentamente calibrato, per soddisfare i bisogni dei poveri. Le migliori opportunità esistono nello sviluppo di prodotti a prezzi accessibili e nel cambiamento in modo innovativo e accettabile del rapporto qualità-prezzo per i consumatori dei Paesi in via di sviluppo. In contraddizione con la raccomandazione di Prahalad (2004), piuttosto che concentrarsi sui poveri come consumatori, il modo migliore per sradicare la povertà è quello di sviluppare le capacità dei poveri come produttori e imprenditori, al fine di aumentare il loro reddito disponibile, mediante la creazione di maggiori opportunità di lavoro.

Fonte: Autore.

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 57

es eM pi o 3 .5

aravind eye care system In tutto il mondo esistono circa 37 milioni di persone che sono cieche e ulteriori 124 milioni che hanno seri problemi alla vista. L’onere economico a livello mondiale dei casi di cecità è stimato a circa 25 miliardi di dollari all’anno. Nella sola India, si stimano 12 milioni di non vedenti, ma il 60% dei casi di cecità è il risultato della cataratta, quasi sempre curabile. Per risolvere un problema di tale entità, i meccanismi di mercato e la gestione del know-how possono chiaramente svolgere un importante ruolo. In India, l’imprenditore sociale Aravind Eye Care System (www.aravind.org) rappresenta uno sperimentato modello di business sostenibile, che segue il principio secondo cui volumi elevati, alta qualità e servizi basati sulla comunità possono dare luogo a bassi costi e redditività nel lungo termine. Chiedendo di più ai pazienti più ricchi e meno a quelli più poveri, ha sviluppato un modello di business sociale sostenibile. Trattando oltre 2 milioni

che mescolano intenzionalmente valori sociali, ambientali ed economici. Queste attività hanno portato nuove prassi nelle imprese for-profit e nonprofit, che stanno comprendendo quanto il positivo impatto ambientale e sociale del loro lavoro possa aumentare (o almeno non compromettere) il valore per gli azionisti, affrontando contemporaneamente le preoccupazioni di gruppi crescenti di stakeholder. Molte imprese non-profit stanno osservando che, integrando le business practice che creano valore economico nelle loro strategie di management, possono meglio esprimere la loro missione sociale e ambientale (www.blendevalue.org). Diversi interessanti casi che illustrano questo approccio ibrido sono rintracciabili nel libro di Elkington e Hartigan (2008). I modelli di business prevalenti, adottati da imprenditori sociali, tendono a rientrare in tre categorie: il modello di business senza scopo di lucro o non-profit, il modello ibrido senza scopo di lucro e il modello del business sociale. Nel modello non-profit, gli imprenditori sociali mirano a soddisfare bisogni ignorati dagli attuali meccanismi di mercato. Essi agiscono laddove i Governi non sono in grado di farlo oppure non sono disposti a fornire un bene o un servizio pubblico e laddove il settore privato non può giustificare il rischio correlato a una prospettiva realistica di profitto. Il fattore chiave del successo è la capacità di sfruttare le risorse disponibili. Le imprese non-profit sono totalmente dipendenti da donazioni filantropiche e questa dipendenza è in contrasto con la

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di pazienti l’anno, con meno dell’1% della forza lavoro del settore oftalmico del Paese, Aravind realizza circa il 5% di tutte le operazioni di cataratta in India. Fin dai suoi esordi, Aravind ha eseguito più di 2,8 milioni di interventi chirurgici e ha trattato oltre 22 milioni di pazienti ambulatoriali, riuscendo ancora a realizzare profitti, che vengono reinvestiti nella crescita dell’impresa e nel continuo miglioramento dei suoi servizi. Questo successo è stato raggiunto senza diminuire la qualità delle cure dei pazienti più poveri. Quale risultato del sistema di pagamento adottato e di una gestione efficiente, Aravind è in grado di fornire gratuitamente cure oculistiche per i due terzi dei pazienti e riesce ancora a mantenere i margini di profitto del 40%.

Fonte: www.aravind.org.

possibilità di espansione, perché la fornitura del denaro dei donatori è limitata. La sostenibilità di tale modello di business è fragile. Nel modello ibrido senza scopo di lucro, come nel modello precedente, l’obiettivo è fornire prodotti e servizi alle popolazioni che sono state escluse dai principali mercati, ma non viene esclusa la possibilità di realizzare profitti e di reinvestirli. Per evitare di essere completamente a carico dei donatori, l’impresa sociale tenta di coprire una parte dei costi attraverso la vendita di beni e servizi. Per esempio, in ambito sanitario si addebiterà di più a pazienti ricchi e meno a pazienti poveri. Pur mantenendo il suo specifico obiettivo sociale, l’organizzazione dovrà evolvere progressivamente verso un modello di business sociale, al fine di garantire, in modo sostenibile, l’accesso al mercato dei capitali. Il modello dell’impresa sociale, diversamente dai modelli precedenti, è caratterizzato fin dall’origine, dallo scopo di lucro, ma si differenzia dai principali modelli di business, relativamente alla destinazione degli utili (si veda l’Esempio 3.5). La specifica mission è guidare la trasformazione sociale e/o i cambiamenti ambientali. I profitti vengono realizzati, tuttavia l’obiettivo principale non è massimizzare il rendimento per gli azionisti, bensì supportare finanziariamente i gruppi a basso reddito e far crescere i social venture. L’imprenditore sociale cerca investitori interessati a combinare ritorni finanziari e sociali. Per sfruttare le risorse, i modelli di business sociali sono molto più facili da comprendere per gli uomini d’affari e di conseguenza per svilup-

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58 Parte prima L’evoluzione del ruolo del marketing

pare partnership. Anche la loro opportunità di crescita e la loro sostenibilità sono maggiori, perché possono poggiare sul debito e sul patrimonio netto.

L’obiettivo dello sviluppo

3.4 sostenibile

La nostra epoca è caratterizzata da molti paradossi. Come affermato da de Woot (2005), […] la nostra capacità di produrre ricchezza non è mai stata così grande, e non è mai esistita tanta disuguaglianza nel mondo. Lo straordinario dinamismo dell’economia di mercato convive con la quasi totale povertà che caratterizza metà dell’umanità. L’economia tende alla globalizzazione, mentre la politica è rimasta nazionale. È come se il sistema tecnico-economico funzionasse in modo indipendente. L’ambiente si sta deteriorando, anche se disponiamo delle conoscenze scientifiche, delle competenze tecniche e di sufficiente ricchezza accumulata per salvaguardare l’intero pianeta.

Questa situazione deriva da un complesso insieme di fattori e si ripercuote sulle imprese, obbligandole a ripensare alle loro responsabilità nei confronti della società, e a considerare l’economia di mercato all’interno di uno scenario più ampio, con i suoi punti di forza e di debolezza e con i suoi malfunzionamenti. Sono sempre più numerose le voci (Commissione Europea, dirigenti d’impresa, organizzazioni non governative ecc.) che si ergono a difesa di uno sviluppo sostenibile e di un approccio alla gestione che tenga conto di tutti i portatori di interesse, i cosiddetti stakeholder. II sistema capitalistico sarà in grado di evolvere verso un modello di business compatibile con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile? Per l’impresa, e in particolare per il marketing, la sfida è impegnativa: come conciliare l’imperativo di redditività con il “marketing verde” e con la necessità di ridurre i rifiuti, l’inquinamento e le emissioni di carbonio?

3.4.1

Una definizione di sviluppo sostenibile

L’obiettivo dello sviluppo sostenibile fu utilizzato dalla Commissione Bruntland (WCED, 1987) e definito come “[…] uno sviluppo che soddisfa i bisogni attuali senza compromettere la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni”.

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D’Humières (2010, p. 63) fornisce una definizione più esplicita: “[…] un metodo di assunzione di decisioni economiche basato sulla partecipazione democratica di tutti gli stakeholder – azionisti, lavoratori, clienti e cittadini – appartenenti alle diverse generazioni […] mantenendo il patrimonio naturale e culturale della collettività.” Questa visione modifica la gestione del mercato e delle politiche pubbliche in relazione a tre aspetti: 1. estensione del processo decisionale a tutti gli stakeholder, adottando il principio di cautela per creare una maggiore utilità sociale; 2. regolazione dei meccanismi di accesso ai beni pubblici e di integrazione delle esternalità negative nei prezzi di mercato, secondo il principio per cui occorre “pagare l’inquinamento”; 3. allocazione dei risultati adottando una logica di equità e una prospettiva a lungo termine allineata alla non rinnovabilità delle risorse fisiche scarse, che devono essere preservate. Uno dei principali punti deboli del capitalismo basato sull’azionariato è stato la sottostima dell’importanza delle risorse umane e delle risorse naturali nella produzione finale.

3.4.2

L’adozione di una visione socio-ecologica del consumo

L’adozione dell’obiettivo di sviluppo sostenibile cambia la tradizionale visione del consumo. La visione socio-ecologica del consumo (Figura 3.2) riflette una nuova consapevolezza della scarsità delle risorse naturali, della crescita incontrollata dei rifiuti e del costo sociale del consumo. Tra il 1890 e il 1990, la popolazione mondiale è quadruplicata, mentre il consumo di prodotti industriali è aumentato di 40 volte, l’utilizzo di energia di 16 volte, di acqua 9 volte, di pesce 35 volte e la produzione totale, a livello mondiale, di 14 volte. La discrepanza tra la crescita della popolazione e quella del consumo aumenta ancora di più se si considerano solo i Paesi altamente industrializzati. La nuova consapevolezza relativa alla scarsità delle risorse riflette un cambiamento di atteggiamento nei confronti del consumo, che non è più visto come fine a se stesso, ma in termini di tutte le implicazioni a monte (costo di opportunità) e a valle (costo di riparazione e prevenzione). La globalizzazione, con la crescente interdipendenza

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 59

Punto d’acquisto del prodotto finito

Produzione

Consumo Trasporto privato

Pneumatici Autostrade

Componenti

Traffico Consumo energetico

Automobili

Incidenti

Gomma Plastica

Riparazioni

Distruzione ambientale

Lamiere

Ferite Rottamazioni

Hevea Olii

Inquinamento

Invalidità, morte

Riciclaggio

Minerali

Natura

Natura Fonte: Autore.

Figura 3.2

La visione socio-ecologica del consumo: l’esempio dell’automobile

dei mercati e la diffusione delle attività produttive e di approvvigionamento in tutto il mondo, sta contribuendo a diffondere questa nuova cultura a livello planetario. L’ecologista desidera soprattutto stabilire un prezzo per l’utilizzo dell’ambiente, che finora era considerato un “bene gratuito”. Gli strumenti economici utilizzati a tale scopo generalmente prendono la forma di tasse dirette sulle attività inquinanti, o in via preventiva (eco-imposte) o in prospettiva riparatrice (eco-tasse) (si veda l’Approfondimento 3.3).

Il modello dell’Inventario

3.4.3 del Ciclo di Vita

Il modello dell’inventario del ciclo di vita (LCI, LifeCycle Inventory) è lo strumento fondamentale utilizzato dagli ecologisti per valutare l’impatto totale di un prodotto sull’ambiente, “dalla culla alla tomba”. L’inventario del ciclo di vita (LCI) è un processo che quantifica l’utilizzo di energia, di risorse e le emissioni nell’ambiente di un prodotto, nel corso del suo ciclo di vita. Esso comprende l’impatto ambientale legato all’approvvigionamento delle materie prime, la produzione,

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il confezionamento, la distribuzione e le caratteristiche d’uso, fino a dopo l’utilizzo e allo smaltimento. Di fronte a questa prospettiva socio-ecologica, le imprese sono state costrette a rivedere complessivamente il concetto che hanno dei loro prodotti, dalla ricerca delle materie prime e fino allo smaltimento. In futuro, la certificazione ISO 14001, che misura e certifica il rispetto per l’ambiente, diventerà probabilmente una condizione necessaria per poter partecipare a gare d’appalto internazionali, così come accade oggi per le norme ISO 9000. Nel settore automobilistico, una direttiva del Parlamento Europeo rappresenta un buon esempio delle implicazioni pratiche dell’ecologia. In base a tale direttiva, i produttori di autoveicoli dovranno sostenere le spese necessarie a riciclare auto, bus e camion. La direttiva incoraggia l’utilizzo di materiale riciclabile e richiede che l’85% del peso di ciascun veicolo venduto nell’Unione Europea dopo il 2007 derivi da materiale di recupero. Questa direttiva sarà applicata retroattivamente dal 2006: ciò significa che l’industria automobilistica europea dovrà riciclare i 170 milioni di automobili che circolano oggi in Europa.

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60 Parte prima L’evoluzione del ruolo del marketing

approfondimento 3.3 Analisi economica dell’ambientalismo Nel 1972, il Meadow Report del Club di Roma richiamò l’attenzione del mondo sociale ed economico sui limiti della crescita economica, sui rischi dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili, della distruzione dell’ambiente e dell’aumento incontrollato dei rifiuti. Questa nuova consapevolezza rese le autorità pubbliche e i movimenti politici disponibili ad ascoltare le raccomandazioni degli economisti. Per l’economista, l’ambiente è parte integrante dell’economia e il miglior modo per proteggerlo è assegnare un prezzo al suo utilizzo, smettendo così di considerarlo un bene pubblico gratuito, a differenza di quanto accade per qualsiasi altra merce in un’economia di mercato. Se non viene applicato un prezzo di mercato, consumatori e produttori sono motivati a utilizzare l’ambiente come “una riserva gratuita”, anche se i costi sociali generati dall’inquinamento sono altissimi, dato che il mercato non li calcola. Quindi, chi genera tali costi

La preoccupazione ambientale che sta alla base di tale direttiva deriva dal mercato ed esprime le nuove necessità della società. Non è una moda o una protesta, ma uno stile di vita, che si sta rapidamente diffondendo a tutti i livelli della società e in tutto il mondo. Il prevalere dei bisogni collettivi su quelli individuali rappresenta un nuovo fenomeno economico, che mette a dura prova le forme più selvagge di capitalismo. Fino a poco tempo fa, una coscienza ambientale di questo genere era considerata preoccupazione di economie industrializzate, ma l’interdipendenza dei mercati che deriva dalla globalizzazione ha cambiato la prospettiva. Questo spiega anche perché le nuove norme ambientali siano alla base delle negoziazioni internazionali in corso, sebbene il tentativo avanzato dall’Unione Europea di imporre standard più elevati sia considerato dagli Stati Uniti come un ostacolo al libero commercio e dalle economie in via di sviluppo come una forma di velato protezionismo.

3.4.4 Gli obiettivi dell’eco-efficienza La prospettiva socio-ecologica del consumo induce le imprese a migliorare la loro “eco-efficienza”, aumentando il volume di produzione per unità di risorsa naturale utilizzata, obiettivo che si raggiunge applicando al loro uso il principio adottato da Henry Ford negli anni Venti alle risorse umane: “fare di più utilizzando meno”.

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sociali non li paga e non è ritenuto responsabile delle spese necessarie a eliminare l’inquinamento. La soluzione proposta dagli economisti consiste nell’assegnare all’utilizzo dell’ambiente un prezzo, pari al totale dei costi sociali generati dall’inquinamento, calcolati da chi lo subisce. Con questo presupposto, chi inquina sarà portato a utilizzare l’ambiente solo nella misura in cui i benefici che ne trae saranno maggiori rispetto al prezzo da pagare. Questi soggetti dovranno quindi assumersi il costo sociale dell’inquinamento. Questo è il fondamento su cui si fonda il principio: “chi inquina paga”. Per attribuire un prezzo all’utilizzo dell’ambiente si applicano, in genere, tasse dirette sulle attività inquinanti, sia di tipo preventivo (eco-imposte), sia in prospettiva riparatoria (eco-tasse). Fonte: Autore.

Storicamente, la produttività del lavoro è aumentata di 200 volte nell’industria e di 20 volte nell’agricoltura. Questo significa che, nell’industria, un operaio è in grado di fabbricare quello che 300 anni fa producevano 200 operai. La produttività nell’utilizzo delle risorse naturali e il consumo di energia per unità è stata invece solo decuplicata dall’Ottocento a oggi. Questo aumento di efficienza permette comunque di ottenere oggi una tonnellata di acciaio con un decimo dell’energia necessaria un tempo (Lambin, 2004). Tutti gli studiosi concordano: il potenziale di miglioramento dell’eco-efficienza è, per la maggior parte dei prodotti, enorme (attraverso la decarbonizzazione, la de-materializzazione, la riduzione dei rifiuti e dell’inquinamento ecc.). Tale miglioramento non solo sarebbe benefico per l’ambiente, ma aumenterebbe la redditività dell’impresa, creando una situazione win-win, con guadagni sia dal punto di vista ambientale, sia da quello economico. Ultimo, ma non meno importante, l’immagine dell’impresa che gode di una buona reputazione per il rispetto dell’ambiente diventa sempre più un motivo di fedeltà di clienti, dipendenti e azionisti. Al giorno d’oggi, sono sempre più numerosi gli investitori che esprimono la loro preferenza per fondi etici, che raggruppano imprese con buone credenziali nel campo sociale ed ecologico, come dimostra la crescita dei fondi di investimento sostenibili. Per

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 61

maggiori dettagli relativi allo sviluppo di prodotti sostenibili, si vedano Unruh ed Etteson (2010) e i nuovi trend analizzati da McKinsey (Beinhocker et al., 2009).

3.4.5

i nuovi modelli di business per l’impresa eco-sensibile

Per implementare l’obiettivo di sviluppo sostenibile l’impresa deve adottare modelli di business più ecosensibili. Il modello tradizionale segue un processo lineare – estrazione delle materie prime, produzione, distribuzione, consumo, accumulo dei rifiuti – che può essere descritto come un processo “dalla culla alla tomba”. La globalizzazione di tale modello industriale non è perseguibile. Per far sì che gli abitanti di tutto il pianeta possano vivere come un americano o un europeo sarebbero necessari altri due pianeta Terra per soddisfare i bisogni di tutti o anche tre, se la popolazione raddoppiasse, e dodici se lo standard di vita planetario raddoppiasse nei prossimi quarant’anni. Il modello economico della performance (performance economic model) sviluppato da Stahel (2006) distingue tra tre tipi di economia: 1. l’economia industriale cosiddetta river economy, caratterizzata da elevati consumi annui di risorse e rapida sostituzione di beni, modello che diventa insostenibile nel lungo termine (l’approccio “dalla culla alla tomba”); 2. l’economia dei servizi funzionali (functional service economy) in cui il focus è la gestione degli asset e l’utilizzo di capacità piuttosto che la disponibilità di beni fisici, creando così lavori insourcing (approccio “dalla culla alla culla”); 3. l’economia circolare (loop economy) che inizia al termine di un congruo periodo di utilizzo, quando i prodotti usati diventano rifiuti generati dai consumatori (approccio “dalla tomba alla culla”). I modelli economici circolari e dei servizi funzionali sono complementari e propongono soluzioni di compromesso per sviluppare un capitalismo ecoresponsabile. Questi due nuovi modelli di business possono contribuire a modificare il sistema capitalistico e supportare l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, slegando crescita economica e distruzione dell’ambiente.

3.4.6

L’importanza dell’industria del trattamento dei rifiuti

L’industria del trattamento dei rifiuti in Europa nel 2008 ha registrato un fatturato di 24 miliardi di euro, impiegando circa 500 000 persone nelle oltre 60 000 aziende coinvolte. La produzione di rifiuti nella zona EU è stimata in più di 1,3 miliardi di tonnellate all’anno con una crescita percentuale paragonabile alla crescita economica. Per esempio, il PIL e i rifiuti comunali sono entrambi cresciuti del 19% tra il 1995 e il 2003. Una conseguenza di tale crescita è che, no­nostante il corrispondente incremento delle attività di raccolta e smaltimento, il conferimento in discarica – il modo più problematico di liberarsi dei rifiuti – si sta riducendo solo di poco. Il modello di economia circolare può essere adottato da ciascuna impresa, anche se esso implica dei profondi cambiamenti nell’organizzazione dei sistemi produttivi, che devono essere avviati da un management eco-sensibile e supportati dalle autorità pubbliche (si veda l’Approfondimento 3.4).

3.5

’affermazione del potere L della società civile

Il crescente potere dei cittadini genera nuove aspettative, che contribuiscono direttamente a migliorare il funzionamento e la trasparenza del mercato: libertà di scelta, migliore informazione, pressione sui prezzi, sicurezza dei prodotti, responsabilità del produttore nel servizio post-vendita e prodotti eco-compatibili. Tale potere costituisce un forte contrappeso nei riguardi delle imprese e delle autorità pubbliche.

3.5.1

Il comportamento del nuovo consumatore

Nel mondo industrializzato i consumatori – con un livello di istruzione medio più elevato rispetto al passato ed esposti alla cultura consumerista – rappresentano una forza composta di cittadini-clienti responsabili, che le imprese e le autorità pubbliche non possono più permettersi di ignorare. I nuovi consumatori sono caratterizzati da sette atteggiamenti tipici, descritti qui di seguito.

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L’economia circolare

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L’economia dei servizi funzionali

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1. Senso di potere: i consumatori si muovono all’interno di mercati in cui l’offerta è abbondante, le marche proliferano, la concorrenza per guadagnarsi la fedeltà del cliente è intensa e le fonti informative indipendenti sono numerose.

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62 Parte prima L’evoluzione del ruolo del marketing

approfondimento 3.4 I prodotti eco-progettati È molto più facile disassemblare i prodotti per rifabbricarli e riutilizzarne le parti se sono stati progettati tenendo conto di questa loro destinazione finale. Sfortunatamente, in molti casi, riparare è più costoso che acquistare un nuovo prodotto. Per ristrutturare un edificio o riparare un treno è necessaria la stessa quantità di manodopera che serve per costruirne uno nuovo, pur conservando l’80% degli investimenti originari in termini di materiali ed energia. Se si esauriscono le possibilità di riparare, riutilizzare o rifabbricare un prodotto, esso può allora essere inserito in un prodotto simile o come ultima possibilità può essere riciclato – sotterrato, fuso o sciolto – cosicché i suoi materiali di base vengano riutilizzati per un diverso uso. Questi principi sono applicabili a qualsiasi oggetto, dai materiali di imballaggio ai materiale da costruzione, e ciascuna tonnellata non estratta, trattata e spostata significa un danno minore alle risorse naturali (Hawken e altri, 1999, p. 80). Molto spesso, solo una percentuale limitata delle materie prime o dell’energia utilizzate vengono integrate

2. Comportamento d’acquisto professionale: i consumatori, istruiti ed esperti, si rivelano acquirenti attenti, capaci di distinguere e destreggiarsi fra marche, negozi, pubblicità e consigli degli addetti alle vendite. Diventano sempre più esigenti nelle loro richieste di servizi personalizzati e desiderano informazioni complete per i loro acquisti. Da consumatori passivi, essi diventano più attivi, ovvero “consumattori”. 3. Relazione soddisfazione-piacere-fedeltà: il nuovo consumatore ritiene l’impresa responsabile della sua insoddisfazione, cosicché un consumatore insoddisfatto diventa un cliente perso, con effetti dannosi in mercati a crescita zero, in cui sostituire un consumatore perso con un altro è particolarmente difficile e costoso. I risultati delle ricerche dimostrano che dare al cliente solo quanto egli si aspetta non è sufficiente per mantenerne la fedeltà. L’obiettivo dovrebbe essere quello di offrire di più, in modo da “deliziare” il cliente. Un articolo interessante di Dixon et al. (2010) elenca gli obiettivi da perseguire per “deliziare” i clienti. 4. Ricerca di nuovi valori: nei Paesi industrializzati la prosperità economica e il consumo di massa hanno spostato le aspirazioni dei consumatori dai bisogni materiali alla ricerca di nuovi valori; mentre inizialmente essi cercavano soprattutto comfort

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nei prodotti finiti; si è stimato infatti che (Ayres, 1989) nell’economia americana solo il 6% di questo immenso flusso di materiali confluiscono nei prodotti. Il residuo viene perduto o trasformato in un sottoprodotto di valore inferiore o in spazzatura. Questi sottoprodotti tuttavia, possono rivestire un valore per un altro settore industriale o per un altro gruppo di consumatori. I costi di rifabbricazione o di riutilizzo di componenti a elevato valore aggiunto sono più che compensati dai risparmi generati dalla riduzione di fabbisogno di materie prime. Il concetto di economia circolare può essere adottato da qualsiasi impresa sensibile ai temi ambientali ma la sua adozione implica in generale una qualche forma di coordinamento intersettoriale e una sostanziale riorganizzazione dei processi produttivi. Un esempio emblematico è fornito da Rank Xerox e dalla sua strategia di successo interamente focalizzata sulla rigenerazione e sul riutilizzo dei suoi prodotti usati.

Fonte: Lambin, 2014.

e sicurezza, oggi desiderano sempre più stimoli, piacere, cambiamento, innovazione, sorpresa. 5. Bisogno di dialogo: i consumatori sono rappresentati da potenti associazioni e organizzazioni non governative (ONG). Allo stesso modo, appare significativa la crescente influenza dei gruppi ambientalisti, degli attivisti dei diritti umani, dei gruppi di lavoratori, dei gruppi religiosi e di molte altre organizzazioni che formano la cosiddetta “società civile”. 6. Ricerca di esperienze gratificanti: molti consumatori si stanno spostando dallo “spreco ostentato” ai “consumi calcolati”, generando un movimento back-to-basics (“ritorno alle origini”) orientato più alle esperienze che al possesso dei beni. 7. Desiderio di consumo etico: i consumatori non vogliono provare sensi di colpa per i loro acquisti. L’acquisto viene affrontato con atteggiamento responsabile. Si comprano e usano prodotti e marche con un rapporto qualità-prezzo accettabile, ma che soddisfino anche criteri etici, come il rispetto per l’ambiente, la gestione sociale e umana dell’impresa, il suo impegno politico e strategico ecc. Il trend emergente del consumo etico è confermato nel Regno Unito dai risultati della ricerca condotta nel 1994 e nel 2004 da Co-op UK (si veda la

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 63

Tabella 3.1). La conclusione chiave è che, nell’arco temporale oggetto di indagine, è aumentato del 23% il numero di consumatori interessato alle questioni etiche. In particolare, il 64% (il 12% in più) afferma di essere maggiormente attento ai temi etici; l’84% (il 35% in più) afferma di essere disponibile a pagare un po’ di più i prodotti che rispettano standard etici, a parità di qualità del prodotto; il 60% (una percentuale stabile rispetto al 1994) afferma di essere pronto a boicottare un prodotto per motivi etici. Un’evoluzione più recente di questo trend è rappresentata dal cosiddetto “consumo politicamente corretto” (o “consumo partecipativo”), che denota un comportamento d’acquisto in cui il consumatore considera l’acquisto di una marca simile a un atto politico: scegliere una marca o un’impresa è parago-

Tabella 3.1

nabile al voto politico, perché si seleziona il candidato in cui si ripone fiducia. Allo stesso modo, nel mercato si possono prendere decisioni d’acquisto politicamente corrette. Mecca-Cola, per esempio, è una marca lanciata nel mercato francese e rivolta alla comunità musulmana. Il suo slogan recita: “Non bere da stupido, bevi impegnato”. L’azienda promette anche di devolvere il 10% dei suoi profitti netti a enti benefici palestinesi (http://mecca-cola.com/). I cambiamenti osservati nel comportamento di acquisto sfidano gli stereotipi di un consumatore manipolabile e indifeso. In effetti, a tal proposito si stanno sviluppando relazioni nuove e più respon-

A chi sta a cuore la questione etica? Un sondaggio condotto di Co-op UK

Questioni etiche

1994 n = 31 000

2004 n = 29 500

Variazioni

Preoccupazione generica di carattere etico – Sei più attento a queste problematiche rispetto al passato?

57%

64%

+12%

Sostegno al Terzo Mondo – Secondo te i dettaglianti dovrebbero aiutare gli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo?

55%

80%

+45%

Disponibilità a pagare di più – Saresti disposto a pagare qualcosa in più per scegliere prodotti etici?

62%

84%

+35%

Boicottaggio attivo – Hai mai boicottato un prodotto per questioni etiche?

33%

29%

–12%

Disponibilità al boicottaggio – Pensi che lo farai in futuro?

60%

60%

stabile

Etichettatura informativa – Secondo te le etichette dei prodotti alimentari dovrebbero fornire un’informazione completa?

62%

96%

+54%

Etichettatura onesta – Secondo te le etichette con informazioni false andrebbero vietate?

62%

90%

+56%

Benessere degli animali negli allevamenti – Ritieni importante che i dettaglianti acquistino carni da allevamenti in cui gli animali sono trattati correttamente?

66%

71%

+7%

Benessere della fauna selvatica – Ritieni importante sostenere prodotti che non danneggiano la fauna selvatica?

59%

70%

+18%

Conservazione delle risorse naturali – Ritieni importante bloccare le produzioni ottenute da risorse non sostenibili?

55%

64%

+16%

Inquinamento ambientale – Ritieni importante che l’impresa riduca al minimo l’inquinamento?

52%

57%

+29%

Packaging – Ritieni importante che i dettaglianti riducano al minimo le confezioni?

52%

58%

+11%

Aumento medio in tutte le aree di interesse

Raggiunge il 23% Fonte: Croft (2004).

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64 Parte prima L’evoluzione del ruolo del marketing

L’approccio ai portatori di interesse (stakeholder) sostiene invece che l’impresa è responsabile nei loro confronti e deve operare a loro beneficio, cioè per il bene di tutti suoi stakeholder. Ma chi sono i portatori di interesse? (si veda la Figura 3.3). Secondo una definizione molto diffusa, sarebbe portatore di interesse qualsiasi gruppo di persone o individuo che può influire sugli obiettivi aziendali o subirne l’influenza: dipendenti, consumatori, fornitori, comunità locale e ambiente. Questo approccio non specifica, però, quale sia il gruppo prioritario. Un esempio di mission di un’impresa che ne ha adottato i principi è quello di Illy, in cui i valori etici vengono così espressi: Creiamo e condividiamo con gli stakeholder valore di lungo termine tramite il nostro impegno nel miglioramento, nella trasparenza, nella sostenibilità e nello sviluppo personale.

sabili tra i consumatori e il mondo industriale. Per maggiori informazioni in merito a questi scenari emergenti, si rimanda a Flatters e Willmott (2009).

Azionisti (shareholder)

3.5.2 e portatori di interesse (stakeholder)

Dalla metà degli anni Ottanta si è rafforzato l’orientamento al valore per gli azionisti, in particolare nelle aziende statunitensi e britanniche. Secondo il Premio Nobel Milton Friedman (1970), tale approccio sostiene che l’obiettivo dell’impresa sia quello di aumentare i profitti e quindi il valore delle azioni. L’argomento principale a favore di questa tesi è abbastanza logico: se i manager non riconoscessero il valore degli azionisti, questi riceverebbero utili meno consistenti, la motivazione dei potenziali investitori calerebbe e alla fin fine diminuirebbe l’attività delle imprese e aumenterebbe la disoccupazione. Un esempio di mission di un’impresa concentrata sugli azionisti è quella di Coca-Cola, che recita: (Vogliamo) massimizzare il rendimento a lungo termine per gli azionisti, pur essendo consapevoli delle nostre responsabilità globali.

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Al centro del modello appena descritto sta il principio secondo cui tutte le persone devono essere rispettate e l’azienda esiste per soddisfare tutti i portatori di interesse allo stesso modo, obiettivo di per sé alquanto complesso. La presenza di numerosi gruppi di portatori di interesse non fa che accrescerne la complessità. La situazione assume particolare rilievo quando i dirigenti si attribuiscono consistenti aumenti di stipendio, riservando invece ai dipendenti incrementi irrisori, o quando gli utili degli azionisti sono modesti, nonostante i prezzi al consumatore non siano calati, né il servizio migliorato. Un caso famoso è quello della banca Barclays che nel 1998 aumentò considerevolmente lo stipendio ai membri del Consiglio di Amministrazione, mentre, contemporaneamente, licenziava 7500 dipendenti e chiudeva 172 filiali. A prima vista sembra che i due approcci non possano convivere facilmente, all’interno della stessa economia. Le argomentazioni a sostegno del modello rivolto ai portatori di interesse ha comunque i suoi meriti. Se, però, i bisogni di questi ultimi sono fraintesi, l’errore si ripercuoterà negativamente sulla performance dell’impresa e quindi sugli utili degli azionisti. L’idea che si possa contemporaneamente soddisfare i bisogni di tutti quelli che hanno qualche interesse in un’azienda e ottenere utili maggiori per gli azionisti è ovviamente affascinante. L’emergere

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 65

Governo Agenzie normative

Dipendenti Sindacati

Associazioni commerciali

Fornitori

Società professionali

Distributori

Azionisti Partner aziendale

Consigli di Amministrazione

Autorità

Consumatore segmento A

Gruppi di consumatori

Consumatore segmento B

impresa Influenze esterne

Fornitori di servizi Giornalisti Membri della comunità

Consumatore segmento C

Particolari gruppi d’interesse Fonte: Dowling (2001).

Figura 3.3

Portatori di interessi nei confronti dell’impresa

dei nuovi valori appena descritti fa pensare che in questa direzione siano stati compiuti dei progressi molto importanti. Per un revisione delle modalità con cui reinventare il capitalismo, introducendo un’ondata di innovazione e crescita, si vedano Porter e Kramer (2011) e Lambin (2011).

3.5.3 Verso una governance globale La globalizzazione dell’economia mondiale solleva la questione del ruolo dello Stato e della governance globale. È un fatto noto che gli Stati nazionali hanno perso parte delle loro prerogative, fino al punto che non controllano più le attività transnazionali. Il contrasto tra i mezzi che le nazioni hanno a disposizione per il governo nazionale (tra il 30 e il 50% del PIL) e la debolezza delle risorse a livello globale è sorprendente. Un’economia di mercato necessita di un governo forte, che definisca e rafforzi le regole del gioco competitivo. È compito dello Stato, per esempio, bilanciare le questioni macroeconomiche (come la stabilità dei prezzi) e garantire un minimo di coesione e solidarietà sociale. Un’economia di mercato, sia a livello nazionale sia a livello globale, per funzionare bene necessita di un governo forte; se le regole sono assenti o insufficienti, il rischio che prevalgano forme di capitalismo selvaggio è molto alto. L’insuccesso dell’economia di mercato nei suoi primi anni di applicazione in Russia fu principalmente

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dovuto a un Governo troppo debole e all’assenza di regolamentazioni economiche e di mercato necessarie ad assicurare il funzionamento dell’economia stessa. Nei mercati non regolamentati è il più forte ad avere la meglio, e quindi gli affari economici finiscono per essere gestiti dalla delinquenza o da pochi individui corrotti. In un mercato globale non regolamentato a sufficienza, quale deve essere l’istituzione internazionale che assume il controllo a livello globale? In altre parole, se esiste un “villaggio globale”, qual è l’“ente municipale” che deve assumersene la responsabilità? Nel mondo di oggi, è più impellente che mai la necessità di mantenere e rivendicare la propria identità culturale e, negli anni a venire, sarà il “principio di sussidiarietà” a guidare ogni decisione. In pratica, ciò che si può gestire meglio a livello locale, a tale livello andrebbe gestito. Per le questioni transnazionali (come l’ecologia, la protezione della privacy in Rete, la sicurezza, il terrorismo, la salute ecc.), sono invece necessarie delle forme di governo mondiale. Tale struttura di governo non è certo ancora all’ordine del giorno, ma potrebbero essere utili anche nuove forme di impegno concordate a livello mondiale, come le conferenze di Kyoto, Montreal e l’Aia nel campo dell’ecologia, o i forum di Davos e di Porto Alegre in quello socio-economico. Il capitalismo globale necessita del contrappeso di potenti forze, che vanno al di là del potere dei

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Governi nazionali. In opposizione a quanto chiedono i sostenitori anti-globalizzazione, sarebbe opportuno incrementare il potere di organizzazioni sovranazionali come l’OMC, il FMI e la Banca Mondiale, creando inoltre nuove istituzioni che si occupino delle questioni internazionali. Se non si seguirà questa strada, aumenterà il rischio di trovarsi di fronte a forme di capitalismo ancora più selvagge di quelle che ora operano in mercati completamente deregolamentati.

3.5.4

La responsabilità sociale dell’impresa

In tutto il mondo le aziende stanno adottando il concetto di responsabilità sociale (RSI o CSR, Corporate Social Responsibility), e gli scandali finanziari di aziende come Enron e WorldCom hanno contribuito a rafforzare la diffusione di questo approccio. Le motivazioni che portano ad adottare tale filosofia a livello aziendale si possono riassumere come nel seguito. • Per raggiungere i propri obiettivi di sviluppo, qualsiasi impresa necessita di un ambiente salubre e prospero. Non si può costruire il progresso economico su un disastro sociale. • Un sistema economico globale da cui metà dell’umanità è esclusa non è fattibile dal punto di vista politico, né accettabile dal punto di vista morale. • Il Welfare State e le soluzioni sociali e fiscali che implica sono giunti al limite estremo, sia qualitativamente sia economicamente. • Piuttosto che pagare più tasse, la società civile dovrebbe cominciare a impegnarsi nei campi in cui dispone di competenze e risorse adeguate.

L’azienda responsabile riconosce di esserlo non solo nei confronti dei propri azionisti, ma anche della società intera. Si tratta di un’organizzazione, grande o piccola che sia, che desidera stabilire una relazione sostenibile e a lungo termine con la comunità in cui si trova inserita e da cui trae la sua prosperità. L’azienda responsabile, prendendo parte alla vita sociale, impegna le proprie risorse e competenze per aiutare a combattere i problemi della società, spesso in collaborazione con le autorità pubbliche. Sono molti gli ambiti in cui l’azienda responsabile può dare il proprio contributo: sviluppare il tessuto economico di una regione; mantenere o sviluppare l’occupazione; partecipare ai programmi educativi; proteggere l’ambiente; dialogare con gli stakeholder; promuovere lo sviluppo urbano; combattere l’esclusione sociale. Il punto centrale di questa prospettiva è che le imprese rappresentano la più potente forza di cambiamento del mondo moderno: questo non significa che Stato, Istituzioni Religiose e Università debbano ritenersi estranei al problema, ma che le loro azioni – più lente per natura – possono solo essere complementari a quelle svolte dalle imprese. Nella nuova economia globale, un comportamento etico che consista nel “far bene (economicamente), facendo del bene (socialmente)” è compatibile non solo con gli obiettivi del capitalismo moderno (come dimostrato dal successo dei fondi etici), ma rappresenta anche una fonte di vantaggio competitivo, perché soddisfa la domanda del mercato (si veda il Suggerimento applicativo 3.1). Ancora una volta l’interdipendenza dei mercati creata dalla globalizzazione permette di garantire che questi nuovi standard di comportamento diventino un imperativo per tutte le imprese che ambiscono a giocare un

sUGGeriMento appLicativo 3.1 come migliorare il ragionamento etico? 1. Il test legale: è un’attività che viola la legge? 2. Il test dei doveri morali: è un’attività contraria ad obblighi morali ampiamente accettati, come la fedeltà, la gratitudine, la giustizia, il comportamento non dannoso nei confronti degli altri e la beneficenza? 3. Il test degli obblighi specifici: è un’attività che viola qualche obbligo specifico che caratterizza il tipo organizzazione in esame (aziende farmaceutiche, produttori di giocattoli ecc.)? 4. Il test della motivazione: l’intento che supporta l’attività è malevolo?

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5. Il test dell’utilità: esiste un’alternativa soddisfacente all’attività in questione, che comporti per le parti in gioco benefici uguali o maggiori? 6. Il test dei diritti: è un’attività che viola i diritti di proprietà, di privacy, o i diritti inalienabili del consumatore (come il diritto all’informazione, a essere ascoltato, alla scelta e alla riparazione)? 7. Il test della giustizia: è un’attività che svantaggia un individuo o gruppo di individui? Fonte: Laczniak e Murphy (1993, p. 49).

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 67

es eM pi o 3. 6

La certificazione “responsible supply chain process” del Gruppo illy illycaffè è la prima azienda al mondo a ottenere dall’ente di certificazione internazionale DNV la certificazione “Responsible Supply Chain Process” che ne attesta la sostenibilità lungo tutta la filiera produttiva e in particolare nei rapporti che intrattiene con i propri fornitori: i coltivatori di caffè.

Fonte: www.illy.com.

ruolo di primo piano nel mercato globale (si veda l’Esempio 3.6). Il processo di CRM (Corporate Responsibility Management) è importante, ma presenta un gap di credibilità nel momento in cui tale concetto viene utilizzato in forma massiccia esclusivamente a livello di comunicazione d’impresa. È d’obbligo che i Governi autodefiniscano degli obiettivi etici e la legislazione necessaria per implementarli; occorre uscire dal terreno della moralità per stabilire chiare regole definite legalmente. Come attualmente stabilito nelle norme internazionali CSR ISO 2600, lo scopo della responsabilità sociale di impresa è contribuire all’implementazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile e alla salute e al benessere delle persone. Nel complesso, l’ambito delle nuove norme CSR coinvolge sette tipi di responsabilità: il rispetto dei diritti umani, le regole di corporate governance, le obbligazioni sociali, la protezione dell’ambiente,

le business practice, il rapporto con i consumatori e l’impegno sociale. È molto probabile che in un prossimo futuro la RSI sarà diffusamente adottata dalle imprese e non rappresenterà un’eccezione, anche se l’autoregolamentazione dei codici di condotta ha destato nel tempo delle perplessità. (si veda l’Approfondimento 3.5). La filosofia della gestione responsabile sta guadagnando credibilità nella comunità economica europea, come dimostra la proliferazione dei codici di condotta, la sempre più diffusa adozione dei sistemi di analisi TBL (Triple Bottom Line), la Carta della Responsabilità Umana suggerita dall’Alliance for a Responsible, Plural, and United World, l’impegno di Transparency International, la Convenzione Anticorruzione dell’OCSE ecc. La TBL è particolarmente importante ed esprime il concetto secondo cui l’impresa deve rispondere della sua performance in base a criteri economici, ambientali e sociali, in modo da

approfonDiMento 3.5 L’autoregolamentazione funziona? In passato molti sostenevano l’importanza dell’autoregolamentazione e dei codici di condotta autogestiti, come strumenti primari per promuovere la responsabilità sociale di impresa (Arrow, 1973). Trent’anni dopo, alla luce del crescente numero di imprese che spontaneamente adottava codici interni di comportamento, gli interrogativi sull’efficacia dell’autoregolamentazione aumentavano sempre più. La problematica è di primario interesse, dato che l’americana Enron, un anno prima che lo scandalo finanziario diventasse pubblico, era stata acclamata per la qualità del suo codice di condotta aziendale. Kolk e van Tulder (2002) hanno esaminato da vicino la natura dei codici che regolamen-

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tano il lavoro infantile di sei aziende internazionali di abbigliamento (Levi Strauss, Nike, Gap, C&A, Hennes & Mauritz, WE) che operano nei settori dei tessuti e delle scarpe, in cui il lavoro minorile rappresenta un problema assai delicato. Gli Autori hanno tratto la chiara conclusione che l’autoregolamentazione, applicata nella maggior parte dei casi tramite codici di condotta, è uno strumento efficace per promuovere la responsabilità sociale di impresa, soprattutto quando vi si affiancano sistemi di monitoraggio come la certificazione internazionale SA 8000. Fonte: Kolk e van Tulder (2002).

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soddisfare i portatori di interesse in tutti e tre gli ambiti. Per una revisione degli ultimi sviluppi nella performance sociale d’impresa, si vedano Luo e Bhattacharya (2009).

Il potenziale impatto

3.5.5 della certificazione

di responsabilità sociale

Man mano che il mondo diventa più collegato e interconnesso, grazie ai mezzi di comunicazione globale, i comportamenti scorretti, reali o presunti, di un’impresa diventano in breve di pubblico dominio. Le pratiche applicate in Vietnam, negli anni Novanta, da Nike a livello di occupazione e di rispetto dell’ambiente, per esempio, sfociarono rapidamente in un vero e proprio scandalo, traducendosi in un serio problema di marketing per l’impresa, che dovette affrontare boicottaggi, cali di profitto e, cosa ancora peggiore, un grave danno alla sua reputazione.

Una delle problematiche principali della responsabilità sociale di cui le imprese devono tener conto è la natura contestuale del concetto di “bene sociale”. In Europa e negli Stati Uniti i bambini sono protetti dalla società e non vengono considerati un capitale economico della famiglia. In alcune culture, però, in cui i bambini contribuiscono in modo sostanziale al reddito di un nucleo familiare, questo principio non vale. E sono proprio queste differenze in ciò che è considerato un uso corretto e responsabile delle risorse da parte dell’economia a diventare fattori motivanti dell’avvio di iniziative come i nove principi delle Nazioni Unite o l’adozione di certificazioni ISO 14000 (per l’ambiente) e SA 8000 (responsabilità sociale d’impresa) da parte delle imprese globali (si veda il Suggerimento applicativo 3.2). In una prospettiva futura, lo stesso standard potrebbe essere applicato anche ai fornitori delle grandi imprese, ossia alle piccole e medie imprese. Qual è il legame, se esiste, tra la responsabilità sociale e la performance economica? In altre paro-

s ugg e r i m e n t o a p p l i c a t i v o 3 . 2 Come applicare gli standard di responsabilità sociale: La certificazione SA 8000 SA 8000 è un insieme di standard internazionali relativi al luogo di lavoro e ai diritti umani elaborati dalla Social Accountability International, nata dalla collaborazione tra Nazioni Unite e numerose organizzazioni non governative. L’adozione delle norme SA 8000 si sta diffondendo insieme alle norme ISO 9000 e ISO 14000, di pari passo con il fenomeno che vede i portatori d’interesse incoraggiare le aziende multinazionali ad accrescere la loro responsabilità sociale. 1. Lavoro minorile. Proibisce l’impiego di minori (sotto i 15 anni, a meno che le leggi locali non prescrivano età superiori); prevede che l’impresa supporti l’istruzione dei lavoratori in età scolare; le ore occupate giornalmente tra lavoro e studio non possono essere superiori a 10; l’azienda non deve esporre i bambini occupati, sia all’interno sia all’esterno dell’azienda, a situazioni pericolose o insalubri. 2. Lavoro forzato. Proibisce l’uso del “lavoro forzato”. 3. Salute e sicurezza. Richiede condizioni di lavoro sicure e salubri, una formazione per tutti i lavoratori sulle norme di sicurezza, condizioni di lavoro (e di vita, se è l’azienda che vi provvede) pulite e salubri. 4. Libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva. Richiede che l’azienda permetta ai lavoratori di riunirsi in sindacati e di prendere parte alla contrattazione collettiva, senza alcuna forma di discriminazione.

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5. Discriminazione. Proibisce ogni discriminazione basata sul sesso, la razza, la casta ecc., nell’assunzione, nella retribuzione, nella formazione, nella promozione e nel pensionamento. 6. Pratiche disciplinari. Proibisce l’utilizzo della coercizione o delle punizioni corporali. 7. Orario di lavoro. Proibisce di richiedere più di 48 ore lavorative a settimana, e richiede almeno un giorno libero su sette. Permette fino a 12 ore di straordinario settimanale, in cambio di un aumento di stipendio. 8. Retribuzione. Richiede che l’azienda paghi al lavoratore il minimo legale e il necessario per vivere (calcolato su base locale). 9. Sistemi di gestione. Richiede che l’azienda adotti una politica di responsabilità sociale che comprenda degli audit per l’azienda stessa, i fornitori e i subappaltatori. Queste linee guida della responsabilità sociale di impresa, valide a livello globale e comprensive di ogni ambito sociale, possono applicarsi all’intera catena produttiva, ed è possibile che la certificazione SA 8000 diventi una sorta di “passaporto internazionale” per le imprese che ne sono dotate o, al contrario, una barriera all’ingresso per chi non la ottiene, sia nei mercati internazionali sia in quelli locali. Fonte: www.sa8000.info.

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le, essere socialmente responsabili è conveniente? Le due aree di portatori di interesse, che sembrano svolgere un ruolo dominante in questo senso, sono quelle dei dipendenti e dei clienti. I dati che legano l’orientamento al cliente e la performance economica dell’impresa sono convincenti: le aziende più responsabili nei confronti dei consumatori generano profitti maggiori. Per un’analisi di questi studi, si veda Gotteland (2005). Alcune ricerche (Kotter e Heskett, 1992) hanno altresì dimostrato che determinate prassi, nell’ambito della gestione delle risorse umane, sono positivamente correlate con la performance economica; oltre a quelli relativi a dipendenti e consumatori, tuttavia, pochi sono i dati a supporto del legame di altri portatori di interesse con la performance economica di un’azienda. L’impegno di un’impresa in attività sociali, come la tradizionale filantropia o il marketing collegato a particolari eventi che coinvolgono le comunità locali, sembra non avere un influsso diretto sui profitti, anche se molte aziende lo considerano un modo per migliorare la loro immagine (Johnson, 2003). In breve, i valori emergenti nel mondo delle imprese pongono il dibattito “azionisti versus portatori di interesse” (shareholder versus stakeholder) in una prospettiva nuova e suggerisce che vi è una crescente convergenza tra il modello degli shareholder e il modello degli stakeholder. Il nostro punto di vista può essere sintetizzato come segue. • L’approccio agli azionisti rappresenta la pietra miliare del sistema di economia di mercato e dovrebbe essere oggi chiaramente riaffermato: l’obiettivo dell’impresa è creare valore per gli azionisti. Sfidare questa visione significa minare la credibilità del sistema capitalistico e la fiducia degli investitori, tenendo ben presente che questi ultimi sono sempre più rappresentati da investitori istituzionali. • In un’economia di mercato concorrenziale, al fine di creare valore per gli azionisti, occorre innanzi tutto creare valore per il cliente. Convincenti prove empiriche (Anderson et al., 2004) supportano tale affermazione. Così, l’obiettivo della soddisfazione del cliente è la preoccupazione prioritaria dell’impresa che adotta la filosofia di business market-driven descritta in questo libro. • I clienti di oggi sono più esigenti nei riguardi del valore attribuibile a un prodotto; non vogliono provare sensi di colpa quando consumano, ma si aspettano che le imprese o le marche con cui hanno a che fare soddisfino determinati criteri in relazione ad aspetti quali eco-compatibilità, buo-

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ne pratiche umane e sociali dell’impresa, impegno politico e strategico, condotta etica ecc. Sembra dunque che l’obiettivo della soddisfazione del cliente indurrà (o costringerà) inevitabilmente le aziende ad adottare l’approccio agli stakeholder. L’impresa orientata al mercato adotterà con impegno questo approccio, in quanto esso contribuirà a incrementare il valore per gli azionisti.

3.6

I mplicazioni per il market-driven management

Nell’economia globalizzata, il marketing strategico riveste un ruolo sociale sempre più rilevante: resta infatti il miglior sistema per far incontrare domanda e offerta, ma genera anche un circolo virtuoso di sviluppo economico e sociale, rinforzato dai cambiamenti sociali, culturali e tecnologici che si osservano nei mercati odierni. Questa evoluzione, nell’economia globale interconnessa, crea dei presupposti per contribuire a un’economia di mercato più democratica e trasparente, basata su valori nuovi. In questo nuovo contesto, le autorità nazionali e sovranazionali giocano un ruolo chiave: a loro spetta infatti il compito di monitorare e controllare le iniziative intraprese per soddisfare i nuovi bisogni e per conciliare l’efficienza del mercato con gli imperativi della prospettiva sociale. Quali sono le implicazioni a livello manageriale dei tre cambiamenti evolutivi analizzati in questo capitolo? Come si è già affermato nel Capitolo 2, il paradigma dell’orientamento al mercato è complesso e si può definire facendo riferimento a tre dimensioni: cultura, analisi e azione. In che misura i suddetti cambiamenti evolutivi del mercato incidono su queste dimensioni? 1. Cultura. La filosofia aziendale fa riferimento al sistema di economia sociale di mercato. Creando valore per il cliente, l’impresa raggiunge i suoi target di profitto e di crescita, e quindi crea valore per gli azionisti. Più importante che mai, questo obiettivo rappresenta una sfida particolarmente impegnativa in un’economia concorrenziale globalizzata e interconnessa. Si aggiunga che, per soddisfare le aspettative dei nuovi consumatori, le aziende dovranno integrare obiettivi di sviluppo sostenibile e di solidarietà sociale, che definiscano un sistema di economia sociale di mercato, modello già largamente accettato nell’Unione Europea.

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70 Parte prima L’evoluzione del ruolo del marketing

2. Analisi. L’obiettivo del marketing strategico è quello di proporre, a un ben determinato segmento di mercato, una soluzione di valore diversa da quella della concorrenza e sostenibile per l’impresa. Nello scenario economico contemporaneo questo obiettivo diventa più difficile, poiché la complessità dei mercati mondiali è aumentata, in seguito all’entrata in gioco di nuovi potenti soggetti, come la società civile, i consumatori, le organizzazioni non governative, la grande distribuzione e così via. Questa nuova complessità dei mercati richiede un rafforzamento della mente strategica dell’azienda.

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3. Azione. Le azioni commerciali dell’impresa, stimolate e rafforzate dallo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ha raggiunto capacità fino a poco tempo fa impensabili: segmentazione one-to-one, comunicazione personalizzata, accesso al mercato mondiale da ogni dove e in qualsiasi momento, barriere d’ingresso quasi inesistenti, prezzi personalizzati, vendita relazionale ecc. In breve, tali capacità consentono di allontanarsi da una “strategia di prodotto” per perseguire una “strategia di soluzione”.

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Capitolo 3 La globalizzazione dei mercati e i valori emergenti 71

riassunto Il libero scambio ha giocato un ruolo chiave nel processo di internazionalizzazione dei mercati mondiali; si tratta di un sistema di politiche di transazione che permette agli operatori di agire senza restrizioni imposte dai Governi. Si ipotizza che il libero scambio sia una politica win-win sia per Paesi ricchi sia per Paesi poveri, ma vi sono dei limiti a questo sistema. Nel definire le proprie strategie, le imprese internazionali si confrontano con due diversi approcci: un approccio multidomestico, in cui la strategia viene adattata alle caratteristiche di ciascun mercato o un approccio globale, che guarda alla standardizzazione, enfatizzando similitudini tra mercati. Ciascuno di questi approcci presenta vantaggi e svantaggi. Un’ipotesi chiave assunta da diversi studiosi di marketing è l’esistenza di un cospicuo mercato potenziale insoddisfatto tra le per-

sone povere “alla base della piramide”. Alcune imprese si stanno ora rivolgendo a questo target di poveri adattando le proprie strategie di marketing. Le imprese che hanno l’obiettivo di vendere ai poveri possono individuare diverse opzioni. L’adozione dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile cambia la visione tradizionale del consumo, proponendo dei modelli alternativi, non privi di limiti: l’economia dei servizi funzionali e l’economia circolare. Il crescente potere dei cittadini-consumatori genera nuove aspettative che contribuiscono a migliorare il funzionamento e la trasparenza del mercato. L’approccio agli stakeholder e il concetto di responsabilità sociale di impresa introducono elementi nuovi, rispetto al tradizionale approccio agli shareholder, per il market-driven management.

Domande di riepilogo e di approfondimento 1. Quali sono i fattori che spiegano lo sviluppo del marketing globale? 2. Quali sono i rischi principali per un’impresa che pone un’eccessiva enfasi sulla strategia di globalizzazione? Utilizzate nella risposta gli esempi di Merck e Coca-Cola. 3. Quali sono le strategie e le politiche da adottarsi da parte di imprese operanti esclusivamente in mercati domestici, al fine di rafforzare la loro competitività all’interno del mercato europeo allargato? 4. Quali sono le difficoltà principali che affrontano gli operatori di marketing nei contesti dei mercati globali? 5. È responsabilità dell’impresa occuparsi della povertà nel mondo?

7. La crescente attenzione all’ambiente rappresenta un’opportunità o un limite per l’impresa? Come rispondereste alla questione ambientale in una vostra ipotetica impresa? 8. Personalmente siete a favore dell’applicazione legale del principio “chi inquina paga”? Paragonate l’impatto sociale e di marketing dell’eco-imposta e dell’eco-tassa. 9. Ipotizzando che siate d’accordo con il principio del “dare un prezzo all’ambiente”, come questo approccio, in una vostra ipotetica impresa, coinvolgerebbe la strategia di marketing e la prassi relativa alle politiche di prodotto, prezzo, distribuzione e comunicazione? 10. Paragonate i modelli di orientamento agli azionisti e ai portatori di interesse. è possibile conciliare queste due visioni della responsabilità sociale di impresa?

6. Fino a che punto una strategia di marketing globale è anche una strategia di orientamento al mercato?

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72 Parte prima L’evoluzione del ruolo del marketing

introDUZione aGLi approfonDiMenti onLine Ulteriori riflessioni sulla globalizzazione

L’economia dei servizi funzionali

Diversi segnali propongono ulteriori riflessioni sulla globalizzazione, che verranno descritte nell’approfondimento web.

Nell’economia dei servizi funzionale l’impresa vende una performance e non semplicemente un prodotto, come viene spiegato nell’approfondimento web.

I benefici della localizzazione I business locali possiedono un grande potenziale nella promozione dello sviluppo sostenibile, che verranno illustrati nell’approfondimento web.

In un’economia tradizionale il ciclo di vita del prodotto è dalla culla alla tomba, mentre in un’economia circolare esso è costituito da un circolo chiuso, come spiegato nell’approfondimento web.

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L’economia circolare

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