Capitolo 9 Lo sviluppo emotivo e affettivo Obiettivi del capitolo ▮▮ ▮▮ ▮▮ ▮▮ ▮▮
Discutere gli aspetti di base dell’emozione Descrivere lo sviluppo delle emozioni Definire le variazioni del temperamento e il loro significato Spiegare lo sviluppo sociale precoce: riferimento e comprensione sociale Spiegare l’attaccamento e il suo sviluppo
LA STORIA DEL PADRE DI TOMMASO Negli anni Settanta Michael Lamb, uno tra i più autorevoli studiosi della figura paterna, definì i padri come “coloro che contribuiscono allo sviluppo del bambino, ma sono dimenticati”. Aveva ragione. Fino a pochi decenni fa il legame con la madre era considerato prioritario e capace di favorire un sano sviluppo del piccolo o, al contrario, di causare i problemi che avrebbero influenzato i comportamenti del bambino una volta cresciuto. Solo di recente si è allargato l’orizzonte della “famiglia” significativa per lo sviluppo del bambino e del ragazzo, fino ad inserirvi il padre e, come vedremo nel Capitolo 11, modelli di relazione triangolari (Madre-Bambino-Padre). Oggigiorno un numero crescente di padri lavora in casa o sta a casa dal lavoro per prendersi cura dei figli (Lamb, 2010; O’Brien e Moss, 2010). Tommaso è un bambino di un anno e suo padre si prende cura di lui durante il giorno. Sua madre lavora a tempo pieno lontano da casa e il padre è uno scrittore che lavora a casa. Il padre di Tommaso sta facendo un bel lavoro nel prendersi cura di lui. Tiene Tommaso vicino mentre scrive e passa molto tempo a parlargli e a giocare con lui. Sono felici insieme. Il padre di Tommaso guarda al futuro e immagina i giochi che farà Tommaso e le molte altre attività in cui lui si divertirà con Tommaso. Il proprio padre corrispondeva allo stereotipo dei padri degli anni ’50, che ritraeva gli uomini come emotivamente distanti, preoccupati del loro lavoro e non coinvolti nella vita dei figli. Ripensando a quanto poco tempo passava con il proprio padre, il papà di Tommaso vuole essere sicuro che suo figlio abbia con lui un’esperienza educativa e coinvolgente. Quando la mamma di Tommaso torna a casa la sera, passa molto tempo con il figlio. Il bambino mostra un attaccamento positivo sia alla madre che al padre. I suoi genitori hanno collaborato tra loro e si sono destreggiati con successo nelle loro carriere e programmi di lavoro per fornire a Tommaso una cura eccellente.
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322 Capitolo 9 ▮ Lo sviluppo emotivo e affettivo Per molti anni, nello studio sullo sviluppo dei bambini è stato dato poco spazio al concetto di emozione, che invece negli ultimi decenni è diventato sempre più importante nella concettualizzazione del bambino e delle sue competenze nel corso dello sviluppo (si vedano, per esempio, i lavori disponibili anche in italiano a cura di Harris, 1989 e Sroufe, 1995). Anche i bambini mostrano differenti stili emotivi, esibiscono temperamenti variabili e costruiscono legami affettivi con chi si prende cura di loro (caregiver). In questo capitolo vedremo i ruoli del temperamento e dell’attaccamento nello sviluppo, ma prima di tutto esamineremo l’emozione stessa, esplorandone le funzioni nella vita dei bambini e lo sviluppo dall’infanzia fino all’adolescenza. Esploreremo anche le prime interazioni sociali a cui il bambino partecipa e vedremo come queste contribuiscono al precoce sviluppo della comprensione sociale. Infine, discuteremo brevemente di alcuni problemi emozionali, come la depressione e il suicidio, nonché dello stress e delle strategie che il bambino adotta per farvi fronte (coping). ▮
INTRODUZIONE 9.1 Esplorando le emozioni Come immaginare una vita senza emozioni? L’emozione è il colore e la musica della vita, così come il legame che unisce le persone. Come definiscono e classificano le emozioni gli psicologi e perché sono importanti per lo sviluppo?
9.1.1 Che cosa sono le emozioni?
Emozione. Sentimento, o affetto, che sorge quando una persona si trova nel corso di un evento, di un’interazione che riveste una particolare importanza, specialmente per il suo benessere. La presenza di un’emozione è rivelata dalla manifestazione del comportamento, che riflette il piacere o il dispiacere dello stato d’animo o del momento che la persona sta vivendo.
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È difficile definire il termine emozione perché è difficile stabilire quando un bambino o un adulto sono in uno stato emozionale. Qui definiremo l’emozione come un sentimento, uno stato affettivo che si presenta quando una persona si trova nel corso di un evento, di un’interazione che riveste una particolare importanza, specialmente per il suo benessere. In diversi casi le emozioni coinvolgono la comunicazione delle persone con il mondo. Sebbene l’emozione consista in qualcosa di più della comunicazione, nell’infanzia molti aspetti della comunicazione sono l’avanguardia dell’emozione (Campos, 2009). La presenza di un’emozione è rivelata dalla manifestazione del comportamento che riflette il piacere o il dispiacere dello stato d’animo o del momento che la persona sta vivendo, ma le componenti che definiscono l’emozione non sono tutte oggettive e tangibili. Infatti, per quanto nella letteratura psicologica esistano definizioni molto diverse circa il concetto di emozione, vi è comunque accordo nel definirlo come un fenomeno complesso che deriva dall’interazione fra fattori soggettivi e oggettivi che possono essere considerati a diversi livelli di analisi: dalle risposte fisiologiche, come sudorazione e rossore, alle componenti della comunicazione non verbale, come le espressioni del volto o le posture, fino agli aspetti vissuti intimamente dalla persona. A questo proposito, però, le emozioni vanno distinte dagli stati d’animo, in quanto questi ultimi non sempre seguono eventi precisi e corrispondono a un umore diffuso, di cui si ha una consapevolezza più sfuocata e imprecisa, generalmente non accompagnato da modificazioni fisiologiche (Barone, 2007; Battacchi, 2004; D’Urso, 2006;). Le emozioni possono assumere forme
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specifiche come gioia, paura, rabbia e così via, in base al momento vissuto e possono variare in intensità: in una particolare situazione un bambino può, per esempio, mostrare un’intensa paura o solamente un timore moderato. Quando pensiamo alle emozioni, ci vengono in mente dei sentimenti risonanti come la furia o una gioia intensa. Ma le emozioni possono anche essere più sottili, come il senso di disagio in una situazione nuova o la sensazione di una mamma che tiene in braccio il suo bambino. Gli psicologi classificano in vari modi l’ampia gamma di emozioni, ma quasi tutte le classificazioni definiscono un’emozione come positiva o negativa (Izard, 2009). Le emozioni positive includono l’entusiasmo, la gioia e l’amore. Quelle negative l’ansia, la rabbia, il senso di colpa e la tristezza. Le emozioni sono influenzate dalla base biologica e dall’esperienza (Kagan, 2010). In The expression of emotions in man and animals (L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali), Charles Darwin (1872/1965) sosteneva che le espressioni facciali delle emozioni negli umani sono: (a) innate, non apprese; (b) universali, uguali in tutte le culture del mondo; (c) a base evoluzionistica, cioè servono alla sopravvivenza dell’individuo e della specie e si sono evolute dalle emozioni degli animali. Nella teoria evoluzionistica, l’evoluzione ha dotato gli esseri umani di un fondamento biologico per le emozioni. Oggi si ritiene ancora che le emozioni, soprattutto le espressioni facciali delle emozioni, abbiano un forte fondamento biologico che coinvolge lo sviluppo del sistema nervoso. Le emozioni sono collegate con le regioni del sistema nervoso umano a sviluppo precoce, incluse le strutture del sistema limbico e il cervello (De Haan e Matheson, 2009, Thompson, Easterbrooks e Walker, 2003). La capacità degli infanti di mostrare angoscia, eccitazione e rabbia riflette la comparsa precoce di questi sistemi cerebrali emozionali biologicamente radicati. Progressi significativi nelle risposte emotive dei bambini si verificano durante l’infanzia e l’età prescolare come il risultato di cambiamenti nei sistemi neurobiologici (incluse le regioni prefrontali della corteccia cerebrale) che possono esercitare un controllo sul più primitivo sistema limbico (Bell, Greene e Wolfe, 2010; Payne e Bacevalier, 2009; Perlman e Pelphrey, 2010). Man mano che i bambini si sviluppano, la maturazione della corteccia cerebrale permette un decremento dei cambiamenti d’umore imprevedibili e un incremento dell’autoregolazione delle emozioni. Durante l’adolescenza, però, i cambiamenti d’umore tornano ad aumentare per effetto dello sviluppo dell’amigdala (che è estensivamente coinvolta nei processi emozionali) e del protratto sviluppo della corteccia frontale (che è fortemente coinvolta nel ragionamento e nei processi di autoregolazione) (Paus, 2009). Le variazioni culturali rivelano il ruolo dell’esperienza nelle emozioni. La cultura di appartenenza influenza l’espressione delle emozioni attraverso le regole di espressione o esibizione (display rules), come vedremo tra breve. I ricercatori hanno visto che i bambini asiatici mostrano meno frequentemente e con minore intensità le emozioni positive e le negative rispetto ai bambini occidentali (Camras et al., 1998). Durante l’infanzia, i genitori asiatici incoraggiano i loro bambini a mostrare la propria riservatezza emozionale piuttosto che l’espressività delle emozioni (Cole e Tan, 2007). Ad esempio, i genitori giapponesi fanno in modo di evitare che i loro bambini siano coinvolti in esperienze emotivamente negative, mentre le madri occidentali sono più inclini a intervenire dopo che i loro bambini hanno sperimentato emozioni negative aiutandoli a fronteggiarle (Cole e Tan, 2007).
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Da quanto abbiamo detto è chiaro che i caregiver giocano un ruolo importante nella regolazione neurobiologica delle emozioni del bambino (Stern, 2010; Thompson, 2010). Per esempio, consolando il bambino quando piange ed è angosciato, i caregiver lo aiutano a regolare l’emozione e a ridurre il livello degli ormoni dello stress (Gunnar e Quevado, 2007). D’altra parte i genitori sono anche portatori di valori culturali che trasmettono ai loro figli nel corso delle interazioni, facendo così in modo che nelle emozioni dei bambini fattori biologici e culturali compenetrino gli uni negli altri. In breve, l’evoluzione biologica ha dotato gli esseri umani della possibilità di essere emotivi, ma la cultura e le relazioni interpersonali determinano delle differenze nelle esperienze emozionali. Come vedremo, l’enfasi sul ruolo delle relazioni nelle emozioni è al centro del punto di vista funzionalista.
9.1.2 L’approccio funzionalista all’emozione Alcuni teorici dello sviluppo oggi tendono a vedere le emozioni come il risultato dei tentativi degli individui di adattarsi alle richieste di specifici contesti (Saarni et al., 2006). Di conseguenza, le risposte emotive di un bambino non possono essere separate dalle situazioni che le hanno provocate, che rappresentano spesso contesti interpersonali. Ad esempio, le espressioni emotive svolgono la funzione importante di segnalare agli altri come ci si sente, regolando il comportamento di ognuno e giocando un ruolo cardine negli scambi sociali. Un’implicazione dell’approccio funzionalista, è che le emozioni sono fenomeni relazionali piuttosto che strettamente interni e intrapsichici (Kopp, 2011; Thompson, 2010). Vediamo alcuni modi in cui le emozioni svolgono la loro funzione nelle relazioni genitore-bambino. Gli inizi di un legame emotivo tra i genitori e un bambino sono basati su scambi di toni affettivi, come quando il bambino piange e il caregiver risponde in maniera sensibile. Alla fine del primo anno, l’espressione facciale della mamma – sia essa sorridente o apprensiva – influenza il bambino nell’esplorare o meno un ambiente non familiare (definiremo più avanti questo fenomeno con l’espressione social referencing). Le famiglie con un buon funzionamento spesso inseriscono l’umorismo nelle loro interazioni, spesso ridendo insieme e creando un’atmosfera emotivamente positiva per ridurre il conflitto. Inoltre, il fatto che i genitori riescano a creare nel bambino un umore positivo, agisce favorevolmente affinché il piccolo si conformi alle loro direttive. Una seconda implicazione dell’approccio funzionalista, è che le emozioni sono collegate in molti modi agli obiettivi individuali (Saarni et al., 2006). Un bambino che supera un ostacolo per raggiungere uno scopo sperimenta gioia, uno che deve arrendersi di fronte a un obiettivo irraggiungibile sperimenta tristezza e un bambino che deve affrontare ostacoli difficili per raggiungere un traguardo sperimenta rabbia. La specifica natura della meta, tuttavia, può influire sull’esperienza emotiva. Per esempio, l’evitamento della minaccia è collegato alla paura, il desiderio di espiare è legato alla colpa e quello di evitare l’esame degli altri alla vergogna. Gli scopi dei bambini, però, non sono uguali a quelli degli adulti e non lo sono nemmeno le loro emozioni. La vita emotiva di un bambino si sviluppa con l’età. Si può valutare lo sviluppo fisico di un bambino misurandone il peso e l’altezza, ma quali sono gli indicatori dello sviluppo emotivo? Un
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concetto chiave che riassume molti aspetti importanti dello sviluppo emotivo è quello della competenza emotiva.
9.1.3 La competenza emotiva
competenza emotiva. Si riferisce all’abilità di affrontare in maniera funzionale le proprie emozioni e quelle degli altri nell’ambito della vita quotidiana, mantenendo o modificando in modo adeguato e socialmente appropriato gli scambi con l’ambiente
Nel Capitolo 7, abbiamo brevemente descritto il concetto di intelligenza emotiva. Qui esamineremo un concetto relativamente vicino a quello, la competenza emotiva, che si focalizza sulla natura adattiva dell’esperienza emotiva. Il carattere adattivo delle emozioni si riverbera su cosa significhi essere emotivamente competenti. La competenza emotiva si riferisce all’abilità di affrontare in maniera funzionale le proprie emozioni e quelle degli altri nell’ambito della vita quotidiana, mantenendo o modificando in modo adeguato e socialmente appropriato gli scambi con l’ambiente (Grazzani Gavazzi, 2009). L’adeguatezza dell’intervento sulle emozioni proprie e altrui è prima di tutto determinata dalla cultura: a seconda del contesto culturale in cui ci si trova, una determinata manifestazione emotiva può essere più o meno adeguata. D’altra parte, però, è importante anche l’età e, di conseguenza, il livello di sviluppo del bambino. Non si può pretendere, ad esempio, che un bambino capisca e accetti le scene terrificanti di un film dell’orrore. La comprensione dell’emozione è mediata anche dal livello cognitivo raggiunto, come vedremo meglio tra breve. Carolyn Saarni (1999; Saarni et al., 2006) ritiene che per diventare emotivamente competenti sia necessario sviluppare un certo numero di abilità in contesti sociali Queste abilità della competenza emotiva (si veda Figura 9.1) definiscono le componenti ma non è detto che siano tutte presenti contemporaneamente: si può raggiungere la competenza in una componente e non in un’altra e ciascuna si sviluppa indipendentemente dalle altre. Man mano che i bambini acquisiscono queste abilità nei vari contesti, possono gestire con efficacia le loro emozioni, diventare più resilienti nel fare fronte a circostanze stressanti e sviluppare delle relazioni positive. La competenza emotiva è multi-sfaccettata e a base socio-relazionale: le abilità che definiscono la competenza emotiva sono necessarie negli scambi sociali che producono emozioni. Secondo Saarni (1999) gli scambi interpersonali sono il luogo in cui si definisce il significato delle
Consapevolezza dei propri stati emotivi. Capacità di riconoscere le emozioni degli altri. Conoscenza e utilizzo del lessico emozionale in modo appropriato dal punto di vista sociale e culturale. Sensibilità empatica e solidale alle esperienze emotive degli altri. Comprensione della differenziazione tra stato emotivo interno ed espressione esterna. Capacità di affrontare in maniera adattiva le emozioni negative utilizzando le strategie di autoregolazione che riducono l’intensità o la durata di tali stati emotivi (coping adattivo).
Figura 9.1 Le abilità della competenza emotiva.
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Consapevolezza che l’espressione delle emozioni gioca un ruolo importante sulla natura delle relazioni (regolazione interattiva delle emozioni). Autoefficacia emozionale.
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L’espressione delle emozioni. Abilità di comunicare gli stati emozionali attraverso il linguaggio verbale e non verbale.
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emozioni. Inoltre, le nostre relazioni interpersonali influenzano le nostre emozioni e le nostre emozioni, reciprocamente, influenzano le relazioni. Le abilità sopra descritte riguardano fondamentalmente tre aspetti, che Susan Denham (1998) ha definito come le tre dimensioni della competenza emotiva: l’espressione delle emozioni, la loro comprensione e la loro regolazione. L’espressione delle emozioni è l’abilità di comunicare gli stati emozionali attraverso il linguaggio verbale e non verbale. Il linguaggio verbale è riconosciuto come mezzo più sofisticato della trasmissione di concetti, idee, conoscenze, ma le persone producono quotidianamente comportamenti non verbali attraverso i quali manifestano i loro stati emotivi. Attraverso diversi canali comunicativi, come il volto, i gesti, la voce, l’uso dello spazio, o la prossemica posturale e il contatto corporeo, possiamo trasmettere più o meno consapevolmente agli altri le nostre emozioni. Questi segnali non verbali, consentono la traduzione di uno stato interno in un quadro espressivo visibile e riconoscibile dagli altri. Gesti e posture rivelano stati emotivi in modo più o meno esplicito. Per esempio la rabbia può essere espressa agitando le mani in maniera scoordinata, la vergogna per mezzo del gesto di coprirsi il volto con le mani. Per quanto riguarda la voce, essa è il canale su cui si esercita un minore controllo ed è considerata la fonte più attendibile per conoscere gli stati emotivi dell’interlocutore. Per esempio, una persona triste tenderà ad avere un tono di voce basso e lento, mentre una persona arrabbiata aumenterà il tono della voce (Anolli, 2002). Fra tutti gli indicatori emotivi citati, però, la mimica facciale rappresenta la modalità espressiva privilegiata: è attraverso il volto che “diciamo” quale emozione stiamo provando. All’interno del volto, infine, un ruolo importante nell’espressione delle emozioni spetta allo sguardo attraverso i movimenti degli occhi sia volontari sia attraverso quelli involontari come la dilatazione e il restringimento della pupilla o il battito delle palpebre (Barone, 2007). È a partire dall’espressione facciale delle emozioni che Izard (1977) nella sua teoria differenziale spiega lo sviluppo emotivo: le emozioni sono “pacchetti” innati, ciascuno con una configurazione specifica di sintomi fisiologici e con un’espressione facciale distintiva. In questa teoria classica perciò: (1) vi è una precisa corrispondenza tra esperienza soggettiva ed espressione facciale di ciascuna emozione; (2) per ciascuna emozione vi sono programmi neurali innati e universali e nel corso dello sviluppo la comparsa delle espressioni per le diverse emozioni corrisponde alla maturazione neurobiologica. A questa posizione innatista risponde Sroufe (1995) con la sua teoria della differenziazione, secondo la quale le emozioni non insorgono all’improvviso, ma per differenziazione da sistemi-precursori: il piacere come sistema per lo sviluppo della gioia, la circospezione per la paura e la frustrazione per la rabbia. In questa visione, il neonato con le sue espressioni facciali non esprime già emozioni vere e proprie, ma un precursore delle emozioni. Ad esempio, il neonato non è capace di provare rabbia, bensì una reazione generalizzata per stimoli che gli provocano malessere, come non potersi muovere. Per i primi 6 mesi questa reazione evolve in frustrazione e dopo i 6 mesi compare la rabbia vera e propria nei termini di una reazione per l’interruzione di un’azione volontaria e intenzionale del bambino. Al di là del ruolo delle componenti biologiche innate, l’espressione delle emozioni è governata dalle cosiddette regole di espressione o display rules che, sulla base delle convenzioni socio-culturali a cui si fa riferimento, dicono
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Regole di espressione (display rules). Si riferiscono a quando, dove e come le emozioni dovrebbero essere espresse; non sono universali, ma dipendono dalle diverse culture.
Comprensione delle emozioni. Capacità di dare significato a eventi emotivi propri e altrui, anche riconoscendone le cause. Queste possono essere sia esterne alla persona, sia interne come desideri, credenze, ricordi e valori morali.
Regolazione delle emozioni. Consiste nel controllare o attenuare efficacemente il proprio stato di attivazione o eccitamento psico-fisiologico (arousal) per adattarsi e raggiungere uno scopo.
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come le emozioni devono essere espresse affinché l’individuo sia adeguato al contesto da un punto di vista emotivo. Le regole di espressione si riferiscono a quando, dove e come le emozioni dovrebbero essere espresse; non sono universali, ma dipendono dalle diverse culture (Novi net al., 2009; Shiraev e Levy, 2010). È accentuando, attenuando, neutralizzando o simulando le modalità espressive, che ci si conforma alle regole dettate dalla cultura di appartenenza. Sono le relazioni interpersonali all’interno della famiglia che permettono l’acquisizione di queste regole. Come abbiamo visto, ad esempio, nelle culture orientali le regole relative all’espressione emotiva inducono gli individui ad attenuare o mascherare qualsiasi espressione emotiva, mentre nelle culture del bacino del mediterraneo le regole culturali danno indicazioni opposte. La comprensione delle emozioni è la capacità di dare significato a eventi emotivi propri e altrui. Capire le emozioni che si stanno provando e quelle degli altri serve per partecipare a scambi sociali adeguati (Denham, 1998). Importanti elementi che fanno parte della comprensione emotiva sono: la comprensione delle espressioni facciali, la comprensione e l’utilizzazione di un lessico psicologico che comprende un vocabolario emotivo, la comprensione delle emozioni complesse come orgoglio, ansia, vergogna e la comprensione della possibilità di poter provare più emozioni contemporaneamente e in alcuni casi in conflitto tra loro. Apparirà chiaro che la comprensione delle emozioni proprie e altrui è una parte importante di quella che nel Capitolo 6 abbiamo definito come la teoria della mente. La comprensione emotiva è connessa anche alla capacità di riconoscere quali siano le cause principali che determinano il manifestarsi di un’emozione. Queste possono essere sia esterne alla persona, sia interne come desideri, credenze, ricordi e valori morali. La comprensione delle diverse emozioni avviene in maniera graduale rispetto a ciascuno di questi aspetti. Le interazioni sociali sono lo strumento attraverso il quale si articola la conoscenza di sé e degli altri. Nel primo anno e mezzo, i bambini sviluppano la comprensione dell’espressione facciale e dei segnali emotivi e ne ricavano informazioni sulle relazioni interpersonali in atto. Dunn e colleghi (1991) si sono dedicati alla comprensione delle cause delle emozioni quali: felicità, collera, tristezza e paura in bambini di 4 anni, riferite ai rapporti con fratelli, genitori, amici. I risultati della loro ricerca mostrano che i bambini sono molto competenti nell’attribuire le cause delle emozioni a coloro con i quali intrattengono relazioni affettive importanti. Abbiamo poi la comprensione del ruolo dei ricordi: attraverso uno studio di Lagattura e Welmann (2001) si è notato che la maggior parte dei bambini tra i 5 e 6 anni, che ascoltavano delle storie in cui il protagonista provava tristezza, dopo un certo lasso di tempo ricordavano l’evento triste. Intorno ai 7-8 anni si sviluppa il ruolo dei valori morali come causa di emozioni. In uno studio di Grazzani Gavazzi, Antoniotti e Ornaghi (2007), si trova che bambini di 9-10 anni riescono a rievocare episodi in cui si sono sentiti in colpa o hanno provato vergogna come conseguenza di comportamenti inadeguati o sbagliati. La regolazione delle emozioni consiste nel controllare o attenuare efficacemente il proprio stato di attivazione o eccitamento psico-fisiologico (arousal) per adattarsi e raggiungere uno scopo. L’arousal implica uno stato
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di allerta o di attivazione, che può raggiungere livelli troppo alti per un funzionamento efficace. La rabbia, per esempio, spesso richiede una regolazione. È normale per un bambino battere i piedi e piangere in maniera incontrollabile o qualche volta fare le bizze, ma ci si preoccuperebbe se fossero i genitori a esibire le emozioni in questo modo. L’abilità nel controllare le proprie emozioni è strettamente legata all’espressione e alla comprensione emotiva ed è una dimensione chiave dello sviluppo (Denham et al., 2003; Rothbart e Bates, 2006; Thompson, 2006). I processi di regolazione emotiva possono essere interni al soggetto, attraverso processi di autoregolazione, o esterni al soggetto per cui la regolazione è attribuita a un’altra persona. Tali processi riguardano sia emozioni a valenza negativa come rabbia furiosa, paura e tristezza eccessiva associate a un vissuto spiacevole, sia emozioni positive come la gioia smisurata o l’orgoglio, in relazione a determinate regole culturali. In termini evolutivi, tra le dinamiche per la regolazione dell’emozione durante l’infanzia possiamo trovare: ▮▮ Stimoli da esterni a interni. I neonati fanno soprattutto affidamento su stimoli esterni, come i loro genitori, per regolare le emozioni. L’intervento dei genitori è fondamentale nel primo anno di vita: essi calmano i bambini quando sono agitati o in uno stato di sofferenza fisica (mal di pancia, fame, freddo), li cullano, li accarezzano, cercano di distrarli. Con la crescita e lo sviluppo di competenze sempre maggiori, i bambini sono in grado di impegnarsi nell’autoregolazione delle proprie emozioni. ▮▮ Strategie cognitive. Le strategie cognitive per la regolazione delle emozioni come il pensare alle situazioni sotto una luce positiva, l’evitamento cognitivo, lo spostamento e la focalizzazione dell’attenzione, aumentano con l’età. ▮▮ Attivazione (arousal) emotiva. Crescendo i bambini sono in grado di controllare il loro eccitamento emotivo (per esempio, il controllo delle esplosioni di rabbia). ▮▮ Scegliere e gestire contesti e relazioni. Crescendo i bambini imparano sempre più a selezionare e gestire situazioni e relazioni in modi utili a ridurre le emozioni negative. Con lo sviluppo, infatti, aumenta il controllo che i bambini possono esercitare sugli stimoli elicitanti emozioni negative; per esempio, con lo sviluppo motorio possono scappare da ciò che li spaventa. ▮▮ Fronteggiare lo stress. Man mano che i bambini crescono, sono sempre più capaci di sviluppare strategie per far fronte allo stress (strategie di coping). Naturalmente, vi sono ampie variazioni individuali nell’abilità dei bambini a modulare le loro emozioni e queste differenze spesso rimandano alle componenti del temperamento di cui parleremo nelle prossime pagine. Anche i genitori e i pari giocano un importante ruolo nello sviluppo emotivo, influenzando il processo di regolazione emotiva. In sintesi, per i principali approcci alla competenza emotiva questa è data da un insieme più o meno variegato di abilità diverse. Denham e colleghi (Halberstadt, Denham, Dunsmore, 2001) hanno anche provveduto a definire una competenza socio-affettiva che unisce insieme i concetti di competenza emotiva e quello di competenza sociale: sono diversi gli aspetti in cui è chiaro come l’individuo competente rispetto alle proprie emozioni – che le sa esprimere, le sa comprendere e le sa regolare – sia più competente anche nell’interazione sociale. Nelle interazioni tra pari, ad esempio, l’attivazione emotiva può essere molto forte, sia in senso positivo sia negativo, e la capacità di comprenderla negli altri e regolarla in se stessi è fondamentale per una buona riuscita delle interazioni.
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Anche Pons e Harris studiano la competenza emotiva come un insieme composito di abilità e a partire dal loro modello gerarchico di sviluppo delle nove distinte componenti che costituiscono la comprensione emotiva (riconoscimento, cause situazionali, ricordi, desideri, conoscenze, controllo dell’espressione, regolazione del provato, emozioni miste, emozioni morali) hanno messo a punto un test (Test of Emotion Comprehension – TEC) sottoposto a diverse validazioni (Pons et al., 2004) e di cui c’è anche una versione italiana (Albanese et al., 2006; Barone, 2007). Il TEC, adatto a bambini dai tre agli 11 anni, consiste nella presentazione di brevi storie per ciascuna delle quali al bambino è richiesto di attribuire un’emozione al personaggio principale scegliendo tra 4 figure di espressioni facciali quella che corrisponde meglio a ciò che prova il personaggio.
Ripasso e spunti di riflessione Discuti gli aspetti di base dell’emozione Ripasso ▮▮ Come si definisce l’emozione? ▮▮ Che cosa caratterizza l’approccio funzionalista all’emozione? ▮▮ Cosa costituisce la competenza emotiva? ▮▮ Cosa caratterizza l’espressione, la comprensione e la regolazione delle emozioni? Spunti di riflessione ▮▮ Ripensa alla tua infanzia e agli anni dell’adolescenza. Quanto eri efficace nel regolare le tue emozioni? Fai alcuni esempi. Com’è cambiata, crescendo, la tua capacità di regolare le emozioni? Spiegalo.
9.2 Lo sviluppo delle emozioni La vita emotiva di un adolescente è diversa da quella di un bambino? Quella di un bambino è diversa da quella di un neonato? Un neonato ha una vita emotiva? In questo paragrafo, delineeremo una panoramica dei cambiamenti delle emozioni dal periodo neonatale fino all’adolescenza, osservando non solo i cambiamenti nell’esperienza emotiva, ma anche lo sviluppo della competenza emotiva).
9.2.1 Prima infanzia Emozioni primarie. Si trovano negli umani e negli altri animali e compaiono nei primi sei mesi dello sviluppo del neonato. Esse includono la sorpresa, l’interesse, la gioia, la rabbia, la tristezza, la paura e il disgusto.
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Quali sono alcuni dei primi cambiamenti evolutivi nelle emozioni? Che funzione ha il pianto dei neonati? Quando cominciano a sorridere i neonati?
Le prime emozioni Uno dei principali esperti di sviluppo emotivo, Michael Lewis (2007, 2008) distingue tra emozioni primarie ed emozioni auto-consapevoli: ▮▮ Emozioni primarie (chiamate anche fondamentali): si trovano negli umani e negli altri animali; queste emozioni compaiono nei primi sei mesi
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Emozioni autoconsapevoli. Richiedono auto-consapevolezza che implica coscienza e un senso di “me”. Esse includono empatia, gelosia, imbarazzo, orgoglio, senso di colpa e vergogna e appaiono per la prima volta a circa 1 anno e mezzo-2 anni. Alcune implicano oltre che la consapevolezza di sé anche quella dell’altro.
dello sviluppo del neonato. Esse includono la sorpresa, l’interesse, la gioia, la rabbia, la tristezza, la paura e il disgusto. ▮▮ Emozioni auto-consapevoli o self-conscious emotions (chiamate anche secondarie o sociali): richiedono auto-consapevolezza che implica coscienza e un senso di “me”. Queste emozioni includono empatia, gelosia, imbarazzo, orgoglio, senso di colpa e vergogna e secondo Lewis appaiono per la prima volta a circa 1 anno e mezzo-2 anni. Alcuni esperti di emozioni chiamano alcune di queste emozioni, come l’imbarazzo, l’orgoglio, il senso di colpa e la vergogna, emozioni che implicano la coscienza dell’altro (otherconscious emotions), perché esse implicano la reazione emotiva degli altri quando vengono espresse e pertanto sono collegate oltre che al senso di sé anche al senso dell’altro (Saarni et al., 2006). Per esempio, il fatto che i bambini inizino a mostrare orgoglio quando completano con successo un compito è collegato all’approvazione dei genitori. La Figura 9.2 mostra dei bambini che esprimono alcune delle emozioni che abbiamo descritto. Ricercatori come Joseph Campos (2009) e Michael Lewis (2008) dibattono sulla prima comparsa e sul successivo sviluppo nell’infanzia, di alcune delle emozioni di cui abbiamo parlato. Un aspetto controverso riguarda, ad
Figura 9.2 L’espressione di emozioni diverse nei bambini.
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Gioia
Tristezza
Paura
Sorpresa
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esempio, quando certe emozioni sono espresse per la prima volta dai bambini. Consideriamo la gelosia. Alcuni ricercatori ritengono che la gelosia non emerga prima dei 18 mesi d’età approssimativamente (Lewis, 2007), mentre altri enfatizzano il fatto che essa sia espressa molto tempo prima (Draghi-Lorenz, Reddy e Costall, 2001). In una ricerca di Hart e Carrington (2002) bambini di 6 mesi osservavano la loro madre che dava attenzione a una bambola che sembrava vera (abbracciandola o cullandola, ad esempio) o a un libro. Quando le madri davano attenzione a una bambola, i loro bambini mostravano maggiormente emozioni negative, come rabbia o tristezza, con le quali essi esprimevano la loro gelosia. È anche vero, però, che con le espressioni di rabbia e tristezza i bambini possono anche aver voluto esprimere la frustrazione derivante dal non poter giocare con quella nuova bambola. Il dibattito circa l’esordio di un’emozione come la gelosia illustra la complessità e la difficoltà di identificare la prime emozioni. Alcuni esperti dello sviluppo emotivo come Jerome Kagan (2010) concludono che l’immaturità strutturale del cervello infantile rende poco probabile che emozioni come il senso di colpa, l’orgoglio, l’empatia, la vergogna e la gelosia – che implicano il pensiero – possano essere esperite prima dell’anno di vita. Infatti, sia Kagan (2010) sia Campos (2009) ritengono che le cosiddette emozioni auto-consapevoli non compaiano prima del primo anno di vita, e questa considerazione è sempre più condivisa dagli psicologi evolutivi. Pertanto non è ritenuto probabile da tutti gli studiosi che le espressioni considerate indice della precoce gelosia degli infanti di 6 mesi da Hart e Carrington (2002) siano davvero una prova della precoce esperienza della gelosia.
Espressioni emotive e relazioni sociali Come abbiamo già detto, le espressioni emotive sono parte integrante delle interazioni che coinvolgono gli infanti. L’abilità dei neonati nel comunicare le proprie emozioni permette l’instaurarsi di interazioni coordinate con chi si prende cura di loro e l’inizio di un legame emotivo (Thompson, 2010; Thompson e Newton, 2009). Non solo i genitori cambiano le loro espressioni emotive in risposta alle espressioni dei neonati, ma sembra che anche i neonati modifichino le proprie in risposta a quelle dei loro genitori. In altre parole, queste interazioni sono mutualmente regolate (Bridgett et al., 2009). Grazie a questa coordinazione, tali interazioni sono descritte come reciproche o sincronizzate anche quando il bambino è molto piccolo e non è ancora in grado d’inserirsi intenzionalmente in interazioni comunicative con l’adulto. Genitori sensibili e responsivi aiutano i loro bambini a sviluppare la competenza emotiva, sia che rispondano in modo angosciato sia che esprimano felicità (Thompson e Newton, 2009). Pianti e sorrisi sono due espressioni emotive che i neonati utilizzano quando interagiscono con i genitori e sono le prime forme di comunicazione emotiva.
Il pianto Il pianto è il meccanismo più importante che i neonati hanno a disposizione per comunicare con il mondo. Il primo pianto permette di verificare che i polmoni del neonato si riempiono d’aria e, inoltre, i pianti possono fornire informazioni sul sistema nervoso centrale. I neonati spesso tendono a rispondere con
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il pianto ed espressioni facciali negative quando sentono altri neonati piangere (Dondi, Simion e Caltran,1999). I neonati hanno almeno tre tipi di pianto: Pianto di base. Un modello ritmico che consiste generalmente di un pianto, un silenzio più breve, un fischio inspiratorio più corto che ha una tonalità più alta del pianto principale, e poi una breve pausa prima del pianto successivo. Pianto di rabbia. Un pianto simile a quello di base ma con una maggiore quantità d’aria spinta attraverso le corde vocali (associata a esasperazione o rabbia). Pianto di dolore. Un’improvvisa comparsa di un pianto sonoro senza la presenza di un lamento preliminare e un lungo pianto iniziale seguito dal trattenimento del respiro per un periodo prolungato. Sorriso endogeno o riflesso. Un sorriso che non avviene in risposta a stimoli esterni. Si presenta nel primo mese dopo la nascita, generalmente durante periodi di sonno irregolare, non quando il neonato è in stato vigile. Sorriso esogeno. Un sorriso prodotto da sveglio in risposta a stimoli acustici o visivi, come il volto o la voce, indifferenziati. Sorriso sociale. Un sorriso che si verifica come risposta specifica alle persone familiari con le quali si instaura uno scambio reciproco.
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▮▮ Pianto di base: un modello ritmico che generalmente consiste in un pianto, seguito da un silenzio più breve, poi un fischio più corto che ha una tonalità più alta del pianto principale e un’altra breve pausa prima del pianto successivo. Alcuni studiosi del comportamento infantile pensano che la fame sia una delle condizioni atte a stimolare il pianto di base. ▮▮ Pianto di rabbia: una variazione del pianto di base in cui viene spinta una maggiore quantità di aria attraverso le corde vocali. ▮▮ Pianto di dolore: un improvviso iniziale lungo pianto sonoro seguito dal trattenimento del respiro, senza la presenza di un lamento preliminare. Il pianto di dolore è provocato da stimoli molto intensi. La maggior parte degli adulti è in grado di stabilire se i pianti di un neonato hanno un significato di rabbia o di dolore (Zeskind, Klein e Marshall, 1992). I genitori possono distinguere meglio i pianti del proprio bambino che quelli di un altro ed è proprio il fatto che il pianto funga da segnale per il caregiver che garantisce l’instaurarsi delle prime interazioni e delle relazioni affettive.
Il sorriso Sorridere è un altro mezzo che i bambini hanno a disposizione per comunicare le emozioni. Esso acquista un significato particolare nello sviluppo di nuove abilità sociali ed è un segnale sociale di cruciale importanza (Campos, 2009). Si possono distinguere tre tipi di sorriso: ▮▮ Sorriso endogeno o riflesso: un sorriso che non avviene in risposta a stimoli esterni e appare durante il primo mese di vita, generalmente durante il sonno. ▮▮ Sorriso esogeno: un sorriso prodotto da sveglio in risposta a stimoli visivi o acustici, soprattutto il volto e la voce dei genitori che, gratificati, iniziano a trattare il bambino come attivo partner sociale. Gli stimoli in grado di produrlo sono ancora indifferenziati. ▮▮ Sorriso sociale: un sorriso che si verifica come risposta specifica alle persone familiari con le quali si instaura uno scambio reciproco. Compare precocemente a 4-6 settimane di vita in risposta alla voce del caregiver (Campos, 2005). Recentemente Daniel Messinger (2008) ha descritto il percorso evolutivo del sorriso infantile. Dai 2 ai 6 mesi dopo la nascita il sorriso sociale aumenta in modo considerevole sia come sorriso iniziato dal bambino sia come risposta al sorriso degli altri. Dai 6 ai 12 mesi di età i sorrisi che associano il cosiddetto segno di Duchenne (la costrizione dei muscoli degli occhi) e l’apertura della bocca, sono esibiti in mezzo al divertimento delle interazioni e del gioco con i genitori. Nel secondo anno il sorriso continua ad aumentare la sua comparsa tanto nelle interazioni positive con i genitori quanto nelle interazioni con i pari. Inoltre i bambini sono sempre più consapevoli del significato sociale dei sorrisi, specialmente nella loro relazione con i genitori. Gli infanti si impegnano anche in sorrisi anticipatori, nei quali si comunica una preesistente emozione positiva, dapprima sorridendo a un oggetto e poi girando il sorriso verso un adulto. Uno studio recente rivela che questo tipo di sorriso a 9 mesi di età è correlato alla valutazione dei genitori circa la competenza sociale dei loro figli a due anni e mezzo (Parlade et al., 2009).
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Chi alla gioia si vuol aggrappare La vita alata va ad annientare Ma chi bacia la gioia nel suo volare Vive nell’eterna luce solare. William Blake Poeta inglese, XIX secolo
Paura dell’estraneo. Paura e diffidenza del bambino verso l’estraneo: sentimenti che tendono a presentarsi nella seconda metà del primo anno di vita.
Ansia da separazione. Si verifica quando i bambini sperimentano la paura di venire separati dal caregiver. Consiste nel pianto o in altri segni di sofferenza all’allontanamento del caregiver.
La paura Una delle prime emozioni del bambino è la paura, che generalmente appare per la prima volta a 6 mesi e raggiunge l’apice a circa 18 mesi. Bambini maltrattati o abbandonati, però, possono mostrare paura anche prima dei tre mesi (Campos, 2005). Ricercatori hanno trovato che la paura degli infanti è collegata al senso di colpa, all’empatia e a una bassa aggressività a 6-7 anni di età (Rothbart, 2007). L’espressione più comune della paura di un infante è nota come paura dell’estraneo, per effetto della quale il bambino mostra paura e diffidenza verso gli sconosciuti. La paura dell’estraneo di solito si manifesta gradualmente. La prima volta appare attorno ai 6 mesi sotto forma di reazioni di diffidenza. A 9 mesi tale paura è spesso più intensa e continua ad aumentare fino al primo anno del bambino (Scher e Harel, 2008). Non tutti i bambini mostrano angoscia quando incontrano un estraneo. Oltre alle variazioni individuali, il fatto che un bambino mostri la paura dell’estraneo dipende anche dal contesto sociale e dalle caratteristiche dell’estraneo (Kagan, 2008). Si è visto, infatti, che i bambini manifestano meno paura quando sono in un ambiente familiare. Per esempio, in uno studio, bambini di 10 mesi mostravano un livello più basso di ansia quando incontravano un estraneo a casa loro, mentre il livello aumentava molto quando lo incontravano in un laboratorio di ricerca (Sroufe, Waters e Matas, 1974). E ancora, i bambini manifestano meno paura dell’estraneo quando sono seduti sulle gambe delle loro madri rispetto a quando sono su una sedia distante dalle mamme (Bohlin e Hagekull, 1993). Pertanto sembra che quando i bambini si sentono sicuri, siano meno inclini a esibire la paura dell’estraneo. Sull’ansia dei bambini influisce anche chi è l’estraneo e come si comporta. I bambini hanno meno paura se gli estranei sono bambini che se sono adulti; hanno anche meno timore di estranei sorridenti, amichevoli ed espansivi che di estranei passivi e seri (Bretherton, Stolberg e Kreye, 1981). Oltre alla paura dell’estraneo, i bambini sperimentano un’altra paura anch’essa connessa con la sicurezza del legame di attaccamento (come vedremo fra breve), la paura di essere separati da chi si prende cura di loro (Scher e Harel, 2008). Il risultato è l’ansia da separazione (o protesta da separazione) consistente nel pianto o in altri segni di sofferenza all’allontanamento del caregiver. Normalmente l’ansia da separazione compare durante la seconda metà del primo anno di vita (quando si forma anche il legame affettivo studiato dai teorici dell’attaccamento), si manifesta prevalentemente verso i 14-20 mesi raggiungendo il picco a circa 15 mesi (Kagan, 2008) e gradualmente decresce durante l’infanzia e il periodo prescolare. Diversi studi hanno mostrato che questa reazione emotiva è universale, manifestata dai bambini di tutte le culture, e raggiunge il suo picco tra i 13 e i 15 mesi, come risultato anche dallo studio di Kagan, Kearsley e Zelazo (1978) in quattro differenti culture. Come indica la Figura 9.3, la percentuale di bambini che sperimentano l’ansia da separazione varia in base alla cultura, ma il picco viene raggiunto circa alla stessa età, subito prima della metà del secondo anno di vita.
La regolazione emotiva Durante il primo anno di vita, il bambino sviluppa gradualmente la capacità di inibire o attenuare l’intensità e la durata delle reazioni emotive
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Figura 9.3 L’ansia di separazione in quattro culture Notare che l’ansia da separazione presentava un picco circa nello stesso periodo in tutte quattro le culture di questo studio (dai 13 ai 15 mesi d’età). Tuttavia, c’era una percentuale più alta (100%) di bambini in una cultura boscimana africana che manifestava ansia di separazione rispetto a solo il 60% dei bambini indios in Guatemala e dei bambini dei kibbutz in Israele.
Percentuale di bambini che piangevano quando la madre si allontanava
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100 Boscimani africani 80 Antigua (Guatemala) 60
40
20
Indios guatemaltechi
Israeliani dei Kibbutz
0 5
10
15
20
25
30
35
Età (mesi)
(Eisenberg, Spinrad e Smith, 2004). Fino dalla prima infanzia, i bambini mettono in bocca il loro pollice per consolarsi, ma inizialmente i neonati hanno bisogno dell’aiuto del caregiver per regolare le loro emozioni; il caregiver culla il bimbo per addormentarlo, gli canta la ninnananna, lo accarezza dolcemente e così via. È chiaro che l’azione dei caregiver influenza la regolazione neurobiologica delle emozioni da parte degli infanti (Saarni et al., 2006). Si è visto, ad esempio, che consolando il bambino, i caregiver modulano dall’esterno le sue emozioni e riducono il livello degli ormoni dello stress (De Haan e Gunnar, 2009). Dalla regolazione esterna da parte dei caregiver si aiuta il bambino a sviluppare modalità interne di autoregolazione. Molti teorici dello sviluppo ritengono che sia una buona strategia consolare un bambino, prima che entri in uno stato emotivo intenso, agitato e incontrollato (Thompson, 1994). Durante il secondo anno di vita, quando i bambini si sentono agitati, qualche volta reindirizzano la loro attenzione o si distraggono per ridurre l’attivazione (arousal) (Grolnick, Bridges e Connell, 1996). Dai 2 anni d’età, i bambini possono utilizzare il linguaggio per definire lo stato d’animo e il contesto che li turba (Kopp e Neufeld, 2002). Un bambino potrebbe dire: “Male, cane paura”. Questo tipo di comunicazione sulle emozioni da una parte aiuta il caregiver a sostenere il bambino nel regolare l’emozione. Il contesto può influenzare la regolazione emotiva (Thompson, 2010). I bambini spesso sono disturbati dalla stanchezza, dalla fame, dall’ora del giorno, da chi c’è attorno e da dove sono. Essi devono imparare ad adattarsi a diversi contesti che richiedono una regolazione emotiva. Successivamente, man mano che i bambini crescono appaiono nuove esigenze e i genitori modificano le loro aspettative sulle capacità di autoregolazione emotiva del loro bambino. Per esempio, un genitore può reagire con calma se un bambino di 6 mesi si mette a piangere forte in un ristorante, ma può reagire in maniera molto diversa se a farlo è un bambino di un anno e mezzo. Consolare o non consolare: è giusto dare attenzione e consolazione a un neonato che piange o si rischia di viziarlo? Molti anni fa, il
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comportamentista John Watson (1928) sosteneva che i genitori utilizzavano troppo del loro tempo nel dare risposta al pianto del bambino. Di conseguenza, diceva, i genitori premiano il pianto e ne aumentano l’incidenza. Alcuni ricercatori hanno riscontrato che una risposta del caregiver rapida e di consolazione al pianto lo aumentava (Gewirtz, 1977). Al contrario, gli studiosi Mary Ainsworth (1979) e John Bowlby (1989) hanno sostenuto che non si risponde mai troppo al pianto del bambino nel primo anno di vita. Essi ritengono che una risposta rapida di consolazione sia un ingrediente importante nello sviluppo di un forte legame tra il neonato e il suo caregiver. In uno degli studi della Ainsworth, i bambini le cui madri rispondevano in modo rapido al loro pianto a 3 mesi d’età, piangevano poi meno nel primo anno di vita (Bell e Ainsworth, 1972). La questione sul se e come i genitori dovrebbero rispondere al pianto di un neonato è tuttora caratterizzata da controversie (Alvarez, 2004; Hiscock e Jordan, 2004; Lewis e Ramsay, 1999). Tuttavia, i teorici dello sviluppo sono sempre più convinti che, sebbene l’infante non debba essere viziato nel suo primo anno di vita, i genitori dovrebbero consolarlo quando piange, perché quest’azione può aiutare i bambini a sviluppare un senso di fiducia e un attaccamento sicuro al caregiver.
9.2.2 Seconda infanzia La consapevolezza di sé dei bambini piccoli è collegata all’abilità di sentire un’ampia gamma di emozioni. I bambini piccoli, come gli adulti, sperimentano molte emozioni nel corso di una giornata. A volte provano anche a dare un senso alle reazioni emotive degli altri e a controllare le proprie emozioni. I genitori e i pari giocano un ruolo importante nello sviluppo emotivo dei bambini.
lessico emotivo. È una componente della competenza emotiva e consiste nell’insieme dei termini del vocabolario che il bambino utilizza per riferirsi a emozioni provate da se stesso e dagli altri.
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L’espressione delle emozioni. Ritorniamo alla nostra descrizione delle emozioni auto-consapevoli e al dibattito conseguente alla datazione della loro prima comparsa: non prima del primo anno di vita come ritengono Lewis (2008) o Kagan (2010), oppure già nelle espressioni dei primi mesi di vita sono ravvisabili esperienze emotive riconducibili a questo tipo di emozioni? Per sperimentare emozioni auto-consapevoli come imbarazzo, orgoglio, vergogna e senso di colpa occorre che i bambini siano in grado di rivolgersi a se stessi e di avere consapevolezza di sé come esseri distinti dagli altri (Lewis, 2007). Pertanto le emozioni auto-consapevoli non compaiono nello sviluppo del bambino prima che appaia l’auto-consapevolezza a circa 18 mesi di vita. Durante gli anni prescolari, emozioni come l’orgoglio e il senso di colpa diventano più comuni. Esse sono influenzate soprattutto dalle risposte dei genitori al comportamento dei bambini e dal modo con cui i genitori influenzano l’interiorizzazione delle norme sociali da parte dei figli. Per esempio, un bambino può sperimentare un senso di colpa quando un genitore dice: “Dovresti sentirti cattivo a picchiare tua sorella”. Nell’ambito dell’espressione delle emozioni spetta un posto di primo piano, durante gli anni prescolari, al lessico emotivo che è una componente della competenza emotiva e consiste nell’insieme dei termini del vocabolario che il bambino utilizza per riferirsi a emozioni provate da se stesso e dagli altri.
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Tra i 2 e i 4 anni, i bambini aumentano considerevolmente il numero di termini che utilizzano per descrivere le emozioni anche se la verbalizzazione delle emozioni ha le sue radici evolutive nel periodo preverbale (Baumgartner, Devescovi e D’Amico, 2000; Battacchi, 2004). Se le parole emotive utilizzate dai bambini inizialmente riguardano stati interiori dell’io e alcuni aspetti osservabili dell’esperienza altrui, nel corso del secondo anno con l’esplosione del vocabolario (vedi Capitolo 8) anche il linguaggio emotivo si arricchisce e i bambini parlano sia dei loro che degli altrui stati emotivi, mostrando progressivamente nel corso del terzo anno una sempre maggiore abilità nel comprendere e definire il livello psicologico delle altre persone, fino a sviluppare la capacità di inferire correttamente le cause e le conseguenze delle emozioni (Denham, Bassett e Wyatt, 2007). In una ricerca pionieristica sull’utilizzo del lessico emozionale in relazione a eventi che accadono in contesti familiari, Bretherton e Beeghly (1982) osservarono che all’età di 20 mesi alcuni bambini utilizzavano parole che fanno parte del linguaggio emotivo. La maggior parte di queste riguarda l’io: 5 dei 30 bambini della ricerca utilizzavano la parola felice quando erano apparentemente felici, e 2 di loro utilizzavano la parola spaventato quando effettivamente avevano paura. Nel panorama italiano, Camaioni e Longobardi (1997) trovarono che dei 21 bambini di 20 mesi partecipanti alla loro ricerca, il 19% utilizzava termini riferiti a emozioni negative, mentre il 33% utilizzava termini riferiti a emozioni positive. Inoltre, le autrici trovarono che la maggior parte dei bambini produceva lo stesso termine in riferimento sia a se stesso che agli altri.
La comprensione delle emozioni Tra i cambiamenti più importanti nello sviluppo emotivo della seconda infanzia vi è, insieme al lessico emotivo di cui abbiamo appena parlato, l’aumento della comprensione delle emozioni (Carpendale e Lewis, 2011; Hughes e Ensor, 2010). Durante il periodo prescolare aumenta la comprensione del fatto che certe situazioni è probabile che determinino particolari emozioni, che le espressioni facciali indichino specifiche emozioni, che le emozioni influenzino il comportamento e che possono essere usate per influenzare le emozioni degli altri (Cole et al., 2009). Una recente meta-analisi ha rivelato che la conoscenza delle emozioni (come la comprensione dei cues emozionali, ad esempio quando un bambino capisce che un coetaneo si sente triste per essere stato lasciato fuori da un gioco) era correlata positivamente alla competenza sociale a 3-5 anni (come offrire una risposta empatica al bambino lasciato fuori dal gioco) e correlata negativamente a problemi internalizzanti (alto livello di ansia, ad esempio) ed esternalizzanti (alto livello di comportamenti aggressivi, per esempio) (Trentacosta e Fine, 2009). Uno studio recente ha anche trovato che bambini piccoli capiscono che le emozioni sono collegate ai loro comportamenti prosociali (Ensor, Spencer e Hughes, 2010). Quando hanno 4 o 5 anni, i bambini mostrano un incremento nella capacità di riflettere sulle emozioni. Essi iniziano anche a comprendere che lo stesso evento può suscitare sentimenti diversi in persone diverse e, inoltre, mostrano una consapevolezza crescente del bisogno di gestire le proprie emozioni per conformarsi agli standard sociali. E dai 5 anni la maggior parte dei bambini riesce a identificare accuratamente le emozioni prodotte dalle diverse circostanze e a descrivere le strategie che essi possono chiamare in causa per far fronte agli eventi stressanti di ogni giorno (strategie di coping) (Cole et al., 2009). La Figura 9.4 riassume le caratteristiche del linguaggio usato dai bambini per parlare delle emozioni e della comprensione che hanno di esse.
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Figura 9.4 Alcune caratteristiche del linguaggio usato dai bambini per parlare di emozioni ed esprimere la comprensione che hanno di esse
ETÀ APPROSSIMATIVA DEL BAMBINO Da 2 a 4 anni
DESCRIZIONE ▮▮ Aumenta più rapidamente il vocabolario delle emozioni. ▮▮ Riesce a dare correttamente un nome alle emozioni più semplici proprie e altrui e parla di emozioni passate, presenti e future. ▮▮ Parla delle cause e delle conseguenze di alcune emozioni e identifica le emozioni associate a certe situazioni. ▮▮ Usa il linguaggio emotivo nel gioco immaginario.
Da 5 a 10 anni
▮▮ Mostra un’accresciuta capacità di riflettere verbalmente sulle emozioni e di considerare le relazioni più complesse tra emozioni e situazioni. ▮▮ Comprende che lo stesso evento può suscitare sentimenti diversi in persone diverse e che le sensazioni talvolta permangono a lungo dopo gli eventi che le hanno provocate. ▮▮ Dimostra una consapevolezza crescente sul controllo e la gestione delle emozioni in accordo con i modelli sociali
La regolazione delle emozioni La regolazione delle emozioni gioca un ruolo chiave nell’abilità dei bambini di gestire le richieste e i conflitti che devono affrontare mentre interagiscono con gli altri (Cole et al., 2009; Eisenberg, 2010; Lewis, Todd e Xu, 2011). Ma esploriamo il ruolo giocato dai genitori e dai pari nella regolazione delle emozioni.
Parenting e sviluppo emozionale dei bambini I genitori possono aiutare i bambini a imparare a regolare le proprie emozioni (Grusec, 2011; Grusec e Davidor, 2010). In base a come essi parlano delle emozioni ai loro bambini, il loro approccio può essere descritto o come allenamento all’emozione o come rifiuto dell’emozione (Gottman, 2009). La distinzione tra i due approcci è evidente nel modo con cui i genitori si occupano delle emozioni negative dei loro bambini (rabbia, frustrazione, tristezza e così via). I genitori che allenano all’emozione monitorano le emozioni dei loro bambini, considerano quelle negative come opportunità d’insegnamento, aiutano i figli a dare un nome alle emozioni e insegnano loro ad affrontarle efficacemente. Al contrario, i genitori che rifiutano l’emozione tendono a negare, ignorare o cambiare le emozioni negative. Quando interagiscono con i figli, i genitori che allenano all’emozione sono meno rifiutanti, usano più incoraggiamenti e lodi, e sono più accudenti dei genitori che rifiutano l’emozione (Gottman e DeClaire, 1997). Paragonati ai bambini di genitori con rifiuto delle emozioni, i figli di adulti con allenamento all’emozione risultano
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più in grado di fornirsi sostegno psicologico quando sono tristi, di regolare i propri stati affettivi negativi e di focalizzare la propria attenzione; hanno anche meno problemi di natura comportamentale. Uno studio recente ha messo in evidenza che avere dei genitori che rifiutano l’emozione era correlato a una regolazione emotiva povera da parte dei bambini (Lunkenheimer, Shields e Cortina, 2007), pertanto l’allenamento all’emozione è funzionale a imparare a gestire le proprie emozioni in modo efficace. Un problema che i genitori affrontano è che i bambini piccoli difficilmente vogliono parlare delle loro difficoltà emotive, come provare ansia o mettere in atto comportamenti negativi. Tra le strategie che i bambini usano per evitare queste conversazioni vi sono: non parlare di tutto, cambiare argomento, spingere via o scappare via. In una ricerca Ross Thompson e colleghi (2009) hanno trovato che era più probabile che i bambini si aprissero a discutere delle loro difficoltà emotive, quando avevano un attaccamento sicuro alla madre e quando la loro madre conversava con loro in modo da accettare e avvalorare i loro punti di vista. Nella vita dei bambini imparare a esprimere alcuni sentimenti e a mascherarne altri è una lezione ordinaria e giornaliera. I genitori, gli insegnanti e gli altri adulti possono aiutare i bambini parlando con loro per aiutarli a far fronte allo stress, alla tristezza, alla rabbia o al senso di colpa. I bambini che si arrabbiano perché devono aspettare il loro turno, o che ridono quando un altro bambino piange perché è caduto e si è sbucciato un ginocchio, possono essere incoraggiati a considerare i sentimenti degli altri e ai bambini che si vantano per una vittoria può essere ricordato quanto è triste perdere.
Regolazione delle emozioni e relazioni tra pari Le emozioni giocano un forte ruolo sul successo delle relazioni tra pari (Howes, 2009). Soprattutto la capacità di modulare le proprie emozioni è un’abilità importante di cui i bambini possono avvantaggiarsi nelle loro relazioni con i pari. I bambini volubili ed emotivamente negativi (spesso tristi, “musoni”, permalosi, con la tendenza ad arrabbiarsi facilmente) sperimentano un forte rifiuto da parte dei pari, mentre i bambini emotivamente positivi (spesso sorridenti, con la tendenza a non prendersela per scherzi o insulti) sono più popolari (Stocker e Dunn, 1990). La regolazione emotiva è un aspetto importante della competenza sociale. In una ricerca condotta su bambini piccoli nel contesto naturale delle interazioni giornaliere tra pari, l’autoregolazione delle emozioni aumentava la loro competenza sociale (Fabes et al., 1999). I bambini che facevano uno sforzo per controllare le proprie reazioni emotive erano più capaci di rispondere in modo socialmente competente quando venivano emotivamente provocati da un compagno (un commento ostile o la sottrazione di qualcosa). Anche la regolazione delle emozioni cresce con lo sviluppo. Una ricerca recente ha trovato che bambini di 4 anni conoscono e mettono in atto strategie per controllare la loro rabbia più dei bambini di 3 anni (Cole et al., 2009).
9.2.3 Età scolare o fanciullezza Durante l’età scolare molti bambini mostrano marcati miglioramenti nella comprensione e nella gestione delle loro emozioni (Cunningham, Kliewer e Garner, 2009).
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Cambiamenti evolutivi nelle emozioni Vi sono alcuni cambiamenti importanti nello sviluppo delle emozioni durante l’età scolare (Denham, Bassett e Thomson, 2009 a; Wyatt, 2007; Kuebli, 1994): ▮▮ Un’aumentata abilità nel comprendere le emozioni complesse come orgoglio e vergogna. Queste emozioni diventano più interiorizzate (autogenerate) e integrate con un senso di responsabilità personale. ▮▮ Una comprensione maggiore che in una situazione particolare si può sperimentare più di un’emozione. ▮▮ Un’accresciuta tendenza a tenere in maggiore considerazione gli eventi che conducono a reazioni emotive. ▮▮ Marcati miglioramenti nell’abilità a sopprimere o nascondere reazioni emotive negative nel rispetto delle regole di espressione proprie della cultura di appartenenza. ▮▮ L’uso di strategie autonome per ridirigere sentimenti, per esempio, l’utilizzo di pensieri distraenti. Durante gli anni della scuola elementare i bambini diventano più riflessivi e aumentano l’uso di strategie per controllare le loro emozioni. Essi inoltre diventano più efficaci a gestire cognitivamente le loro emozioni, come ad esempio consolarsi dopo un dispiacere. ▮▮ Una maggiore capacità empatica “genuina”.
Stress e strategie di Coping
Coping. Concetto strettamente connesso a quello di stress, indica l’insieme delle strategie messe in atto da una persona per fronteggiare una situazione di stress.
Valutazioni cognitive (cognitive appraisal). Espressione con cui Lazarus indica le interpretazioni che gli individui fanno degli eventi della loro vita come dannosi, minacciosi o provocatori e la loro determinazione ad affrontarli.
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Un importante aspetto della vita dei bambini è imparare come far fronte allo stress (Findlay, Coplan e Bowker, 2009; Swearer, Givens e Frerichs, 2010). Man mano che crescono, i bambini devono essere sempre più abili a valutare accuratamente una situazione stressante e a determinare quanto controllo hanno su di essa. Il coping è un concetto strettamente connesso a quello di stress, infatti indica l’insieme delle strategie messe in atto da una persona per fronteggiare una situazione di stress. Alla base dello stress nei bambini possiamo trovare fattori socio-culturali – come la povertà – o particolari eventi della vita – come l’essere oggetto di abuso, ma anche eventi della vita di ogni giorno possono portare stress. Sebbene eventi come la perdita di un amico o la partecipazione a un esame siano frequenti nella vita di ognuno, non tutti li viviamo allo stesso modo, non per tutti sono ugualmente stressanti. Lazarus (1996) ha formulato l’espressione di valutazioni cognitive (cognitive appraisal) per indicare le interpretazioni che gli individui fanno degli eventi della loro vita come dannosi, minacciosi o provocatori e la loro determinazione ad affrontarli. Il coping si riferisce sia a ciò che un individuo fa effettivamente per affrontare una situazione difficile, fastidiosa o dolorosa, o a cui comunque non è preparato, sia al modo in cui si adatta emotivamente a tale situazione; nel primo caso si parla di coping attivo, nel secondo di coping passivo. In generale il coping attivo è più efficace, dal punto di vista dell’adattamento, quando la fonte dello stress può essere modificata o eliminata; mentre il coping passivo lo è quando la fonte di stress non è evitabile o il soggetto non ha alcuna influenza su di essa. Il processo di coping può essere suddiviso in due componenti distinte: la gestione dei problemi e la gestione delle emozioni. La prima consiste nel cercare di liberarsi del problema; la seconda, nel cercare di liberarsi dalla sofferenza causata dal problema.
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La capacità di usare strategie di coping è influenzata nei bambini dal loro sviluppo cognitivo, così che i bambini più grandi sono capaci di produrre più strategie di coping alternative per rispondere a situazioni stressanti usando più strategie cognitive (Saarni, et al., 2006). Per esempio, i bambini più grandi riescono meglio di quelli più piccoli a spostare intenzionalmente i loro pensieri da un topic stressante a un altro che lo è meno. I bambini più grandi riescono anche meglio a cambiare, ristrutturandola, la loro percezione di un evento stressante. Ad esempio i bambini più piccoli possono essere molto offesi dal fatto che il loro insegnante non li saluta quando essi arrivano a scuola. I bambini più grandi possono ristrutturare questo tipo di situazione e pensare “La maestra era molto impegnata con molte cose e per questo si è dimenticata di dirmi ciao”. Eppure, già bambini di poco più di un anno possono usare strategie di coping. I piccoli di 18 mesi dimostrano l’uso di un certo tipo di strategia di coping quando in sessioni di gioco strutturato indicano la loro consapevolezza nei modi di alleviare il loro dolore, cioè cercando gli abbracci, i baci e talvolta chiedono una medicina. Invece, i bambini di 3-4 anni d’età usano spontaneamente la distrazione e diranno che giocare fa sentire loro meglio. Tuttavia, i bambini prima dei 5 anni non possono intenzionalmente distrarsi o iniziare a usare da soli altre strategie cognitive per ridurre il dolore. Di conseguenza le strategie cognitive e comportamentali che richiedono al bambino di iniziare a utilizzare strategie di controllo quali il rilassamento o la riorganizzazione cognitiva sono generalmente superiori alle loro. I bambini, a partire dai 6 anni e ancora di più a 10, dimostrano di possedere questa capacità per far fronte allo stress, per esempio, attraverso l’impiego di strategie mentali (distrarsi pensando a cose piacevoli) o comportamentali (mettersi a giocare con gli amici) (Saarni et al., 2006). E però nelle famiglie che non sono supportive, caratterizzate da condizioni di maltrattamento o traumi, i bambini possono essere talmente travolti dallo stress da non riuscire a usare queste strategie (Field et al., 2008). Soprattutto condizioni di disastri o sciagure possono nuocere allo sviluppo dei bambini e produrre problemi di adattamento. Tra gli esiti evolutivi dei bambini che sperimentano disastri vi sono reazioni acute di stress, depressione, panico e disturbo post traumatico da stress (Kar, 2009; Axia, 2006). Le proporzioni di bambini che sviluppano questi problemi conseguenti a un disastro dipendono da fattori come la natura e la gravità dell’evento, ma anche il supporto disponibile per il bambino all’interno della famiglia. Gli studi in psicologia dell’emergenza evidenziano come la risposta adattiva individuale a eventi potenzialmente traumatici sia influenzata da: natura dell’evento, grado di esposizione all’evento, conseguenze percepite e immaginate, strategie di coping adottate, percezione della disponibilità di una rete di supporto sociale nelle fasi successive all’evento, in particolare la famiglia e il contesto comunitario. Tra i fattori che possono esercitare una funzione protettiva, sono ritenuti importanti anche quelli imputabili al bambino, come sesso, età e temperamento (Axia, 2006). Le raccomandazioni per genitori, insegnanti e altri adulti coinvolti nella cura dei bambini implicati in eventi potenzialmente traumatici (attacchi terroristici, abusi, disastri naturali come terremoti) includono: −− rassicurare i bambini circa la loro salvezza e sicurezza; −− permettere ai bambini di ri-raccontare gli eventi e avere la pazienza di ascoltarli;
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−− incoraggiare i bambini a parlare dei loro sentimenti confusi rassicurandoli che sono normali dopo un evento stressante; −− proteggere i bambini da un’ulteriore esposizione a eventi stressanti e dal ricordo del trauma, ad esempio limitando le possibilità di parlarne in loro presenza; −− aiutare i bambini dando senso a ciò che è successo, tenendo presente che i bambini possono non aver capito cosa è accaduto (Gurwitch et al., 2001).
Ripasso e spunti di riflessione Descrivi lo sviluppo delle emozioni Ripasso ▮▮ Come si sviluppano le emozioni nella prima infanzia? ▮▮ Cosa caratterizza lo sviluppo emotivo nella seconda infanzia? ▮▮ Quali cambiamenti si verificano nelle emozioni durante la fanciullezza? Spunti di riflessione ▮▮ Una mamma e un papà di un bambino di 8 mesi non riescono più a dormire perché il bambino si sveglia nel mezzo della notte piangendo. Come raccomanderesti loro di affrontare questa situazione?
9.3 Il temperamento
Temperamento. Uno stile di comportamento individuale e una risposta emotiva caratteristica.
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Sei spesso turbato? Ci vuole molto per farti arrabbiare o per farti ridere? Già alla nascita i bambini sembrano avere differenti stili emotivi. Un bambino è sorridente e felice per la maggior parte del tempo, un altro sembra piangere costantemente. Queste tendenze riflettono il temperamento, che è uno stile comportamentale e un modo di rispondere caratteristico di un individuo. Relativamente ai collegamenti che ha con le emozioni, il temperamento implica differenze individuali nella velocità e nell’intensità con cui sono manifestate le emozioni e nella velocità con cui svaniscono (Campos, 2009). Il temperamento è strettamente legato alla personalità, ossia all’insieme delle caratteristiche personali durature di un individuo. La demarcazione tra temperamento e personalità, infatti, è spesso confusa. Il temperamento può essere pensato come la base biologica ed emotiva della personalità. Il temperamento di un bambino lo dispone verso un particolare stile di sentimenti e di reazioni, che rende più probabile per la sua personalità prendere una forma piuttosto che un’altra. Il temperamento cambia con lo sviluppo del bambino? Può il temperamento di un neonato predire come si comporterà da bambino, da adolescente o da giovane adulto? Prima di affrontare queste questioni, dobbiamo esaminare come i ricercatori descrivono o classificano i caratteri degli individui.
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9.3.1 Descrizione e classificazione del temperamento Come descriveresti il tuo temperamento o quello di un amico? I ricercatori hanno descritto e classificato il temperamento degli individui in modi diversi. Esamineremo tre di questi modi.
La classificazione di Chess e Thomas Gli psichiatri Stella Chess e Alexander Thomas (Chess e Thomas, 1977; Thomas e Chess, 1991) hanno identificato tre tipi base, o cluster di temperamento: Bambino facile. Uno stile di temperamento in cui il bambino generalmente ha un umore positivo, stabilisce velocemente una routine regolare e si adatta facilmente alle nuove esperienze. Bambino difficile. Uno stile di temperamento in cui il bambino tende a reagire negativamente e piange frequentemente, costringe a irregolari routine giornaliere ed è lento ad accettare le nuove esperienze. Bambino “lento a scaldarsi”. Uno stile di temperamento in cui il bambino ha un basso livello di attività, è piuttosto negativo, mostra bassa adattabilità e presenta un umore piatto.
▮▮ Il bambino facile: questo bambino generalmente ha un umore positivo, stabilisce rapidamente una routine regolare nell’infanzia (per esempio, mantiene costanti gli orari del sonno o del pasto), si adatta facilmente alle nuove esperienze. ▮▮ Il bambino difficile: è un bambino che reagisce negativamente e piange spesso, costringe il caregiver a routine quotidiane irregolari, è lento ad accettare i cambiamenti. ▮▮ Il bambino “lento a scaldarsi” o a lenta attivazione: questo bambino ha un basso livello di attività, qualche volta è negativo e mostra un umore piatto. Nei loro studi longitudinali, Chess e Thomas hanno visto che il 40% dei bambini studiati potevano essere classificati come facili, il 10% come difficili e il 15% “lenti a scaldarsi”. Si noti che il 35% non entra in nessuno di questi tre modelli, ma occorre anche tenere presente la metodologia impiegata dai due ricercatori consistente nella registrazione delle descrizioni materne e non nell’osservazione diretta del comportamento dei bambini. I ricercatori, comunque, hanno visto che questi tre gruppi di base rimangono moderatamente stabili nel corso dell’infanzia. Uno studio recente ha rivelato che i bambini piccoli con un temperamento difficile mostravano una maggiore sensibilità nei confronti delle modalità di cura rispetto ai bambini facili: essi, infatti, esibivano più problemi quando sperimentavano un basso livello di cura e meno problemi quando invece sperimentavano un alto livello di cura (Pluess e Belsky, 2009).
L’inibizione comportamentale di Kagan Un altro modo per classificare il temperamento si focalizza sulle differenze tra un bambino timoroso, pacato, timido e un bambino socievole, estroverso e sicuro di sé (Asendorph, 2008). Jerome Kagan (2002, 2008, 2010) considera la timidezza verso gli estranei (pari o adulti) come un aspetto di un’ampia categoria di caratteri chiamata inibizione verso l’estraneo. I bambini inibiti reagiscono a molti aspetti di non familiarità con iniziale evitamento, ansia o atteggiamento sommesso, a partire da 7 a 9 mesi d’età. Kagan ha visto che l’inibizione è piuttosto stabile durante l’infanzia. Uno studio recente ha classificato i bambini in tre gruppi: molto inibiti, molto disinibiti e intermedi (Pfeifer et al., 2002). Valutazioni di follow-up svolte a 4 e 7 anni d’età, hanno dimostrato una continuità sia per l’inibizione sia per la mancanza d’inibizione, sebbene a 7 anni un sostanziale numero di bambini inibiti si era spostato nei gruppi intermedi.
La classificazione di Rothbart e Bates Vengono continuamente create nuove classificazioni del temperamento Mary Rothbart e John Bates (2006) recentemente hanno concluso che le
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tre ampie dimensioni, descritte di seguito, rappresentano al meglio ciò che qualifica la struttura del temperamento: ▮▮ Estroversione/disinibizione: include “l’anticipazione positiva, l’impulsività, il livello di attività e la ricerca di sensazioni” (Rothbart, 2004, p. 495). I bambini disinibiti di Kagan rientrano in questa categoria. ▮▮ Affettività negativa: include “l’irritabilità, la frustrazione, la tristezza e la paura” (Rothbart, 2004, p. 495). Questi bambini si angustiano facilmente; possono agitarsi e piangere spesso. I bambini inibiti di Kagan fanno parte di questa categoria. La reattività emozionale negativa o irritabilità riflette la caratteristica centrale della categoria dei bambini difficili di Thomas e Chess (Bates e Pettit, 2007). ▮▮ Capacità di controllo (autocontrollo o autoregolazione): include “focalizzazione dell’attenzione e spostamento, controllo inibitorio, sensitività percettiva e piacere a bassa intensità” (Rothbart, 2004, p. 495). I bambini con un’alta capacità di controllo si mostrano abili nel far sì che il loro arousal non aumenti troppo e usano delle strategie per calmarsi. Al contrario, i bambini con bassa capacità di controllo spesso non sanno gestire il loro arousal, si agitano facilmente e provano emozioni intense (Rothbart e Sheese, 2007). Uno studio recente con bambini in età scolare provenienti dagli Stati Uniti d’America e dalla Cina, rivela che in entrambe le culture, bassi livelli di autocontrollo sono collegati a problemi esternalizzanti come mentire, dire bugie, disobbedire ed essere eccessivamente aggressivo (Zhou, Lengua e Wang, 2009). Secondo Rothbart (2004, p. 497) “i primi modelli teorici del temperamento mettono in rilievo che siamo mossi dalle nostre emozioni positive e negative o dal livello di eccitamento, e le nostre azioni sono guidate da queste tendenze”. L’enfasi più recente posta sull’autocontrollo, però, riflette l’idea che gli individui possano utilizzare un approccio più cognitivo e flessibile alle circostanze stressanti.
Temperamento e adattamento Axia (2002) nell’elaborazione dei Quit test – quattro Questionari che, a partire dallo stesso costrutto teorico, permettono la valutazione del temperamento per le fasce d’età 1-12 mesi, 13-36 mesi, 3-6 anni e 7-11 anni – porta al centro dell’attenzione sei dimensioni del temperamento, funzionali da una parte a descrivere i contesti interattivi del bambino (il bambino con gli altri, il bambino che gioca e il bambino di fronte alle novità) e dall’altra a definire la qualità dell’adattamento alle richieste ambientali. Le sei componenti temperamentali sono: Emozionalità positiva, Emozionalità negativa, Orientamento sociale, Attenzione, Attività motoria e Inibizione alla novità. Le prime tre forniscono dati sull’adattamento al mondo sociale, le tre successive valutano l’adattamento all’ambiente di vita in generale. A seconda del livello di ciascuna dimensione è possibile collocare il bambino in uno dei due poli speculari di adattamento: adattamento positivo, in cui si hanno livelli bassi di attività motoria, inibizione alla novità ed emozionalità negativa, accompagnati da livelli alti di attenzione, orientamento sociale ed emozionalità positiva, e adattamento problematico o comunque negativo con livelli alti di attività motoria, inibizione alla novità ed emozionalità negativa accompagnati da livelli bassi di attenzione, orientamento sociale ed emozionalità positiva. Un aspetto importante da considerare circa le classificazioni temperamentali di Thomas e Chess e le successive di cui abbiamo visto gli aspetti
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principali, è che non si può pensare che i bambini posseggano una sola delle dimensioni del temperamento, come l’affettività negativa o l’essere difficile. Una buona strategia da assumere se si vuole classificare il temperamento di un bambino, è pensare che il temperamento consiste di dimensioni multiple (Bates, 2008). Ad esempio, un bambino potrebbe essere estroverso, esibire bassi livelli di emozioni negative e avere una buona capacità di autoregolazione. Un altro bambino potrebbe essere introverso, mostrare poche emozioni negative e avere una scarsa capacità di autoregolazione. Rothbart e Gartstein (2008) recentemente hanno descritto i seguenti cambiamenti evolutivi nel temperamento nel corso dell’infanzia. Durante la prima infanzia il sorridere e il ridere emergono come parte della dimensione dell’affettività positiva del temperamento. Dai 2 mesi di vita i bambini mostrano rabbia e frustrazione quando le loro azioni non producono un risultato interessante. In questo periodo gli infanti sono spesso suscettibili e sovrastimolati. Dai 4 ai 12 mesi la paura e l’irritabilità iniziano a essere più differenziate. Non tutte le caratteristiche del temperamento vengono esplicitate prima del primo compleanno. L’emozionalità positiva diventa più stabile dopo la prima infanzia e le caratteristiche di estroversione/disinibizione possono determinarsi durante gli anni prescolari. Le accresciute abilità attentive durante gli anni prescolari sono collegate a un aumento nella capacità di autocontrollo e di autoregolazione emotiva. I cambiamenti evolutivi descritti, però, riflettono tendenze normative e non differenze individuali nei bambini. Lo sviluppo di queste tendenze normative, basilari per tutti i bambini, permette che emergano le differenze individuali (Bates, 2008). Ad esempio: sebbene la maturazione dei lobi prefrontali del cervello crea le condizioni per un miglioramento dell’attenzione infantile e per il raggiungimento dell’autocontrollo, alcuni bambini sviluppano la capacità di autocontrollarsi e altri no. E sono proprio queste differenze individuali che rappresentano il cuore di ciò che è il temperamento (Bates, 2008).
9.3.2 Fondamenti biologici ed esperienza Come fa un bambino ad acquisire un certo temperamento? Kagan (2002, 2010) sostiene che i bambini ereditano una fisiologia che influisce sul tipo di temperamento che avranno. Tuttavia, attraverso l’esperienza possono imparare a modificare un po’ il loro temperamento. Per esempio, i bambini possono ereditare una fisiologia che li spinge a essere timorosi e inibiti, ma possono imparare a ridurre, in parte, paura e inibizione.
Influenze biologiche Caratteristiche fisiologiche sono state collegate a temperamenti diversi (Nigg et al., 2010; Schmidt e Jetha, 2009). In particolare, un temperamento inibito è associato a un modello fisiologico unico che comprende un ritmo cardiaco alto e stabile, un alto livello dell’ormone cortisolo e un’alta attività del lobo frontale destro del cervello (Kagan, 2003, 2008, 2010). Questo modello può essere legato all’eccitabilità dell’amigdala, una struttura del cervello che gioca un ruolo importante in paura e inibizione (Kagan, 2003, 2008). Un temperamento inibito o affettivamente negativo può anche essere legato a un basso livello del neurotrasmettitore serotonina che può aumentare la vulnerabilità individuale verso la paura e la frustrazione
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(Pauli-Pott et al., 2009). Qual è il ruolo dell’ereditarietà sulle basi biologiche del temperamento? Gli studi sui gemelli e sui bambini adottati suggeriscono un’influenza moderata dell’ereditarietà sulle differenze di temperamento all’interno di un gruppo di persone (Goldsmith, 2011; Plomin et al., 2009). Il punto di vista contemporaneo è che il temperamento sia una caratteristica del comportamento a base biologica, ma che si evolve con lo sviluppo. Per questa ragione, gli attributi del temperamento diventano sempre più radicati col passare del tempo, man mano che l’individualità si sviluppa all’interno di una rete di autopercezioni, preferenze comportamentali ed esperienze sociali che insieme formano lo sviluppo della personalità (Thompson e Goodvin, 2005).
Le connessioni nel corso dello sviluppo I giovani adulti mostrano lo stesso stile di comportamento e le stesse risposte emotive caratteristiche di quando erano neonati o bambini? Il livello di attività è una dimensione importante del temperamento. Il livello di attività dei bambini è legato a come si sviluppa la loro personalità da giovani adulti? In uno studio longitudinale si è visto che era probabile che i bambini molto attivi all’età di 4 anni fossero molto espansivi a ventitré, il che riflette una continuità (Franz, 1996). Nel passaggio dall’adolescenza alla prima maturità, la maggioranza degli individui mostra una minore oscillazione dell’umore, maggiore ragionevolezza e comportamenti meno rischiosi: questo, invece, riflette una discontinuità (Caspi, 1998). Un altro aspetto del temperamento implica l’emotività e la capacità di controllare le proprie emozioni. In uno studio longitudinale si è visto che quando i bambini di 3 anni mostravano un buon controllo sulle loro emozioni ed erano elastici nel fare fronte allo stress, era probabile che continuassero da adulti a gestire le emozioni con efficacia (Block, 1993). Al contrario, quando a 3 anni avevano basso controllo emotivo e bassa elasticità, era probabile che da giovani adulti mostrassero problemi in queste aree. Il temperamento durante l’infanzia è legato all’adattamento in età adulta? Riportiamo ciò che sappiamo basandoci sui pochi studi longitudinali che sono stati condotti su questo argomento (Caspi, 1998, 2006). Secondo uno studio longitudinale, i bambini con un temperamento facile tra i 3 e i 5 anni era probabile che da giovani adulti fossero ben adattati (Chess e Thomas, 1977). Al contrario, molti bambini con temperamento difficile tra i 3 e i 5 anni non erano ben adattati da giovani adulti. Altri ricercatori hanno trovato una bassa probabilità che i ragazzi con un temperamento difficile durante l’infanzia continuassero gli studi da adulti e un’alta probabilità che le bambine con temperamento difficile da ragazze sperimentassero conflitti matrimoniali (Wachs, 2000). L’inibizione è un altro aspetto del temperamento che è stato studiato in modo estensivo (Kagan, 2002, 2010). I ricercatori hanno visto che gli individui con un temperamento inibito durante l’infanzia, da adulti avevano meno probabilità di essere assertivi o di sperimentare un supporto sociale ed era più probabile che ritardassero il loro inserimento in una situazione lavorativa stabile (Wachs, 2000). In uno studio recente si è trovato che i neonati classificati come altamente reattivi (attità motoria vigorosa e pianto frequente) a stimoli non familiari era probabile che diventassero evitanti verso eventi non familiari nell’infanzia e spesso sottomessi, cauti e diffidenti verso le situazioni nuove in adolescenza (Kagan et al., 2007). Al contrario, neonati con
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bassi livelli di reattività erano inclini ad approcciarsi agli eventi non familiari nell’infanzia e a essere emotivamente spontanei e socievoli in adolescenza. Riassumendo, questi studi rivelano alcune continuità tra certi aspetti del temperamento nell’infanzia e l’adattamento nella prima maturità Tuttavia, è necessario ricordare che queste connessioni tra il temperamento nell’infanzia e l’adattamento nell’età adulta sono basate su un piccolo numero di studi ed è necessario procedere nella ricerca per verificare tali relazioni.
Contesti di sviluppo Cos’è importante ai fini della continuità e della discontinuità tra il temperamento di un bambino e la personalità di un adulto? Nella continuità probabilmente sono coinvolti fattori psicologici ed ereditari (Kagan, 2008, 2010). Theodore Wachs (1994, 2000) ha proposto alcuni modi in cui le connessioni tra il temperamento nell’infanzia e la personalità nell’età adulta possono variare in base ai contesti che intervengono nell’esperienza individuale. La Figura 9.5 riassume come una caratteristica potrebbe avere uno sviluppo diverso cambiando il contesto. La differenza di genere può essere un fattore importante nel formare l’ambiente che influenza il destino del temperamento (Blakemore, Berenbaum e Liben, 2009). I genitori potrebbero reagire in maniera diversa al
TRATTO INIZIALE DEL TEMPERAMENTO: INIBIZIONE BAMBINO A
BAMBINO B CONTESTI D’INTERVENTO
Caregiver
Caregiver (genitori) che sono sensibili, accettanti e lasciano che il bambino decida i propri tempi. a nuove situazioni.
Caregiver che usano un improprio “controllo a basso livello” e tentano di forzare il bambino
Ambiente fisico
Presenza di “stimoli protetti” o “spazi difendibili” dove i bambini possono rifugiarsi quando ci sono troppi stimoli.
Il bambino è esposto continuamente a un ambiente rumoroso, caotico che non gli permette la fuga dalla stimolazione.
Pari
Gruppo dei pari con altri bambini inibiti con interessi comuni, così che il bambino si senta accettato.
Gruppo dei pari formato da bambini estroversi e con ottime prestazioni sportive, così che il bambino si senta rifiutato.
Scuola
La scuola è “a corto di personale” quindi i bambini inibiti sono meno controllati e hanno più probabilità di essere tollerati e sentono di poter dare un contributo.
La scuola è “a eccesso di personale” così i bambini inibiti sono più controllati e hanno meno probabilità di essere tollerati ed è più probabile che si sentano sottovalutati.
PERSONALITÀ Da adulto l’individuo è più vicino all’estroversione (espansivo, socievole) ed è emotivamente stabile.
Da adulto l’individuo è più vicino all’introversione e ha più problemi emotivi.
Figura 9.5 Temperamento nell’infanzia, personalità nell’adulto e contesti d’intervento Variazioni nelle esperienze con il caregiver, nell’ambiente fisico, con i pari e nella scuola possono modificare il collegamento tra il temperamento nell’infanzia e la personalità da adulto. L’esempio fornito vale per l’inibizione.
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temperamento di un bambino a seconda che sia maschio o femmina (Kerr, 2001). Per esempio, in uno studio, le mamme erano più sensibili al pianto irascibile delle bambine rispetto a quello dei bambini (Crockenberg, 1986). In modo analogo, la reazione al temperamento di un bambino può dipendere in parte anche dalla cultura (Gartstein et al., 2009; Kagan, 2010). Per esempio, un temperamento attivo potrebbe essere apprezzato in alcune culture (Stati Uniti), ma non in altre (Cina). Di fatto, il temperamento dei bambini può essere diverso nelle varie culture (Putnam, Sanson e Rothbart, 2002). L’inibizione comportamentale è molto più apprezzata in Cina che in Nord America e i ricercatori hanno visto che i bambini cinesi sono più inibiti di quelli canadesi (Chen et al., 1998). Le differenze culturali nel temperamento sono legate alle attitudini e ai comportamenti dei genitori. Nella ricerca succitata, le mamme canadesi di bambini di 2 anni inibiti accettavano meno l’inibizione dei loro figli rispetto alle mamme cinesi. I risultati di ricerche italiane (Axia et al., 1991; Attili, 1993), d’altro canto, mettono in evidenza come sulle classificazioni temperamentali possa influire anche l’idea che si ha nella cultura di riferimento di un bambino facile o difficile. Non si può inoltre trascurare come un recente studio condotto in differenti nazioni mostri che per i genitori italiani il termine difficoltà di temperamento si associa più al bambino timido o pauroso piuttosto che alla presenza di episodi di cattivo umore o il prevalere di emotività negative (Axia, 1994; Axia, Bonichini e Benini, 1999). In breve, molti aspetti dell’ambiente del bambino possono incoraggiare o scoraggiare la persistenza di caratteristiche del temperamento e il concetto di goodness of fit, che esamineremo fra breve, è un modo utile per ragionare su queste relazioni.
9.3.3 Goodness of fit e genitorialità (parenting) Goodness of fit. Si riferisce alla “consonanza ottimale” tra il carattere di un bambino e le richieste ambientali a cui il bambino deve far fronte.
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Il concetto di goodness of fit si riferisce alla “consonanza ottimale” (nella letteratura italiana è tradotto anche con “bontà dell’adattamento” o “compatibilità”) tra il temperamento di un bambino e le richieste ambientali a cui deve far fronte (Molina, 2007). Si pensi a Luca, un bambino attivo che è costretto a stare seduto a lungo o a Marco, un bambino “lento a scaldarsi” spinto continuamente e bruscamente in situazioni nuove. Entrambi i bambini devono far fronte a un’incapacità di aggiustamento tra il loro temperamento e le richieste ambientali. Questo può provocare problemi di adattamento (Rothbart e Bates, 2006). Chess e Thomas (1977, 1987) utilizzano il concetto di goodness of fit per riferirsi alla consonanza tra il temperamento del bambino e le aspettative e reazioni dei genitori, consonanza che garantisce uno sviluppo positivo senza però escludere la presenza di tensione e conflitto. Alcune caratteristiche del temperamento impongono maggiori sfide genitoriali di altre, almeno nelle moderne società occidentali (Rothbart e Gartstein, 2008). Quando l’ambiente è in armonia con le caratteristiche del bambino, però, le conseguenze sono costruttive. Quando i bambini sono soggetti a stati ansiosi, dimostrandolo con pianti frequenti e irritabilità, i genitori possono rispondere ignorando l’ansia o cercando di obbligare il bambino a “comportarsi bene”. In alcuni studi, tuttavia, un supporto extra e un training alle mamme di bambini soggetti all’ansia hanno migliorato la qualità
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dell’interazione madre-bambino (van den Boom, 1989). Il training induce le mamme a cambiare le loro richieste al bambino, migliorando l’aggiustamento tra il bambino e l’ambiente. Molti genitori non si rendono conto dell’importanza del temperamento fino alla nascita del secondo figlio. Considerano il comportamento del primo bambino come il risultato del loro modo di trattarlo, ma poi si accorgono che le stesse strategie che funzionavano con il primo figlio non sono efficaci con il secondo. Alcuni problemi sperimentati con il primo bambino (tipo quelli implicati nell’alimentazione, nel sonno e nella relazione con l’estraneo) non si presentano con il secondo ma, in compenso, ne sorgono di nuovi. Queste esperienze indicano chiaramente che i bambini differiscono l’uno dall’altro molto presto nella loro vita e che queste differenze hanno implicazioni importanti nell’interazione genitore-figlio (Kwak et al., 1999; Rothbart e Putnam, 2002). Quali sono per i genitori le implicazioni delle variazioni del temperamento? Sebbene le risposte a questa domanda siano necessariamente speculative, le ricercatrici Ann Sanson e Mary Rothbart (1995) hanno raggiunto le seguenti conclusioni rispetto alle migliori strategie genitoriali da utilizzare in relazione al temperamento dei bambini: ▮▮ Attenzione e rispetto per l’individualità. Premettiamo che è difficile fornire delle prescrizioni generali per essere “buoni genitori”. Un risultato potrebbe essere raggiunto in un modo con un bambino e in modo diverso con un altro, in base al temperamento del figlio. I genitori devono essere sensibili e flessibili ai segnali e ai bisogni del bambino. ▮▮ Strutturazione dell’ambiente del bambino. Ambienti affollati e rumorosi possono creare maggiori problemi per alcuni bambini (“bambini difficili”) che per altri (“bambini facili”). Potremmo anche aspettarci che un bambino pauroso e timido possa trarre benefici da un inserimento più lento in nuovi contesti. ▮▮ Il “bambino difficile” e programmi di parenting. I programmi per i genitori spesso si focalizzano sul trattamento di bambini con temperamento “difficile”, cioè bambini facilmente irritabili, che si arrabbiano spesso e che non seguono le “rotte” date. Per i genitori è spesso un aiuto sapere che alcuni bambini sono più impegnativi di altri e può essere utile consigliare come occuparsi di caratteristiche particolarmente difficili. Tuttavia, il fatto che una particolare caratteristica sia difficile dipende da quanto si accorda con l’ambiente. Etichettare un bambino “difficile” rischia di creare una profezia che si autoavvera. Se un bambino è identificato come “difficile”, le persone potrebbero trattarlo in modo da promuovere in lui un comportamento “difficile”. Uno studio recente ha mostrato come benefica per bambini con temperamento difficile, l’esposizione a esperienze che incoraggiavano il coping e sostenevano la costruzione di strategie di autoregolazione (Bradley e Corwyn, 2008). Troppo spesso incaselliamo i bambini in categorie senza esaminare il contesto (Rothbart e Bates, 2006; Wachs, 2000). Ciononostante, i caregiver hanno bisogno di tenere in considerazione il temperamento dei bambini. La ricerca non arriva ancora a fornire raccomandazioni molto specifiche ma, in generale, i caregiver dovrebbero (1) essere sensibili alle caratteristiche individuali dei bambini, (2) essere flessibili nel rispondere a queste caratteristiche e (3) evitare di applicare al bambino etichette negative.
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Ripasso e spunti di riflessione Definisci le variazioni del temperamento e il loro significato Ripasso ▮▮ Come può essere descritto e classificato il temperamento? ▮▮ Come viene influenzato il temperamento dalle basi biologiche e dall’esperienza? ▮▮ Cos’è la “consonanza ottimale” (goodness of fit)? Quali sono alcune strategie parentali positive per intervenire sul temperamento di un bambino? Spunti di riflessione ▮▮ Pensa al tuo temperamento. Descrivi alcune categorie di temperamento. Quale descrive meglio il tuo? Com’è cambiato il tuo temperamento crescendo? Se è cambiato, quali sono stati i fattori che hanno contribuito?
9.4 Lo sviluppo sociale precoce: riferimento e comprensione sociale Finora abbiamo discusso di come le emozioni e la competenza emotiva cambino nel corso dello sviluppo. Abbiamo anche esaminato il ruolo dello stile emotivo e abbiamo visto come in effetti le emozioni stabiliscono il tono delle nostre esperienze nella vita. Ma le emozioni scrivono anche gli aspetti lirici della vita, perché rappresentano il fulcro dei nostri interessi nel mondo sociale e delle nostre relazioni con le altre persone. In quanto esseri socio-emotivi, i bambini mostrano un forte interesse per il loro mondo sociale e sono motivati fin da subito a orientarsi verso gli altri e a conoscerli. Nei primi capitoli abbiamo descritto diversi fondamenti biologici e cognitivi che contribuiscono allo sviluppo infantile dell’orientamento e della comprensione sociale. Anche di seguito torneremo a parlare di fattori biologici e cognitivi rilevanti quando si parla di orientamento sociale, movimento, intenzionalità, comportamento diretto a uno scopo, cooperazione e riferimento sociale. Discutendo di processi biologici, cognitivi e sociali ricorderemo un aspetto importante dello sviluppo infantile di cui abbiamo parlato nel Capitolo 1: questi processi sono inestricabilmente intrecciati insieme (Diamond, 2009; Diamond, Casey e Munakata, 2010).
9.4.1 Abilità sociali precoci I ricercatori hanno scoperto che i bambini sono più sofisticati e acuti socialmente e che lo sono a delle età più precoci rispetto a quanto si fosse previsto fino a pochi anni fa (Hamlin, Hallinan e Woodward, 2008; Thompson, 2010; Tronick, 2010). Fin dall’inizio del loro sviluppo, i bambini sono attratti dal loro mondo sociale. Come abbiamo discusso nell’ampia panoramica sulla percezione infantile nel Capitolo 4, i bambini piccoli fissano intensamente i volti e sono
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richiamati dal suono della voce umana, specialmente da quella dei loro caregiver (Ramsay-Rennels e Langlois, 2007). Più tardi, nel corso dello sviluppo, i bambini iniziano a interpretare il significato delle espressioni facciali. Anche i riflessi neonatali oltre ad avere una funzione adattiva ne hanno una sociale: stringersi al corpo di chi si prende cura di lui, ad esempio, permette di alimentarsi (vedi il riflesso di suzione), ma anche di stabilire un contatto affettivo con il caregiver. Questa precoce abilità sociale si riflette nella percezione infantile delle azioni altrui come motivate intenzionalmente e dirette a uno scopo (Brune e Woodward, 2007). La motivazione a condividere e partecipare a questa intenzionalità altrui nel corso di scambi sociali, è presente già nel primo compleanno dei bambini (Tomasello, Carpenter e Liszkowski, 2007). Ricorderemo dal Capitolo 8, ad esempio, la varietà di gesti comunicativi di cui il bambino si può avvalere sia per trasmettere la propria intenzionalità sia per comprenderla nelle azioni altrui. I gesti referenziali, ma soprattutto quelli deittici ci dicono che il bambino sta attribuendo all’altro, con cui interagisce, degli stati mentali. Abbiamo chiamato queste precoci capacità sociali, infatti, precursori della teoria della mente. E ora ritorna questa capacità comunicativa, cognitiva, sociale ed emotiva che è la teoria della mente: corpus di abilità attraverso le quali il bambino si dimostra preprogrammato per l’interazione sociale. Le maggiori abilità socio-cognitive dei bambini, come vedremo, vanno a costituire i prerequisiti per la costituzione di un legame di attaccamento con il caregiver.
9.4.2 Orientamento sociale e Cooperazione Quando l’infante ha circa 2-3 mesi di età, le interazioni con il caregiver iniziano a essere caratterizzate frequentemente dal gioco face-to-face (facciaa-faccia), nel quale l’interazione sociale focalizzata include vocalizzazioni, carezze e gesti (Leppanen et al., 2007). Questo gioco è parte integrante della motivazione materna a creare uno stato emotivo positivo con il proprio bambino (Thompson, 2009 a, b). Questi interscambi sociali tra caregiver e bambino sono positivi anche perché a partire dai 2-3 mesi di età gli infanti rispondono alle persone differentemente dal modo con cui rispondono agli oggetti, mostrando così più emozioni positive verso le persone che verso gli oggetti inanimati, come ad esempio una bambola (Legerstee, 1997). A questa età molti bambini si aspettano che le persone reagiscano positivamente quando il bambino mette in atto un comportamento, come un sorriso o una vocalizzazione. A questa conclusione circa le aspettative di interazione positiva da parte dei bambini si è arrivati grazie all’impiego di un metodo denominato paradigma dello still-face (volto immobile) nel quale il caregiver alterna nel corso dell’interazione momenti faccia-a-faccia con il bambino a momenti in cui rimane immobile e non responsivo (Conradt e Ablow, 2010; Johnson, 2010). Nello specifico, la procedura, ideata da Tronick (Tronick et al., 1979) prevede che nel corso di un’interazione svolta in laboratorio si alternino tre fasi di pochi minuti ciascuna durante le quali la madre riceve le consegne di (1) interagire con il figlio come fa abitualmente; (2) sospendere ogni interazione con il bambino mantenendo un’espressione del volto immobile e inespressiva (still, per l’appunto) e (3) ricominciare l’interazione con l’espressione del volto “normale” che si aveva prima. Lo scopo di questo paradigma è
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di esporre il bambino a una situazione in cui le sue aspettative di interazione sociale positiva sono vanificate, in modo da verificare il suo comportamento conseguente. Alla presenza della mamma che però non interagisce con lui come fa normalmente, come si comporta il bambino? Se il bambino cerca di attirare l’attenzione della madre con comportamenti emotivamente positivi (sorridere, ad esempio) o negativi (piangere) dimostra di avere precoci disponibilità all’orientamento e all’interazione sociale. Del resto anche quando distoglie lo sguardo o si rannicchia sul seggiolino in seguito al volto materno immobile, il bambino si dimostra competente: mette in atto, infatti, strategie di coping per fronteggiare la situazione stressante e autoregolare il proprio stato emotivo. Già a 2-3 mesi i bambini mostrano ritiro, emozioni negative e comportamenti diretti verso se stessi (toccarsi le mani, i capelli) quando i loro caregiver sono immobili e non responsivi (Adamson e Frick, 2003). Comunque non tutti i bambini manifestano la stessa reazione all’esperimento dello still face e il loro modo di rispondere al volto immobile sembra essere collegato al tipo di relazione che hanno con la madre. La frequenza dei giochi face-to-face diminuisce dopo i 7 mesi quando i bambini migliorano le loro capacità di movimento (Thompson, 2006). Una recente meta-analisi rivela che bambini con una più alta affettività positiva e una più bassa affettività negativa mostrate durante lo still-face era più probabile che avessero un attaccamento sicuro a un anno di età (Mesman, van Ijzendoorn e Bakersman- Kranenburg, 2009). I bambini apprendono informazioni sul loro mondo sociale anche attraverso altri contesti oltre al gioco di interazione face-to-face con un caregiver (Stern, 2010; Tronick, 2010). Benché abbiano solo 6 mesi di età i bambini mostrano un interesse per gli altri e le loro interazioni con i pari incrementano considerevolmente nella seconda metà del secondo anno di vita. Tra i 18 e i 24 mesi i bambini aumentano in modo evidente il gioco imitativo e reciproco, come anche l’imitazione di azioni come saltare o correre (Eckerman e Whitehead, 1999). In uno studio recente veniva presentato a bambini di 1 e 2 anni un compito cooperativo che consisteva nel tirare insieme a un altro bambino una maniglia ciascuno per avvicinare un giocattolo attraente (Brownell, Ramani e Zerwas, 2006). Il giocattolo si muove per effetto di un comando remoto, nascosto alla vista dei bambini, che si attiva solo se entrambe le maniglie poste sul fronte dell’apparato di gioco vengono tirate. Inoltre, le due maniglie sono distanti tra loro tanto da non poter essere tirate entrambe da un unico bambino. I ricercatori hanno visto che con i bambini di un anno le azioni coordinate sono più incidentali che realmente cooperative, mentre il comportamento dei bambini di due anni era caratterizzato da un’attiva cooperazione per raggiungere uno scopo. Infine, sembra che i bambini che fanno esperienza di centri di infanzia esterni alla famiglia, spendono più tempo in gioco sociale con gli altri bambini (Field, 2007). Più avanti in questo capitolo parleremo dei centri di infanzia.
9.4.3 Movimento e indipendenza Abbiamo già detto come nel secondo anno di vita aumenti l’indipendenza del bambino per effetto del miglioramento delle sue capacità di movimento. Quando i bambini sviluppano la capacità di gattonare, camminare e correre, essi diventano anche abili a esplorare ed espandere il proprio
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mondo sociale. Queste nuove competenze di locomozione permettono al bambino di iniziare in modo indipendente dall’adulto più frequenti scambi sociali (Thompson, 2006). Ricorderete dal Capitolo 4 che lo sviluppo di queste abilità grosso-motorie è il risultato di un certo numero di fattori compreso lo sviluppo del sistema nervoso, ma anche la presenza di un ambiente di supporto per questa abilità e la motivazione del bambino a raggiungere un obiettivo (Adolph e Joh, 2009). La spinta per l’indipendenza passa attraverso lo sviluppo delle abilità di locomozione (Campos, 2009). La locomozione è anche importante per le sue implicazioni motivazionali (Thompson, 2008). Non appena il bambino ha l’abilità di muoversi nello svolgimento di nuove attività dirette a uno scopo, la ricompensa che deriva da queste attività dà ulteriore forza per esplorare e sviluppare abilità locomotorie.
9.4.4 Intenzionalità e Comportamento diretto ad uno scopo Percepire le persone come impegnate in comportamenti intenzionali e diretti a uno scopo è un’importante conquista socio-cognitiva che si presenta per la prima volta verso la fine del primo anno di vita (Laible e Thompson, 2007). L’attenzione condivisa e la capacità di seguire lo sguardo aiutano il bambino a capire che le altre persone hanno delle intenzioni (Meltzoff e Brooks, 2009). Ricorderete dal Capitolo 8 che la condivisione dell’attenzione (joint attention) si verifica quando il caregiver e il bambino guardano lo stesso oggetto o evento. Avevamo indicato la comparsa delle prime forme di attenzione condivise tra i 7 e gli 8 mesi, ma a circa 10-11 mesi l’attenzione condivisa si intensifica e il bambino inizia a seguire lo sguardo del caregiver. A partire dal primo compleanno, i bambini iniziano a dirigere l’attenzione del caregiver verso l’oggetto che attira il loro interesse (Heimann et al., 2006). L’attenzione condivisa, che si manifesta con vari comportamenti quali manipolare gli stessi oggetti, rivolgere lo sguardo alternativamente verso l’adulto e l’oggetto, dare o prendere gli oggetti all’altro, mostrare, è indice che il bambino è in grado di rappresentarsi l’altro come avente dei centri di interesse condivisibili. La joint attention coinvolge 2 abilità: quella di risposta, che si sviluppa prima e quella di iniziativa che è successiva. Per risposta si intende la capacità di seguire la direzione di sguardo dell’altro fino a orientare il proprio sul suo focus attentivo, mentre con iniziativa ci si riferisce alla capacità di attirare l’attenzione dell’altro con l’emissione di comportamenti come l’uso di gesti quali l’indicare o il mostrare. Recenti ricerche si sono focalizzate sull’identificazione di correlati neurali della joint attention (Dawson et al. 2002; Henderson, Yoder, Yale, & McDuffie, 2002; Mundy, Card, & Fox, 2000). Dati raccolti con la tomografia a emissione di positroni (PET) hanno indicato che l’attività metabolica nei lobi frontali predice lo sviluppo della capacità di iniziare episodi di attenzione condivisa. Studi che usano EEG hanno replicato questi risultati (Henderson et al. 2002; Mundy et al. 2000). Pertanto sembra che specifiche aree deficitarie in condizioni evolutive atipiche, come l’autismo, potrebbero rendere conto delle atipicità presenti in questi soggetti nell’attenzione condivisa.
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9.4.5 Riferimento sociale (Social Referencing)
Social referencing. La “lettura” dei segnali emotivi degli altri al fine di decidere come agire in una particolare situazione.
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Un’altra importante conquista socio-cognitiva nell’infanzia è lo sviluppo dell’abilità di “leggere” le emozioni di altre persone (Kim, Walden e Knieps, 2010). Social referencing (riferimento sociale) è il termine usato per descrivere la “lettura” dei segnali emotivi degli altri al fine di decidere come agire in una particolare situazione di incertezza. Lo sviluppo del social referencing aiuta i bambini a interpretare più accuratamente situazioni ambigue, per esempio, se un estraneo che incontrano sia o meno una persona da temere (Thompson, 2006). Dalla fine del primo anno di vita i bambini tendono a “verificare” l’espressione emotiva della loro mamma prima di agire: la guardano per vedere se è felice, arrabbiata o impaurita. L’espressione facciale materna li influenza nell’esplorazione o meno di un ambiente non familiare. È a partire dall’osservazione delle reazioni emotive delle altre persone che essi traggono informazioni sulle situazioni o sugli oggetti di cui hanno una conoscenza incerta (Belacchi e Gobbo, 2004). Dal secondo anno di vita i bambini diventano più competenti nel social referencing. Per esempio, in uno studio di Walden (1991), i bambini dai 14 ai 22 mesi guardavano molto di più il viso della loro mamma, come fonte d’informazione su come agire in una situazione, rispetto ai bambini tra i 6 e i 9 mesi. Il social referencing è un fenomeno complesso che coinvolge diversi ambiti dello sviluppo: il più evidente collegamento lo stabilisce con lo sviluppo socioemotivo. Per riuscire a usare la reazione emotiva di un’altra persona come “bussola” per decidere come comportarsi di fronte a un oggetto o evento non familiare, occorre che il bambino sappia: discriminare tra le diverse espressioni facciali, assegnare a ciascuna espressione un diverso significato in termini di esperienza emotiva, attuare il comportamento congruente con l’emozione espressa. Per esempio, il bambino deve discriminare l’espressione della rabbia da quella della tristezza, conoscere quali reazioni emotive conseguono alle diverse emozioni e comportarsi di conseguenza. Le capacità richieste sono anche di natura cognitiva e comunicativa (il bambino deve essere in grado di condividere l’attenzione su un oggetto o evento), ma anche affettiva (la persona di cui il bambino registra l’espressione è qualcuno di cui il bambino si fida e con il quale ha un legame particolare, di cura e di sicurezza). Per indurre il riferimento sociale possono essere usate diverse situazioni sperimentali, alcune di semplice attuazione (durante una sessione di gioco diadico adulto-bambino viene introdotta una persona o un oggetto non noti) altre più elaborate ed escogitate con finalità diverse. È il caso, ad esempio, del precipizio visivo (visual cliff) di cui abbiamo parlato nel Capitolo 4, implementato per studiare la percezione di profondità e indirettamente funzionale alla raccolta di informazioni attinenti anche ad altri ambiti di sviluppo. La ricerca, oltre a considerare le caratteristiche del bambino che usa il riferimento sociale e dell’adulto che lo mette in atto, si focalizza anche sulla tipologia dell’informazione fornita dall’adulto (Cigala e Venturelli, 2011). Ad esempio, in una ricerca di Vaish e Striano (2004) la voce della madre sembra essere uno stimolo più potente dell’espressione del viso nel modificare il comportamento del bambino.
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Ripasso e spunti di riflessione Spiega lo sviluppo sociale precoce: riferimento e comprensione sociale Ripasso ▮▮ Come può essere descritto lo sviluppo sociale precoce? ▮▮ Come si svolgono le interazioni faccia-a-faccia e in cosa consiste il paradigma dello stillface? ▮▮ Quando e come il bambino “scopre” l’intenzionalità? ▮▮ Cos’è il social referencing e che ruolo ha nello sviluppo socio-emotivo? Spunti di riflessione ▮▮ Pensa all’esperimento del precipizio visivo. Descrivi quali informazioni fornisce circa lo sviluppo socio-emotivo e cognitivo del bambino.
9.5 L’attaccamento
Attaccamento Un legame emotivo stretto tra due persone.
Finora abbiamo discusso come le emozioni e la competenza emotiva cambino con lo sviluppo del bambino. Abbiamo anche esaminato il ruolo dello stile emotivo; di fatto, abbiamo visto come le emozioni regolano il tono delle nostre esperienze nella vita. Ma le emozioni sono anche l’essenza della vita perché sono il centro delle nostre relazioni con gli altri. In prima fila tra queste relazioni c’è l’attaccamento. Danielle, una bimba dai capelli ricci di 11 mesi, comincia a frignare. Dopo pochi secondi, inizia a piangere. Appena la mamma entra nella stanza il pianto cessa. Prontamente Danielle va carponi fino a dove è seduta la mamma e si allunga per essere presa in braccio. Danielle ha appena dimostrato l’attaccamento a sua madre. Che cos’è l’attaccamento? L’attaccamento è uno stretto legame emotivo tra due persone. Nel senso più generale, infatti, il termine attaccamento, indica il legame particolare che unisce stabilmente il bambino alla madre o, comunque, al caregiver e cioè alla persona adulta che si prende cura di lui a partire dalla nascita. Non è un legame di dipendenza del bambino dalla madre, bensì un legame affettivo, intimo, costante e duraturo che lega i due membri della diade in modo da garantirne vicendevolmente vicinanza, protezione e sicurezza; si basa sulla tendenza a cercare una base sicura e, se interrotto, provoca ansia da separazione (Simonelli e Calvo, 2002). Tutti questi aspetti, che contribuiscono a definire la peculiarità del legame, verranno descritti tra breve, ma prima vediamo quali siano i principali autori che si sono preoccupati di definirlo e sistematizzarlo in una qualche teoria.
9.5.1 Teorie dell’attaccamento Certo non mancano teorie sull’attaccamento infantile. Tre teorici, visti nel Capitolo 1– Freud, Erikson e Bowlby – hanno proposto punti di vista autorevoli. Freud riteneva che i neonati si attaccassero alla persona o all’oggetto che forniva loro soddisfazione orale. Per la maggior parte dei neonati, questa
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Capitolo 9 ▮ Lo sviluppo emotivo e affettivo 355
24
Media delle ore per giorno
Figura 9.6 Tempo a contatto con le madri surrogato di cavi elettrici e di stoffa I neonati di scimmia preferivano indubbiamente passare il loro tempo a contatto con una mamma di tessuto, senza badare se a nutrirli era una mamma di cavi o una di tessuto.
Nutrito dalla madre di tessuto 18 Ore al giorno passate con la madre di tessuto 12
Nutrito dalla madre di cavi elettrici
6 Ore al giorno passate con la madre di cavi elettrici 0 1-5
6-10 11-15 16-20 21-25 Età (giorni)
è la madre, poiché è probabile che sia lei a nutrire il bambino. Il nutrimento è così importante come pensava Freud? Uno studio classico di Harry Harlow (1958) rivela che la risposta è no (vedi Figura 9.6). Harlow tolse alla nascita dei neonati di scimmia alle loro madri; per 6 mesi furono allevati da delle “madri surrogato” (sostituto materno). Una madre surrogato era costruita con un cilindro ricoperto da cavi elettrici, l’altra con la stoffa. Metà dei neonati di scimmia veniva nutrita dalle madri di cavi elettrici, metà dalle madri di stoffa. È stata calcolata periodicamente la quantità di tempo che i neonati passavano o con la mamma di cavi o con quella di stoffa e si è visto che, non importava quale madre li nutrisse, perché i neonati passavano molto più tempo con la madre di stoffa. Questo studio mostra chiaramente che il nutrimento – e la soddisfazione del bisogno di cibo che ne deriva – non è l’elemento cruciale nel processo di attaccamento e che il piacere della vicinanza e del contatto è importante. Anche per il comportamentismo, l’attaccamento al caregiver deriva dalla soddisfazione di bisogni primari: secondo le leggi del condizionamento classico di Pavlov, la soddisfazione di un bisogno primario, come la fame, costituisce un rinforzo primario e rinforzanti sono anche gli eventi a essa associati. In quest’ottica la madre che provvede al nutrimento, per il bambino è un rinforzo secondario e ugualmente secondario (appreso) è il bisogno della sua vicinanza. Il benessere fisico gioca un ruolo chiave anche nell’opinione di Erik Erikson (1968) sullo sviluppo del neonato. Ci riferiamo alla proposta fatta da Erikson che il primo anno di vita rappresenti lo stadio della fiducia contro la sfiducia. Benessere fisico e cure sensibili, secondo Erikson (1968), sono le chiavi per stabilire una fiducia di base nei neonati. Il senso di fiducia del neonato, a sua volta, è la base per l’attaccamento e costituisce il presupposto per un’aspettativa duratura che il mondo sia un posto buono e piacevole dove stare.
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Anche la prospettiva etologica dello psichiatra inglese John Bowlby (1969, 1989) mette l’accento sull’importanza dell’attaccamento durante il primo anno di vita e sulla sensibilità del caregiver. Bowlby, però, ritiene che sia i neonati sia chi si prende primariamente cura di loro siano biologicamente predisposti a sviluppare degli attaccamenti. Lo psichiatra inglese può essere considerato il “padre” della teoria dell’attaccamento nella misura in cui ipotizza una predisposizione biologica del bambino verso una persona basata su una motivazione intrinseca e primaria, quale il bisogno di scambi sociali. Egli, accogliendo le ricerche condotte in campo etologico da Lorenz sull’imprinting e da Harlow, ritiene che la specie umana sia dotata alla nascita di sistemi comportamentali specie-specifici di cui il sistema di attaccamento è un esempio, cioè un’organizzazione interna all’individuo di comportamenti innati, indipendenti da precedenti apprendimenti e attivati da fattori interni (fame, fatica, disagio) ed esterni (partenza, assenza, ritorno della figura di attaccamento) allo scopo di mantenere la relazione con la figura di attaccamento. I comportamenti di attaccamento (o schemi comportamentali), organizzati all’interno del sistema, sono azioni preprogrammate messe in atto dal bambino per conquistare e mantenere la prossimità e il contatto con la madre; alcuni di questi comportamenti sono distali (seguire, gattonare, piangere), altri prossimali (succhiare, sorridere, aggrapparsi). Il neonato piange, si aggrappa, gorgheggia e sorride, più tardi, il bambino va a carponi, cammina e segue la madre. Il risultato immediato è quello di rimanere vicino al caregiver; l’effetto a lungo termine è di aumentare le possibilità di sopravvivenza (Rollo, 2005; Riva Crugnola, 2007, 2012). L’attaccamento non emerge improvvisamente, ma si sviluppa piuttosto in una serie di fasi che partono da una generica preferenza del neonato per gli esseri umani, fino al legame con il caregiver primario. Presentiamo ora quattro fasi basate sulla concettualizzazione dell’attaccamento proposta da Bowlby e ripresa da Schaffer (1996): ▮▮ Fase 1: dalla nascita ai 2 mesi. Il bambino mette in atto i comportamenti di attaccamento ma non in modo selettivo, in quanto non li indirizza verso una persona in particolare; estranei, fratelli e genitori hanno la stessa probabilità di sollecitare il sorriso o il pianto del neonato. ▮▮ Fase 2: da 2 a 7 mesi. Il piccolo produce segnali orientati in misura maggiore verso una persona, generalmente il caregiver primario, man mano che impara gradualmente a differenziare le persone familiari da quelle non familiari, ma non si può ancora parlare di ansia da separazione. ▮▮ Fase 3: da 7 a 24 mesi. Si sviluppano attaccamenti specifici. Con l’aumento delle abilità locomotorie i bambini cercano attivamente il contatto con i caregiver regolari, in genere la madre o il padre. Si può cominciare a parlare di vero e proprio “legame di attaccamento” in quanto il bambino manifesta ansia e protesta da separazione, ma anche atteggiamenti di esplorazione nei confronti dell’ambiente e paura dell’estraneo. ▮▮ Fase 4: da 24 mesi in poi. I bambini diventano attenti ai sentimenti degli altri, agli obiettivi e ai piani e cominciano a tenerne conto nel programmare le loro azioni: si stabilizza la relazione tra madre e bambino, che cooperano per uno scopo comune, vale a dire darsi conforto e mantenere la vicinanza. Il legame è reciproco: ora anche il bambino è in grado di adattarsi alle esigenze della madre, accettando, per esempio, brevi periodi di separazione. Alcune ricerche recenti hanno verificato che i bambini sono socialmente più sofisticati e competenti rispetto a quanto lascerebbe prevedere l’enunciazione della fase 4 di Bowlby. Ad esempio, la
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comprensione degli scopi e delle intenzioni della figura di attaccamento sembra essere sviluppata nel bambino già nella fase 3, man mano che si forma l’attaccamento sicuro (Thompson, 2008). Bowlby ritiene che a partire dalla quarta fase che il bambino si forma delle rappresentazioni della relazione, Internal Working Model o Modelli Operativi Interni (MOI): modelli mentali del caregiver, della loro relazione e di se stesso come meritevole di cure. I modelli operativi interni del bambino con il caregiver influenzano le risposte del bambino alle altre persone (Bretherton e Munholland, 2008; Posada, 2008) e giocano anche un altro ruolo centrale nella scoperta dei nessi tra attaccamento e comprensione delle emozioni, sviluppo della coscienza e concetto di sé (Thompson, 2006). In breve, l’attaccamento emerge dallo sviluppo di competenze sociocognitive che permettono al bambino di svilupparsi aspettative sul comportamento del caregiver e di determinare la qualità affettiva della loro relazione (Thompson, 2006). Questi progressi socio-cognitivi, di cui abbiamo parlato anche nel paragrafo precedente, includono l’esplorazione del volto, della voce e di altre caratteristiche del caregiver, come anche lo sviluppo di modelli operativi interni funzionali a crearsi delle aspettative sul caregiver per poter avere successo nelle interazioni sociali e ricevere sollievo.
9.5.2 Differenze individuali nell’attaccamento
Strange Situation. Tecnica ideata da Ainsworth basata sull’osservazione dell’attaccamento dei bambini al caregiver che richiede che il bimbo passi attraverso una serie di introduzioni, separazioni e riunioni con il suo caregiver e un adulto estraneo secondo un ordine predefinito.
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Sebbene l’attaccamento a un caregiver si intensifichi a metà del primo anno di vita, non è probabile che alcuni bambini abbiano un’esperienza di attaccamento più positiva di altri? Mary Ainsworth pensa che sia così. Ainsworth (1979), a partire dalle ricerche condotte negli Stati Uniti e in Uganda sulle interazioni madrebambino, ha messo a punto la Strange Situation (situazione strana o sconosciuta), una tecnica che misura l’attaccamento del bambino basata sull’osservazione sistematica dell’interazione madre-figlio durante la prima infanzia (è impiegata con bambini d’età compresa tra i 12 e i 24 mesi). La Strange Situation ha l’obiettivo di attivare e intensificare i comportamenti di attaccamento del bambino nei confronti del genitore, sottoponendolo a una situazione di stress moderato ma crescente nel tempo. La procedura, infatti, si svolge in un contesto non familiare (a quest’ultimo si riferisce l’aggettivo strange, che ha il significato di “non familiare, insolito”), il laboratorio di osservazione appunto, e prevede la presenza di una persona adulta sconosciuta al piccolo (definita come “l’estraneo”), nonché una serie di separazioni e ricongiungimenti con la madre nel corso di otto episodi in un ordine predefinito, descritto in Figura 9.7 per la durata complessiva di 21 minuti circa (Simonelli e Calvo, 2002; Rollo, 2005). Utilizzando la Strange Situation, i ricercatori confidano che le loro osservazioni possano fornire informazioni sulla motivazione del neonato a essere vicino al caregiver e sul grado in cui la presenza del caregiver dà al neonato sicurezza e fiducia. A partire dall’osservazione del comportamento del bambino nel setting previsto dalla Strange Situation si può arrivare a una classificazione dei diversi tipi di attaccamento. La situazione sperimentale prende in considerazione fondamentalmente: la funzione di base sicura per l’esplorazione del mondo esterno che la madre ha per il bambino, la risposta del bambino all’estraneo, la risposta del bambino alla separazione e alla riunione con la madre, la qualità dell’esplorazione e del gioco. Esaminando questi fattori si
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358 Capitolo 9 ▮ Lo sviluppo emotivo e affettivo
EPISODIO PRESENTI
PERSONE DELL’EPISODIO
DURATA DEL SETTING
DESCRIZIONE
1
Caregiver, bambino e osservatore
30 secondi
L’osservatore fa entrare il caregiver e il bambino nella stanza dell’esperimento, poi se ne va (la stanza contiene molti giocattoli attraenti sparsi qua e là).
2
Caregiver e bambino
3 minuti
Il caregiver non partecipa all’esplorazione del bambino; se necessario stimola il gioco dopo 2 minuti.
3
Estraneo, caregiver e bambino
3 minuti
Entra l’estraneo. Primo minuto: l’estraneo è in silenzio. Secondo minuto: l’estraneo conversa con il caregiver. Terzo minuto: l’estraneo si avvicina al bambino. Dopo 3 minuti il caregiver se ne va senza farsi notare.
4
Estraneo e bambino
3 minuti o meno
Primo episodio di separazione. Il comportamento dell’estraneo si adegua a quello del bambino.
5
Caregiver e bambino
3 minuti o più
Primo episodio di riunione. Il caregiver saluta e/o consola il bambino, poi prova a rimettere il bambino a giocare. Il caregiver si allontana dicendo “Ciao”.
6
Bambino da solo
3 minuti o meno
Secondo episodio di separazione.
7
Estraneo e bambino
3 minuti o meno
Continua la seconda separazione. L’estraneo entra e adatta il suo comportamento a quello del bambino.
8
Caregiver e bambino
3 minuti
Secondo episodio di riunione. Entra il caregiver, saluta il bambino, poi lo prende in braccio. Intanto l’estraneo se ne va senza farsi notare.
Figura 9.7 La Strange Situation della Ainsworth Mary Ainsworth ha sviluppato la Strange Situation per valutare se i bambini hanno un attaccamento sicuro o insicuro al loro caregiver. Qui sono descritti gli episodi che fanno parte della Strange Situation della Ainsworth.
rileva l’esistenza di tre tipi di attaccamento (ai quali Main ha aggiunto una quarta categoria, che presuppone un legame insicuro di tipo disorganizzato). Riassumiamo di seguito la classificazione dei tipi di attaccamento, che risulta dalle ricerche di Ainsworth e Main. Bambini sicuri. Il bambino usa il caregiver come una base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente.
Bambini insicuri evitanti. Bambini che mostrano insicurezza evitando la madre.
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▮▮ I bambini sicuri usano il caregiver come una base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente. Nella Strange Situation, quando il caregiver è presente, questi bambini esplorano la stanza ed esaminano i giochi presenti in essa, quando il caregiver esce potrebbero protestare debolmente e quando il caregiver ritorna ristabiliscono un’interazione positiva, magari sorridendo o arrampicandosi sulle sue gambe. Successivamente, spesso ritornano a giocare con i giochi della stanza e anche con l’estraneo. ▮▮ I bambini insicuri evitanti mostrano insicurezza evitando la madre. Nella Strange Situation questi bimbi si dedicano a piccole interazioni con il caregiver, non sono stressati quando questi lascia la stanza, generalmente non ristabiliscono un contatto quando ritorna e, a questo punto,
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Bambini insicuri resistenti. Bambini che potrebbero aggrapparsi al caregiver e poi resistergli lottando contro la sua vicinanza, magari colpendolo o spingendolo via. Bambini insicuri disorganizzati. Bambini che mostrano insicurezza essendo disorganizzati e disorientati.
possono anche girargli la schiena. Se si stabilisce un contatto, il bambino generalmente si tira indietro o guarda da un’altra parte. ▮▮ I bambini insicuri resistenti spesso si aggrappano al caregiver e poi gli resistono lottando contro la vicinanza, magari colpendolo o spingendolo via. Nella Strange Situation, questi bimbi spesso si aggrappano con ansia al caregiver e non esplorano la stanza dei giochi. Quando il caregiver si allontana, spesso piangono forte e lo spingono via se al ritorno cerca di consolarli (per questo loro comportamento sono anche definiti “ambivalenti”). ▮▮ I bambini insicuri disorganizzati sono disorganizzati e disorientati. Nella Strange Situation, questi bimbi potrebbero apparire intontiti, confusi o impauriti. Per essere classificati come disorganizzati, i bambini devono mostrare forti modelli di evitamento e resistenza ed esibire dei comportamenti specifici, come un’estrema timidezza nei confronti del caregiver.
Valutazioni della Strange Situation
From “Cross-Cultural Pattern of Attachment: A Meta-Analysis of the Strange Situation” by M.H. van Ijzendoorn and P.M. Kroonenberg. Child Development, 59, pp. 147156 © 1988 by Blackwell Publishing Ltd. Reprinted with permission of Blackwell Publishing Ltd.
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80 Sicuro
Evitante
Resistente
70
Percentuale di bambini
Figura 9.8
Confronto dell’attaccamento in culture diverse. In uno studio fu misurato l’attaccamento infantile in tre diversi Paesi – Stati Uniti, Germania e Giappone – utilizzando la Strange Situation della Ainsworth (van IJzendoorn e Kroonenberg, 1988). Il modello di attaccamento prevalente in tutti e tre i Paesi era l’attaccamento sicuro. Tuttavia, i bambini tedeschi erano più evitanti e i bambini giapponesi meno evitanti e più resistenti di quelli statunitensi.
La Strange Situation riesce a cogliere le differenze importanti tra i bambini? Come misura dell’attaccamento, può essere influenzata dalla cultura. Per esempio, i bambini tedeschi e giapponesi spesso mostrano modelli diversi di attaccamento dai bambini americani e occidentali in generale. Come illustrato nella Figura 9.8, i bambini tedeschi sono più pronti a esibire modelli di attaccamento evitante e i bambini giapponesi lo sono di meno rispetto agli statunitensi (van IJzendoorn e Kroonenberg, 1988). Il modello evitante nei bambini tedeschi probabilmente si presenta perché i caregiver li incoraggiano a essere indipendenti (Grossmann et al., 1985). Come si vede anche nella Figura 9.8, i bambini giapponesi sono più propensi di quelli americani a essere classificati come resistenti. Questo può avere più a che fare con
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Stati Uniti
Germania
Giappone
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la Strange Situation come misura di attaccamento che con l’attaccamento insicuro in sé. Le mamme giapponesi lasciano raramente i bambini da accudire a figure non familiari. Perciò, la Strange Situation potrebbe creare molto più stress ai bimbi giapponesi che a quelli americani, meglio abituati alla separazione dalle loro madri (Miyake, Chen e Campos, 1985). Sebbene ci siano variazioni culturali nella classificazione dell’attaccamento, tuttavia, la classificazione più frequente in ogni cultura studiata finora è l’attaccamento sicuro (Thompson, 2006; van IJzendoorn e Kroonenberg, 1988), anche se in alcuni casi si possono avere risultati contraddittori a seconda che si adotti una classificazione che includa o meno la categoria dei bambini disorganizzati, come evidenziato in una ricerca italiana di Fava Vizziello, Calvo e Simonelli (2003). In questa ricerca i bambini classificati come sicuri sono del 44,20% se non si considera la categoria dei disorganizzati (contro il 39,50% degli evitanti e il 16,30% dei resistenti), ma le percentuali cambiano se la classificazione comprende quattro e non tre tipi di attaccamento: 41,90% i bambini sicuri, 23,20% gli evitanti, 14% gli ambivalenti e 20,90% i disorganizzati. Questi risultati richiamano i fattori che influenzano la validità e l’attendibilità della Strange Situation. A questo proposito, alcuni critici evidenziano che il comportamento nella Strange Situation – come in altre valutazioni in laboratorio – potrebbe non essere indicativo di quello che i bambini fanno in un ambiente naturale. D’altra parte, altri ricercatori hanno visto che i comportamenti dei bambini nella Strange Situation sono strettamente legati a come si comportano a casa in risposta alla separazione e alla riunificazione con le loro madri (Pederson e Moran, 1996). Perciò molti ricercatori ritengono che la Strange Situation continui a mostrarsi utile nella misura dell’attaccamento infantile, nonostante abbia anche altri limiti come, per esempio, il non poter essere ripetuta senza andare a discapito del carattere “strange” della Situazione e il non poter essere applicata oltre i 2 anni d’età del bambino (Cassibba e D’Odorico, 2000). È per far fronte a questi limiti che in bambini di 12-36 mesi può essere impiegato l’Attachment Q-Set (AQS) di Waters e Deane (1985), tradotto e validato nella versione italiana da Cassibba e D’Odorico (2000). Questo strumento consiste nell’ordinamento di una serie di item descrittivi, trascritti su 90 cartoncini distinti, che servono da guida per l’osservazione del bambino. In sintesi: l’osservatore esterno, che può essere anche l’educatore o l’insegnante, raggruppa i cartoncini sulla base del loro grado di somiglianza al comportamento esibito dal bambino, avendo cura di basare la propria valutazione sui comportamenti effettivamente osservati (Rollo e Pinelli, 2010).
Le differenze nell’attaccamento nel corso dello sviluppo Sono importanti le differenze individuali nell’attaccamento? La Ainsworth crede che l’attaccamento sicuro nel primo anno di vita sia una base importante per lo sviluppo psicologico futuro. Il bambino con attaccamento sicuro si allontana liberamente dal caregiver, ma controlla sempre dove si trova dandogli delle rapide occhiate. Il bambino con attaccamento sicuro risponde positivamente quando viene preso in braccio da altri, quando viene messo giù si allontana liberamente per giocare. Un bambino con
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attaccamento insicuro, al contrario, evita o prova ambivalenza verso il caregiver, teme gli estranei e rimane turbato dalle brevi separazioni quotidiane. Per i bambini di altri studi, invece, c’è poca continuità tra tipo di attaccamento nella prima infanzia e competenza sociale futura (Thompson, 2006). La coerenza della cura, nel corso degli anni, è probabilmente un fattore importante nel connettere il primo attaccamento al futuro adattamento sociale del bambino, però non tutte le ricerche rivelano il potere predittivo dell’attaccamento infantile rispetto a sviluppo successivi. In uno studio longitudinale, la classificazione dell’attaccamento nell’infanzia non era predittiva di quella a 18 anni (Lewis, Feiring e Rosenthal, 2000). In questo studio, il predittore migliore di un attaccamento insicuro a 18 anni era il divorzio dei genitori negli anni precedenti. Ciò che collega l’attaccamento infantile con il funzionamento personale successivo nel corso dello sviluppo, probabilmente consiste nelle cure genitoriali prolungate per un certo numero di anni. I ricercatori ritengono che cure precoci ed esperienze successive, specialmente cure materne ed esperienze stressanti, sono correlate con il tipo di comportamento e di adattamento del bambino in periodi successivi del suo sviluppo (Thompson, 2006). Alcuni teorici dello sviluppo ritengono che sia stata posta troppa enfasi sul legame di attaccamento nell’infanzia (Newcombe, 2007). Jerome Kagan (1987, 2000), per esempio, pensa che i neonati siano molto resilienti e adattivi; sostiene che sono evolutivamente attrezzati per avere uno sviluppo positivo, anche di fronte a un’ampia varietà di cure genitoriali. Kagan e altri sostengono che le caratteristiche genetiche e il temperamento giocano ruoli più importanti nelle competenze sociali del bambino di quanto i teorici dell’attaccamento, quali Bowlby e Ainsworth, siano disposti ad ammettere (Bakermans-Kranenburg et al., 2007). Per esempio, se dei bambini ereditano una bassa tolleranza allo stress, questo, piuttosto che un legame di attaccamento insicuro, può essere responsabile dell’incapacità a trovarsi bene con i pari. Uno studio recente ha trovato dei collegamenti tra l’attaccamento disorganizzato nell’infanzia, uno specifico gene e il livello di responsività materna. In questo studio, un attaccamento disorganizzato si sviluppava nell’infanzia solo quando i bambini avevano una versione corta del gene 5-HTTLPR, gene per il trasporto della serotonina (Spangler et al., 2009). I bambini non erano caratterizzati da questo stile di attaccamento quando avevano la versione lunga del gene (Spangler et al., 2009). Però questa interazione gene-ambiente si verificava solo quando le madri mostravano bassi livelli di responsività verso i loro bambini. Un’altra critica alla teoria dell’attaccamento è che ignora le differenze che possiamo trovare nel mondo del bambino rispetto agli agenti di socializzazione e ai contesti di sviluppo. Un sistema di valori culturali può influenzare la natura dell’attaccamento (Cole e Tan, 2007; Shiraev e Levy, 2010). Le aspettative materne per l’indipendenza dei propri figli sono più alte nel nord della Germania, mentre le madri giapponesi sono più motivate a tenere i figli legati a loro (Grossman et al., 1985; Rothbaum e Trommsdorff, 2007). Pertanto non sorprende che i bambini del nord della Germania tendono a mostrare meno angoscia dei bambini giapponesi quando vengono separati dalla loro madre. Inoltre, in alcune culture i bambini mostrano attaccamento a più persone. Tra gli Hausa (che vivono in Nigeria), sia le nonne sia i fratelli si occupano in maniera significativa della cura dei bambini (Harkness e Super, 1995). I neonati nelle società agricole tendono a sviluppare un attaccamento
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verso i fratelli più grandi, ai quali viene assegnata una grossa responsabilità nella cura dei fratelli più piccoli. I ricercatori riconoscono l’importanza di caregiver competenti ed educativi nello sviluppo di un neonato (Thompson et al., 2009). Il punto, tuttavia, è se sia cruciale un attaccamento sicuro, specialmente a un unico caregiver (Lamb, 2010; Thompson, 2006). Relativamente all’importanza della sicurezza nell’attaccamento per lo sviluppo, nonostante le critiche, in letteratura prevale l’idea che l’attaccamento sicuro nell’infanzia sia importante perché riflette una relazione genitore-bambino positiva e adattiva e fornisce la base che supporta uno sviluppo socio-emotivo equilibrato negli anni futuri (Sroufe, Coffino e Carlson, 2010; Thompson e Newton, 2009). Quanto al fatto che il legame di attaccamento si possa stabilire con un’unica o con più figure di accadimento, Bowlby, nella prima formulazione della sua teoria (1969), usò il termine monotropia (derivato dal greco, letteralmente significa “volgersi verso una sola direzione”) per indicare il legame privilegiato del bambino con una sola figura di attaccamento, nella convinzione che la relazione affettiva esclusiva che l’attaccamento rappresenta debba essere unica. In realtà, i successivi sviluppi della teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1973, 1980) hanno portato a una revisione di alcuni presupposti, quale quello della monotropia parlando di attaccamenti multipli: l’attaccamento può essere rivolto già al suo formarsi anche ad altri familiari oltre alla figura materna, mettendo in discussione quindi l’esclusività di cui la madre era investita e negando che una relazione affettiva tra il bambino e il padre possa costituirsi solo conseguentemente a quella primaria tra il bambino e la madre (Schaffer, 2005; Cassibba, 2003). Inoltre, nello studio degli attaccamenti multipli ci si è concentrati anche nello studio del legame che i bambini possono stabilire con le educatrici di asilo nido (Cassibba e D’Odorico, 2000).
9.5.3 Dai comportamenti ai modelli mentali dell’attaccamento Come abbiamo visto parlando della Strange Situation, alcuni autori ritengono che nella prima infanzia si possa valutare l’attaccamento e la sua qualità a partire dai comportamenti messi in atto dal bambino in situazioni potenzialmente stressanti, qual è appunto la situazione “strana” di laboratorio ideata da Ainsworth. Nel percorso evolutivo del legame di attaccamento, però, abbiamo visto che a un certo punto il bambino si costruisce dei Modelli Operativi Interni (MOI). In senso generale, l’espressione indica le rappresentazioni di se stessi e delle persone con le quali si è stabilito un legame significativo. Più nel dettaglio, legato alla teoria dell’attaccamento, quello di Modelli Operativi Interni (Internal Working Models, IWM), è un concetto con cui si fa riferimento a strutture mentali affettivo-cognitive, costituite da rappresentazioni che comprendono ricordi autobiografici, credenze, attitudini, motivazioni, organizzate in base alle aspettative di risposta delle figure significative dell’infanzia. In quanto strutture mentali sono modelli astratti che, però, derivano da esperienze reali e sono “operativi” nel senso che comprendono strategie comportamentali (di azioni) per rispondere alle aspettative, risolvere problemi, disagi e situazioni sociali.
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In base alla storia interazionale personale, ci si creano rappresentazioni composite in cui “contenere” noi e gli altri, il loro modo di prendersi cura di noi, il modo con cui in seguito ci sentiremo verso di loro e il modo con cui organizzeremo il nostro comportamento proprio a partire da queste aspettative. Per esempio, un bambino che durante l’infanzia ha avuto l’esperienza di interazioni protettive e di cura, dovrebbe sviluppare una rappresentazione di sicurezza nelle sue relazioni di attaccamento, cioè i suoi Modelli Operativi Interni contengono: una rappresentazione dell’altro come sensibile ai suoi bisogni, disponibile alle sue richieste ed efficace nel farvi fronte; una rappresentazione di sé come degno e meritevole di cure e una rappresentazione della relazione come sensibile e disponibile alla protezione (Main, 2008; Simonelli, 2006). Nei Modelli Operativi Interni troviamo sia aspetti di continuità che di discontinuità: dal fatto che queste rappresentazioni siano attive, cioè operative, lungo tutta la vita della persona deriva la continuità delle rappresentazioni interiorizzate che possono essere applicate a relazioni diverse, in particolare a quella che si costruisce col proprio figlio. Dalla continuità degli IWM deriva l’assunto della trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento, secondo il quale il genitore tenderà ad avere un figlio con il suo stesso stile di attaccamento (per esempio, sicuro se è sicuro), perché i suoi IWM lo guideranno nella cura secondo modalità congruenti con quelle che, a sua volta, ha ricevuto dal proprio caregiver durante l’infanzia (Fava Vizziello e Simonelli, 2005). D’altra parte, però, gli IWM nel corso del ciclo di vita conoscono aspetti di cambiamento per effetto della maturazione, dello strutturarsi di altre relazioni affettive e anche come risultato di interventi terapeutici. L’espressione Internal Working Models, non a caso, è stata coniata da Bowlby proprio per sottolineare il carattere dinamico delle rappresentazioni e l’apertura al cambiamento a seguito di possibili nuove esperienze dell’individuo. Come vedremo nel Capitolo 12 un modo per studiare e valutare il legame d’attaccamento dell’infanzia durante l’adolescenza e l’età adulta consiste nell’Adult Attachment Interview-AAI (George, Main e Kaplan, 1984). Dal momento che gli IWM del sé e delle relazioni di attaccamento, come tale, non sono misurabili in quanto rappresentazioni mentali non oggettivabili, per ovviare a tale limite, gli autori fanno ricorso all’idea che la narrazione (cioè la capacità delle persone di raccontare se stesse attraverso il linguaggio) possa essere considerata una capacità dell’individuo di comunicare le modalità attraverso le quali ha immagazzinato le proprie rappresentazioni delle relazioni. In tal senso, si ritiene che la forma della narrazione (e non il contenuto), attraverso la quale l’individuo risponde alle domande sulla sua infanzia, rifletta la forma più o meno sicura delle sue rappresentazioni (Fava Vizziello e Simonelli, 2005; Rollo e Pinelli, 2010). Va precisato, infatti, che l’AAI non valuta l’organizzazione (sicura rispetto a insicura) dell’attaccamento di un individuo a un’altra persona, bensì valuta il suo “stato mentale rispetto all’attaccamento”, stato che deriva dalle esperienze vissute nelle relazioni con le figure di attaccamento e che determina il tipo di strategia da adottare nelle relazioni attuali (Dazzi e Zavattini, 2011; Hesse, 2008) Nell’infanzia una tecnica di valutazione dell’attaccamento basata sulla narrazione consiste nel test di completamento di storie – Attachment Story Completion Task (Bretherton et al., 1990; Ongari, 2006).
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9.5.4 Stili di cura e attaccamento Che caratteristiche ha la persona con la quale si costruisce un legame di attaccamento? Da numerose evidenze empiriche (Schaffer, 2005) scaturisce che il caregiver non necessariamente è: ▮▮ ▮▮ ▮▮ ▮▮
un genitore biologico (vedi il caso del metapelet dei kibbutz israeliani); di sesso femminile; chi soddisfa le necessità fisiologiche del bambino; chi segue con continuità il bambino.
E lo stile di cura è collegato con la qualità del legame di attaccamento? Sembra di sì. Piuttosto sembra essere importante la qualità della relazione, il fatto che il caregiver sia responsivo e sensibile e provochi al suo bambino divertimento e stimolazioni piacevoli. Il termine sensibilità o responsività è usato per indicare la capacità della madre, o della figura di accudimento, di accorrere in sincronia con il bisogno del bambino. In questo concetto, sono generalmente compresi tre aspetti: la tempestività, la coerenza e l’adeguatezza del comportamento dell’adulto in risposta a un comportamento del bambino (Rollo, 2005). In pratica, il caregiver sensibile risponde prontamente al pianto del bambino, intuendo che è un segnale di disagio, consola il bambino se è di malumore, si rende disponibile a interagire e ad attribuire significati ai comportamenti del bambino. Ci si chiede allora: lo stile di cura è legato alla qualità dell’attaccamento del neonato? I bambini con attaccamento sicuro hanno caregiver sensibili ai loro segnali e molto disponibili a rispondere ai bisogni del bambino (Bigelow et al., 2010). Questi caregiver permettono ai loro bambini di avere una parte attiva nel definire l’inizio e il ritmo dell’interazione, nel primo anno di vita. Uno studio recente rivela che la sensibilità materna nel rispondere al bambino era collegata all’attaccamento sicuro del bambino (Finger et al., 2009). Un’altra ricerca ha evidenziato come la sensibilità materna nelle cure genitoriali era correlata all’attaccamento sicuro nei bambini di due culture: Stati Uniti e Colombia (Carbonell et al., 2002). Sebbene la sensibilità materna sia correlata positivamente allo sviluppo di un attaccamento sicuro nell’infanzia, è importante sottolineare come questo collegamento non è particolarmente forte e, soprattutto, deterministico (Campos, 2009). E comunque le ricerche degli ultimi anni (Cassibba e Van Ijzendoorn, 2005) sembrano dare più peso nello sviluppo di un attaccamento di tipo sicuro alla sensibilità del caregiver piuttosto che al temperamento del bambino, anche se è chiaro che l’essere responsiva e/o sensibile, a sua volta, dipende da caratteristiche temperamentali della madre, caratteristiche temperamentali del bambino e da aspetti socio-culturali ed economici del contesto in cui si instaura il legame. Come interagiscono con i bambini ad attaccamento insicuro i loro caregiver? I caregiver dei bambini evitanti tendono a essere indisponibili o rifiutanti (Cassidy, 2008). Spesso non rispondono ai segnali dei loro bambini e hanno poco contatto fisico con loro. Quando interagiscono con i loro figli possono avere un atteggiamento arrabbiato o irritato. I caregiver di bambini resistenti tendono a essere incoerenti; qualche volta rispondono ai bisogni dei bimbi, qualche volta no. In genere, tendono a non essere molto affettuosi e mostrano poca sincronia quando interagiscono con i loro figli. I caregiver di bambini disorganizzati spesso li trascurano o li abusano fisicamente (Lyons-Ruth e Jacobvitz, 2008). In alcuni casi, questi caregiver sono depressi (Thompson, 2008).
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Sensibilità e mind-mindedness materna Recenti studi hanno focalizzato la loro attenzione sulla relazione tra teoria della mente e qualità della relazione di attaccamento tra la madre e il bambino; tra questi, gli studi condotti da Elizabeth Meins (1997) rappresentano un importante contributo, che unisce i presupposti della teoria bowlbiana dell’attaccamento alle concezioni teoriche vygotskiane. La studiosa ritiene che lo sviluppo delle competenze cognitive del bambino, tra cui quelle legate alla teoria della mente, si verifichi all’interno delle relazioni triadiche (madre-bambino-oggetto) e che in particolare dipenda dalla capacità della madre di inserirsi nella Zona di Sviluppo Prossimale del proprio bambino, individuando dunque con precisione il suo livello di competenza e conformandosi accuratamente a esso. La sensibilità della madre di individuare il livello di competenza del proprio figlio è quindi fondamentale affinché lei possa rispondere ai feedback del piccolo calibrando i suoi interventi. In particolare, secondo la Meins (1997), le madri di bambini “sicuri”, sono in grado di valutare le effettive capacità del proprio bambino e di comportarsi in maniera conforme a esse, senza sottostimarle (manifestando un atteggiamento eccessivamente intrusivo) o sovrastimarle (riponendo su di esse delle aspettative troppo elevate e di conseguenza non fornendo gli aiuti necessari). Inoltre, questo atteggiamento genitoriale favorisce la propensione del bambino a comprendere se stesso e gli altri aumentando di conseguenza il senso di autoefficacia e diminuendo l’ansia sociale. Attraverso uno studio longitudinale Meins e i suoi collaboratori dimostrarono come la maggior parte dei bambini valutati come “sicuri” nel primo anno di vita, a quattro anni sono in grado di risolvere il compito della falsa credenza, a differenza dei bambini valutati come “insicuri” (Meins et al., 1998): la capacità di mentalizzare non dipenderebbe dunque da fattori di carattere innato, ma dalla relazione di attaccamento sicuro rispetto alla figura materna. Il concetto chiave alla base della prospettiva di Meins, è quello di maternal mindmindedness, e si riferisce alla propensione della madre a considerare il proprio bambino come soggetto separato da sé e dotato di una mente, cioè capace di rappresentare se stesso e gli altri come dotati di stati mentali. Considerare il piccolo come agente mentale induce la madre a utilizzare nel proprio linguaggio frequenti riferimenti agli stati mentali, incoraggiandolo e stimolandolo a sviluppare le competenze relative alla capacità di mentalizzare. In un recente studio, Meins e collaboratori (2002) hanno indagato la natura della relazione tra le competenze di teoria della mente del bambino, la sicurezza dell’attaccamento e la mind-mindedness materna, definita come la capacità della madre di rivolgersi al bambino facendo dei riferimenti appropriati ai suoi stati mentali. I risultati hanno messo in evidenza come l’attitudine della madre a commentare in modo appropriato gli stati mentali del piccolo sia predittiva delle successive prestazioni del bambino nei compiti di teoria della mente: il modo in cui la madre commenta gli stati mentali del bambino e utilizza in particolare termini riferiti a stati interni ha un ruolo di primaria importanza nello sviluppo della capacità del bambino di comprendere gli stati mentali propri e altrui, e di utilizzare a sua volta un linguaggio riferito a stati interni. In questa prospettiva, la sensibilità materna è rivisitata e inserita in una rete di relazioni reciproche tra mindmindedness genitoriale, attaccamento e sviluppo della comprensione sociale del bambino. In uno
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studio recente, ad esempio, si sono indagate le relazioni tra attaccamento e lessico mentale in bambini di 3a, 4a e 5a elementare: i bambini classificati come sicuri producevano in generale una percentuale maggiore di termini riferiti a stati interni, anche se le differenze non permanevano nel caso dell’analisi sulle singole categorie di termini prodotti (Bellagamba e Cassibba, 2010).
La disponibilità emotiva Un concetto che rimanda a quello di sensibilità materna, anche se lo supera valorizzando il ruolo del bambino e configurandosi come un indice relazionale realmente diadico, in quanto derivante dal contributo congiunto di genitore e bambino, è quello di disponibilità emotiva (Biringen, Robinson e Emde, 2000). Il focus degli psicologi dello sviluppo in questo caso è sulla qualità dello scambio emotivo, e perciò sull’osservazione del genitore per valutare quanto sia presente emotivamente ai segnali e alle richieste del proprio figlio, e al contempo anche del bambino per valutare quanto sia in grado di coinvolgere il genitore (Barone e Biringen, 2007). Biringen e collaboratori (2000) hanno anche messo a punto uno strumento osservativo per la valutazione della disponibilità emotiva nelle interazioni diadiche genitorebambino, le scale della disponibilità emotiva (EAS – Emotional Availability Scales). Questo strumento prevede l’osservazione di due dimensioni inerenti al comportamento del bambino nei confronti del genitore o del caregiver e quattro riferite al modo di comportarsi del caregiver nei confronti del figlio, per un totale quindi di sei dimensioni. Del genitore si osservano sensibilità, strutturazione, non-intrusività e non-ostilità, mentre del bambino responsività e capacità di coinvolgere il genitore.
Madri e padri come caregiver La maggior parte delle nostre riflessioni sull’attaccamento si sono focalizzate sulla madre come caregiver, ma i cambiamenti socio-storico-culturali e il maggiore coinvolgimento del padre nella cura dei figli, sollecitano un ampliamento delle riflessioni fatte, attraverso una serie di domande. Prima di tutto: madri e padri differiscono nel loro ruolo di caregiver? In media le madri occupano considerevolmente più tempo nella cura dei figli, rispetto ai padri (Blakemore, Berenbaum e Liben, 2009). Le madri, generalmente, sono più inclini a intraprendere il ruolo “manageriale” con i loro figli, coordinando le loro attività, soddisfacendo ai loro bisogni di cura e benessere e così via (Parke e Buriel, 2006). Ciononostante in diversi Paesi occidentali aumenta il numero dei padri che trascorrono l’intera giornata a casa coi figli (ricorderete la storia di inizio capitolo!). Uno studio recente ha rivelato che i padri che stavano a casa coi figli erano soddisfatti del loro matrimonio come i genitori tradizionali, sebbene indicassero di sentire la mancanza della vita quotidiana nel luogo di lavoro (Rochlen et al., 2007). In questo studio i padri che stavano a casa riferivano che essi tendevano a essere isolati quando portavano i figli al parco giochi e spesso erano esclusi anche dal gruppo di parenti. I padri possono prendersi cura dei figli come le madri? Le osservazioni dei padri con i loro figli suggeriscono che i padri hanno l’abilità di attivare sensibilità e responsività con i loro figli come fanno le madri (Parke e Burie, 2006; Parke et al., 2008). In alcune culture, ad esempio presso i Pigmei Aka in Africa, i padri occupano lo stesso tempo delle madri nelle interazioni con
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i figli (Hewlett, 1991, 2000; Hewlett e MacFarlan, 2010). Ricordiamoci, però, che sebbene i padri possano essere attivi, sensibili e coinvolti nella cura dei loro figli, in diverse culture gli uomini non possono scegliere di seguire questo modello di cura genitoriale (Lamb, 2005). I padri si comportano allo stesso modo delle madri con i loro figli? Le interazioni materne, generalmente, sono centrate sulle attività di cura del bambino (dare da mangiare, cambiare il pannolino, fare il bagnetto). Le interazioni paterne, invece, è più probabile che includano il gioco (Parke, 2002; Parke e Buriel, 2006). I padri si coinvolgono di più in giochi corpo a corpo, essi lanciano il bambino in aria e gli fanno solletico (Lamb, 1986, 2000). Anche le madri giocano con i loro bambini, ma il loro gioco è meno fisico e vivace di quello dei padri. In uno studio si intervistarono i padri circa le loro responsabilità di cura dei figli di 6, 15, 24 e 36 mesi di età (NICHD Early Child Care Research Network, 2000). Alcuni di questi padri erano anche videoregistrati mentre giocavano con i loro figli a 6 e a 36 mesi. I padri erano più coinvolti nella cura – bagnetto, pannolino, alimentazione e così via, quando lavoravano meno ore delle madri, quando sia padri sia madri erano più giovani, quando i figli erano maschi e quando le madri riportavano di avere maggiore intimità di coppia. Infine, i bambini traggono benefici dal fatto che i padri siano coinvolti positivamente nella loro cura? Uno studio longitudinale con più di 7000 bambini valutati dall’infanzia all’età adulta, ha rivelato che quelli i cui padri erano impegnati estensivamente nella loro vita (ad esempio impegnandosi in diverse attività con loro e mostrando un forte interesse nella loro educazione) avevano maggiore successo scolastico (Flouri e Buchanan, 2004).
9.5.5 Neuroscienze sociali dello sviluppo e attaccamento Nel Capitolo 1 abbiamo descritto un campo di studi emergente, le neuroscienze sociali dello sviluppo e abbiamo detto che esamina le connessioni tra processi socio-emotivi, sviluppo e il cervello (Beauchamp e Anderson, 2010; Parsons et al., 2010). L’attaccamento è uno degli argomenti più importanti in cui teoria e ricerca delle neuroscienze sociali dello sviluppo hanno orientato il loro interesse. Le connessioni tra attaccamento e cervello coinvolgono neuroanatomia del cervello, neurotrasmettitori e ormoni. Sono recenti gli interessi teorici e di ricerca sul ruolo delle regioni del cervello nell’attaccamento madre-bambino (De Haan e Gunnar, 2009; Parsons et al., 2010). In un lavoro teorico pubblicato di recente si propone che la corteccia prefrontale abbia un ruolo chiave nel comportamento di attaccamento materno, come anche le regioni subcorticali, l’amigdala (implicata nelle emozioni, come abbiamo già visto) e l’ipotalamo (Gonzales, Atkinson e Fleming, 2009). Uno studio longitudinale in corso, che utilizza la risonanza magnetica funzionale-fMRI, sta esplorando la possibilità che diversi pattern di attaccamento possano essere differenziati sulla base di diversi pattern dell’attività cerebrale (Strathearn, 2007). Le ricerche sul ruolo degli ormoni e dei neurotrasmettitori, invece, hanno enfatizzato l’importanza di due ormoni, l’ossitocina e la vasopressina, nella formazione del legame madre-bambino (Bales e Carter, 2009). L’ossitocina, in particolare, è rilasciata durante l’allattamento al seno (Campbell, 2010). Di recente le proprietà dell’ossitocina combinata con la vasopressina
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– permettono il controllo di aggressività e di comportamenti sociali – stanno suggerendo l’impiego (ancora a livello sperimentale e con animali), di questo ormone per incrementare i comportamenti sociali in pazienti autistici (Sala et al., 2011).
9.5.6 Centri per l’infanzia Molti bambini della cultura occidentale oggi entrano in relazione con molti caregiver. Tanti non hanno un genitore che sta a casa per prendersi cura di loro, ma vengono affidati a servizi per l’infanzia. Questo può influenzare lo sviluppo socioemotivo e cognitivo del bambino? Molti genitori sono preoccupati che la frequenza dell’asilo nido riduca l’attaccamento emotivo dei bambini nei loro confronti, ritardi il loro sviluppo cognitivo, non insegni a controllare la rabbia e permetta loro di essere troppo influenzati dai pari. Quanto è esauriente un centro per l’infanzia? Le preoccupazioni di questi genitori sono giustificate? Anche in studi controllati, quali quelli apparsi di recente in riviste autorevoli, si sono presi in considerazione gli effetti sullo sviluppo dell’essere inserito precocemente al nido: sembra che vi sia una correlazione tra la quantità di tempo passata al nido e la comparsa di problemi comportamentali nella prima infanzia. Inoltre, nei bambini che trascorrono molte ore al nido si registra un aumento dell’ormone cortisolo che, come abbiamo visto, è in concentrazione elevata in presenza di stress (Langlois e Liben, 2003). Questi risultati sono particolarmente preoccupanti per quelle fasce della popolazione che devono necessariamente ricorrere al nido. Molti ricercatori hanno esaminato il ruolo della povertà nella qualità dei centri per l’infanzia (Chase-Lansdale, Coley e Grining, 2001; Lamb e Ahnert, 2006; McLearn, 2004; Zaslow, 2004). Uno studio recente ha visto che la permanenza estensiva del bimbo all’asilo nido era dannosa per i bambini a basso reddito solo quando la cura era di bassa qualità (Votruba-Drzal, Coley e Chase-Landsdale, 2004). Anche se il bambino stava al centro per più di 45 ore alla settimana, una cura di alta qualità, con la presenza di educatrici competenti, stabilmente inserite nella struttura e in numero abbastanza elevato da potersi dedicare individualmente a ciascun bambino, era legata a minori problemi di ansia e di comportamenti aggressivi e distruttivi. Un altro studio con bambini di 2 e 3 anni ha rivelato che un incremento del numero di asili sperimentati dal bambino è collegato con un aumento di problemi comportamentali e un decremento di comportamenti prosociali (Morrissey, 2009) Cos’è che fa sì che un programma del centro per l’infanzia sia ad alta qualità? Il programma dimostrativo sviluppato da Jerome Kagan e dai suoi colleghi (Kagan, Kearsley e Zelazo, 1978) all’Università di Harvard è esemplare. Il centro includeva un pediatra, un direttore e un insegnante ogni 3 bambini. Degli operatori aiutavano nell’assistenza. Gli insegnanti e gli operatori venivano addestrati a sorridere frequentemente, a parlare con i bambini e a fornire un ambiente sicuro che includeva molti giochi stimolanti. In questo progetto non si sono osservati effetti nocivi. Il centro di alta qualità, pertanto, incoraggia il bambino a essere impegnato in diverse attività, lo inserisce in interazioni positive che includono il ridere, il parlare al livello del bambino, il rispondere alle sue domande e incoraggiarlo a fare esperienze nuove (Clarke-Stewart e Miner, 2008). Nel Capitolo 14 descriveremo il caso
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delle scuole dell’infanzia di Reggio Emilia, esempio di centri per l’infanzia di altissimo livello, in cui la qualità del modello educativo proposto è diventato un vero e proprio metodo. È più probabile che i bambini sperimentino un asilo nido di scarsa qualità quando provengono da famiglie con poche risorse (psicologiche, sociali ed economiche). Ad esempio, l’uso di differenti tipi di centri d’infanzia varia a seconda dell’etnicità (Howes e Wishard Guerra, 2009). Le famiglie latine hanno meno probabilità rispetto ai non latini di avere bambini in centri dell’infanzia. Spesso in queste culture la cura dei bambini è ancora affidata alla famiglia, specialmente alla nonna. Gli asili nido possono nuocere a qualche bambino più che ad altri. I bambini difficili e quelli con scarso autocontrollo possono essere particolarmente a rischio (Maccoby e Lewis, 2003). Perciò può essere di aiuto insegnare al personale come promuovere le capacità di autoregolazione nei bambini (Fabes et al., 2003) e investire sforzi maggiori nel costruire l’attaccamento dei bambini ai loro asili nido e alla scuola. Per esempio, uno studio rivelava che quando i bambini sperimentavano il loro gruppo, la classe o la scuola come una comunità protettiva, mostravano un aumento dell’interesse verso gli altri, migliori abilità di risoluzione dei conflitti e una diminuzione dei problemi di comportamento (Solomon et al., 2000). Quali sono alcune strategie che i genitori possono seguire rispetto alla cura del bambino? L’esperta Kathleen McCartney (2003, p. 4) propone questi consigli: ▮▮ Riconoscere che la qualità della genitorialità è un fattore chiave nello sviluppo del bambino. ▮▮ Prendere decisioni che aumenteranno la possibilità di essere buoni genitori. “Per alcuni questo significherà lavorare full-time” per appagamento personale, per il reddito o per entrambi. “Per altri, significherà lavorare part-time o non lavorare fuori casa”. ▮▮ Monitorare lo sviluppo del bambino. “I genitori dovrebbero tenere osservato se i loro bambini mostrano problemi di comportamento”. È importante che parlino del comportamento dei loro bambini con il personale dell’asilo nido e con i pediatri. ▮▮ Prendersi il tempo per trovare il migliore asilo nido. Osservare le attrezzature di diversi centri e essere sicuri che quello che si vede piace. “Gli asili nido di qualità costano e non tutti i genitori possono permettersi il centro che vorrebbero. Tuttavia, sono disponibili dei sussidi statati per (la maggior parte) delle famiglie in stato di bisogno”.
Il congedo parentale Al giorno d’oggi molti più bambini piccoli frequentano centri per l’infanzia che in ogni altro tempo nella storia e spesso questo avviene senza che i genitori abbiano scelto, “costretti” dall’impossibilità di prendersi cura direttamente dei figli senza dovere necessariamente rinunciare al lavoro e/o alla retribuzione. Sheila Kammerman (1989, 2000a, 2000b) ha condotto un’ampia indagine sulle politiche di congedo parentale nei Paesi del mondo. Le politiche variano in base ai criteri d’idoneità, della durata del congedo, del livello d’indennità e di chi fra i due genitori può beneficiarne. Tra i Paesi industrializzati, gli Stati Uniti sono quelli che concedono il periodo più breve di congedo parentale e tra i pochi Paesi che offrono solo
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congedi non retribuiti (gli altri sono l’Australia e la Nuova Zelanda). L’Europa ha aperto la strada nella creazione di nuovi modelli di congedo parentale: l’Unione Europea (UE) nel 1992 ha previsto un congedo per maternità retribuito di 14 settimane. All’interno dell’UE, però, si possono osservare situazioni diverse. La Svezia ha una delle politiche di congedo più ampie. È permesso un congedo parentale di un anno pagato dal governo all’80% della retribuzione (incluso il congedo per maternità). Il congedo per maternità può iniziare 60 giorni prima della data presunta di nascita e terminare 6 settimane dopo la nascita del bimbo. Possono essere utilizzati altri 6 mesi fino all’ottavo compleanno del bambino (Kammerman, 2000a). Virtualmente tutte le madri ne hanno diritto e circa il 75% dei padri prende almeno una parte del congedo di cui ha diritto. Inoltre, i nonni lavoratori ora hanno il diritto di prendere delle ore per accudire un nipote ammalato. La Spagna permette un congedo per maternità retribuito (al 100%) di 16 settimane alla nascita e fino a 6 settimane prima della nascita. I padri possono prendere 2 giorni. In Italia, il periodo complessivo di astensione obbligatoria per maternità è di 5 mesi e può essere utilizzato per 1 mese prima del parto e per 4 mesi successivi alla nascita del bambino oppure per 2 mesi prima del parto e 3 mesi dopo la nascita. Al termine del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, la legislazione italiana viene incontro alle madri lavoratrici e ai padri lavoratori prevedendo una serie di agevolazioni per i genitori lavoratori: ad esempio, entrambi i genitori possono usufruire di un periodo di astensione facoltativa di 10 mesi che può essere goduto da uno solo dei genitori oppure suddiviso tra i coniugi.
Ripasso e spunti di riflessione Spiega l’attaccamento e il suo sviluppo Ripasso ▮▮ Cos’è l’attaccamento? ▮▮ Quali sono alcune variazioni individuali nell’attaccamento? Quali sono alcune critiche alla Strange Situation? E quali connessioni ha l’attaccamento con lo sviluppo successivo del bambino? ▮▮ Come sono collegati all’attaccamento gli stili di cura del bambino? Cos’è la mind-mindedness materna e cos’è la disponibilità emotiva? Quali differenze vi sono tra le cure materne e quelle paterne? ▮▮ Quali sono le affermazioni delle neuroscienze sociali dello sviluppo applicate all’attaccamento? ▮▮ Come influiscono sui bambini i centri per l’infanzia? Spunti di riflessione ▮▮ Immagina che una tua amica stia pensando di tornare al lavoro nonostante abbia un bambino di pochi mesi. Intenderebbe lasciarlo con il padre che lavora da casa. Quali pro e contro della sua decisione le potresti prospettare? Meglio avere la madre o il padre come caregiver? E come le descriveresti le implicazioni della sua scelta per lo sviluppo del bambino?
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Ripasso di fine capitolo 1. Discutere gli aspetti di base dell’emozione ▮▮ L’emozione è un sentimento o uno stato affettivo che si verifica quando una persona è in uno stato o un’interazione che sente importante, specialmente per il suo benessere. Darwin ha descritto la base evoluzionistica delle emozioni e oggi gli psicologi ritengono che le emozioni, soprattutto le espressioni facciali delle emozioni, abbiano una base biologica. Le espressioni facciali sono le stesse nelle diverse culture. Tuttavia, i modi di mostrare le emozioni non sono universali. L’evoluzione biologica ha dotato gli umani di emozioni ma il radicamento nella cultura e le relazioni forniscono diversità alle esperienze emotive. ▮▮ Il punto di vista funzionalista enfatizza l’importanza del contesto e delle relazioni nelle emozioni. Secondo questa teoria, gli obiettivi interagiscono con le emozioni in molti modi diversi. ▮▮ La competenza emotiva si focalizza sulla natura adattiva dell’esperienza emotiva. Saarni ritiene che diventare emotivamente competenti implichi lo sviluppo di abilità quali essere attenti agli stati emotivi degli altri, distinguere le emozioni altrui, fare fronte in maniera adeguata alle emozioni negative e comprendere il ruolo delle emozioni nelle relazioni. ▮▮ Denham riassume le abilità necessarie per essere emotivamente competenti in: espressione, comprensione e regolazione delle emozioni. 2. Descrivere lo sviluppo delle emozioni ▮▮ Due ampie categorie di emozioni sono: le emozioni primarie (sorpresa, interesse, gioia, rabbia, tristezza, paura e disgusto, che appaiono nei primi 6 mesi di vita) e le emozioni autoconsapevoli (empatia, gelosia e imbarazzo, che appaiono tra l’anno e mezzo e i 2 anni, e orgoglio, vergogna e senso di colpa, che appaiono intorno ai 2 anni e mezzo). Il pianto è il più importante meccanismo che i neonati hanno per comunicare con il loro mondo. I neonati hanno almeno tre tipi di pianto: il pianto
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di base, quello di rabbia e quello di dolore. Due tipi di paura che i bambini sviluppano sono: la paura dell’estraneo e l’ansia da separazione. Mentre i neonati si sviluppano è importante che si impegnino nella regolazione emotiva. I bambini della scuola materna diventano più esperti a parlare delle proprie e altrui emozioni. A 2-3 anni aumenta notevolmente il numero di termini che essi utilizzano per descrivere le emozioni e imparano di più quali sono le cause e le conseguenze dei sentimenti. A 4-5 anni, i bambini riflettono sempre di più sulle emozioni e capiscono che uno stesso evento può suscitare emozioni diverse in persone diverse. Nella seconda infanzia e nella fanciullezza i bambini mostrano una preoccupazione crescente circa il controllo e la gestione delle emozioni per soddisfare i modelli sociali. In questo periodo, i bambini accrescono anche la comprensione delle emozioni complesse come l’orgoglio e la vergogna e si rendono conto che in una particolare situazione può essere espressa più di una emozione. Tengono sempre più in considerazione gli eventi che conducono a una reazione emotiva, sopprimono e nascondono le loro emozioni e avviano delle strategie per ridirigere le loro emozioni. Lo stress è la risposta dell’individuo a circostanze ed eventi (chiamati stressor) che minacciano e mettono alla prova le sue abilità di coping. Il coping è un concetto strettamente connesso a quello di stress, infatti indica l’insieme delle strategie messe in atto da una persona per fronteggiare una situazione di stress. Il processo di coping può essere suddiviso in due componenti distinte: la gestione dei problemi e la gestione delle emozioni. La prima consiste nel cercare di liberarsi del problema; la seconda, nel cercare di liberarsi dalla sofferenza causata dal problema. (Continua)
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3. Definire le variazioni del temperamento e il loro significato ▮▮ Il temperamento è uno stile di comportamento individuale e un modo caratteristico di rispondere alle emozioni. I teorici dello sviluppo sono particolarmente interessati al temperamento dei neonati. Chess e Thomas hanno classificato i neonati come (1) facili, (2) difficili e (3) “lenti a scaldarsi”. Kagan ritiene che l’inibizione verso il non familiare sia un’importante categoria di carattere. Rothbart e Bates hanno proposto che il carattere sia classificato secondo (1) affetto positivo e avvicinamento, (2) affettività negativa e (3) capacità di controllo (autocontrollo). ▮▮ Kagan ha sostenuto che i bambini ereditano una fisiologia che li condiziona ad avere un particolare tipo di carattere ma, attraverso l’esperienza, imparano in parte a modificare il loro stile di temperamento. Le caratteristiche fisiologiche sono associate a temperamenti diversi e negli studi sull’ereditarietà del carattere è stata trovata una moderata influenza dell’eredità. I bambini molto attivi fin da piccoli hanno probabilità di diventare degli adulti estroversi. I giovani adulti mostrano meno oscillazioni dell’umore, sono più responsabili e hanno comportamenti meno rischiosi degli adolescenti. In alcuni casi un temperamento difficile è collegato a problemi di adattamento nel periodo della prima maturità. Il collegamento tra il temperamento nell’infanzia e la personalità da adulto dipende in parte dal contesto, che aiuta a strutturare la reazione verso un bambino e di conseguenza le esperienze del bambino. Per esempio, la reazione al temperamento di un bambino dipende in parte dalla differenza di genere e dalla cultura. ▮▮ Il concetto di goodness of fit si riferisce al rapporto tra il temperamento di un bambino e le richieste ambientali a cui il bambino deve fare fronte. La consonanza ottimale può essere un aspetto importante delle capacità di adeguamento del bambino. Sebbene i risultati della ricerca siano ancora incompleti, si possono fornire ai caregiver alcune raccomandazioni generali, essi dovrebbero: (1) essere sensibili alle caratteristiche individuali del bambino, (2) essere
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flessibili nel rispondere a queste caratteristiche e (3) evitare di affibbiare etichette negative al bambino. 4. Spiegare lo sviluppo sociale precoce: riferimento e comprensione sociale ▮▮ Fin dall’inizio del loro sviluppo, i bambini sono attratti dal loro mondo sociale. Le maggiori abilità socio-cognitive dei bambini, come vedremo, vanno a costituire i prerequisiti per la costituzione di un legame di attaccamento con il caregiver. ▮▮ Quando l’infante ha circa 2-3 mesi di età le interazioni con il caregiver iniziano a essere caratterizzate frequentemente dal gioco face-to-face (faccia-a-faccia), nel quale l’interazione sociale focalizzata include vocalizzazioni, carezze e gesti. Questo gioco è parte integrante della motivazione materna a creare uno stato emotivo positivo con il proprio bambino. ▮▮ Quando i bambini sviluppano la capacità di gattonare, camminare e correre, essi diventano anche abili a esplorare ed espandere il proprio mondo sociale. Queste nuove competenze di locomozione permettono al bambino di iniziare in modo indipendente dall’adulto più frequenti scambi sociali. ▮▮ L’attenzione condivisa e la capacità di seguire lo sguardo aiutano il bambino a capire che le altre persone hanno delle intenzioni. ▮▮ Un’altra importante conquista socio-cognitiva nell’infanzia è il riferimento sociale o social referencing: è il termine usato per descrivere la “lettura” dei segnali emotivi degli altri al fine di decidere come agire in una particolare situazione di incertezza. Lo sviluppo del social referencing aiuta i bambini a interpretare più accuratamente situazioni ambigue, per esempio, se un estraneo che incontrano sia o meno una persona da temere. ▮▮ Il social referencing è un fenomeno complesso che coinvolge diversi ambiti dello sviluppo: il più evidente collegamento lo stabilisce con lo sviluppo socioemotivo. Per riuscire a usare la reazione emotiva di un’altra persona come “bussola” per decidere come comportarsi di fronte a un oggetto o evento non familiare, occorre che il
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bambino sappia: discriminare tra le diverse espressioni facciali, assegnare a ciascuna espressione un diverso significato in termini di esperienza emotiva, attuare il comportamento congruente con l’emozione espressa. 5. Spiegare l’attaccamento e il suo sviluppo ▮▮ L’attaccamento è un legame emotivo-affettivo stretto tra due persone. Nell’infanzia contatto, serenità e fiducia sono importanti nello sviluppo dell’attaccamento. La teoria etologica di Bowlby sostiene che il caregiver e il bambino sono biologicamente predisposti per costruire un attaccamento. L’attaccamento si sviluppa in quattro fasi durante l’infanzia. ▮▮ I bambini con attaccamento sicuro utilizzano il caregiver, generalmente la madre, come una base sicura da cui esplorare l’ambiente. I tre tipi di attaccamento insicuro sono l’evitante, il resistente e il disorganizzato. Ainsworth ha creato la Strange Situation, una misura dell’attaccamento basata sull’osservazione. Ainsworth ritiene che l’attaccamento sicuro nel primo anno di vita fornisca una base importante per lo sviluppo psicologico successivo. La forza del legame trovato tra il primo attaccamento e lo sviluppo successivo è cambiato attraverso gli studi. Alcuni critici sostengono che i teorici dell’attaccamento non abbiano prestato un’attenzione adeguata alla genetica e al temperamento. Altri dicono che non si è adeguatamente tenuto in considerazione la diversità di agenti sociali e contesto. Nell’attaccamento sono state trovate delle variazioni culturali ma in tutte le culture studiate fino a oggi l’attaccamento sicuro è la classificazione più comune. ▮ ▮ Dopo la prima infanzia, l’attaccamento si trasforma da sistema comportamentale a sistema rappresentazionale. L’individuo conserva sotto forma di rappresentazioni mentali il legame della prima infanzia. I Modelli Operativi Interni sono queste rappresentazioni che vengono valutate per mezzo della narrazione. Un esempio di strumento valutativo narrativo dell’attaccamento è l’Adult Attachment Interview.
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▮▮ I caregiver dei bambini sicuri sono sensibili
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ai segnali dei piccoli e sono disponibili con coerenza ad andare incontro ai loro bisogni. I caregiver dei bambini evitanti tendono a essere indisponibili o rifiutanti. I caregiver di bimbi ambivalenti rifiutanti tendono a essere incoerenti nella loro disponibilità verso i bambini e generalmente non sono molto affettuosi. I caregiver dei bimbi disorganizzati spesso li trascurano o abusano fisicamente di loro. Sensibilità materna piuttosto che temperamento del bambino sembra essere il fattore importante per lo sviluppo delle differenze individuali nell’attaccamento: i bambini sicuri hanno caregiver sensibili e responsivi. Recentemente questi attributi sono stati affiancati dal concetto di mindmindedness materna che rimanda all’idea vygotskijana di Zona di Sviluppo Prossimale: la madre sensibile è colei che valuta adeguatamente i bisogni del bambino e si inserisce nella sua zona di sviluppo prossimale per sostenerne lo sviluppo. Anche il concetto di disponibilità emotiva rende conto, di recente, dell’evoluzione del concetto di sensibilità. Madri e padri differiscono nel loro ruolo di cura. Più giocosa e vivace l’interazione con il padre, ma anch’essa funzionale, quando positiva, allo sviluppo del bambino in condizioni di benessere. Le neuroscienze sociali dello sviluppo indagano i collegamenti tra processi socioemotivi e cervello nel corso dello sviluppo. Sembra che possano essere identificate precise aree del cervello che giocano un ruolo importante nell’attaccamento materno infantile. Molti più bambini che in passato sono oggi negli asili nido. La qualità di tali centri è disuguale e quello sugli asili nido rimane un argomento controverso. Si possono realizzare centri di qualità e sembrano avere pochi effetti nocivi sui bambini. In uno studio del NICHD sui centri per l’infanzia, era più probabile che i bambini provenienti da famiglie a basso reddito ricevessero una cura di qualità inferiore. Inoltre, i servizi di qualità più alta erano collegati a minori problemi del bambino.
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Parole chiave ansia da separazione 333 attaccamento 354 bambini insicuri disorganizzati 359 bambini insicuri evitanti 333 bambini insicuri resistenti 359 bambini sicuri 358 bambino “lento a scaldarsi” 342 bambino difficile 342 bambino facile 342 coping 339 emozione 322 emozioni primarie 330
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goodness of fit 347 paura dell’estraneo 333 pianto di base 332 pianto di dolore 332 pianto di rabbia 332 social referencing 353 sorriso endogeno o riflesso 332 sorriso esogeno 332 sorriso sociale 332 Strange Situation 357 temperamento 341 valutazioni cognitive 339
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