Oncologia clinica 2/ed - Capitolo 2 - Crescita tumorale e disseminazione metastatica

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CRESCITA

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TUMORALE E DISSEMINAZIONE METASTATICA

G. Tortora, F. Ciardiello, R. Bianco

KEY

POINTS

✓ La trasformazione neoplastica dipende da fattori genetici e/o ambientali. ✓ Elemento fondamentale del processo di trasformazione della cellula normale è l’acquisizione dell’autonomia

proliferativa. ✓ L’attivazione abnorme di un oncogene (gene ad attività oncostimolante), o lo spegnimento funzionale di

un antioncogene sono in grado di indurre la trasformazione neoplastica. ✓ L’aumentata espressione e/o attivazione di recettori per fattori di crescita (come i membri della famiglia

HER) correla frequentemente con un fenotipo trasformato. ✓ La metastatizzazione può avvenire per via ematica, linfatica o per impianto diretto. ✓ Il processo metastatico avviene attraverso una serie di fasi successive: invasione locale, veicolo nel circolo

ematico e/o linfatico, colonizzazione organo-specifica. ✓ Le interazioni funzionali tra le cellule tumorali e lo stroma sono fondamentali per la progressione tumorale. ✓ La neoangiogenesi tumorale rappresenta una fase fondamentale e necessaria per sostenere l’invasione lo-

cale e a distanza delle cellule tumorali; lo “switch angiogenetico” è avviato da una serie di fattori di crescita angiogenici, tra cui il VEGF. ✓ La crescita tumorale avviene in modo efficace attraverso l’elusione della sorveglianza immunitaria.

BIOLOGIA

DELLA TRASFORMAZIONE E DELLA CRESCITA NEOPLASTICA___ Negli ultimi anni si è avuta una straordinaria espansione delle conoscenze sui meccanismi che governano la crescita della cellula normale e sulle alterazioni che intervengono nel cosiddetto processo di trasformazione neoplastica. La cellula neoplastica differisce dalla cellula normale per il modo eccessivo e non coordinato con cui si verificano alcuni fenomeni, piuttosto che per la presenza di caratteristiche esclusive; la sua crescita alterata sfugge ai normali meccanismi di controllo ed elude il programma di differenziazione acquisendo peculiari proprietà, tra cui la capacità di metastatizzare, ossia invadere i vasi linfatici ed ematici

e colonizzare organi distanti. La crescita cellulare incontrollata senza invasione è una caratteristica delle neoplasie benigne, laddove invece la coesistenza di crescita incontrollata e invasione identifica le neoplasie maligne. Le cause che determinano la trasformazione neoplastica sono numerosissime e dipendenti da fattori genetici e ambientali, che possono agire in maniera simultanea o sequenziale, dando origine a un processo a tappe (multistep carcinogenesis) che gradualmente conduce la cellula normale all’acquisizione di un fenotipo trasformato, fino alla capacità di metastatizzare. Nella maggior parte dei casi il fenotipo maligno richiede l’accumulo di mutazioni in diversi geni differenti. Un’intuizione fondamentale è stata che sia cause ereditarie sia fattori ambientali possono


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Oncologia clinica

determinare alterazioni genetiche e che queste ultime sono alla base del processo di trasformazione neoplastica. Questa intuizione era basata: • sulla stretta correlazione tra alcune malattie gene-

tiche, come lo xeroderma pigmentosum o l’atassiateleangectasia, e suscettibilità a sviluppare tumori; • sulla conoscenza degli effetti diretti sul DNA da parte di sostanze cancerogene e radiazioni ultraviolette; • sull’evidenza che la popolazione cellulare tumorale origina dall’espansione clonale di un’unica cellula trasformata. Gli studi condotti su colture cellulari in vitro hanno permesso di dimostrare che le cellule normali sono in grado di proliferare e conservare le loro caratteristiche fenotipiche aderendo a un substrato plastico in presenza di una miscela critica di nutrienti, ormoni e fattori di crescita e che cessano di crescere quando viene raggiunta la confluenza (inibizione da contatto). Le cellule neoplastiche, al contrario, sono in grado di crescere anche in sospensione, non rispettano l’inibizione da contatto, sono parzialmente o totalmente indipendenti da numerosi fattori di crescita e ormoni e infine sono in grado di dare origine a tumori se vengono iniettate o trapiantate in topi nudi immunodepressi (TAB. 2.1). La migliore comprensione delle tappe molecolari che controllano il ciclo cellulare normale ha fornito ulteriori elementi per lo studio della cellula neoplastica. Il ciclo cellulare consente a una cellula di duplicare il proprio patrimonio genetico e di dividersi attraverso quattro fasi denominate G1, S, G2 e M. La fase G1, che intercorre tra il termine della mitosi (M) e l’inizio della sintesi del DNA (S), ha una durata variabile, dipendente sia dal tessuto d’origine sia dai fattori che regolano la proliferazione del tessuto stesso. Nella fase G1 sono presenti numerosi punti chiave (checkpoint) sotto il controllo di proteine diverse che governano il passaggio alla successiva fase S. La fase G1 è pertanto un importante bersaglio su cui agiscono molti agenti trasformanti. La fase S, o di “sintesi”, rappresenta il periodo in cui avviene la replicazione del

DNA. La fase G2, che intercorre tra la fine della fase S e l’inizio della fase M, è fondamentale per l’attività di riparo e controllo del DNA e per assicurare una corretta duplicazione del patrimonio genetico. Infine, la fase M comprende lo svolgersi della mitosi, dalla profase alla telofase. Il passaggio da una fase all’altra è controllato da una serie di proteine, definite cicline, specifiche per le diverse fasi del ciclo. Le cicline sono la componente regolatrice di altre proteine ad attività chinasica, definite chinasi-ciclina-dipendenti (cdk). L’accoppiamento ciclina-cdk è regolato da numerosi fattori, tra cui fattori di crescita e proteine impegnate nella trasduzione del segnale. Poiché il sistema ciclina-cdk è posto alla fine di una lunga catena di eventi e controlla direttamente i tempi del ciclo cellulare, appare evidente che le numerose alterazioni quantitative e qualitative di tali fattori di crescita e proteine con funzione regolatrice si riflettono direttamente sul ciclo cellulare, causando un’alterata proliferazione cellulare. L’acquisizione di un’autonomia proliferativa costituisce certamente un evento fondamentale nel processo di trasformazione neoplastica. I fattori di crescita peptidici e i prodotti degli oncogeni sono i maggiori responsabili dell’acquisizione di autonomia proliferativa, mediante l’attivazione di una cascata di eventi che determina, alla fine, una risposta mitogenica. I fattori di crescita possono agire in maniera endocrina, mediante secrezione nella circolazione e azione a distanza, paracrina, influenzando le cellule circostanti, o autocrina, in cui le stesse cellule produttrici del fattore di crescita rispondono alla sua stimolazione. La cellula neoplastica è in grado di produrre autonomamente alcuni fattori di crescita, autostimolandosi e abrogando la dipendenza esterna da tali fattori. Inoltre, può sintetizzare un maggior numero di recettori specifici per amplificare il segnale del fattore di crescita e/o, infine, può dare origine a recettori troncati che non necessitano più del ligando per essere attivati. Numerosi fattori di crescita sono stati individuati come rilevanti nella patogenesi e nello sviluppo delle neoplasie umane, tra cui platelet-derived growth factor (PDGF), epidermal growth factor

TABELLA 2.1 Differenze tra cellula normale e cellula trasformata Caratteristiche

Cellula normale

Cellula trasformata

Inibizione da contatto Crescita clonogenica in mezzo semiliquido Dipendenza da ormoni e fattori di crescita esogeni Tumorigenicità in vivo

Sì No Sì No

No Sì Ridotta o assente Sì


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CAPITOLO 2 – Crescita tumorale e disseminazione metastatica

(EGF), transforming growth factor a (TGF-a), fibroblast growth factor (FGF), vascular endothelial growth factor (VEGF), hepatocyte growth factor (HGF), anfiregulina, epiregulina, heparin-binding growth factor, betacellulina. Il PDGF è prodotto sia dalle piastrine attivate sia dalle cellule endoteliali sia dai fibroblasti. L’omologo cellulare del gene retrovirale v-sis codifica la sintesi di una forma di PDGF che è stata implicata in alcune neoplasie umane. L’EGF è il capostipite di una famiglia di fattori di crescita con elevata omologia strutturale che include anfiregulina e Cripto. Sia l’EGF sia il TGFa legano lo stesso recettore (EGF-R) e la loro iperespressione è in grado di trasformare cellule epiteliali di diversa origine, in particolare di colon e mammella. La porzione citoplasmatica di EGF-R ha elevata omologia con il prodotto dell’oncogene retrovirale v-erbB. La contemporanea iperespressione sia di TGF-a sia di EGF-R è stata osservata in numerose neoplasie umane ed è stata individuata come fattore prognostico sfavorevole in alcuni tumori solidi, tra cui il cancro della mammella. Anfiregulina e Cripto appaiono implicati in numerose neoplasie. In particolare, sono stati trovati iperespressi in tumori della mammella, del colon e in tumori germinali del testicolo. Un recettore definito HER-2/neu/erbB-2, per l’analogia con il protoncogene c-erbB che codifica la sintesi di EGF-R, il cui ligando non è ancora ben definito, è iperespresso in numerose neoplasie, come il tumore della mammella e dello stomaco, e la sua presenza è considerata un fattore prognostico sfavorevole nel cancro della mammella. Anche FGF (acid, aFGF, e basic, bFGF) è il capostipite di una famiglia di fattori di crescita con elevatissima omologia strutturale, che include anche hst e int-2, ma con distinti recettori. È stato dimostrato che gli FGF sono prodotti da fibroblasti, cellule endoteliali e cellule muscolari lisce e striate e sono responsabili, tra l’altro, dell’induzione del processo di neoangiogenesi. Pertanto hanno un ruolo importante nel processo di invasione e metastasi (VEDI OLTRE). I recettori dei fattori di crescita attivati dallo specifico ligando avviano una cascata di eventi per trasdurre il segnale nella cellula coinvolgendo numerose proteine. Un elevato numero di recettori di fattori di crescita, inclusi erbB-2 e i recettori di EGF/TGF-a, PDGF, FGF ha una porzione extracellulare che contiene il sito di legame specifico per il fattore di crescita, una porzione transmembrana e una intracellulare con attività enzimatica di tipo tirosinachinasi. I recettori tirosina-chinasi attivati trasmettono il segnale mediante legami specifici e fosforilazioni a numerose proteine impegnate nel processo di trasduzione dell’informazione, tra cui fosfolipasi C-g (PLC-g), fosfatidilinositol-chinasi (PI3K) e proteine le-

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ganti, che a loro volta trasducono il segnale ad altri messaggeri come proteina-chinasi C (PKC) o mammalian target of rapamycin (m-TOR) e, infine, influenzano l’attività di proteine impegnate nel controllo della trascrizione genica e del ciclo cellulare. I segnali provenienti dal complesso fattore di crescita-recettore controllano, quindi, l’attraversamento delle fasi del ciclo cellulare, la proliferazione e la differenziazione. L’attività incontrollata dei recettori tirosina-chinasi è spesso una caratteristica di numerose neoplasie maligne umane e il ruolo cruciale svolto da tali recettori nei processi di proliferazione, crescita e sopravvivenza delle cellule tumorali ha fatto sì che venissero utilizzati come bersaglio di nuovi farmaci. I recettori tirosina-chinasi vengono di solito attivati in modo perenne (attivazione costituzionale) attraverso diversi meccanismi, tra cui elevata espressione, mutazioni e traslocazioni cromosomiche. Il recettore EGFR, per esempio, può essere attivato nella porzione intracellulare, sede del dominio tirosin chinasico, da alcune mutazioni (delezioni o mutazioni puntiformi) che rendono il recettore più facilmente attivabile. Tali mutazioni vengono definite “sensibilizzanti” in quanto aumentano anche la suscettibilità del recettore all'effetto inibitorio di farmaci che bloccano la sua attività tirosina chinasica (inibitori tirosin-chinasici, TKIs). A oggi, sono state individuate numerose tirosine-chinasi associate o meno a recettori transmembrana implicate nella patogenesi neoplastica (TAB. 2.2). Un altro contributo fondamentale alla comprensione del meccanismo di trasformazione neoplastica è stato dato dall’identificazione del ruolo di numerosi oncogeni. In primo luogo, è stato dimostrato che i geni trasformanti dei retrovirus (per es., v-src del virus del sarcoma di Rous) sono forme alterate di geni presenti anche nelle cellule normali, definiti protoncogeni (per es., c-src). I protoncogeni sono geni presenti e conservati nelle cellule normali in gran parte degli organismi eucarioti che, in seguito ad alterazioni strutturali e/o quantitative, possono contribuire significativamente alla trasformazione neoplastica. I prodotti di tali geni sono proteine essenziali per i normali processi di embriogenesi, proliferazione e differenziazione cellulare. Gli oncogeni sono stati divisi in alcune classi accomunate dal tipo di funzione della proteina prodotta (attività enzimatica di tipo tirosina-chinasi, proteina a localizzazione nucleare con funzione di legame a sequenze di DNA ecc.). In generale, si può dire che gli oncogeni codificano la sintesi di proteine con funzioni diverse, ma che rivestono un ruolo cruciale nel controllo della proliferazione e differenziazione cellulare. Infatti, sono stati identificati oncogeni che codificano la sintesi di fat-


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TABELLA 2.2 Tirosine-chinasi attivate da vari eventi genetici nei cancri umani* Meccanismi

Tirosine-chinasi

Cancri

1. Le traslocazioni generano proteine di fusione con BCR, TEL o NPM. L’oligomerizzazione porta all’attivazione della chinasi mediante fosforilazione crociata

ABL, ALK, FGFR, JAK-2, PDGFR, TRKC

Leucemia acuta e cronica, fibrosarcoma Tumori del polmone per traslocazioni ALK

2. L’iperespressione causa la dimerizzazione del recettore in assenza del ligando

Famiglia EGFR, IGFR, PDGFR, famiglia FGFR, c-MET, Axl

Mammella, ovaio, polmone, stomaco, prostata, glioblastoma, altri

3. Mutazioni puntiformi con acquisizione di funzione portano alla dimerizzazione del recettore e all’attivazione della chinasi

c-KIT c-RET EGFR, HER-2, MET

Tumori stromali gastrointestinali Cancro midollare della tiroide Tumore del polmone

4. Via di crescita autocrina

MET/HGF PDGF/PDGFR

Rabdomiosarcomi Glioblastoma

5. Iperespressione di ligandi come VEGF o le VEGFR angiopoietine da parte delle cellule stromali o tumorali TIE-2 NRP

Molti tumori

* La perdita di controllo delle tirosine-chinasi è un evento genetico frequente che porta allo sviluppo di una neoplasia umana. Le cellule tumorali presentano un alto tasso di mutazione e hanno difetti nei siti di controllo dei danni del DNA. Questo permette un eccesso di crescita dei cloni tumorali con anomalie genetiche multiple, alcune delle quali favoriscono la progressione tumorale aumentando la proliferazione, potenziando la resistenza all’apoptosi e stimolando l’angiogenesi. ABL, tirosinchinasi Abelson; ALK, chinasi del linfoma anaplastico; BCR, punto di rottura della regione cluster; c-MET, recettore per il fattore di crescita epatocitario (HGF); c-KIT, recettore per il fattore della cellula staminale; c-RET, recettore per il fattore di crescita neurotrofico di derivazione gliale; EGFR, recettore per il fattore di crescita epidermico; FGFR, recettore per il fattore di crescita fibroblastico; IGFR, recettore per il fattore di crescita simil-insulinico; JAK-2, Janus chinasi-2; NPM, nucleofosmina; PDGFR, recettore per il fattore di crescita derivato dalle piastrine; TEL, fattore di trascrizione della famiglia Ets; TIE-2, recettore per l’angiopoietina; TRKC, recettore tirosina-chinasi C per la neurotropina; VEGFR, recettore per il fattore di crescita vascolare endoteliale; NRP, neuropilina. Modificata da: Fauci A.S. et al. Harrison. Principi di Medicina Interna, 17a ed., Milano: McGraw-Hill, 2009.

tori di crescita o loro recettori (sis, erbB, erbB-2 ecc.) o di proteine impegnate nella regolazione dell’espressione genica (fos, myc ecc.) o ancora di proteine tipo G (G-proteins) con un ruolo chiave nella trasduzione di segnali dalla membrana cellulare al citoplasma (ras) (TAB. 2.3).

TABELLA 2.3 Principali classi di oncogeni e loro funzione Classe

Prodotto e funzione

I Proteine-chinasi (tirosina(src, erbB, yes, abl, fes/yes, chinasi) e recettori c-MET, ROS-1, Alk-EML-4, Axl) di superficie II (sis, FGF-2, FGF-3)

Fattori di crescita

III (ras)

G-proteins

IV (myc, fos, myb)

Proteine nucleari con attività di regolazione della trascrizione

Le principali cause dell’alterato funzionamento e dell’“attivazione” di un oncogene sono: • mutazioni o altre modifiche strutturali nella se-

quenza nucleotidica; • amplificazione genica con conseguente incremen-

to nel numero di copie e aumentata produzione dell’oncoproteina; • alterazione dei meccanismi che ne controllano l’espressione tra cui la traslocazione. Uno degli esempi più noti di mutazioni di un oncogene è rappresentato dall’oncogene ras. In numerosi tumori umani, inclusi i tumori del pancreas, della mammella, del polmone e del colon, è stata identificata una forma di ras con attività trasformante. È stato dimostrato che cancerogeni chimici sono in grado di indurre mutazioni specifiche di ras e che tali mutazioni sono presenti precocemente nei tessuti prima che i tumori siano clinicamente rilevabili. La presenza di varianti mutate di ras in alcune neoplasie umane, inoltre, correla con la resistenza ad alcune classi di farmaci biologici, come gli anticorpi monoclonali an-


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CAPITOLO 2 – Crescita tumorale e disseminazione metastatica

ti-EGFR. L’amplificazione di oncogeni è stata ampiamente documentata in numerose neoplasie umane. Nel microcitoma polmonare e nel neuroblastoma due varianti dell’oncogene myc risultano amplificate; un’amplificazione di erbB-2 è stata identificata in numerose neoplasie, in particolare nel cancro della mammella, dove testimonia una maggiore aggressività della malattia, mentre nell'adenocarcinoma del polmone è stata identificata l’amplificazione di c-Met come responsabile di resistenza a terapie anti-EGFR. Esempi di alterato controllo dell’espressione di alcuni oncogeni per traslocazione sono il linfoma di Burkitt e i linfomi follicolari in cui, rispettivamente, l’oncogene myc (cromosoma 8) e il gene antiapoptotico Bcl-2 (cromosoma 18) vengono trasportati in prossimità dei geni per le catene pesanti delle immunoglobuline (cromosoma 14), i cui promotori acquisiscono così il controllo anche dell’espressione degli oncogeni. Altro esempio è quello del cromosoma Philadelphia della leucemia mieloide cronica, dovuto alla fusione di parte dell’oncogene abl (cromosoma 9) con bcr (cromosoma 22). Il gene di fusione BCR-ABL viene tradotto, nelle cellule leucemiche, in una proteina chimerica a elevata attività tirosin-chinasica, denominata p210. In alcune forme di adenocarcinoma polmonare, è stato identificato un riarrangiamento cromosomico con formazione di un gene di fusione tra ALK (echinoderm microtubule-associated protein-like 4) ed EML-4 (anaplastic lymphoma kinase). Nel tumore del polmone sono stati descritti anche riarrangiamenti del gene ROS-1. Un impulso nuovo allo studio dei meccanismi di trasformazione neoplastica è stato dato dall’identificazione di geni ad attività oncosoppressiva, o antioncogeni. La loro identificazione si è basata sullo studio di ibridi tra cellule normali e tumorali, sull’analisi citogenetica e molecolare del cariotipo di individui affetti da tumori a distribuzione familiare e sulla perdita di eterozigosi di geni allelici in campioni di neoplasie. Il gene Rb responsabile delle forme sporadiche e familiari di retinoblastoma è una proteina fondamentale per il controllo del ciclo cellulare e l’assenza o forme mutate di Rb sono alla base anche di numerose altre neoplasie non familiari. Di grande interesse è anche p53, una proteina a localizzazione nucleare che funge da fattore di trascrizione e che controlla un preciso punto nella transizione del ciclo cellulare da G1 a S. Infatti p53, in seguito a danni del DNA prodotti da radiazioni o agenti chimici, determina arresto in G1 e consente così alla cellula di riparare il danno o, in alternativa, di attivare una morte cellulare programmata (apoptosi). Forme mutate di p53 inattivano la forma wild type e favoriscono l’accumulo di errori nella duplicazione del DNA. Il gene codificante la sintesi di p53 è uno

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dei geni più frequentemente mutati nei tumori umani, rivestendo un valore prognostico in numerose neoplasie. Inoltre, la mutazione di p53 nelle cellule germinali è responsabile dell’insorgenza di tumori familiari giovanili (sindrome di Li-Fraumeni) e l’esposizione ad agenti chimici (aflatossine) o fisici (radiazioni ultraviolette) determina mutazioni in sequenze specifiche del gene p53. Infine, il prodotto del gene MDM-2 è in grado di legare e inattivare p53 e Rb. Pertanto, nei numerosi tumori in cui MDM-2 è iperespresso, p53 e Rb, benché normali, non sono in grado di funzionare, favorendo la trasformazione neoplastica. MDM-2, quindi, si comporta come un anti-antioncogene. Nei tumori di dimensioni clinicamente rilevabili, le cellule neoplastiche non hanno caratteristiche omogenee, ma sono spesso estremamente eterogenee per velocità di proliferazione, produzione autonoma di fattori di crescita, attivazione di oncogeni e altre alterazioni genetiche. In alcune neoplasie, tuttavia, è stato possibile dimostrare che queste alterazioni avvengono per accumulo progressivo. L’esempio più importante è quello del cancro del colon, in cui sono state identificate alterazioni genetiche specifiche nelle varie tappe che dall’adenoma portano al carcinoma in situ, fino al carcinoma invasivo (FIG. 2.1). Nella prima fase, la perdita del gene MCC sul cromosoma 5 è associata a proliferazione cellulare (espansione clonale); nell’adenoma iniziale (adenoma di I classe) si riscontra la ridotta metilazione del DNA. In una fase successiva di sviluppo dell’adenoma (adenoma di II classe) è stata identificata frequentemente una mutazione dell’oncogene K-ras. Le numerose atipie cellulari caratteristiche di un’ulteriore fase di sviluppo dell’adenoma (adenoma di III classe) coincidono con la perdita del gene soppressore DCC sul cromosoma 18. La perdita di p53 è associata alla comparsa di carcinoma in situ e, infine, le alterazioni del gene NM-23 contribuiscono a conferire un potenziale metastatico alle cellule neoplastiche; è stato recentemente dimostrato che nelle feci di pazienti con cancro del colon è possibile reperire precocemente cellule contenenti K-ras mutato. Oggi la ricerca di mutazioni nel gene ras (esoni 2, 3, 4 di K-ras e N-ras) rappresenta un test diagnostico fondamentale per predire la possibilità di risposta ad anticorpi anti EGFR usati nella terapia dei tumori del colon-retto. Circa il 5060% dei pazienti con tumore del colon ha una mutazione che preclude la risposta a tali farmaci. Molto importante a tale proposito un’altra mutazione che coinvolge l’oncogene B-raf e si ritrova in diversi tumori tra cui colon-retto, melanoma, tiroide ecc. I recettori per fattori di crescita e gli oncogeni rappresentano, pertanto, potenziali bersagli nella defini-


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Epitelio normale MCC (FAP) cromosoma 5 Iperproliferazione Demetilazione Adenoma I classe Mutazione K-ras Adenoma II classe Inattivazione DCC cromosoma 18 Adenoma III classe Alterazione p53

zione dell’eterogeneità genetica di tutta la popolazione cellulare neoplastica. Recenti studi hanno infatti dimostrato come le mutazioni associate al tumore, rilevabili nel sangue, possano essere utilizzate nella pratica clinica allo scopo di predire la risposta ai trattamenti e lo sviluppo di resistenze acquisite. Oltre al DNA tumorale circolante è oggi possibile anche identificare e isolare cellule tumorali circolanti (CTC), il cui significato prognostico e predittivo è ancora non del tutto definito.

ELEMENTI DISTINTIVI DEL CANCRO ("HALLMARKS OF CANCER")_____ Le alterazioni della fisiologia cellulare che si verificano durante la tumorigenesi e che consentono la crescita tumorale e la disseminazione metastatica possono essere riassunte da sette caratteristiche. 1. Crescita incontrollata e indipendente da fat-

Carcinoma in situ NM-23 Carcinoma metastatico

FIGURA 2.1 Cancro del colon: tappe che dall’adenoma portano, attraverso il carcinoma in situ, al carcinoma invasivo.

zione di approcci terapeutici innovativi, che, di fatto, negli ultimi anni ha permesso la messa a punto dei cosiddetti “farmaci biologici”. Il profilo genetico dei tumori solidi è attualmente analizzato attraverso indagini di laboratorio effettuate su campioni chirurgici o bioptici. Questi ultimi, però, sono ottenuti attraverso procedure invasive e, pertanto, non praticabili di routine. Inoltre, le informazioni raccolte attraverso una singola biopsia potrebbero non riflettere l’eterogeneità del tumore. La ricerca in campo oncologico sta cercando di superare questi limiti attraverso il ricorso a procedure diagnostiche meno invasive e facilmente ripetibili. È noto che le cellule tumorali rilasciano DNA circolante (Circulating free DNA – cfDNA) nel sangue: biopsie liquide, ovvero campioni di sangue, potrebbero, in futuro, rappresentare un’indagine fondamentale per la diagnosi e il monitoraggio delle neoplasie attraverso l’analisi del DNA circolante rilasciato dalle cellule tumorali. Tale approccio, inoltre, consentirebbe una migliore valuta-

tori di crescita. Il tratto distintivo delle cellulle tumorali è la loro capacità di sostenere una crescita incontrollata e indipendente da fattori di crescita alterando i meccanismi che regolano l’omeostasi cellulare. Le cellule tumorali possono acquisire la capacità di sostenere la proliferazione con svariate modalità: possono produrre fattori di crescita che, legandosi ai relativi recettori sulla superficie cellulare, sostengono in maniera autocrina la proliferazione tumorale; anche un aumento dell’espressione dei recettori per i fattori di crescita, una costitutiva attivazione oppure un aumento dell’affinità per i ligandi sostengono la proliferazione tumorale incontrollata. Mutazioni somatiche responsabili dell’attivazione costituitiva di trasduttori a valle dei recettori per i fattori di crescita sono state spesso riscontrate; nel 40% dei melanomi, per esempio, mutazioni della proteina B-RAF causano una costitutiva attivazione della via di MAP-chinasi. Similmente mutazioni della subunità catalitica del PI3-chinasi inducono una iper-attivazione del segnale a valle. Alterazioni in meccanismi di feedback negativo, che normalmente regolano l’omeostasi cellulare, possono promuovere la proliferazione delle cellule tumorali. Un esempio di tale regolazione è la proteina RAS, una GTPasi che quando mutata è responsabile di una attivazione permanente del segnale; anche mutazioni che causano una perdita di funzione di PTEN promuovono la tumorigenesi. Le cellule tumorali possono alternativamente stimolare le cellule dello stroma circostante a sostenerle nella crescita.


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CAPITOLO 2 – Crescita tumorale e disseminazione metastatica

2. Evasione dei meccanismi inibitori della cre-

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scita cellulare. La cellula tumorale è in grado di aggirare programmi cellulari che regolano negativamente la proliferazione cellulare. Due esempi di soppressori cellulari sono la proteina RB (associata al Retinoblastoma) e la proteina p53. Esse regolano il destino cellulare: proliferazione o in alternativa senescenza e apoptosi. L’inattivazione di tali oncosoppresori apporta un vantaggio alla cellula tumorale. Durante la tumorigenesi l’inibizione da contatto, caratteristica peculiare delle linee cellule tumorali in vitro, è abrogata. Evasione dei meccanismi di morte cellulare. La morte cellulare programmata è un ostacolo allo sviluppo del tumore. La cellula tumorale escogita strategie per limitare o evitare l’apoptosi tra cui l’iperespressione dei geni antiapoptotici (Bcl-2, Bcl-xL, Bcl–w) oppure la riduzione dell’espressione di geni proapoptotici (Bax, Bim, Puma). Potenziale replicativo illimitato. La maggior parte delle cellule dell’organismo attraversa un numero limitato di divisioni cellulari prima di entrare in uno stato non proliferativo (senescenza cellulare) o andare incontro a morte. Le cellule tumorali, che richiedono un potenziale replicativo illimitato per generare tumori macroscopicamente evidenti, eludono la senescenza cellulare. È noto che i telomeri, estremità distali dei cromosomi, composti da ripetizioni in tandem di esanucleotidi, hanno la funzione di proteggere le cellule dalla senescenza; essi diventano progressivamente più corti dopo ogni ciclo cellulare. Le telomerasi, DNA polimerasi che hanno la funzione di aggiungere sequenze all’estremità dei telomeri del DNA, non sono normalmente espresse nelle cellule normali, sono invece espresse e funzionalmente attive nelle cellule tumorali, rendendo le cellule resistenti all’induzione della senescenza e della apoptosi cellulare. Induzione dell’angiogenesi. In modo simile ai tessuti normali, il tumore richiede per la sua sopravvivenza la presenza di vasi per l’approvvigionamento di ossigeno, nutrienti e l’eliminazione di anidride carbonica. L’angiogenesi tumorale è mediata da un meccanismo di compensazione tra i fattori che inducono e inibiscono l’angiogenesi. il principale mediatore indotto dall’ipossia e dai segnali oncogenici sono VEGF e FGF (VEDI PAR. “ANGIOGENESI NORMALE E NEOPLASTICA”). Attivazione dei processi di invasione e metastatizzazione. Il meccanismo più noto mediante il quale le cellule epiteliali trasformate acquisiscono la capacità di invadere i tessuti e dare metastasi è la “transizione epitelio-mesenchimale”

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(EMT). Vari fattori di crescita pleiotropici come Snail, Slug, Twist e Zeb 1-2 mediano il processo di EMT e sono in grado di inibire l’espressione di E-caderina, che è il principale responsabile dell’adesione cellula-cellula. La riduzione dell’espressione di E-caderina conferisce alle cellule tumorali le capacità di motilità e invasione. Le interazioni funzionali tra cellule tumorali e cellule stromali contribuiscono all’acquisizione delle capacità di invasione e metastatizzazione delle cellule trasformate. Le cellule mesenchimali staminali (MSCs) presenti nello stroma neoplastico secernono il fattore CCL-5/RANTES su stimolazione delle cellule neoplastiche; CCL-5 agisce a sua volta sulle cellule neoplastiche innescandone un comportamento invasivo. 7. Infiammazione. La correlazione tra infiammazione e cancro è ben nota; molte malattie infiammatorie, incluse le malattie infiammatorie intestinali, aumentano il rischio di sviluppare cancro. In tumori non correlati a condizioni infiammatorie (come per esempio il tumore della mammella), l’attivazione di oncogeni è in grado di produrre molecole infiammatorie e reclutare cellule pro-infiammatorie (principalmente macrofagi). Esse sono in grado di influenzare le fasi della progressione tumorale, inclusa la capacità di metastatizzare. Citochine come IL-1, IL-6, TNF e RANKL sono in grado di aumentare la capacità delle cellule tumorali di dare metastasi influenzando la capacità di disseminazione e colonizzazione a distanza. Il principale fattore di trascrizione dell’infiammazione è NF-KB.

MUTAZIONI

ED ETEROGENEITÀ TUMORALE________________ La maggior parte dei tumori umani presenta un panorama mutazionale variegato. Sono stati descritti geni che, quando mutati, possono guidare la tumorigenesi: tipicamente un tumore presenta da due a otto di tali mutazioni, in grado di conferire un vantaggio di crescita selettivo e definite come driver. Le altre mutazioni presenti sono definite come passenger, in quanto incapaci di conferire un vantaggio di crescita alle cellule; spesso insorgono in fase preneoplastica. I geni driver sono classificati in 12 vie di segnale che regolano tre processi fondamentali: • destino cellulare, determinato dall’equilibrio tra

divisione e differenziazione cellulare: molte delle alterazioni genetiche presenti nei tumori compromettono questo equilibrio, favorendo i processi


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Oncologia clinica

di divisione cellulare rispetto a quelli di differenziazione. Ciò comporta un vantaggio di crescita, poiché evita il verificarsi dei fenomeni di morte o quiescenza caratteristici delle cellule differenziate. I geni responsabili di questi processi e frequentemente mutati nei tumori umani comprendono quelli coinvolti nelle vie di segnale di APC, Hedgehog e Notch, nonché quelli codificanti per gli enzimi responsabili del rimodellamento della cromatina e quindi della regolazione dell’espressione genica; • sopravvivenza cellulare. Una cellula tumorale è soggetta a limitazioni nutrizionali strettamente correlate alle anomalie dei vasi intratumorali; pertanto, mutazioni che le consentano di proliferare anche in condizioni di limitato apporto di nutrienti conferiscono un vantaggio di crescita selettivo. I geni coinvolti nella regolazione della sopravvivenza cellulare governano le vie di segnale mitogeniche; essi codificano per recettori per fattori di crescita (EGFR, FGFR, PDGFR, MET), trasduttori del segnale (RAS, RAF, PI3K), regolatori del ciclo cellulare e dell’apoptosi (CDKN2A, MYC, BCL-2); • stabilità genomica. Una cellula è protetta dall’accumulo di mutazioni grazie a specifici punti di controllo che determinano l’attivazione della morte cellulare per apoptosi nel caso in cui il danno non possa essere riparato. Mutazioni nei geni che controllano tali punti di controllo (TP-53, ATM), così come mutazioni in geni coinvolti nel riparo del DNA (MLH-1, MSH-2), sono frequenti nelle neoplasie umane. Una migliore comprensione di queste vie di segnale è una necessità impellente nella ricerca oncologica di base e applicata. Particolarmente rilevante può essere l’impatto clinico di un ampliamento delle conoscenze in questo settore; il concetto emergente di genomebased medicine è infatti dotato di profonde implicazioni terapeutiche. Un tumore presenta un certo numero di mutazioni clonali, cioè presenti nella maggior parte delle cellule che compongono il tumore stesso; tuttavia l’evoluzione del processo neoplastico è determinata anche da mutazioni aggiuntive, subclonali, che presentano una distribuzione eterogenea all’interno del tumore. Nel contesto della tumorigenesi sono descritti quattro tipi di eterogeneità: • intratumorale: eterogeneità tra le cellule di uno stes-

so tumore. Nuove mutazioni possono essere acquisite a ogni divisione cellulare. Da un punto di vista clinico, questo tipo di eterogeneità può non essere

rilevante, in quanto spesso il tumore primitivo viene rimosso chirurgicamente; tuttavia, essa può porre le basi per l’eterogeneità intermetastatica; • intermetastatica: eterogeneità tra diverse lesioni metastatiche dello stesso paziente. È frequente che una determinata metastasi presenti un buon numero di mutazioni clonali non condivise con altre lesioni metastatiche presenti nello stesso paziente; poiché si tratta di mutazioni clonali, esse si sono generate nella cellula che ha dato origine alla metastasi, come conseguenza dell’eterogeneità genetica intratumorale. Fortunatamente, questo fenomeno è ampiamente ristretto alle mutazioni passenger: ciò spiega perché nei pazienti sensibili alle terapie biologiche la risposta sia osservata generalmente in tutte le lesioni metastatiche piuttosto che in una sola; • intrametastatica: eterogeneità tra le cellule di una stessa metastasi. Le nuove mutazioni che si generano all’interno di una metastasi pongono le basi per una futura resistenza farmacologica; da ciò deriva la necessità di definire approcci terapeutici basati sull’uso di diverse combinazioni di farmaci attivi su diversi bersagli molecolari; • interpaziente: eterogeneità tra i tumori di diversi pazienti. Sebbene i geni mutati in uno stesso tipo tumorale siano spesso gli stessi, il tipo di mutazione presente può avere effetti diversi: una mutazione G12D nel gene KRAS non ha infatti lo stesso impatto clinico di una mutazione G13D nello stesso gene. Sulla base di queste evidenze si pensa oggi ad approcci terapeutici individualizzati, disegnati sul singolo paziente sulla base delle caratteristiche molecolari del tumore che egli presenta.

IL

PROCESSO DI METASTATIZZAZIONE

Le metastasi, più che il tumore primitivo, rappresentano la principale causa di morte per cancro. Metastasi sincrone al tumore primitivo sono presenti già nel 30-40% dei tumori al momento della diagnosi, benché si possono ipotizzare micrometastasi occulte in una elevata frazione di pazienti con malattia apparentemente localizzata. Queste ultime, e numerosi fenomeni locali e sistemici, condizionano poi l’insorgenza di metastasi metacrone, cioè anche a distanza di anni dall’insorgenza e dalla rimozione del tumore primitivo. La disseminazione metastatica può avvenire per via linfatica, ematica, per contiguità o per colonizzazione di cavità (peritoneo). La metastatizza-


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CAPITOLO 2 – Crescita tumorale e disseminazione metastatica

zione per via linfatica è molto frequente e spesso rappresenta una fase precoce della progressione delle neoplasie epiteliali. Avviene in genere a tappe attraverso i diversi distretti posti in successione sulle vie di drenaggio linfatico, da cui il valore della ricerca del linfonodo sentinella, con l’eccezione di casi in cui si verificano “salti” dovuti a bypass linfatici. Diverse e più complesse sono le problematiche delle metastasi ematogene. Le sedi più frequenti di metastasi disseminate per via ematica sono le ossa, il fegato, i polmoni e il cervello. Nonostante i tumori presentino la capacità di metastatizzare in quasi tutte le sedi dell’organismo, è interessante il fatto che il midollo osseo sia una sede comune di “homing” per diversi tipi di tumori epiteliali, inclusi quelli che non formano tipicamente metastasi ossee. Ciò implica che il midollo osseo possa costituire una riserva preferenziale di cellule tumorali metastatiche da cui esse possono ricircolare fino ad altri organi distanti. La capacità metastatica viene acquisita durante lo sviluppo primario del tumore e viene trasmessa alla maggior parte delle cellule presenti nel tumore primitivo. La metastatizzazione è un processo a tappe multiple e interdipendenti tra loro; ciascuna tappa è limitante per il successo dell’intero processo e quindi il fallimento di una delle tappe compromette l’intero processo di metastatizzazione. Per formare metastasi a distanza, le cellule tumorali distaccatesi dal tumore primitivo devono penetrare nei vasi (intravasazione), circolare e sopravvivere nella corrente ematica o nel sistema linfatico, aderire in un sito nei pressi dell’organo da colonizzare (homing), fuoriuscire dai vasi (extravasare), digerire con l’attività enzimatica lo stroma circostante, stimolare la neoangiogenesi nella nuova sede per favorire la propria sopravvivenza, e, infine, crescere localmente con le stesse modalità che avevano caratterizzato la crescita del tumore primitivo. L’ambiente da colonizzare è spesso ostile: si ritiene che meno dello 0,01% delle cellule tumorali circolanti sviluppi metastasi. Più specificamente, per metastatizzare le cellule devono presentare peculiari caratteristiche: • alta motilità; • degradazione della membrana basale e digestione del

tragitto da percorrere attraverso la matrice cellulare; • invasione dei vasi sanguigni e linfatici (fin quando

raggiungono direttamente la destinazione, così come avviene nel cancro all’ovaio); • resistenza ad apoptosi indotta da distacco; • adesione all’endotelio del tessuto bersaglio; • extravasazione mediante diapedesi;

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• invasione del tessuto target; • sopravvivenza ed eventuale crescita.

In seguito alla comparsa del tumore, in cui mutazioni di oncogeni e inattivazioni di geni oncosoppressori possono influenzare le capacità metastatiche intrinseche, come spiegato successivamente, si possono individuare tre fasi nel processo di diffusione metastatica: 1. iniziazione delle metastasi, fase in cui le cellule

tumorali cominciano l’invasione locale cercando di superare l’ipossia e altre limitazioni nutrizionali; 2. progressione metastatica, in cui le metastasi acquisiscono ulteriori proprietà e organotropismo; 3. aggressività nella sede metastatica, che dipende sia dalle caratteristiche delle metastasi sia dalle loro interazioni con il microambiente dell’organo colonizzato.

INVASIONE:

DEGRADAZIONE, RIMODELLAMENTO DELLA MATRICE EXTRACELLULARE (ECM) E MOTILITÀ CELLULARE_______________________ La degradazione dell’ECM è un passo fondamentale nell’invasione delle cellule tumorali e nel processo di metastatizzazione. Altro aspetto critico è la motilità cellulare, determinata da una complessa serie di interazioni tra proteine di membrana, ECM e fattori di crescita e loro recettori. La motilità avviene mediante chemiotassi o apotassi, a seconda che il movimento avvenga verso un gradiente solubile o una sostanza chemo-attraente immobile. Motore della migrazione e motilità delle cellule tumorali è la riorganizzazione dell’actina del citoscheletro e delle sue proteine regolatrici. Un ruolo critico nella degradazione dell’ECM e del tessuto correlato, primo passo fondamentale nel processo invasivo, è svolto dalle integrine, proteine eterodimeriche che legano le cellule alle strutture dell’ECM, alla fibronectina e alla laminina, attivando pathway che portano alla degradazione dell’ECM mediante enzimi specifici, come le metalloproteinasi della matrice (MMPs) e l’urokinase-type plasminogen activator (uPA). Interazioni cellula-cellula e cellula-matrice sono mediate dalle molecole di adesione. È stato dimostrato che cambiamenti delle varie molecole di adesione in determinati momenti sembrano essere necessari affinché il complesso processo di invasione progredisca. Esistono cinque famiglie principali di molecole di adesione cellulare (CAMs): le integrine pre-


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cedentemente descritte, la superfamiglia Ig CAMs, le caderine, le selectine, e CD-44. Si pensa che la perdita di adesione cellula-cellula mediata dalla E-caderina, per esempio, costituisca un prerequisito per l’invasione tumorale e per la metastatizzazione; molti tumori epiteliali, inclusi gli adenocarcinomi del colon e della mammella, presentano una inibizione dell’espressione della E-caderina. Studi di microscopia recenti hanno fotografato e documentato per la prima volta che il fronte invasivo è costituito da fibroblasti che fanno breccia usando meccanismi di degradazione mediati dalle MMP. Essi formano così delle “piste” seguite dalle cellule tumorali singole o in piccoli aggregati, conquistando così nuovi spazi. Un altro processo importante correlato alla perdita della funzione di E-caderina è la transizione epitelio-mesenchima (EMT) caratterizzata dalla trasformazione di cellule epiteliali in un fenotipo di cellula-progenitrice mesenchimale, che permette sia il distacco e la riorganizzazione degli strati cellulari epiteliali durante lo sviluppo embrionale sia l’invasione tumorale e la metastatizzazione.

PROGRESSIONE METASTATICA. COLONIZZAZIONE ORGANO-SPECIFICA, MICROAMBIENTE E INTERAZIONE TUMORE-STROMA___________________ In generale, il sito di metastatizzazione a distanza è costituito da un ambiente ostile o poco permissivo alla colonizzazione; infatti, si riscontrano frequentemente migliaia di cellule tumorali circolanti che tuttavia non attecchiscono in nessuna sede. Pertanto, un problema critico per spiegare la colonizzazione tumorale è come e, soprattutto, perché le metastasi si recano in certe sedi (homing) piuttosto che in altre. Tuttavia, le scoperte più importanti in merito all’homing delle metastasi è stato fornito dalla recente dimostrazione delle nicchie metastatiche. È noto che cellule di derivazione midollare contribuiscono alla trasformazione, alla vascolarizzazione e alla migrazione neoplastica. Sono stati identificati progenitori ematopoietici che esprimono VEGFR-1 residenti in nicchie del midollo osseo. Durante lo switch angiogenico (V. OLTRE) queste cellule proliferano e si riversano nella corrente sanguigna insieme a progenitori endoteliali di derivazione midollare che esprimono il VEGFR-2, contribuendo alla vascolarizzazione e alla crescita di tumori primitivi. Queste cellule mielomonocitiche VEGFR-1 positive si localizzano nei siti perivascolari e insieme ad altre stabilizzano i nuovi vasi favorendo la neo-angiogenesi e la crescita. È stato dimostrato che queste cellule progenitrici ema-

topoietiche di origine midollare e VEGFR-1 positive si dirigono verso siti premetastatici predefiniti e specifici per ciascun tumore prima ancora che arrivino le cellule tumorali a colonizzare tali siti. Gli scambi fra le cellule tumorali e il proprio microambiente, come lo stroma circostante e le cellule di derivazione midollare, sono fondamentali per la progressione tumorale. In alcuni punti dell’invasione della membrana basale i cosiddetti Macrofagi tumore-associati (TAM) proliferano in risposta al colony stimulating factor-1 (CSF-1), producono ligandi dell’EGFR, FGF, PDGF, MMPs e catepsine, e attivano le cellule mesenchimali che secernono citochine. Queste ultime, soprattutto il CXCL-8 (IL-8) e i suoi recettori CXCR-1 e -2, e il CXCL-12 (SDF-1) e il recettore CXCR-4, svolgono un ruolo essenziale nell’invasione, proliferazione e progressione delle cellule tumorali. L’iperespressione di queste citochine si riscontra nel microambiente della maggior parte dei tumori rispetto ai tessuti sani e in risposta all’ipossia. Altra importante citochina derivata dallo stroma è il TGF-b coinvolto nell’attività metastatica di molte forme tumorali tra cui il cancro della mammella. Infatti, il TGF-b induce l’espressione di VEGF ed è un potente chemo-attraente per i monociti, che rilasciano fattori angiogenici. Uno degli elementi più critici nel nuovo microambiente è lo scambio fra la nuova cellula tumorale impiantata, le cellule stromali e i fattori di adesione. Se lo scambio non è sufficiente, le cellule tumorali possono entrare in una fase di differenziazione e di arresto della crescita. Ancora più rilevante è la recente scoperta che i comuni globuli bianchi residenti o infiltranti, come i macrofagi, i neutrofili o le cellule dendritiche, possono “polarizzare” assumendo fenotipi diversi e opposti a seconda delle condizioni del microambiente o dell’ipossia, trasformandosi da cellule di difesa a cellule protumorali altamente proangiogeniche. Infatti, i macrofagi possono svolgere un duplice ruolo e assumere una gamma di diversi fenotipi basati sugli stimoli ambientali. Per esempio possono presentare un fenotipo M1 che determina un’efficace attività antimicrobica, o un fenotipo M2 che causa rimodellamento tissutale e angiogenesi, così come visto per i macrofagi TAM. I macrofagi stimolano una serie di fattori angiogenici, soprattutto in condizioni di ipossia, come VEGF, PIGF, FGF-2, PDGF, HGF, Angiopoietin 1 e COX-2; iperespressione di MMP-1 e MMP-7; produzione di MMP-9 e MMP-12, della citochina pro-tumorale TNFa, e della citochina immuno-soppressiva IL-10. Come i macrofagi anche i granulociti neutrofili hanno un ruolo essenziale nell’angiogenesi e nella progressione


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CAPITOLO 2 – Crescita tumorale e disseminazione metastatica

tumorale. I neutrofili producono molti fattori angiogenici, come il VEGF e l’MMP-9, e una varietà di citochine e chemochine come CXCL-8, CXCL-1 e CXCL-2, tutte ligandi del recettore CXCR-2.

LA

• crescita tumorale in vivo fino a circa 1 mm di dia-

• •

• •

tessuti e metastatizzare. Schematicamente questi tumori sono caratterizzati da: • crescita esponenziale fino all’exitus dell’ospite; • capacità di indurre attività angiogenica, reclutan-

QUIESCENZA TUMORALE

Esistono diverse possibili definizioni di quiescenza tumorale. Questa condizione potrebbe essere vista come uno “stato di equilibrio” dove cellule tumorali completamente trasformate non evolvono in tumori clinicamente individuabili. Ciò è dovuto presumibilmente alla mancanza di segnali permissivi o a meccanismi inibitori attivi o a una combinazione di entrambi i fattori e potrebbe accadere durante gli stadi iniziali dei tumori primari, in residui del tumore primitivo che favoriscono la ricomparsa della patologia, o a micrometastasi “dormienti” che potrebbero, dopo un periodo di latenza, essere “riattivate” ed evolversi in malattia clinicamente evidente. È possibile quindi identificare caratteristiche specifiche per i tumori non angiogenici e quiescenti e per quelli invece angiogenici e non “dormienti”. I tumori non angiogenici e quiescenti sono caratterizzati da:

metro o meno, durante la quale non è presente ulteriore espansione; incapacità di indurre attività angiogenica, con mancanza o relativa assenza di microvasi intra-tumorali; espressione di quantità uguali o superiori di fattori anti-angiogenici (per es., trombospondina-1) rispetto a quelli angiogenici (per es. VEGF, bFGF); proliferazione cellulare tumorale attiva e apoptosi in vivo, e attività metabolica durante il periodo di quiescenza; possibilità di espansione clonale da un tumore fortemente angiogenico, considerato che i tumori umani sono eterogenei e contengono un insieme di cellule tumorali nonangiogeniche e angiogeniche; incapacità di metastatizzazione spontanea dallo stato microscopico dormiente; inoffensività verso l’ospite fin quando non avviene la trasformazione in un fenotipo angiogenico.

Viceversa, i tumori angiogenici e non-dormienti posseggono caratteristiche distintive:attivazione di oncogeni e perdita di geni oncosoppressori; insensibilità ai segnali antiproliferativi; indifferenza agli stimoli apoptotici; capacità di replicazione cellulare illimitata; marcata angiogenesi e capacità di invadere i

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• • • •

do i vasi sanguigni dallo stroma circostante e/o formando nuovi vasi sanguigni all’interno del tessuto tumorale; espressione preferenziale di fattori angiogenici rispetto a quelli antiangiogenici; possibilità di espansione clonale da un tumore fortemente angiogenico; metastasi spontanee in vari organi; letalità per l’ospite in poche settimane.

ANGIOGENESI

NORMALE E NEOPLASTICA

In condizioni fisiologiche, l’angiogenesi è un fenomeno finemente regolato che avviene durante lo sviluppo embrionale, nel ciclo riproduttivo della donna e nella riparazione delle ferite e dei tessuti in genere. Questo processo è il risultato di un equilibrio tra fattori promuoventi (fattori proangiogenetici) e fattori inibenti l’angiogenesi (fattori antiangiogenetici). Nei tumori la proliferazione di una rete di vasi sanguigni all’interno della neoplasia mantiene l’equilibrio tra il numero di cellule che proliferano, accrescendo la massa tumorale e il corretto apporto di ossigeno e nutrienti, contrastando così la necrosi cellulare e rimuovendo le scorie metaboliche dal sito tumorale. Tuttavia, la rete vascolare neoformata nei tumori diventa progressivamente più disordinata e caotica modificando la dinamica del flusso sanguigno e alterando paradossalmente l’ossigenazione del tumore. Man mano che il tumore si accresce, il bisogno di ossigeno eccede le disponibilità presenti nei tessuti circostanti, causando uno stato di anossia/ipossia che stimola le cellule tumorali a produrre dei fattori di crescita angiogenici, avviando il cosiddetto “switch” angiogenico. Un delicato e complesso equilibrio tra fattori proe anti-angiogenici regola l’angiogenesi. I fattori proangiogenici possono essere secreti e regolati da diversi tipi cellulari, come le cellule endoteliali, tumorali, stromali e anche da cellule del midollo osseo, tra cui i granulociti neutrofili, e da cellule infiammatorie e comprendono il vascular endothelial growth factor (VEGF), il placental growth factor (PlGF), l’angiopoietina, il basic FGF (bFGF o anche FGF-2) e altre. I fattori antiangiogenici, che in condizioni di equilibrio omeostatico contrastano i fattori angiogenici, includono endostatina, angiostatina, trombo-


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spondina (TSP) e inibitori tissutali delle metalloproteinasi che impediscono ai tumori stessi di aumentare le loro dimensioni.

CARATTERISTICHE DEI VASI TUMORALI E PROCESSI DELL’ANGIOGENESI_______ Se si osserva l’organizzazione dei vasi presenti nel tumore essa risulta macroscopicamente diversa da quella presente nei tessuti normali. In generale, nel sovvertimento dell’architettura vascolare tumorale si riconoscono: • vasi disorganizzati, tortuosi e permeabili, spesso co-

• • • • •

stituiti da pareti sottili e discontinue per la scarsa aderenza tra le cellule e la degradazione della membrana basale; presenza di cellule immature nelle pareti dei vasi; emorragie focali; assenza o alterata distribuzione di periciti, che quindi non assicurano un adeguato rivestimento; alterata espressione di integrine e altre proteine per le interazioni di membrana; dipendenza per la crescita dalla presenza abbondante di fattori angiogenici e di sopravvivenza come il VEGF.

Una volta superata la fase critica iniziale del “switch” angiogenico, la neoangiogenesi tumorale progredisce dinamicamente con un continuo rimodellamento dei vasi neoformati e una serie di eventi, che avvengono simultaneamente, caratterizzati da: • digestione della membrana basale a opera di pro-

teasi secrete dalle cellule endoteliali; • migrazione di cellule endoteliali circolanti nella se-

de di formazione dei nuovi vasi e successiva loro proliferazione e differenziazione per allungare i vasi e formarne il lume; • secrezione di fattori angiogenici da parte delle cellule endoteliali che richiamano le cellule di supporto per costruire la membrana basale; in questo stadio finale i vasi sviluppano anche le caratteristiche specifiche proprie del tessuto o organo che devono irrorare. Molti di questi eventi, responsabili anche delle alterate caratteristiche strutturali vascolari sopra descritte, sono causati sostanzialmente dal legame del VEGF ai suoi recettori (VEGFR-1, 2 e 3) e dalla conseguente attivazione della cascata di segnali. Il legame del VEGF

ai rispettivi recettori causa un effetto mitogenico diretto, inducendo una risposta proliferativa sulle cellule endoteliali dei vasi ematici (indotta dal legame con VEGFR-2 e, in parte, con VEGFR-1) e dei vasi linfatici (VEGFR-3). Il VEGF, inoltre, induce la fenestrazione dei capillari determinando delle falle nella parete vascolare, in grado di causare la fuoriuscita di macromolecole circolanti e proteine plasmatiche, che a loro volta vanno a costituire una sorta di impalcatura temporanea di sostegno per le cellule endoteliali in migrazione. Le cellule endoteliali proliferanti secernono proteasi, eparinasi e altri enzimi, come le metalloproteasi (MMP) che digeriscono la membrana basale intorno ai vasi e degradano la matrice extracellulare, consentendo il rilascio di fattori proangiogenetici dalla matrice. La perdita di aderenza tra le cellule endoteliali prima descritta favorisce proiezioni endoteliali fra gli spazi creati e la formazione di nuovi gettoni vascolari che si dirigono e crescono verso la sorgente tumorale da cui proviene lo stimolo. Le cellule endoteliali invadono quindi la matrice e iniziano a migrare e proliferare nella massa tumorale, dove formano tubi e creano nuove membrane basali utili alla stabilità del vaso neoformato. Altri fattori angiogenici possono avere un ruolo chiave in alcune neoplasie umane, per esempio mediando fenomeni di resistenza all’inibizione della via VEGF/VEGFR. Tra questi, il Placental Growth Factor (PlGF), un membro della famiglia del VEGF in grado di legare il VEGFR-1. Mentre nei processi di angiogenesi legati allo sviluppo embrionale il VEGFR-1 agisce primariamente come recettore “decoy”, in grado di regolare la disponibilità di VEGF per il VEGFR-2, in condizioni patologiche, quali le neoplasie, le vie di segnale attivate dal recettore di tipo 1 sembrano avere notevole importanza. Le neuropiline 1 e 2 (NRP-1 e 2), molecole inizialmente caratterizzate per il loro ruolo nello sviluppo neurale, sono anch’esse in grado di modulare l’angiogenesi VEGFR-mediata, attraverso una più efficace presentazione dei membri della famiglia del VEGF ai loro recettori. La via attivata dal platelet derived growth factor (PDGF)-B attraverso l’interazione con il recettore PDGFR-b è necessaria per il reclutamento dei periciti e per la maturazione dei vasi. Il PDGF-A prodotto dal tumore sembra avere un ruolo, attraverso l’interazione con il PDGFR-a, nel reclutamento di popolazioni stromali in grado di produrre VEGF e altri fattori angiogenici. La famiglia dei fibroblast growth factor (FGF) comprende 18 fattori in grado di interagire con 4 recettori principali (FGFR): l’interazione recettoreligando è in grado di promuovere processi di angiogenesi VEGF-indipendenti. La proteina delta-like ligand 4 (DLL-4) è una molecola transmembrana in grado di


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CAPITOLO 2 – Crescita tumorale e disseminazione metastatica

legare il recettore Notch; questa via di segnale è richiesta per il completo sviluppo vascolare.

RUOLO

DELL’IPOSSIA

Il meccanismo che regola la produzione di sostanze che aumentano indirettamente la disponibilità di ossigeno in base alle necessità è regolato nelle cellule in maniera molto fine. Una famiglia di fattori di trascrizione chiamati hypoxia-inducible factor (HIF), indotti in condizioni di ipossia, è tra i mediatori fondamentali di questi processi. In condizioni di ipossia, HIF-1 è in grado di aumentare la produzione di VEGF, determinando così un aumento della vascolarizzazione, e controllando una serie di eventi metabolici che riequilibrano l’ossigenazione locale. Studi recenti attribuiscono una crescente rilevanza a HIF-1 perché esso controlla la trascrizione di una serie di proteine coinvolte in molteplici funzioni cellulari direttamente implicate nell’angiogenesi neoplastica. Durante la crescita tumorale, la zona centrale della massa neoplastica è in genere meno perfusa, e quindi meno ossigenata, per la maggiore pressione interstiziale e la minore disponibilità di nutrienti, utilizzati maggiormente dalle cellule occupanti le zone più periferiche del tumore e in più attiva proliferazione. In tali condizioni di ipossia, HIF-1 viene iperespresso alimentando il circolo vizioso che porta a ulteriore produzione di VEGF e di altre proteine con effetti proangiogenici. L’ipossia è una caratteristica importante delle neoplasie, non soltanto correlata al processo di angiogenesi tumorale, ma anche ad aggressività del tumore, recidiva locale, metastatizzazione nonché resistenza a radio- e chemioterapia. Il fattore HIF-1a, attivato in condizioni di bassa concentrazione di ossigeno, attiva infatti l’espressione di vari geni di risposta all’ipossia, codificanti non solo per fattori angiogenici, ma anche per trasportatori del glucosio, enzimi metabolici, eritropoietina. Recentemente è stato dimostrato che diverse mutazioni di oncogeni e antioncogeni presenti nei tumori umani possono determinare l’attivazione di HIF-1 e di altri enzimi coinvolti nel metabolismo glucidico indipendentemente dall’ipossia. Ciò comporta, anche in condizioni di normossia, il verificarsi di un adattamento metabolico che determina in primo luogo aumentata captazione di glucosio; questo viene poi metabolizzato attraverso la via glicolitica, con elevata produzione di acido lattico, e usato come precursore per reazioni anaboliche, piuttosto che essere ossidato in condizioni di aerobiosi. Poiché questo fenotipo tumorale fu inizialmente descritto da Warburg nel 1920, è noto come effetto Warburg. L’adattamen-

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to a questo metabolismo alterato risulta in diversi vantaggi per le cellule tumorali: capacità di sopravvivenza in condizioni di limitato apporto di ossigeno; ridotta produzione di ROS durante la fosforilazione ossidativa; possibilità di usare NADPH, acetil-coA e ATP per la sintesi di macromolecole e organelli necessari per la produzione di nuove cellule.

CONTRIBUTO DI CELLULE MIDOLLARI E ALTRI TIPI CELLULARI ALL’ANGIOGENESI TUMORALE___________________________ Numerosi tipi di cellule possono essere mobilizzate dal midollo osseo ed essere indirizzate a siti di formazione di nuovi vasi, dove amplificano gli effetti proangiogenici. Tra questi vi sono diverse cellule ematopoietiche CD-45+, molte delle quali sono cellule monocitiche o mieloidi che esprimono marcatori endoteliali come VEcaderine, VEGFR-1, VEGFR-2 e tie-2. Esse esprimono anche recettori delle chemochine come CXCR-4, che lega lo stromal-cell-derived factor 1 (SDF-1, noto anche come CXCL-12), una chemochina che attira linfociti e altre cellule. Anche i granulociti neutrofili e i macrofagi possono avere proprietà proangiogeniche. Inoltre, vi sono popolazioni midollari non-ematopoietiche, CD45−, che sono progenitori endoteliali circolanti. Per un approfondimento sui modelli di espansione dei tumori e il ruolo delle cellule staminali (VEDI FOCUS ON:

MODELLI DI 28).

ESPANSIONE DEI TUMORI E CELLULE STAMI-

NALI, PAG.

IMMUNOBIOLOGIA

DEI TUMORI

Nella complessa rete di interazioni tra neoplasie e organismo ospite, i rapporti con il sistema immunitario sono sempre stati un’importante area di ricerca, anche in considerazione del possibile riscontro applicativo di tali osservazioni. Le moderne acquisizioni sperimentali sull’immunobiologia dei tumori costituiscono la base razionale per approcci sempre più selettivi di immunoterapia dei tumori umani. Esistono diverse evidenze a supporto dell’ipotesi che l’insorgenza di una neoplasia induca nell’ospite una risposta immune: • viene spesso rilevato nei tessuti tumorali un infil-

trato costituito in prevalenza da linfociti T, cellule natural killer (NK) o macrofagi; • i linfonodi drenanti la neoplasia sono spesso sede di iperplasia linfoide; • nei tessuti tumorali è spesso rilevabile un incremento di espressione, che appare mediato da cito-


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Oncologia clinica

FOCUS ON MODELLI

DI ESPANSIONE DEI TUMORI E CELLULE STAMINALI

Esistono diversi modelli teorici per spiegare l’espansione dei tumori, come l’espansione clonale lineare, l’espansione “a ondate” ecc. Si ritiene che, indipendentemente dal fatto che un tumore sia costituito ab initio da più cellule diverse (policlonale) o da tutte cellule originate da una cellula madre (monoclonale), è atteso che si accumulino mutazioni che conferiscono un vantaggio di crescita, favorendo l’espansione del clone mutato rispetto a quello non mutato. La prima mutazione può favorire la comparsa di una seconda mutazione con una probabilità di 10-6. La massa neoplastica sarà quindi eterogenea e costituita da cellule con diverse mutazioni acquisite progressivamente. A ciò può contribuire anche la chemio- o la radioterapia, che esercitano una pressione selettiva favorendo la sopravvivenza solo di cellule le cui mutazioni e consentendo, per esempio, di sfuggire all’apoptosi. Nei tessuti normali sono state dimostrate 3 popolazioni cellulari: 1. cellule staminali o clonogeniche, che hanno capacità illimitata di autoreplicarsi; esse generano 2. cellule figlie, dette progenitrici, con capacità invece limitata di crescita esponenziale, che a loro volta danno origine a 3. cellule terminalmente differenziate. Le cellule staminali possono dividersi con modalità “asimmetrica”, generando cioè due diverse cellule figlie: una staminale e una progenitrice non staminale; quest’ultima, attraverso duplicazioni “simmetriche”, genera cellule figlie che andranno incontro a differenziazione terminale. Diversi studi recenti hanno incominciato ad accreditare anche nei tumori l’esistenza di cellule staminali tumorali, benché per ora sia stata dimostrata ancora in poche neoplasie solide. Per instabiltà genetica, le cellule staminali tumorali possono subire mutazioni che sono trasmesse poi alle cellule discendenti, favorendo espansioni di popolazioni con quella peculiare caratteristica. Cosicché poche cellule staminali possono generare una massa tumorale eterogenea. Ciò non sarebbe possibile con mutazioni che colpiscono le cellule progenitrici, perché esse hanno possibilità di replica limitata, e certamente non avviene con quelle terminalmente differenziate. Studi preclinici recenti hanno dimostrato che, in alcuni tipi di tumori, persino le cellule endoteliali che formano i vasi del tumore possono avere origine da cellule tumorali, presumibilmente staminali, che “differenziano” in cellule endoteliali, aiutando così la formazione di nuovi vasi.

chine prodotte da cellule immunitarie, di antigeni del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) e di ICAM-1, una molecola di adesione. Paul Erlich ha formulato già all’inizio del secolo l’ipotesi che cellule tumorali potessero venire riconosciute e distrutte dal sistema immunitario. Tale ipotesi ha portato in seguito alla teoria della sorveglianza immunologica che ha tre corollari: 1. le cellule tumorali sono antigeniche; 2. vengono lisate nell’ambito di una risposta immu-

nitaria T-mediata analoga a quella responsabile per il rigetto dei tessuti trapiantati; 3. gli stati di immunodepressione sono associati a un incremento dell’incidenza di neoplasie.

Vi sono oggi varie evidenze che sembrano precludere la generalizzazione di tale teoria. È noto infatti che in condizioni di grave immunodepressione, quali si determinano nell’AIDS o indotte farmacologicamente per la prevenzione del rigetto di trapianti, vi è un incremento di insorgenza di leucemie e linfomi, ma non è sostanzialmente modificata l’incidenza della maggior parte dei tumori solidi. D’altra parte, in modelli animali sembra esistere una sorveglianza immunologica solo nei confronti di tumori fortemente antigenici, quali quelli indotti da virus o da cancerogeni chimici. Va però considerato che c’è evidenza sperimentale che i linfociti T siano in grado di riconoscere proteine cellulari mutate espresse in cellule tumorali con un meccanismo ristretto dall’MHC.


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CAPITOLO 2 – Crescita tumorale e disseminazione metastatica

Antigeni riconosciuti nelle cellule tumorali da linfociti T includono gli antigeni che mediano il rigetto di sarcomi dei roditori, prodotti di geni silenti (MAGE-1), proteine mutate ma non coinvolte nel processo di trasformazione, oncogeni cellulari mutati o riarrangiati, prodotti di geni oncosoppressori mutati (p53), prodotti virali. È importante considerare che i linfociti T possono riconoscere antigeni non necessariamente espressi sulla membrana cellulare, ma comunque associati agli antigeni dell’MHC. Antigeni tumorali riconosciuti da anticorpi monoclonali murini o di altra specie, definiti antigeni tumore-associati (TAA), sono espressi da neoplasie della stessa linea istogenetica e in genere non stimolano una risposta immunitaria nell’ospite. Sono TAA gli antigeni oncofetali, gli antigeni glicoproteici o glicolipidici e gli antigeni di differenziamento. Tra i TAA di maggiore interesse clinico-biologico vi è l’antigene carcinoembrionario (CEA), il cui ruolo fisiologico è mediare processi di adesione intercellulare. Esistono evidenze sperimentali che la risposta antitumorale può essere di tipo cellulare e umorale. La risposta antitumorale di tipo cellulare sembra coinvolgere linfociti T citotossici (CTL), natural killer (NK) e macrofagi CTL con la capacità di lisare cellule derivate da tumori umani autologhi; questi tipi cellulari sono stati isolati dal sangue periferico e dall’infiltrato mononucleare di numerose neoplasie umane. L’effetto citolitico viene in genere esercitato da linfociti CD-8+, mentre cellule CD-4+ potrebbero risultare attive attraverso la produzione di citochine in grado di stimolare l’attività citotossica cellulomediata. Il riconoscimento specifico dell’antigene nel contesto dell’MHC di classe I avviene per mezzo del recettore della cellula T (TCR). Le cellule NK esercitano un’attività citotossica non MHC-ristretta che si esplica in vitro nei confronti di linee cellulari tumorali stabilizzate o di cellule tumorali in coltura primaria. Un’importante evidenza del ruolo di queste cellule nella risposta antitumorale viene dall’osservazione che la depressione dell’attività NK si accompagna a un incremento dell’insorgenza di neoplasie. Va inoltre considerato che le cellule NK esprimono recettori per il frammento Fc delle immunoglobuline, per cui possono esercitare un effetto citolitico nei confronti di cellule che esprimono determinanti antigenici cui si leghino anticorpi (ADCC). L’esposizione all’IL-2 di linfociti circolanti (PBL) da soggetti sani o portatori di neoplasie induce attività citotossica nei confronti di cellule tumorali resistenti agli NK, che viene definita LAK. Quest’attività appare di particolare rilievo perché si esercita nei confronti delle cellule derivate

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da tumori solidi, che sono in genere refrattarie agli effetti citotossici degli NK. Infine, è importante considerare che anche cellule T esprimenti il TCR possono, in particolari condizioni, esercitare un’attività citotossica antitumorale non MHC-ristretta. Macrofagi attivati sembrano determinare un’attività citotossica con una certa selettività nei confronti delle cellule tumorali. Di particolare rilievo nell’attività antitumorale dei macrofagi appare la secrezione di una citochina, il tumor necrosis factor (TNF). Anche i macrofagi esprimono il recettore per il frammento Fc delle immunoglobuline e possono perciò partecipare a fenomeni di ADCC. Per quanto concerne l’immunità umorale, è chiaramente dimostrato che anticorpi reattivi con antigeni presenti sulle cellule tumorali possono determinare citolisi attraverso l’attivazione del complemento o ADCC in vitro. Per quanto vi siano evidenze per la produzione in vivo di anticorpi in grado di legare le cellule tumorali, non è ancora chiaro se tale risposta sia in grado di esercitare un effetto protettivo nei confronti dell’insorgenza di neoplasie. L’evasione (escape) del tumore dagli effetti protettivi del sistema immunitario può aver luogo attraverso vari meccanismi. Per esempio, i cosiddetti “checkpoint” immunitari rappresentano una sorta di posti di blocco in grado di frenare il sistema immunitario limitandone l’aggressività nei confronti delle componenti sane dell’organismo. Tali checkpoint, tuttavia, limitano l’attività del sistema immunitario anche nei confronti delle cellule tumorali, le quali, in alcuni casi, sono anche in grado di utilizzare tali freni molecolari indebolendo la risposta immunitaria. I recettori CTLA-4 (cytotoxic T-lymphocyte-associated antigen-4) e PD-1 (programmed cell death protein-1) sono espressi soprattutto dai linfociti T e rappresentano due delle numerose vie di checkpoint immunitario. L’attivazione di PD1, indotta dal legame con la proteina PD-L1, riduce pertanto la risposta immunitaria, T-mediata, nei confronti delle cellule tumorali, spesso in grado di produrre elevate quantità di PD-L1. Nuovi farmaci di tipo immunologico si basano proprio sulla possibilità di sbloccare i checkpoint immunitari, inducendo una “riattivazione” del sistema immunitario contro gli antigeni espressi sulle cellule tumorali: anticorpi monoclonali anti-CTLA-4 (impilimumab), anti-PD-1 (pembrolizumab, nivolumab, pidilizumab) o anti-PDL1 (lambrolizumab). Alcune di queste molecole hanno dimostrato un’elevata efficacia anche in neoplasie di difficile trattamento, come il melanoma e il tumore del polmone. La conoscenza delle basi cellulari e molecolari di tali eventi appare di particolare interesse, anche nella prospettiva di approcci sempre più se-


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Oncologia clinica

TABELLA 2.4 Meccanismi di resistenza al sistema immunitario da parte di cellule tumorali Modifiche della membrana cellulare • Riduzione dell’espressione di MHC di classe I, di molecole costimolatorie o di molecole di adesione. • Riduzione dell’espressione o mascheramento di TAA. Modifiche nella sensibilità cellulare intrinseca agli effettori linfocitari citotossici Secrezione di fattori con potere immunodepressivo • Fattori di crescita autocrini come il TGF-b hanno un forte potere di inibizione sull’attività citotossica cellulomediata. • La presenza di livelli elevati di TAA secreti nel siero può avere un effetto bloccante sul sistema immunitario. Alterazioni tissutali • Mancata infiltrazione dei tessuti tumorali da parte di cellule presentanti l’antigene (APC) necessarie per l’attivazione di cellule T helper.

lettivi di immunoterapia. La TABELLA 2.4 elenca i possibili meccanismi che le cellule neoplastiche sviluppano come resistenza agli effetti antitumorali del sistema immunitario.

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