Capitolo 6
Lo “spettro” autistico Fabio Celi
LA STORIA DI MICHELE Appena Michele è entrato nel mio studio, ho pensato: “Ecco, ci siamo”. Un fantasma stava entrando insieme a lui. È agitato, in movimento, evita il mio sguardo e mi trasmette una bella parte dell’ansia che deve avere dentro. Straparla, molto più per sé stesso che per me, a volte fino alla fabulazione. “Ormai sono grande, io. È vero che sono grande?”, mi ripete più volte. Gli faccio cenno di sì, perché mi sembra di capire che ne abbia bisogno, ma intanto, dentro di me, penso: “Ecco un’altra volta lo spettro”. Impiego il termine “spettro” nel suo doppio significato. Il primo è quello che usano gli studiosi per cercare di descrivere il fenomeno complesso e ancora molto misterioso delle forme mutevoli, spesso ambigue e difficili da riconoscere, che questi disturbi possono assumere (Wing, 1988). Vi sono infatti molte forme sfumate, parzialmente diverse per età di insorgenza o gravità dei sintomi, non sempre facili da riconoscere ed etichettare, spesso mescolate e confuse con altri disturbi, prima fra tutti la Disabilità intellettiva, ma anche forme particolarmente gravi di Disturbo da deficit di attenzione, Disturbi d’ansia e persino, a volte, Disturbi specifici dell’apprendimento. Il secondo significato è appunto quello di spettro come sinonimo di fantasma. Per l’ennesima volta Michele mi ripete: “Ormai sono grande, io. È vero che sono grande?”. Gli rispondo di sì, pensando di placare almeno un poco la sua ansia, e lui subito aggiunge: “Il mio papà, invece, mi chiama Michelino, mi chiama Michino, perché mi chiama Michino? Io ormai sono grande, sono come Marco, è vero che ormai sono diventato grande come Marco?”. “Chi è Marco?”.
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PARTE SECONDA • DISTURBI AUTISTICI
“Io ormai sono diventato grande come Marco, mio cugino, è vero che sono diventato grande come Marco? Perché il mio papà mi chiama Michino? Come ti chiama il tuo papà?”. Durante il primo colloquio la mamma mi aveva parlato di Michele come di un bambino difficile, segnalato dalle maestre perché restava indiepag. 49 tro un po’ su tutto, ma specialmente nella scrittura in corsivo, e perché si distraeva spesso. Ma appena l’ho visto entrare, appena ho sentito le sue prime parole, ho pensato: “Un altro fantasma”. Ecco di nuovo lo “spettro autistico” che fa capolino dietro un bambino a cui certamente non può essere diagnosticato un disturbo autistico propriamente detto, ma che presenta tutta una serie inquietante di sintomi per i quali bisognerà trovare un nome, una collocazione, un inquadramento: e so già che non sarà facile. Intanto osserviamo Michele un po’ più da vicino. Certamente non ha un Disturbo dello spettro dell’autismo come quello che abbiamo esaminato nel capitolo precedente. Presenta un linguaggio piuttosto ben sviluppato e quando si calmerà e prenderà un po’ di confidenza con me e con la situazione, anche quelle ripetizioni ossessive di cui ho fornito un esempio tenderanno a diminuire. Usa il linguaggio con un chiaro e funzionale intento comunicativo. Mi chiede un gioco, i colori per completare un disegno, la possibilità di provare a scrivere un po’ con il mio computer. C’è di più. È un bambino sensibile ed empatico, capace di entrare in relazione e di “leggere” nella mente degli altri quanto un coetaneo (ha sette anni e mezzo) e a volte anche molto di più. Mi è difficile dimenticare il momento in cui, durante la nostra terza seduta, vedendo probabilmente un’ombra che mi attraversava il viso, mi ha chiesto: “Fabio, sei stanco?”. Mi sono come riscosso e ho guardato dentro di me, accorgendomi che effettivamente ero stanco, forse preso da qualche mia preoccupazione, certamente lontano. Michele se n’era accorto prima di me. Ma le capacità di comunicazione e di relazione non sono le sole caratteristiche che rendono difficile la diagnosi. Anche la storia dei primi anni di vita è sostanzialmente negativa. Lo sviluppo di Michele è stato regolare fino ai tre anni, con le sole eccezioni di qualche anomalia del sonno (difficoltà ad addormentarsi e risvegli notturni) e di un certo ritardo del linguaggio: le prime parole sono comparse dopo i due anni e una frase comprensibile e ben strutturata dopo i tre (“Ma ora è un problema farlo tacere”, aggiunge la madre durante il primo colloquio). Poi ha frequentato saltuariamente la scuola dell’infanzia perché piangeva, si staccava mal volentieri dalla mamma e interagiva poco e male con i compagni. Adesso, in prima classe della scuola primaria, si trova decisamente in difficoltà, sia dal punto di vista didattico sia da quello relazionale. Però parla, interagisce, ha interessi relativamente estesi, condivide emozioni con gli altri. E allora, cosa diavolo avrà Michele? Durante il primo colloquio con la madre io pensavo a un Disturbo da deficit
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di attenzione/iperattività,1 oppure a un Disturbo specifico dell’apprendimento,2 o più probabilmente alle due cose insieme, magari aggravate anche da un certo deficit cognitivo, e invece... Invece ecco comparire lo “spettro”. Sicuramente Michele manifesta un deficit attentivo. Spesso ha difficoltà a stare seduto, oppure si agita sulla sedia, o prende una scatola dalla mia scrivania dove tengo dei foglietti bianchi per segnare l’orario degli appuntamenti e li tira tutti fuori, poi li rimette tutti dentro e poi ricomincerebbe da capo se non lo invitassi a fare qualche altra cosa. La capacità di concentrarsi è scarsa per i suoi sette anni compiuti, si stanca facilmente, chiede spesso di cambiare gioco. Sicuramente ha difficoltà di apprendimento. La scrittura in corsivo è decisamente deficitaria, anche a causa di una lateralità3 incerta. Anche la lettura è in ritardo (però resto colpito quando, dopo una prova che è andata particolarmente bene, mi dice, ma non con l’aria soddisfatta, quanto piuttosto con l’espressione triste di chi si rende conto che quello che è appena successo è probabilmente un’eccezione anziché una regola: “Non ho nemmeno sillabato...”). Sicuramente ha anche qualche carenza intellettiva, pur essendo ben lontano da una Disabilità intellettiva. Alla WISC-R4 riporta un punteggio totale di 81, con 78 nelle prove verbali, 88 in quelle non verbali e alcune risposte sorprendenti per intuito e rapidità. Alle CPM5 esprime circa un anno di ritardo sull’età cronologica e una piena consapevolezza di questo, evidente quando mi implora di dargli un piccolo aiuto. La consapevolezza delle sue difficoltà, d’altra parte, è un triste elemento ricorrente della sua storia. La mamma mi racconterà che più volte, dopo un compito difficile, un insuccesso scolastico, un rifiuto da parte dei compagni, gli capita di piangere e di dire: “Piango perché non sono intelligente”. Eppure, al di là di tutti questi dati, facili da raccogliere e per questo piuttosto certi, ci rimangono gli sfumati e inquietanti segni dello “spettro” che ha aleggiato nel mio studio fin dalla prima volta che ci siamo visti. Le difficoltà di interazione con gli adulti, ma soprattutto con i coetanei con i quali a volte arriva a essere fisicamente aggressivo; certe stereotipie, in particolare verbali, con frasi all’improvviso interrotte da contaminazioni ripetitive di frammenti di cartoni animati (“Spider Man, ecco Spider Man all’attacco…”); un’irrequietezza a volte così esasperata da farlo sembrare “fuori di testa”; un terrore senza motivo per i temporali, che, magari in una giornata appena nuvolosa, lo fa correre alla finestra, scrutare il cielo ansiosamente, chiedermi più volte di essere rassicurato che non arriveranno i tuoni e i fulmini. Tutto 1
Vedi capitolo 11.
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Vedi capitoli 7 e 8.
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La lateralità (o dominanza) va intesa, in questo contesto, come la preferenza nell’uso della mano destra o sinistra. 4
Vedi capitolo 1, nota 3.
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Vedi capitolo 1, nota 2.
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questo, unito d’altra parte a una dolcezza e a una sensibilità spesso fuori dal comune, mi mettono in allarme, mi fanno pensare che non siamo in presenza di un semplice deficit attentivo e cognitivo, ma che c’è dell’altro. Chiedo una consulenza neuropsichiatrica, che conferma le mie preoccupazioni. Dal punto di vista neurologico non vi è nulla da segnalare. Però anche il medico è colpito da quella che chiama “parziale distorsione del rapporto con la realtà”. Arriva a dirmi che c’è in Michele una “disarmonia” (usa proprio questa parola) che lo ha messo in allarme, tanto che vorrebbe sottoporre il bambino a un’indagine sul cariotipo, per lo meno per escludere la presenza di un X-fragile,6 anche se, per ora, teme di fare ai genitori questa proposta, che potrebbe contribuire ad aumentare il loro livello di angoscia nei confronti delle difficoltà del figlio.
DISTURBO PERVASIVO DELLO SVILUPPO NON ALTRIMENTI SPECIFICATO, DISARMONIA EVOLUTIVA, DISTURBO MULTISISTEMICO DELLO SVILUPPO, AUTISMO ATIPICO, AUTISMO AD ALTO FUNZIONAMENTO Parole ne sono state coniate tante e corrispondono agli svariati tentativi di inquadrare un disturbo che appare invece, almeno fino a oggi, difficilmente inquadrabile. Il problema centrale è che Michele presenta alcune caratteristiche che tipicamente si ritrovano nel Disturbo dello spettro dell’autismo, ma, per sua fortuna, non ha tutti i sintomi e quelli che ha si manifestano in forma attenuata. L’atipicità, inoltre, è dovuta anche al fatto che, mentre nel Disturbo dello spettro dell’autismo, come abbiamo visto nel capitolo precedente, l’esordio dei sintomi si verifica nel periodo precoce dello sviluppo e quasi sempre le gravi anomalie di sviluppo si osservano fin dai primi mesi, qui i primi anni di vita sono stati sostanzialmente normali. Così, una prima possibilità di inquadramento diagnostico è quella (secondo l’ICD-10) di “Sindrome non specificata da alterazione globale dello sviluppo psicologico”. Questa categoria diagnostica indica che, pur riscontrandosi una menomazione importante dello sviluppo dell’interazione sociale reciproca associata con una compromissione delle capacità verbali e non verbali o con la presenza di comportamento, interessi o attività stereotipati, i sintomi non soddisfano completamente i criteri per un Disturbo dello spettro dell’autismo. Tuttavia questa soluzione, che pure ha dei vantaggi in quanto racchiude in un’unica categoria tutti i sintomi più o meno sfumati e incompleti che abbiamo visto nel caso di Michele e che troviamo spesso in casi analoghi, non è affatto condivisa da tutti i clinici e i ricercatori. Molti sostengono che usare una denominazione generica come “Non Altrimenti Specificato” non risolve in realtà nulla e che, anzi, contribuisce a generare confusione. Propongono allora, tra le possibili alternative, la denominazione di “autismo atipico”, per indicare che il disturbo è sostanzialmente carat6
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Vedi capitolo 5, paragrafo “Ricerche”.
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terizzato da manifestazioni simili a quelle dell’autismo, benché non si possa parlare propriamente di Disturbo dello spettro dell’autismo per la mancanza dei sintomi completi. Un’altra soluzione, che abbiamo visto nel paragrafo precedente, quando Michele ha fatto una consulenza neuropsichiatrica, consiste nell’inquadrare il disturbo come “disarmonia evolutiva”. Con questa espressione, che pure può essere variamente interpretata, si intende, di solito, un disturbo caratterizzato da una perturbazione della personalità globale che, malgrado l’assenza dei sintomi specifici dell’autismo infantile, rivela capacità cognitive e relazionali appunto disarmoniche: gravemente carenti in alcuni settori e invece integre in altri (Misès et al., 1988). Un concetto non troppo diverso si può ritrovare nella categoria dei “disturbi multisistemici dello sviluppo”, con la quale si cerca, abitualmente, di etichettare una serie di sintomi posti a metà strada tra i Disturbi del comportamento e i Disturbi dello spettro dell’autismo propriamente detti (Muratori, Cosenza e Parrini, 2001). Un ultimo motivo di perplessità e di prudenza nell’uso di tale classificazione nei casi sfumati di disturbo (fino a qualche anno fa, per esempio, in casi analoghi a quello di Michele si usava e abusava del termine borderline) è costituito dal timore dell’effetto negativo che etichette di questo genere possono avere sul bambino e sul suo ambiente. In effetti, un conto è porre una diagnosi di Disturbo dello spettro dell’autismo, pur con tutte le cautele, a un bambino che presenti effettivamente questa patologia, e un conto è ricorrere a termini simili o similmente stigmatizzanti per bambini che possono poi rivelarsi molto diversi. Le possibilità di intervento terapeutico sui bambini “disarmonici” come Michele e la loro prognosi sono, in effetti, spesso molto migliori di quelle di bambini autistici propriamente detti (Cohen, Volkmar, Rhea e Klin, 2008; Cornaglia Ferraris, 2009). Il lavoro terapeutico con Michele, per esempio, è particolarmente facile perché è un bambino affettuoso, sensibilissimo, sempre contento di venire da me, disponibile alla relazione e alla collaborazione. È vero che poi, per altri aspetti, soprattutto nelle prime sedute, l’approccio risulta bizzarro e problematico, egocentrico e a volte fuori contesto. Però si può facilmente notare come molti dei suoi comportamenti esagerati siano determinati dall’ansia; una volta a suo agio, infatti, Michele si tranquillizza, si calma e si apre. In questo modo è sufficiente programmare per lui attività semplici e calibrate sulle sue necessità per vedere non soltanto che riesce, ma anche che è contento di sé. Questo aumenta l’autocontrollo e diminuisce le stereotipie verbali un po’ ossessive e, in generale, molte delle sue bizzarrie di comportamento. Le attività, che verranno poi gradualmente programmate a difficoltà crescente, possono riguardare vari aspetti. Possono riferirsi a compiti cognitivi come la comprensione di semplici testi: in questi casi è evidente come il frazionamento del testo in unità semplici e l’uso di domande aperte per guidare la comprensione producano in un tempo piuttosto breve risultati interessanti. Oppure possono riferirsi a compiti metacognitivi, come i programmi centrati sulla capacità di mettersi nei panni degli altri secondo gli assunti della “teoria della mente” che abbiamo visto nel precedente capitolo. Forse, però, gli aspetti più significativi sono i cosiddetti “compiti a casa”, o
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compiti comportamentali (vedi riquadro sottostante). Di comune accordo con la mamma programmiamo semplici attività come invitare un compagno, giocare e studiare con lui, persino organizzare la sua festa di compleanno. Mi sembra che quest’ultimo aspetto rivesta un significato terapeutico anche per la madre, in quanto si rende conto della possibilità da parte del figlio di fare progressi nel campo sociale e allenta la tensione ansiogena che prima era molto centrata sugli aspetti didattici. Un giorno mi dirà: “Finalmente una bella festa! Forse è la prima volta che Michele si diverte il giorno del suo compleanno con qualche amico”. Ciò non significa in alcun modo che un approccio cognitivo-comportamentale abbia “guarito” Michele. Alcuni suoi sintomi tipici sono rimasti (una spontanea tendenza all’isolamento, l’emergere, anche improvviso, di richieste verbali ripetute fino all’ossessività, quel rifugiarsi in un mondo suo fatto di cartoni animati) e tendono ad aumentare in situazioni di stress. Vale qui le pena di citare brevemente una metodica tratta dal cosiddetto comportamentismo di terza generazione, del quale parleremo più diffusamente nei capitoli dedicati ai Disturbi d’ansia. Si tratta della mindfulness che, aiutando i pazienti a prendere consapevolezza delle sensazioni provate nel qui e ora tende a favorire l’accettazione di pensieri che sarebbero altrimenti patogeni su molti aspetti relativi alla sfera emozionale.
COMPITI COMPORTAMENTALI (o compiti graduati, o prescrizioni comportamentali) Nell’approccio comportamentale, che non a caso è spesso visto come un processo educativo, è molto frequente che il terapeuta assegni al paziente dei veri e propri compiti. Per esempio, nella sezione dedicata ai Disturbi specifici dell’apprendimento, allenarsi a casa per migliorare certe prestazioni può essere considerato un compito di questo tipo. Nel capitolo 15 a Eleonora vengono assegnati addirittura tre compiti: tenere un diario, allenarsi ad affrontare l’ansia, esercitarsi nel rilassamento imparato nello studio del terapeuta. Alberto, nel capitolo 17, esegue bene, e anche con una buona dose di fortuna, il compito di provare a uscire con un amico. Anche Edo, nel capitolo 24, svolge molti compiti a casa, anche se spesso non è necessario che sia il terapeuta ad assegnarli perché è il bambino stesso che impara a costruire da solo un suo percorso di cambiamento. Questi compiti sono detti a volte comportamentali perché si riferiscono, di solito, a comportamenti manifesti e osservabili e per lo stesso motivo possono essere chiamati anche prescrizioni comportamentali. A volte si trova, anche nel testo, l’espressione compiti graduati, per intendere che vengono assegnati secondo la regola della difficoltà crescente, in modo da aumentare la probabilità di successo e dunque l’occasione di rinforzare il bambino. Anche nel rapporto con i genitori, tecnicamente detto parent training, troviamo spesso prescrizioni comportamentali.
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Spek, Van Ham e Nyklíˇcek (2013) hanno posto 42 pazienti con diagnosi di Disturbo dello spettro autistico ad Alto funzionamento (secondo la denominazione che nel 2013 hanno usato gli Autori) in due condizioni sperimentali: una in cui i pazienti si sottoponevano a 9 settimane di terapia cognitivocomportamentale, e una di controllo in cui i pazienti erano inseriti in una lista d’attesa. I risultati hanno mostrato una significativa diminuzione dei sintomi di depressione, ansia e ruminazione nei pazienti che avevano partecipato attivamente alla mindfulness rispetto al gruppo di controllo. La ricerca rappresenta un importante studio controllato a dimostrare che gli adulti con Disturbo dello spettro dell’autismo possono beneficiare della terapia cognitivo-comportamentale. I risultati di cui sopra sono stati replicati anche da Kiep, Spek e Hoeben (2014) che hanno svolto l’esperimento con 50 pazienti affetti da autismo, andando ad indagare se la mindfulness fosse utile anche per altri tipi di problematiche psicosomatiche associate all’autismo. La terapia aveva una durata di 9 settimane e i risultati non solo hanno confermato la diminuzione dell’ansia e della depressione, ma hanno mostrato anche significativi miglioramenti dei sintomi agorafobici, di somatizzazione e di diffidenza. Miglioramenti si sono riscontrati anche nel modo di pensare e agire, nonché nei disturbi del sonno e di sensibilità interpersonale. Complessivamente si è visto un miglioramento generale di benessere psicofisico, sebbene l’ostilità mostrata prima del trattamento non sia diminuita in maniera significativa. Inoltre tali miglioramenti si sono mantenuti anche nel follow-up, indicando quindi che la Mindfulness based therapy risulta essere un buon trattamento per questi pazienti. Un altro studio (Bruin, Blom, Smit, Van Steensel e Bogels, 2014) ha sottoposto 23 adolescenti con Disturbo dello spettro dell’autismo a 9 sedute settimanali di terapia cognitivo-comportamentale di gruppo e, parallelamente a esse, anche i loro genitori (18 madri, 11 padri) venivano sottoposti a Mindful parenting training. I dati, basati su pre-test, post-test e un follow-up dopo 9 settimane, hanno mostrato una diminuzione della ruminazione e un sostanziale miglioramento della vita dei ragazzi. Sebbene i principali sintomi dell’autismo non siano diminuiti, i genitori dei pazienti hanno osservato un miglioramento delle capacità di risposta sociale, della comunicazione, cognizione e motivazione sociale. Inoltre, riferito a se stessi, hanno confermato un’accresciuta consapevolezza e competenza genitoriale, stili genitoriali meno lassisti e un aumento della qualità della vita. Proprio mentre scrivo l’insegnante di matematica ha preso a tartassare Michele perché lo vorrebbe vedere più pronto nella soluzione di semplici problemi aritmetici. Michele, all’inizio, ha manifestato il suo disagio dicendo di non voler andare a scuola nelle mattine in cui era prevista la lezione di matematica nelle prime ore e ancora adesso è più teso, più bisognoso di continue rassicurazioni; a volte lamenta mal di testa o di stomaco il mattino prima di andare a scuola e mostra qualche segno di depressione. Ciò nonostante, Michele è comunque un bambino con il quale si può lavorare, che ha già dato buoni risultati e che, a mio parere, ha ancora ampi spazi di miglioramento. Indimenticabile la sua gioia (e quella dei suoi genitori) al ritorno da una gita scolastica all’acquario di Genova dove si era fatto coraggio, era andato da solo, si era
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comportato benissimo e divertito tanto. Significativa la seduta in cui aveva cominciato a parlare a più riprese di Gatto Silvestro suscitando in me una certa angoscia (“Ecco, ci risiamo con le fabulazioni”), peraltro subito svanita dopo essermi accorto con sollievo che in realtà stava guardando e commentando un disegno appeso alla parete alle mie spalle. Significativo anche il suo inserimento in una piccola squadra di calcio senza pretese di classifica, non particolarmente competitiva, dove aveva a volte l’occasione di lasciare la panchina anche durante le partite e di giocare qualche decina di minuti: tutte cose che, spesso, valgono cento psicoterapie messe insieme. Mi chiedo, a conclusione di questo quadro, se in alcuni casi sfumati e incerti come quello di Michele, l’approccio diagnostico migliore, da un punto di vista psicologico, non sia quello di evidenziare le patologie deficitarie (per es., Funzionamento intellettivo borderline o Disturbo da deficit di attenzione/iperattività) aggiungendo poi una breve descrizione dei comportamenti patologici come i disturbi della relazione e le stereotipie verbali e, eventualmente, di una personalità immatura e disarmonica. Probabilmente, in questi casi, è consigliabile evitare etichette diagnostiche che somiglino troppo a condanne definitive: solo così si potranno ottenere benefici evidenti sulla motivazione a lavorare con questi bambini e sulla speranza di ottenere con loro risultati significativi.
DISTURBO DI ASPERGER: IL CASO DI LUCIANO C’è una frase, durante il primo colloquio con i genitori di Luciano, che pag. 49 mi colpisce e mi allarma. La mamma mi ha appena mostrato i quaderni del bambino, che sono puliti, ordinatissimi, perfetti, tanto da sembrare stampati. Le faccio notare tutto questo e lei mi conferma che, da un punto di vista didattico, in effetti, Luciano non presenta nessun problema, anche se i genitori sono venuti da me proprio su segnalazione delle maestre che cominciano a preoccuparsi dell’inserimento del bambino (ora in quarta classe della scuola primaria) alla scuola secondaria di primo grado. Dunque, nessun problema didattico, mi ribadisce la madre, al contrario: Luciano è un bambino motivato, attento, interessatissimo ad alcune materie come le scienze naturali, fino al punto che spesso le studia da solo, indipendentemente dai compiti che gli sono assegnati, a volte anche su altri libri.7 Per Natale ha voluto un microscopio come regalo e passa molto tempo a osservare le foglie, le ali degli insetti, i fili d’erba. Inoltre usa il computer del padre con grande competenza... 7
I bambini con la Sindrome di Asperger, pur avendo spesso un’intelligenza superiore alla media, possono comunque riscontrare in ambito scolastico alcune tipiche difficoltà in compiti che richiedono capacità organizzative e di problem solving, e nella scrittura a mano. Recenti ricerche mettono in luce come il ricorso ad un pocket PC (PDA) possa costituire un ausilio efficace per compensare questi problemi (Smith Myles, Ferguson e Hagiwara, 2007). Le difficoltà legate all’esecuzione dei compiti, inoltre, rappresentano per questi bambini una significativa fonte di frustrazione che può generare comportamenti problematici. La ricerca evidenzia come sia possibile, ricorrendo alla tecnica delle Social Stories (vedi capitolo 5, paragrafo “Linee di intervento psicoterapeutico-riabilitativo”), ridurre la frequenza di tali condotte (Adams, Gouvousis, VanLue e Waldron, 2004).
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È a questo punto che il padre ci interrompe e aggiunge: “Sembra un computer lui stesso”. Questa è la frase che mi colpisce, anche perché il padre era rimasto quasi sempre in silenzio fino a quel momento, e mi allarma. Ecco di nuovo lo “spettro” che fa capolino. Fino a poco fa i genitori mi avevano descritto un bambino timido, un po’ insicuro, più appassionato della TV, dei cartoni animati, dei videogiochi, delle scienze naturali e dei musei che dei giochi con i compagni; ma adesso, dopo questo breve intervento del padre, la situazione mi appare improvvisamente diversa, più inquietante. Purtroppo non mi sbagliavo. Nella cartella, subito dopo la data del mio primo colloquio col bimbo, compare questo mio appunto: “Sembra un robottino”. Sembra un robottino quando parla. A un certo punto gli chiedo: “Hai amici?”. Mi risponde: “Sì, a scuola ho un amico. Il suo nome è Mario. Di solito mi aiuta a fare i disegni. Inoltre è gentile con me. Di solito a scuola sono molto bravo. Mi impegno”. Tutto questo d’un fiato e senza intonazione. Poi silenzio fino alla mia prossima domanda. Sembra un robottino quando disegna. Concentrato, silenzioso, chiuso nel suo mondo, mi fa una serie di personaggi dei cartoni animati schematici come macchine, rigidi, ordinatissimi e perfetti (vedi fig. 4, Tavole a colori). Alla WISC-R8 rivela 130 di QI con alcuni picchi prodigiosi nelle prove non verbali come il disegno coi cubi e il cifrario. Le CPM9 sono oltre il 95° percentile per l’età. Però non vuole farmi altri disegni, neppure durante le sedute successive, quando dovrebbe aver preso una certa confidenza con me e con la situazione. Gli chiedo: “Non hai voglia di disegnare?”. Mi risponde: “So fare molti disegni. Inoltre mi interesso di molte altre cose”. Mi chiedo cosa avrà voluto dirmi. Penso a un particolare aspetto della “teoria della mente” di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Si tratta dell’osservazione secondo la quale la comunicazione tra esseri umani è resa possibile, tra l’altro, dal fatto che, quando uno parla, conosce già molte cose sul suo interlocutore e usa queste conoscenze per rendere la sua comunicazione efficace. Per esempio, quando io chiedo a un bambino se ha voglia di disegnare, mi aspetto che il bambino immagini quello che io vorrei sapere da lui. Analogamente, se il bambino mi risponde “Dammi un foglio”, io capisco il significato positivo della sua risposta, anche se non mi è stato esplicitamente detto “Sì, ho voglia di disegnare”, perché leggo le sue intenzioni implicite e immagino che voglia un foglio proprio per fare un disegno. Tutto questo tende a non succedere nel dialogo con Luciano, o, per lo meno, succede con grande 8
Vedi capitolo 1, nota 3.
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Vedi capitolo 1, nota 2.
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difficoltà. Parlare con lui mi dà una sensazione strana. Mi ricorda un po’ quello che accade quando si cerca, da dilettanti, di programmare un computer. Se spiego a un essere umano come si calcola l’area di un triangolo e poi gli propongo di provare se ha capito e gli chiedo di calcolare l’area di un triangolo che ha base 3 e altezza 6, mi aspetto che mi risponda che l’area è 9. Se faccio la stessa cosa con un computer usando un qualsiasi linguaggio di programmazione, si verifica un fenomeno strano (almeno per noi esseri umani). Io fornisco al computer la formula per calcolare l’area del triangolo. Poi gli fornisco i dati di base e altezza. Poi gli chiedo di calcolare l’area e... il computer non fa niente (o almeno così sembra). Lo schermo resta vuoto. Come mai? Se sono abbastanza abile da andare a vedere che cosa c’è nella sua memoria mi accorgerò che da qualche parte, etichettato come “area del triangolo”, c’è il dato che gli avevo chiesto di calcolare. Il problema è che il dato resterà lì perché non ho detto al computer di fornirmelo. Se voglio che il computer mi mostri sullo schermo il risultato dei suoi calcoli devo chiederglielo esplicitamente, mentre un essere umano capisce le mie intenzioni, “legge” nella mia mente e mi dà la risposta 9 anche se gli avevo chiesto di calcolare l’area, ma non di dirmela. L’impressione è proprio che con Luciano avvenga qualcosa del genere. Non ha la flessibilità necessaria per comunicare e interagire in modo fluido e adeguato. Naturalmente questo non significa che abbia un Disturbo dello spettro dell’autismo. Basta aver visto anche una sola volta nella vita un bambino con un autismo “vero” e poi trascorrere qualche minuto con Luciano per rendersi conto delle differenze che passano tra i due bambini, se non altro per quanto riguarda la gravità e la pervasività dei sintomi. Eppure le analogie ci sono. Luciano, come abbiamo visto, ha buone capacità verbali e un livello intellettivo ottimo, però mostra difficoltà di comunicazione, introversione, chiusura. Non vuole essere toccato dalla maestra, nemmeno con una pacca sulle spalle. Preferisce decisamente stare da solo. Se può scegliere, se viene lasciato in pace e non obbligato dai suoi genitori ad andare in piscina, preferisce passare la giornata davanti alla TV o al microscopio. (In una recente seduta, alla mia domanda: “Ma in piscina ci vai volentieri?”, ha risposto: “La mia mamma ha già pagato per tutto il mese. Inoltre l’attività fisica fa bene. Io so già nuotare discretamente”.) Si impressiona e si ritrae, incapace di reagire, se un compagno lo prende in giro perché è meno sveglio degli altri. Durante la ricreazione sta in classe perché la confusione gli dà fastidio e per lo stesso motivo non ha mai voluto festeggiare un suo compleanno. A volte ride in modo eccessivo, non giustificato dalle circostanze. Quando si trova in una situazione di particolare stress gli capita di muovere le braccia ritmicamente, allungandole come se si stesse stiracchiando. È stato difficile, per i genitori, convincerlo a fare uno sport qualsiasi. Si è finalmente deciso per la piscina, forse perché nel nuoto i contatti con i compagni sono ridotti al minimo, e solo con il patto che non avrebbe mai fatto gare. Teme la competizione in ogni sua forma e si demoralizza facilmente per tutto. Quando racconta di sé, in quel modo meccanico, rigido, privo di intonazione che abbiamo visto, tende sempre a dare un’immagine positiva, quasi di perfezione, che non credo condivida intimamente. Molti di questi sintomi che ho descritto sono sfumati, tanto che la pediatra era contraria a consultare uno psicologo. Però le difficoltà e le
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anomalie ci sono. Si alimenta solo con quattro o cinque cose, sempre le stesse: penne al pomodoro, sofficini e poco altro. Fino ai cinque anni ha sofferto di enuresi diurna e notturna. Ha difficoltà a reggere la relazione non solo con i coetanei: anche la sorellina, che ha poco più di quattro anni, gli mette i piedi in testa, ha sempre la meglio su di lui. A volte lo picchia e lo morde senza che Luciano sappia come reagire. Quando parliamo di questo commenta: “È una cosa normale. È più piccola. Inoltre è una femmina”. Cerco di lavorare con lui modellando modalità di comunicazione più adeguate e fino a un certo punto, almeno con me, la cosa riesce. Dopo qualche seduta vedo un miglioramento della relazione e una certa apertura anche ad accettare alcune prescrizioni comportamentali che, molto cautamen- te, stabiliamo di comune accordo con la mamma. Ma la mamma mi riferisce pag. 98 che spesso, ancora adesso, ai giardini pubblici, o in spiaggia, quando nessun adulto controlla quello che fa, si mette in un angolo, guarda gli altri bambini giocare (la mamma, per la verità, si esprime in un modo diverso: “Spia gli altri bambini giocare”) e gioca da solo... Alla fine di questa seduta la mamma, già in piedi, mi dice: “Sapesse come è difficile prenderlo...” ed esce quasi precipitosamente dal mio studio perché ha già gli occhi lucidi e probabilmente non vuole mettersi a piangere di fronte a me. Il caso di Luciano è molto diverso da quello di Michele che abbiamo visto nel primo paragrafo, se non altro per le diverse potenzialità intellettive dei due bambini, i quali sembrano avere in comune il fatto di collocarsi in qualche punto, difficile da definire, del continuum autistico. Anche in questo caso il problema dello “spettro” potrebbe essere risolto con una delle categorie che abbiamo visto nel secondo paragrafo, ma l’ottimo livello cognitivo di Luciano ci permette di prendere in considerazione un’altra ipotesi diagnostica. Alcuni clinici e ricercatori hanno dato a questa ipotesi il nome di “Autismo ad Alto Funzionamento”, per descrivere quei bambini che sembrano avere disturbi per certi aspetti sovrapponibili al Disturbo dello spettro dell’autismo, ma il cui livello generale di funzionamento cognitivo è molto migliore di quello che si ritrova di solito nei soggetti autistici (Rutter e Schopler, 1978; Freman et al., 1985). A questo proposito, è interessante notare che sia la teoria della mente sia la teoria della coerenza centrale di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, sembrano adattarsi molto meglio a questi soggetti che agli autistici ai quali sia associata anche Disabilità intellettiva. Altri studiosi, invece, parlano di Disturbo di Asperger10 (Wing, 1981; Zeanah, 1996; De Meo, Vio e Maschietto, 2000). Le due espressioni non sono perfettamente sovrapponibili, ma questa seconda ha il vantaggio di essere stata inclusa da tempo, sia pure con alcune perplessità, nell’ICD-10, dove compare come Sindrome di Asperger e, quindi, di essere stata definita con una certa precisione. Le caratteristiche del Disturbo di Asperger, che troviamo presenti in Luciano, sono una compromissione qualitativa nell’inte10
Da Hans Asperger, che nel 1944 propose una categoria diagnostica diversa dall’autismo, soprattutto per rendere conto delle migliori capacità verbali di questi soggetti.
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PARTE SECONDA • DISTURBI AUTISTICI
razione sociale11 manifestata da carenza di sguardo diretto e di espressione, postura rigida e poco orientata alla relazione, difficoltà a sviluppare con i coetanei relazioni adeguate al livello di sviluppo, difficoltà a condividere gioie, interessi e obiettivi con altre persone; qualche modalità di comportamento ripetitivo, rigido e stereotipato. Altri sintomi tipici di questo disturbo, che però sono assenti in Luciano, sono la sottomissione rigida ad abitudini inutili o rituali specifici e un persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti. In conclusione? In conclusione non ho, in questo come in altri casi analoghi, una risposta definitiva. Resta il fatto che l’anomalia causa una compromissione clinicamente significativa dell’area sociale, lavorativa o di altre importanti aree del funzionamento psichico, e che questo è sicuramente vero per Luciano. Resta però anche il fatto che, comunque decidiamo di chiamare questo disturbo, appare relativamente facile lavorarci e ottenere qualche risultato significativo; anche la prognosi appare, perciò, decisamente migliore (De Meo, Vio e Maschietto, 2001; Attwood, 2006; Fontani, 2007; Levy, Mandell e Schultz, 2009).
DISTURBO DISINTEGRATIVO DELL’INFANZIA Ho parlato fino qui di alcuni disturbi meno gravi del Disturbo dello spettro dell’autismo, a volte anzi così sfumati da lasciare il dubbio se si tratti proprio di patologie di questo genere. Il caso di Fernando, invece, appare purtroppo particolarmente serio. Visto oggi, che ha quasi vent’anni, è difficile distinguerlo da un soggetto autistico di quelli con la prognosi più sfavorevole. Non parla. Ha enormi difficoltà a comunicare, anche in modo non verbale, persino i più elementari bisogni quotidiani. Ha gravi e quasi continui episodi di stereotipie e autostimolazioni. Spesso, a questi, si aggiungono esplosioni improvvise di aggressività auto- ed eterodiretta. Presenta scarsissime autonomie personali e non può praticamente mai essere lasciato solo in situazioni sociali a causa dell’imprevedibilità dei suoi comportamenti. I tentativi di intervento, farmacologici, psicoterapeutici, educativi, hanno sempre dato esiti poco o per nulla signi11
Recentemente sono stati messi a punto strumenti e strategie che hanno lo scopo di migliorare, nei bambini con Disturbo di Asperger, le capacità metacognitive, indispensabili per poter interagire con gli altri in modo efficace e adeguato. Tra gli strumenti ricordiamo il software Mind Reading: The Interactive Guide To Emotions (Baron-Cohen, 2004), che si è mostrato particolarmente efficace per l’implementazione della capacità di riconoscimento delle emozioni, sia semplici che complesse (La Cava, Golan, Baron-Cohen e Smith Myles, 2007). Tra le strategie, invece, di notevole interesse è il SODA (Stop, Observe, Deliberate, Act), utilizzato per l’apprendimento di abilità socio-comportamentali. In particolare, tale strategia prevede una serie di regole volte ad aiutare bambini e adolescenti con Disturbo di Asperger a individuare segnali sociali, a processarli e a scegliere le abilità sociali appropriate a uno specifico contesto. In uno studio di Bock (2007) il SODA è stato utilizzato con 4 bambini con Disturbo di Asperger, valutandone gli effetti sulla partecipazione ad attività di apprendimento cooperativo e ad attività sportive e sull’interazione con i pari durante il pranzo. I risultati indicano effetti positivi su un periodo di 5 mesi, con mantenimento delle prestazioni anche dopo l’interruzione del trattamento. I bambini hanno raggiunto prestazioni simili a quelle dei loro pari senza alcuna disabilità.
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ficativi, con l’eccezione di una esperienza per molti aspetti sconvolgente di comunicazione facilitata, durante la quale Fernando avrebbe imparato, con l’aiuto di una macchina per scrivere elettrica e di un educatore che gli facilitava il compito sostenendogli il polso, a scrivere frasi anche molto complesse e con contenuti anche molto personali e profondi. Una di queste frasi, che credo giustifichi l’aggettivo “sconvolgente” che ho usato per descrivere l’esperienza, fu: “Mi dispiace molto pensare che il dott. Celi non mi ha mai capito e non ha mai creduto nelle mie possibilità”. Tuttavia il significato reale, lo status scientifico e l’applicabilità terapeutica dei metodi basati sulla comunicazione facilitata costituiscono un argomento troppo complesso e troppo delicato per poter essere affrontato in poche righe in un lavoro, come questo, che si prefigge altri scopi.12 Fernando è dunque oggi un ragazzo difficilmente distinguibile da un soggetto autistico grave, e la diagnosi differenziale è possibile solo ricostruendo la sua storia di bambino nato prematuro e sotto peso dopo un parto difficile. È stato dieci giorni in incubatrice e poi, dimesso, ha avuto nei primi anni di vita uno sviluppo sostanzialmente normale. I primi segnali di allarme sono venuti quando già frequentava da quasi due anni la scuola dell’infanzia e aveva un linguaggio e capacità di relazioni adeguati all’età. È cominciata una regressione che è andata avanti inesorabile durante la sua frequenza alla scuola primaria, costituita da una chiusura relazionale sempre più grave e da una progressiva perdita del linguaggio verbale. Contemporaneamente cominciavano a manifestarsi comportamenti stereotipati, masturbazione compulsiva in classe, regressione gravissima di tutte le abilità cognitive acquisite nei primi anni di vita, comparsa di comportamenti problematici sempre più gravi, fino al quadro attuale che ho molto sommariamente descritto. Questo disturbo, che si caratterizza per sintomi simili a quelli delle forme più gravi di autismo, ma per un esordio più tardivo con progressivo deterioramento del funzionamento generale, prende il nome, secondo l’ICD-10, di “Sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo”. Si tratta di un disturbo molto più raro dell’autismo, pochi casi su un milione di bambini nati, e, come per tutti i Disturbi dello spettro dell’autistimo all’infuori del Disturbo di Rett,13 più comune nei maschi che nelle femmine. Come per l’autismo, non si hanno certezze rispetto all’eziologia, anche se sembra ormai chiaro che debba trattarsi di una grave anomalia neurologica, peraltro non identificata. Rispetto all’autismo, la prognosi è decisamente peggiore.
ALTRI DISTURBI PERVASIVI DELLO SVILUPPO E CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Ricapitolando, i Disturbi dello spettro dell’autismo possono essere considerati, nel loro insieme, come patologie a esordio nell’infanzia caratterizzate, in estrema sintesi, da gravi anomalie che non sono normali in nessuno sta12
Vedi capitolo 5, nota 10.
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Vedi paragrafo successivo.
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PARTE SECONDA • DISTURBI AUTISTICI
dio dello sviluppo e riguardano la comunicazione, le abilità sociali, l’attività immaginativa, il gioco. Molto spesso, sono associati a Disabilità intellettiva. Questa ampia categoria nel DSM-5 (come abbiamo visto nel dettaglio nel capitolo precedente) viene chiamata Disturbo dello spettro dell’autismo ma, al suo interno, possiamo far rientrare il Disturbo di Asperger, il Disturbo disintegrativo dell’infanzia (già trattatati nei due precedenti paragrafi) e il Disturbo di Rett.14 Quest’ultimo è un disturbo neuroevolutivo molto specifico, che colpisce solo le bambine, che insorge nel primo anno di vita dopo qualche mese di apparente normalità di sviluppo e produce rallentamento della crescita del cranio, ipotonia, diminuzione della mobilità, comparsa di attività ripetitive e movimenti stereotipati delle mani, arresto nello sviluppo psicomotorio e grave compromissione della ricezione e dell’espressione del linguaggio verbale. L’eziologia non è certa, anche se il disturbo sembra essere di origine genetica. La prevalenza è di 1 su 10000, il decorso somiglia a quello dell’autismo associato a ritardo mentale e la prognosi è peggiore anche per la frequente insorgenza di complicanze neurologiche (Hunter, 2005). Molto meno gravi di queste ultime due sindromi, ma molto più interessanti per lo psicologo, sia per la maggiore frequenza sia per le possibilità di significativi interventi psicoterapeutici, sono tutte quelle forme sfumate o parziali di Disturbo dello spettro dell’autismo che nel DSM-5 è rappresentato dalla specificazione di gravità “Livello 1” e che nell’ICD-10 prende il nome di Sindrome di Asperger e Sindromi e disturbi non specificati da alterato sviluppo psicologico.15 Ho cercato di mostrare come, in queste forme, ci siano ancora molte incertezze per quanto riguarda l’inquadramento. Credo che queste incertezze dovrebbero indurre lo psicologo ad assumere un atteggiamento prudente, più orientato alla ricerca di strumenti di intervento che a un accanimento diagnostico che difficilmente aiuta il bambino, ma che spesso può anzi contribuire a mettere in difficoltà lui stesso e soprattutto le persone che gli stanno vicino e che hanno il compito di occuparsi della sua educazione e del suo equilibrato sviluppo.
14
Da Andreas Rett, che per primo descrisse la sindrome.
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Nella rivista italiana Autismo e disturbi dello sviluppo possono essere trovati molti articoli che trattano degli aspetti clinici generali, degli strumenti diagnostici e degli interventi terapeutici, psicoeducativi e sociali nei disturbi dello spettro autistico.
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