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L’internazionalizzazione delle imprese: scenari e tendenze
1
Matteo Caroli
1.1
La globalizzazione nella prospettiva dell’impresa
La globalizzazione influenza il comportamento strategico dell’impresa in cinque ambiti: 1. 2. 3. 4. 5.
mercato; concorrenza; produzione; risorse; persone e valori.
1.1.1
I mercati
La globalizzazione ha determinato un rapido e intenso sviluppo di nuovi mercati geografici in aree del globo che solo fino a trenta-quarant’anni fa erano del tutto marginali dal punto di vista commerciale. I Paesi dell’Europa orientale, la Cina, l’India, il Brasile, la Corea, la Malaysia e, in un futuro sempre meno lontano, anche diversi Paesi africani rappresentano le sedi geografiche di nuovi mercati ormai vicini a essere importanti almeno quanto quelli nei Paesi occidentali. Lo sviluppo di questi mercati ha beneficiato della progressiva (anche se non del tutto omogenea) liberalizzazione degli scambi commerciali e degli investimenti produttivi tra Paesi diversi, nonché dello sviluppo di “nicchie globali”, ovvero di segmenti di mercato che si manifestano con caratteristiche molto simili in numerosi Paesi diversi. Per l’impresa locale, l’apertura internazionale dei mercati ha un segno ambivalente: rappresenta una minaccia, poiché la espone a una concorrenza più intensa, riducendo drasticamente i fattori di “protezione” nel suo mercato d’origine; al tempo stesso, le offre però l’opportunità di estendere rapidamente il proprio volume di affari e di acquisire una significativa posizione estera, sfruttando in ambito internazionale le proprie competenze specialistiche. In questo senso, la globalizzazione penalizza le imprese locali che rimangono ancorate al solo mercato geografico di origine e al contempo favorisce quelle che sono invece pronte a replicare all’estero i fattori di successo sviluppati nel contesto competitivo di origine. L’omogeneizzazione della domanda costituisce un’ulteriore importante chiave di lettura della globalizzazione. Già circa quarant’anni fa, la forte ripresa del commercio
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
L’effetto Wimbledon: il “patriottismo economico” nel mondo globale “Tra le cose di cui gli inglesi vanno fieri vi è il loro torneo di tennis. Nessun grande giocatore l’ha mai snobbato; il lungo elenco di chi l’ha vinto coincide con quello dei grandi dell’intera era del tennis. Ma che cos’ha Wimbledon di veramente inglese? Solo il luogo, e una parte dell’esiguo pubblico fisicamente presente, mentre centinaia di milioni lo seguono alla televisione da tutto il pianeta. Il Club di Wimbledon punta a organizzare il miglior torneo e tutto volge a questo fine: eccellenza di giocatori, arbitri, prato, raccattapalle, comportamento del pubblico. L’economia segna a tal punto il nostro tempo da imporre il suo modello tanto alla più innocente quanto alla più cruenta delle contese umane che muovono la passione patriottica: lo sport e la guerra. Lo sport da divertimento è divenuto business; la politica estera è passata dalla conquista di territori a quella di mercati. L’economia, non la guerra, sembra essere divenuta il paradigma delle relazioni internazionali. L’economia invade e trasforma i campi della passione patriottica; ma questa, inversamente, non si ritira dal terreno degli interessi economici. Proprio il nesso tra interesse nazionale e interesse economico sottende molti temi del dibattito odierno sull’economia: colbertismo e italianità delle banche, futuro di FIAT e di Alitalia, investimenti italiani in Romania o in Asia ed esteri in Italia. Dobbiamo allora chiederci: il patriottismo economico ha ancora una funzione utile? Conserva davvero una ragione d’essere nonostante il rapido procedere di globalizzazione, accordi internazionali, economia di mercato? Personalmente, vedo due motivi per rispondere di sì. Sì, in primo luogo, perché la vita economica è e continua a essere animata dal senso di appartenenza a una medesima comunità, dal desiderio del suo successo, dallo spirito di solidarietà e di collaborazione; moventi tanto forti quanto il profitto aziendale e il tornaconto individuale. Sì, inoltre, perché il governo è rimasto principalmente nazionale; è perciò nello stesso tempo agente della motivazione patriottica e della politica economica. Ma se è vero che globalizzazione e mercato non isteriliscono il patriottismo economico, è anche vero che la trasformazione del contesto è tanto profonda da richiedere un nuovo manuale; il vecchio, infatti, contiene ricette di sconfitta, non di vittoria, così come nel 1939 quasi tutti i manuali militari dei pur patriottici stati maggiori contenevano ricette di sconfitta. Il primo e più importante aspetto della trasformazione avvenuta è il passaggio dall’autosufficienza all’interdipendenza che è come dire il passaggio da un’economia di guerra a una di pace. Quand’ero alle elementari s’insegnava che il dramma dell’Italia era la mancanza di materie prime; dominava la cultura dell’autosufficienza, a sua volta dominata dal pericolo della guerra. L’equivalente odierno è il ’campione nazionale’. Ma già poco dopo la scoperta di Cristoforo Colombo si disse: ’L’oro americano ha ingrassato la Spagna ma fatto ricche le Fiandre’. Certo i Britannici esulterebbero se a Wimbledon vincesse di nuovo un inglese, dopo decenni; ed esulterebbero i produttori britannici di racchette (se ve ne fossero) se tutti i partecipanti al torneo usassero solo racchette made in England. Ma qualora il Club o il governo britannico manovrassero a tali fini premi d’ingaggio ai giocatori, scelta degli arbitri, sorteggio dei turni, tifo del pubblico, il torneo scomparirebbe dal calendario dei veri campioni, dai programmi televisivi e dai bilanci pubblicitari. Una perdita netta per la Gran Bretagna. Così è accaduto per altri tornei, anche italiani”. Tommaso Padoa Schioppa Fonte: Corriere della Sera, 27 febbraio 2005.
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estero e una certa diffusione della produzione internazionale (insieme anche al manifestarsi dei primi fenomeni di convergenza socio-culturale a livello transnazionale) spinsero diversi studiosi e operatori a sottolineare la tendenza verso l’omogeneizzazione dei modelli di comportamento dei consumatori, almeno nei Paesi occidentali. Il fenomeno si è rivelato di fatto molto meno lineare di come alcuni allora prevedevano; oggi, uno dei nodi critici nelle politiche di marketing internazionale è proprio l’individuazione del corretto equilibrio tra lo sviluppo di un’offerta sostanzialmente omogenea nei diversi mercati geografici e la sua differenziazione per tenere nel debito conto le specificità di ciascuno di questi. A riguardo, è importante osservare che le tendenze socio-culturali prevalenti in questi anni stanno riducendo l’omologazione che ha fino a ora, in una certa misura, prevalso, il che va a vantaggio della presenza di tante diversità. In uno stesso luogo si trovano e coesistono (o cercano di coesistere) gruppi con caratteristiche (identità culturali, esigenze, modelli comportamentali ecc.) diverse. In questa prospettiva, il locale non si contrappone più al globale, poiché il locale tende a non avere più un’identità unica. Questo però non perché la sua identità sia stata omologata, bensì perché al suo interno convivono identità diverse, nessuna particolarmente predominante. Del, resto, il fatto che lo sviluppo delle relazioni sociali sia sempre più solo parzialmente legato alla logica spaziale riduce il “senso di appartenenza” a un determinato contesto geografico e la possibilità che da questo derivino elementi di specificità propri solo di determinati soggetti. I soggetti (persone od organizzazioni) diventano multilocali, nel senso che si caratterizzano per il legame non con un solo luogo (quello di appartenenza, quello di origine o quello globale, perché tutti i luoghi sono diventati uguali), ma con più luoghi che tra loro interagiscono sulla base del modo in cui quei soggetti si comportano e a loro volta interagiscono. La globalizzazione dei mercati ha una rilevante conseguenza, infine, sul piano delle dinamiche competitive. In primo luogo, perché determina una crescente interdipendenza tra i mercati geografici di Paesi diversi. Il collegamento tra i mercati è alla base dell’interdipendenza strategica tra i concorrenti, e più precisamente tra le imprese che si trovano a operare in una stessa area di business e negli stessi mercati geografici. In secondo luogo, perché pone le condizioni per sviluppare su scala internazionale un prodotto (e il relativo marchio) originariamente progettato per il solo mercato nel Paese di origine.
1.1.2
La concorrenza: l’emergere di nuovi sfidanti globali
La maggiore intensità della concorrenza non è stata determinata solo dalla progressiva riduzione delle barriere al commercio internazionale; in questi anni, si è osservata la nascita e rapida affermazione di moltissimi nuovi concorrenti, provenienti dai Paesi emergenti. Quelle stesse aree geografiche dove si sono affermati nuovi grandi insiemi di domanda hanno generato nuovi protagonisti dell’offerta internazionale. Nel 2008 esistevano nel mondo circa 82 000 gruppi “transnazionali”, cioè con attività produttive controllate al di fuori del proprio Paese di origine. All’inizio degli anni ’90 erano circa 35 000 e nel 2000 poco più di 60 000. Negli ultimi vent’anni, parallelamente all’aumento del numero di gruppi transnazionali, è aumentata la percentuale di quelli originari delle economie emergenti o “in
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100 80 28% 60 40 20
21% 8% 79%
72%
92%
0 1992
Figura 1.1
2000
2008
Il numero di TNC da Paesi sviluppati e da economie in via di sviluppo e in transizione, anni 1992, 2000, 2008. Fonte: UNCTAD.
transizione”. Nel 2008 questi hanno rappresentato il 28% del totale, in aumento rispetto al 21% del 2000 e ad appena l’8% nel 1992 (Figura 1.1). Del resto, nella classifica 2014 del Financial Times relativa ai primi 500 maggiori gruppi nel mondo, 91 sono originari di Paesi emergenti e in transizione1. La classifica globale di Fortune (2014) relativa ai gruppi di dimensioni maggiormente rilevanti in termini di vendite internazionali include, nei primi 100, 25 gruppi appartenenti a questi Paesi. Inoltre, nei primi 500, il numero di compagnie cinesi è passato a 95 rispetto alle 89 presenti nel 2013 (Fortune, 2013). In corrispondenza, è diminuito (pur rimanendo di gran lunga prevalente) il peso dei gruppi transnazionali originari dei Paesi “avanzati”. Gli Stati Uniti, infatti, restano il Paese leader per numero di gruppi presenti nella classifica Fortune (2014), ma rispetto al 2013 si registrano ben quattro TNC statunitensi in meno. La concorrenza internazionale è dunque sempre caratterizzata dal ruolo giocato dalle imprese originarie delle così dette “economie emergenti” o “in transizione”. Si tratta di nomi ancora per lo più poco conosciuti al largo pubblico in occidente, ma che in diversi casi hanno raggiunto posizioni di rilievo a livello mondiale; qualche esempio: la Cinese BYD è il maggiore produttore di batterie al nickel-cadmio; la messicana Cemex, che è tra i primi cinque produttori di cemento nel mondo, la brasiliana Embraer, che ha recentemente tolto alla canadese Bombardier la leadership nella produzione di aerei da trasporto a medio raggio. È importante ricordare che, in modo particolare nel caso delle imprese cinesi, ma anche per quelle di altri Paesi emergenti, una quota rilevante di questi nuovi sfidanti globali sono direttamente o indirettamente controllate dallo Stato. L’analisi delle dinamiche di internazionalizzazione di queste imprese evidenzia le spinte che spiegano tali dinamiche, i principali modelli organizzativi e gli effetti sugli equilibri competitivi nei vari settori2.
1
La definizione di Paesi emergenti e in transizione si basa sulla distinzione effettuata dall’UNCTAD (2014) tra developed, developing and transition economies. 2 Un’analisi di questo genere è stata condotta nel 2006 e aggiornata nel 2008 da Boston Consulting Group e presentata nel rapporto: New global challengers: how top companies from rapidly
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Il rapido successo di questi “nuovi sfidanti globali” è spiegato innanzi tutto proprio dal fatto di essere nati nei Paesi emergenti; per le loro caratteristiche economiche e sociali questi Paesi hanno rappresentato una piattaforma molto efficace per l’emergere di una nuova classe di imprese in grado di essere molto competitive a livello internazionale. La prima di queste caratteristiche è la dimensione del mercato locale. In Paesi come Cina, India, Brasile, la rapida crescita di una domanda interna di enormi dimensioni potenziali ha offerto alle aziende locali l’opportunità di raggiungere rapidamente dimensioni grandi. Le telecomunicazioni e le costruzioni sono due settori dove questo vantaggio è risultato molto evidente. Il basso costo degli input produttivi e in particolare del lavoro è stato il secondo grande vantaggio “ambientale” di cui hanno beneficiato le imprese nate nelle economie emergenti. I mercati locali nei Paesi emergenti hanno posto delle sfide complesse determinate da una struttura logistica e distributiva largamente inefficiente e in alcuni casi semplicemente inesistente; da un sistema amministrativo spesso opaco; infine, da un consumatore “immaturo” e con limitata capacità di spesa. Affrontando queste problematiche, le imprese locali hanno maturato delle competenze grazie alle quali hanno saputo presidiare i mercati emergenti meglio dei concorrenti internazionali. Infine, il fatto di aver dovuto affrontare nel proprio contesto geografico le grandi imprese occidentali ha spinto le aziende originarie dei Paesi emergenti a cercare la via dello sviluppo internazionale. Da un lato, hanno potuto rapidamente apprendere le logiche della competizione internazionale; dall’altro, entrando nei mercati più consolidati, si sono poste sullo stesso piano dei leader occidentali. Del resto, la presenza estera ha rappresentato anche per questi “nuovi sfidanti globali” la condizione basilare per aumentare radicalmente la loro capacità di creare valore economico. In definitiva, questi nuovi sfidanti hanno maturato molto rapidamente una visione globale del business, sia sotto il profilo dei mercati in cui essere presente, sia della ricerca delle condizioni di vantaggio competitivo. L’espansione estera non consiste nel “sommare” più o meno rapidamente al proprio Paese di origine altri contesti geografici in cui operare; significa, piuttosto, organizzare le proprie attività su scala sovra-locale, sfruttando le interrelazioni che esistono tra i diversi territori. Si tratta di un cambiamento non solo operativo o strategico, ma soprattutto culturale del vertice aziendale. Nella prima fase del loro sviluppo internazionale, la maggior parte dei nuovi sfidanti globali ha privilegiato la crescita per via “interna” o al massimo attraverso la costituzione di joint venture. In questi ultimi anni, hanno iniziato a essere frequenti anche le acquisizioni o lo scambio di partecipazioni con gruppi occidentali; per i prossimi anni, si prevede che tale tendenza andrà consolidandosi, quale naturale conseguenza dell’intensificarsi della concorrenza su scala globale con i grandi gruppi dei Paesi avanzati e delle ulteriori opportunità di crescita. Nei settori caratterizzati da mercati nazionali o regionali molto grandi, i nuovi sfidanti globali hanno concentrato la loro espansione estera nei Paesi vicini al proprio e solo successivamente (ma comunque nel giro di pochi anni), hanno puntato sulle aree geografiche più lontane, anche se maggiormente sviluppate.
developing economies are changing the world. Le considerazioni seguenti sono basate sui risultati di tali ricerche.
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
Gli approcci strategici seguiti dai nuovi sfidanti globali per competere al di fuori dei propri mercati sono solo in parte simili a quelli che hanno guidato l’espansione estera dei gruppi che hanno avuto origine nei Paesi occidentali. Si individuano i seguenti cinque approcci: 1. sviluppo a livello globale della linea di prodotti e del marchio consolidati nel mercato locale: grazie ai vantaggi di scala, ai bassi costi di produzione e disponendo di tecnologie ormai adeguate, i nuovi sfidanti globali riescono a offrire nei mercati occidentali, prodotti con un costo relativamente basso in rapporto alla qualità offerta; raggiungono un posizionamento forte nei segmenti intermedi del mercato che dà rapidamente visibilità al marchio e favorisce lo sviluppo delle relazioni con la grande distribuzione. Per quanto riguarda, in particolare, la politica di portafoglio marchi, si osservano esperienze diverse: in alcuni casi l’impresa acquisisce marchi consolidati in altri Paesi emergenti per rafforzare la posizione di mercato nella propria macroarea geografica. Si ha anche evidenza dell’acquisizione di marchi presenti in Paesi avanzati nel quadro dell’espansione in particolari segmenti di mercato. Infine, ci si pone l’obiettivo di rendere globali determinati marchi di successo nel proprio Paese; 2. sviluppo della R&S per garantire continua innovazione dell’offerta, in relazione alle specifiche esigenze nei diversi mercati geografici: la focalizzazione sull’innovazione richiede un notevole sforzo nella gestione di persone fortemente qualificate e nella loro concentrazione nelle aree in cui si può raggiungere un vantaggio competitivo rispetto ai market leader originari delle economie avanzate. Questo approccio sarà sempre più rilevante, tenuto conto della grande espansione dell’offerta di capitale umano altamente qualificato che si sta verificando nei Paesi emergenti. I settori dove questo approccio strategico risulta più osservabile sono: le telecomunicazioni, il farmaceutico, l’aerospazio, la componentistica; 3. specializzazione in una nicchia di mercato dove poter raggiungere rapidamente una leadership a livello globale: la specializzazione e la presenza in molte aree geografiche consentono di realizzare grandi volumi di produzione e conseguentemente di operare a costi unitari relativamente bassi; al tempo stesso, questo elemento favorisce la visibilità del marchio anche nei Paesi consolidati. La focalizzazione in una nicchia determina anche lo sviluppo di competenze molto specialistiche, relativamente sia alla produzione sia alla comprensione della domanda. Favorisce infine la concentrazione degli investimenti nella ricerca e quindi il rafforzamento del livello di innovazione; 4. sfruttare la grande disponibilità di risorse naturali nel proprio Paese e produrre anche per i mercati esteri: è ovviamente una strategia seguita nella filiera agroalimentare e nel minerario. Le imprese aumentano la produzione oltre i livelli assorbiti dal mercato interno, sfruttando anche il basso costo degli input produttivi; al tempo stesso, sviluppano la propria capacità logistica e distributiva per far arrivare i prodotti nei mercati internazionali. Per rafforzare l’accesso alle risorse naturali, non è raro che i nuovi sfidanti globali acquisiscano all’estero imprese che controllano tali risorse o direttamente gli asset reali; 5. sviluppare il modello di business sperimentato con successo nel proprio mercato geografico, adattandolo alle specificità dei contesti geografici nelle diverse aree geografiche: questo approccio è spesso basato su un’intensa politica di acquisizione di imprese estere per rendere più rapida l’entrata nei Paesi target.
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Capitolo 1
1.1.3
7
L’organizzazione della produzione
La produzione è il terzo ambito rilevante per l’impresa in cui si manifesta la globalizzazione nel senso della realizzazione da parte di aziende, anche di dimensioni medie o addirittura piccole, di una quota sempre più consistente di attività produttive in Paesi diversi da quello di origine. La globalizzazione si manifesta dunque nella crescente dispersione geografica delle attività della catena del valore di un’impresa e nel conseguente sempre maggior volume di investimenti di tipo produttivo realizzati in Paesi diversi da quello di origine. Questa multi localizzazione dei processi produttivi (incluse molte funzioni di supporto) in diverse, numerose aree geografiche è guidata dalla volontà dell’impresa di sfruttare le differenze tra i contesti geografici in termini di: a) costi; b) risorse; c) logistica; d) mercato. Il livello di proiezione internazionale dell’attività produttiva di una determinata impresa può essere facilmente misurato utilizzando l’“indice di transnazionalità”, definito dalla sintesi del peso che gli asset, il valore aggiunto e gli occupati all’estero hanno sul totale. L’indice può essere espresso nel modo seguente: It = a · K + b · X + c · Y
(1.1)
0 < It < 1 dove: • K = rapporto tra le immobilizzazioni investite nei Paesi esteri e il totale delle immobilizzazioni; • X = rapporto tra gli occupati3 nelle sedi estere e il totale degli occupati; • Y = rapporto tra il valore aggiunto realizzato nei Paesi esteri e il totale del valore aggiunto; • a, b, c = parametri di ponderazione delle tre variabili considerate, con valori compresi tra 0 e 1. L’indice di transnazionalità calcolato4 sui maggiori cento gruppi mondiali è stato nel 2008 pari a 63%; in Europa (con 58 gruppi considerati) l’indice arriva al 68% e nel Regno Unito (con ben 15 gruppi considerati) addirittura al 75,5%. Relativamente più bassi (tra il 50 e il 60%) i valori dei principali gruppi americani e giapponesi e di quelli originari nelle economie emergenti. Un altro indicatore utile per descrivere il livello di globalizzazione delle imprese è il network spread index, determinato dal rapporto tra il numero di Paesi ove un’impresa ha società controllate e il numero di Paesi dove essa potrebbe essere presente attraverso il controllo di società estere. Questi ultimi sono tutti i Paesi che presentano un valore positivo dello stock di IDE localizzati al loro interno5. Questo indicatore misura il grado 3
Utile osservare che per descrivere la globalizzazione dell’impresa è rilevante considerare in modo specifico il grado di internazionalizzazione del top e middle management. 4 Cfr. UNCTAD (2010), World Investment Report, p. 18. 5 Cfr. UNCTAD (2009), World Investment Report – The largest transnational corporations, p. 109. Nell’indice, il denominatore, determinate dal numero di Paesi potenzialmente sede di IDE è pari a 187.
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
La produzione mondiale di veicoli a motore Secondo i dati OICA, nel 2009 la produzione mondiale di veicoli a motore (automobili, veicoli da lavoro, autobus e pullman) è stata pari a 61,7 milioni di unità (in contrazione rispetto al 2008 di quasi il 13%). In Cina è stata realizzata quasi un quarto di tale produzione, con una crescita rispetto all’anno precedente di oltre il 48%. Il secondo Paese maggior produttore di veicoli a motore è il Giappone con quasi 8 milioni di unità; seguono gli Stati Uniti e la Germania, rispettivamente a 5,7 e 5,2 milioni. In Italia, la produzione è stata di circa 850 000 unità, quinti in Europa dopo, oltre alla Germania, anche Francia, Spagna e Regno Unito. Interessante osservare che in quest’ultimo Paese la produzione rimane consistente, nonostante tutti i marchi inglesi siano passati sotto il controllo di gruppi di altri Paesi. La produzione di Europa e America (settentrionale e meridionale) messe insieme non arriva a 25 milioni di unità, contro i quasi 32 dell’Asia. Il divario è per altro in crescita, considerato che la produzione dell’UE (a quindici) è diminuita complessivamente del 20%, quella degli Stati Uniti del 25%, mentre l’Asia nel suo insieme è rimasta stabile.
di concentrazione geografica della presenza produttiva internazionale dell’impresa; i settori dove risulta maggiore la diffusione transnazionale delle imprese sono l’elettronica, la chimica e, in misura relativamente minore, l’alimentare (food & beverages). Quelli dove è invece maggiore la concentrazione sono le costruzioni e le utilities e, in particolare, la produzione di energia elettrica. La localizzazione estera delle attività produttive è mossa da due obiettivi strategici: a) la volontà (che spesso è anche una necessità) dell’impresa di avere un maggiore radicamento nei mercati geografici più rilevanti; b) la ricerca di condizioni di produzione più vantaggiose dal punto di vista dei costi, della produttività e della disponibilità degli input produttivi. In questi anni, tali obiettivi sono divenuti alla portata di una porzione sempre più ampia ed eterogenea di aziende e in un numero sempre più elevato di Paesi. Inoltre, mentre fino all’inizio di questo decennio la diffusione all’estero delle proprie attività produttive riguardava soprattutto le imprese magari anche non grandi, ma comunque originarie dei Paesi “sviluppati”, oggi anche molte imprese che nascono in aree geografiche economicamente meno consolidate raggiungono rapidamente le condizioni per organizzare le loro attività produttive in altri Paesi (che, peraltro, non sono necessariamente quelli tradizionalmente sviluppati)6.
1.1.4
Lo sviluppo delle risorse
La prima manifestazione della globalizzazione rilevante per le imprese ha riguardato le risorse finanziarie. Nei Paesi sviluppati, l’apertura internazionale dei mercati finanziari,
6
In altri termini, stanno divenendo sempre più rilevanti i flussi di investimenti diretti esteri che riguardano solo i Paesi emergenti.
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Capitolo 1
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la liberalizzazione dei flussi e lo sviluppo della competizione tra gli intermediari anche su scala sovralocale si sono consolidati con poche eccezioni già durante gli anni Ottanta del secolo scorso. Negli ultimi vent’anni, la globalizzazione finanziaria ha progressivamente coinvolto anche le altre grandi aree economiche rimaste in precedenza sostanzialmente chiuse, Cina e Russia in primo luogo. Dal 2008, i gravissimi fattori di instabilità dei mercati finanziari internazionali hanno evidenziato chiaramente sia le strettissime interdipendenze tra comportamenti e accadimenti di soggetti appartenenti a Paesi diversi, sia l’altrettanto diretta connessione tra le dinamiche finanziarie globali e quelle della cosiddetta “economia reale”. Il notevole sviluppo dei mercati finanziari internazionali e di strumenti di finanziamento sofisticati ha rappresentato il propellente essenziale degli investimenti produttivi all’estero: ha creato le condizioni per collaborazioni tra grandi istituzioni finanziarie e gruppi industriali di Paesi diversi e reso disponibili grandi volumi di capitali per le operazioni di acquisizione e fusioni cross-border. In questi ultimi anni, le banche d’investimento internazionali hanno iniziato a esercitare un ruolo significativo anche nel processo di internazionalizzazione produttiva e commerciale delle medie e delle grandi aziende. Come diretta conseguenza dell’organizzazione a livello sovranazionale della catena del valore e in particolare del processo produttivo, i gruppi di grandi dimensioni e un numero crescente di medie imprese gestiscono gli approvvigionamenti in chiave globale. L’impresa organizza anche gli approvvigionamenti su scala sovranazionale, sulla base del semplice ma preciso principio di affidarsi a operatori esterni in grado di garantire standard internazionali di eccellenza e la capacità produttiva/organizzativa necessaria per rifornire unità produttive normalmente localizzate in varie aree geografiche. La casa-madre (ma in diversi casi, una unità operativa anche estera cui è affidato il compito di gestire determinati approvvigionamenti per tutto il gruppo) individua uno o pochi fornitori “eccellenti” per una determinata macroarea geografica. Affida a questo/i partner la fornitura degli input utilizzati dalle sue strutture produttive operanti nei diversi Paesi della macroarea in questione. Sarà compito del fornitore globale adeguare le proprie forniture alle strutture operative dell’impresa-cliente collocate in tali Paesi. In linea generale, i vertici internazionali dell’impresa cliente e del fornitore concludono l’accordo commerciale, fissando le condizioni economiche generali e le modalità principali dell’erogazione materiale dei prodotti/servizi. In particolare, a livello centrale sono stabiliti: a) i contenuti generali e gli standard qualitativi della fornitura; b) il grado di standardizzazione internazionale della fornitura; c) la struttura dei prezzi; d) il grado di esclusività del rapporto di fornitura. Sono poi gestite a livello locale le questioni operative come: a) tempi e modalità di esecuzione della fornitura; b) organizzazione logistica; c) adattamenti locali (nei limiti stabiliti dall’accordo generale). Si sviluppano relazioni di fornitura con un numero relativamente ristretto di fornitori in grado di soddisfare il fabbisogno della massima parte delle unità operative in una determinata macroarea geografica. La scelta dei partner avviene in base ai consueti parametri di competitività (rapporto prezzo/qualità, modalità di consegna ecc.), ma è anche fortemente condizionata dalla capacità degli stessi di garantire i loro approvvigionamenti su scala internazionale. Il global sourcing non esclude tuttavia che l’impresa-cliente mantenga e anzi sviluppi le relazioni con fornitori locali, a condizione che questi abbiano la capacità produttiva e le competenze organizzative per estendere la loro collaborazione a livello appunto
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
internazionale. Può accadere che sia la stessa grande impresa-cliente a stimolare l’internazionalizzazione di un determinato fornitore locale e a sostenerne il relativo processo7, sulla base della valutazione delle notevoli potenzialità che esso mostra di avere e del suo “impegno” a perseguire un consistente processo di crescita a livello appunto sovra-locale. Il notevolissimo sviluppo delle reti internazionali di generazione della conoscenza costituisce un altro aspetto della globalizzazione di primario rilievo per l’impresa. In questi anni, le modalità di acquisizione della conoscenza da parte delle imprese sono divenute più complesse. Mentre in passato questo processo avveniva soprattutto in ambito locale, all’interno della stessa organizzazione aziendale e/o collaborando con gli attori specializzati (università, centri di ricerca ecc.) collocati nello stesso contesto geografico, oggi esso avviene principalmente attraverso la presenza nelle “reti lunghe” della ricerca. L’impresa internazionale, anche di dimensioni non grandi, ha l’opportunità di connettersi con gli interlocutori migliori rispetto ai propri obiettivi di sviluppo delle conoscenze, a prescindere dalla loro particolare localizzazione geografica. La capacità dell’impresa di partecipare a progetti di ricerca internazionali diviene una discriminante competitiva sempre più importante; questi progetti (la cui stessa diffusione rappresenta una manifestazione della globalizzazione) costituiscono non solo la modalità per valorizzare e al tempo stesso sviluppare il proprio patrimonio di conoscenze, ma anche per entrare a far parte di quelle reti internazionali che sempre più risultano il contesto migliore per sviluppare significative opportunità di business. È utile ricordare a riguardo che i finanziamenti che l’Unione Europea eroga a favore del sistema produttivo tendono a privilegiare iniziative promosse da imprese di Paesi diversi, possibilmente con il coinvolgimento anche di università e organismi scientifici. Un ultimo cruciale aspetto della globalizzazione sul fronte delle risorse riguarda la fortissima intensificazione della competizione per l’acquisizione delle materie prime. Il rapido sviluppo industriale di grandi aree geografiche precedentemente marginali dal punto di vista produttivo ha inevitabilmente determinato un altrettanto forte incremento della domanda di input produttivi, in primo luogo di quelli utilizzati nell’energia, nella chimica, nella lavorazione dei metalli nella meccanica, nell’elettronica e nell’agroalimentare. Mentre in passato i sistemi produttivi dei Paesi sviluppati sono sempre riusciti a soddisfare la propria domanda di materie prime con limiti di natura per lo più congiunturale, in futuro essi si troveranno a dover fare i conti con una sempre più serrata domanda concorrente, proveniente dalle economie dei Paesi emersi o di nuova industrializzazione. È una competizione giocata non solo e non tanto a livello di singoli gruppi industriali, per quanto grandi questi possano essere, quanto soprattutto di Stati. Un esempio evidente è la politica avviata negli anni passati dall’ex presidente cinese Hu Jintao e volta al deciso rafforzamento dei rapporti politici e commerciali del suo Paese con molti Stati africani e dell’America meridionale, con l’obiettivo dichiarato di garantire alla Cina l’accesso privilegiato nel lungo termine alle forniture di materie prime.
7
Nel Capitolo 4, relativo alle dinamiche di espansione estera delle piccole imprese, questo fenomeno viene approfondito, rappresentando un meccanismo di internazionalizzazione di tale tipo di imprese molto diffuso e consistente.
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Capitolo 1
1.1.5
11
I valori e le persone
L’elevata interazione tra mercati e attori implicita nella globalizzazione ha determinato una tendenziale omogeneizzazione internazionale dei modelli di gestione e delle relative procedure che regolano il complessivo funzionamento del sistema aziendale. La stessa diffusione dei gruppi internazionali, con un’impresa casa-madre che controlla numerose strutture aziendali operanti in Paesi diversi, rappresenta un potente fattore di convergenza dei modelli manageriali. Pur con le differenze implicite nelle diverse tipologie di struttura organizzativa internazionale, in tutte le unità appartenenti a un gruppo internazionale si tende, infatti, ad applicare uno stesso schema gestionale e analoghi meccanismi operativi. A riguardo, assume cruciale importanza il raggiungimento di un equilibrio efficace tra l’autonomia che deve essere lasciata alle singole consociate per far fronte con la massima rapidità possibile alle problematiche del proprio specifico contesto competitivo, e il controllo sul loro operato per garantire la necessaria unitarietà e coerenza tra le azioni svolte da ciascuna componente del gruppo. L’estensione ormai sempre più spesso mondiale delle attività e l’imperativo della rapidità strategica e operativa dell’impresa pongono un limite intrinseco ai meccanismi di controllo di tipo burocratico o di natura semplicemente gerarchica. Sempre di più, le forme di controllo strategico a livello internazionale sono basate sull’adesione di tutte le unità del gruppo a obiettivi e orientamenti di fondo comuni. Non a caso, tutti i grandi gruppi internazionali, e sempre più spesso anche quelli di media dimensione, pongono notevole attenzione nello sviluppo di strumenti e iniziative volti a rafforzare la condivisione dei valori, il senso di appartenenza, la collaborazione su progetti comuni tra unità organizzative in Paesi diversi. A tal fine, sono frequentemente utilizzati strumenti come le grandi convention che riuniscono i manager di tutti i Paesi; la comunicazione aziendale interna con il largo uso della rete intranet; i meccanismi di carriera internazionale dell’alta dirigenza. Con il procedere di una presenza estera non solo puramente commerciale, l’impresa deve attuare misure progressivamente sempre più incisive di omogeneizzazione dei valori e dei modelli gestionali in tutte le componenti internazionali della sua organizzazione. Questa tendenza è anche rafforzata dall’internazionalizzazione delle società di consulenza strategica e tecnologica che propongono ai loro clienti in Paesi diversi approcci gestionali di matrice omogenea. La globalizzazione si manifesta in maniera rilevante anche nella gestione del capitale umano. La presenza dell’impresa in molti Paesi implica naturalmente che le risorse umane che ne fanno parte siano fortemente eterogenee dal punto di vista della nazionalità di provenienza e, quindi, dei valori, delle aspettative e delle abitudini. È ormai prassi consolidata che nei gruppi “globali”, una parte molto elevata, e non di rado maggioritaria, dei dipendenti abbia nazionalità diversa da quella del Paese dove ha sede la corporate. Negli ultimi quindici-vent’anni, questo fenomeno è divenuto ancora più significativo poiché la forte eterogeneità del Paese di provenienza ha riguardato anche i livelli dirigenziali e di vertice. Mentre in passato le funzioni manageriali erano affidate a persone di nazionalità diversa da quella della capogruppo in gran parte dei casi solo nelle sussidiarie estere, oggi il gruppo dirigenziale di una corporate, compreso l’amministratore delegato e i direttori generali, comprende in misura sempre più ampia persone provenienti da Paesi diversi.
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12
Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
Questa tendenza è spiegata in primo luogo dal fatto che la globalizzazione del business richiede un management altrettanto globalizzato. Inoltre, i meccanismi di sviluppo delle carriere, basati sulla mobilità internazionale dei dirigenti, creano le condizioni organizzative per il formarsi di gruppi di comando composti da persone di Paesi diversi. L’obiettivo di disporre di un capitale umano eccellente implica l’opportunità di ricercare le risorse umane a elevato potenziale anche al di fuori del Paese di origine dell’impresa. L’eterogeneità geografica della classe dirigente di un’azienda è anche il prodotto del fatto che negli ultimi anni i luoghi nei quali le risorse umane ricevono una formazione eccellente sono aumentati e soprattutto sono divenuti geograficamente molto meno concentrati8. Altro aspetto da non trascurare è la sempre minore corrispondenza della nazionalità della casa-madre con la nazionalità del suo azionariato e in alcuni casi anche del suo azionariato di controllo, diretta conseguenza, questa, dell’apertura dei mercati finanziari e del grande sviluppo delle fusioni e delle acquisizioni internazionali. Si intuisce che una presenza rilevante di azionisti di Paesi diversi non può non riflettersi in un’alta dirigenza dell’azienda di carattere altrettanto multinazionale. L’eterogeneità del capitale umano operante nelle imprese internazionali e anche del suo management non va considerato semplicemente come un dato di fatto, ma anche come un fattore di competitività. La “diversità”, intesa come presenza all’interno di un’organizzazione di persone portatrici di competenze, esperienze, sensibilità diverse, va considerata come un elemento basilare per il potenziale successo di tale organizzazione. Molte esperienze di grandi, medie e anche piccole aziende, così come un corpus notevole di studi scientifici, mostrano come la co-esistenza di stimoli e prospettive diverse, adeguatamente messe a sistema, produca le condizioni migliori per la generazione di alcune capacità che sono alla base del vantaggio competitivo: in particolare, la capacità di innovare; la capacità di comprendere gli scenari evolutivi; la capacità di integrare risorse e apporti di soggetti esterni. L’eterogeneità rappresenta in sé una sfida per qualsiasi organizzazione che, per sua natura, tende a privilegiare coesione e stabilità. Del resto, l’impegno che in modo particolare proprio le imprese internazionali pongono nello sviluppare al proprio interno una cultura aziendale omogenea riflette l’importanza di tale esigenza. Si pone quindi un nodo cruciale relativo al corretto equilibrio tra l’opportunità di dare spazio agli elementi di diversità e l’esigenza di mantenere comunque un orientamento convergente; in altri termini occorre individuare meccanismi organizzativi che valorizzino il potenziale insito nell’elevata eterogeneità del capitale umano e che al tempo stesso riducano al minimo le spinte centrifughe che quella stessa eterogeneità almeno potenzialmente determina. Proprio per far fronte a questa necessità, nei grandi gruppi globali ha iniziato a consolidarsi una precisa funzione, comunemente indicata con il termine di diversity management, con il duplice compito da un lato di gestire i problemi e dall’altro di valorizzare
8 Si osserva che la nazionalità di provenienza, in particolare per quanto riguarda gli studi compiuti, della classe dirigente dei grandi gruppi globali può rappresentare (con le dovute attenzioni) un indicatore dei Paesi e delle specifiche aree che, a livello internazionale, sono percepite offrire una formazione eccellente alle persone che intendono candidarsi a far parte di tale classe dirigente.
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Capitolo 1
13
le potenzialità derivanti dalla presenza all’interno delle singole unità aziendali di persone di diversa provenienza nazionale e culturale.
1.2
La dinamica del commercio estero
Nel 20139, il commercio mondiale ha raggiunto un valore complessivo stimato di 23,4 trilioni di dollari americani (a prezzi correnti), di cui 18,8 per merci e 4,6 per servizi. Rispetto all’anno precedente, si registra un incremento del 2% per le merci e del 5,6% per i servizi. Ampliando l’orizzonte temporale, si osserva un significativo rallentamento della crescita degli scambi. L’incremento del 2% del commercio di beni registrato nel 2013 risulta, infatti, inferiore al tasso di crescita medio, pari al 5,3%, degli ultimi 20 anni (1993-2013), nonché inferiore all’andamento medio di crescita pre-crisi (6%) degli anni 1990-2008. La recessione globale del 2008-2009 ha infatti influito, oltre che sul livello di commercio mondiale, anche sul tasso di crescita medio dello stesso, determinandone una riduzione. L’incremento medio delle esportazioni a partire dal 2010, quindi per il triennio successivo, è diminuito del 3,3%. Per quanto concerne le quote di mercato, l’Europa (UE28), considerata come singola entità, rimane l’area leader nel commercio mondiale sia di merci che di servizi. Nel 2013, con riferimento specifico alle merci, escludendo il commercio intra-UE, sia le esportazioni che le importazioni dell’UE28 hanno rappresentato il 15,1% del totale mondiale paragonato al 13,8% della Cina. L’Asia rappresenta, dopo l’Europa (inclusiva dei Paesi extra-UE), la seconda area maggiormente influente in termini di importazioni ed esportazioni di beni e servizi. Per quanto riguarda le merci questa rappresenta circa un terzo del valore mondiale delle esportazioni e delle importazioni e la Cina da sola è a circa il 12% dell’export (con un valore superiore a quello degli Stati Uniti) e al 10,3% dell’import (con un valore inferiore a quello degli Stati Uniti) (Tabelle 1.1 e 1.2). Per quanto riguarda l’export di merci, il nostro Paese si trova all’undicesima posizione realizzando il 2,8% del valore delle esportazioni mondiali e in crescita del 15,7% rispetto al valore 2010. In termini di import, invece, l’Italia è in decima posizione con circa il 2,5% dell’import complessivo, ma in diminuzione del –2% rispetto al 2010. È da segnalare, inoltre, la diminuzione delle esportazioni giapponesi nel triennio 2013-2010 del –7,1%. Il primato dell’Europa (intesa come Unione Europea e insieme di Paesi extra-UE) è ancora più netto nel caso dei servizi, dove le nostre esportazioni rappresentano circa il 50% del totale mondiale e le importazioni il 41%. Gli Stati Uniti si posizionano primi con circa il 14,3% dell’export e il 9,8% dell’import. Dopo gli Stati Uniti, i principali esportatori sono Regno Unito, Germania e Francia. L’Italia, invece, si colloca al quattordicesimo posto con il 2,4% sul totale, ma la crescita di circa il 14% (nel triennio 20132010) fa ben sperare. Per quanto riguarda l’import, invece, gli Stati Uniti sono seguiti da Cina, Germania e Giappone. Come accaduto per le merci, anche per i servizi il nostro Paese si colloca alla decima posizione con un import del 2,5% rispetto al totale. Focalizzando l’attenzione sui due principali macro-settori di attività (Manifatturiero e Servizi), si nota come nel triennio 2013-2010 le esportazioni e le importazioni crescano
9
I dati presentati in questo paragrafo sono tratti dal World Trade Report 2014.
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
aa
Tabella 1.1
Esportazioni e importazioni mondiali di merci: Paesi leader, 2013 e variazione percentuale dal 2013 al 2010 (valori espressi in miliardi di dollari e in percentuale) Esportazioni
Importazioni
Valore
Quota
Var % 2013-2010
Valore
Quota
Var % 2013-2010
Cina
2209
11,7%
40,0%
Cina
2329
12,3%
18,3%
Stati Uniti
1580
8,4%
23,6%
Stati Uniti
1950
10,3%
39,7%
Germania
1453
7,7%
15,4%
Germania
1189
6,3%
12,7%
Giappone
715
3,8%
-7,1%
Giappone
833
4,4%
20,0%
Olanda
672
3,6%
17,0%
Olanda
681
3,6%
11,4%
Francia
580
3,1%
10,7%
Francia
655
3,5%
10,9%
622
3,3%
41,0%
Corea del Sud
560
3,0%
20,0%
Corea del Sud
Regno Unito
542
2,9%
30,2%
Regno Unito
590
3,1%
14,2%
Hong Kong
536
2,8%
33,7%
Hong Kong
516
2,7%
21,3%
Russia
523
2,8%
30,6%
Russia
477
2,5%
-2,0%
Italia
518
2,8%
15,7%
Italia
474
2,5%
17,8%
Belgio
469
2,5%
15,1%
Belgio
466
2,5%
33,1%
Canada
458
2,4%
18,3%
Canada
451
2,4%
15,2%
Singapore
410
2,2%
16,6%
Singapore
391
2,1%
26,0%
27,4%
Messico
373
2,0%
20,0%
Messico Fonte:
WTO
380
2,0%
Secretariat.
di più nei Servizi che nel Manifatturiero. In particolare, nel periodo considerato le esportazioni del Manifatturiero aumentano del 18,5%, trainate principalmente dal Tessile, dai Prodotti chimici e Farmaceutici e dai Metalli. I Servizi, invece, crescono del 21,3%, con un’ottima performance del Turismo. Stesso andamento si riscontra per quanto riguarda le importazioni, con l’unica differenza legata alla migliore performance tra i Servizi dei Trasporti rispetto al Turismo (Tabella 1.3). I fattori di mercato sono stati amplificati dalla forte diffusione dell’organizzazione globale della supply chain, che aumenta i passaggi internazionali di beni e servizi durante il processo produttivo10. La globalizzazione della produzione, oltre a far fortemente lievitare gli scambi internazionali, ne aumenta la varianza rispetto alle variazioni della domanda finale.
10 La rilevazione dei valori degli scambi internazionali è in una certa misura distorta dal double counting. Per l’elaborazione dei dati statistici, si considera il valore dei beni o servizi ogni volta che questi attraversano i confini nazionali. Quanto più la produzione di un bene o servizio finale coinvolge Paesi diversi, tanto più il valore degli scambi internazionali aumenta a prescindere dal valore finale dell’output per la cui produzione quegli scambi sono stati attuati.
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15
Capitolo 1
aa
Tabella 1.2
Esportazioni e importazioni mondiali di servizi: Paesi leader, 2013 e variazione percentuale dal 2013 al 2010 (valori espressi in miliardi di dollari e in percentuale) Esportazioni
Importazioni
Valore
Quota
Var % 2013-2010
Valore
Quota
Var % 2013-2010
Stati Uniti
662
14,3%
22,5%
Stati Uniti
432
9,8%
15,1%
Regno Unito
293
6,3%
11,0%
Regno Unito
329
7,5%
71,4%
Germania
286
6,2%
18,0%
Germania
Francia
317
7,2%
18,4%
236
5,1%
21,0%
Francia
189
4,3%
12,8%
Cina
205
4,4%
27,0%
Cina
174
4,0%
5,8%
India
151
3,2%
29,6%
India
162
3,7%
4,3%
Paesi Bassi
147
3,2%
26,9%
Paesi Bassi
128
2,9%
27,9%
Giappone
145
3,1%
4,8%
Giappone
127
2,9%
20,8%
Spagna
145
3,1%
17,3%
Spagna
125
2,8%
9,6%
Hong Kong
133
2,9%
27,0%
Hong Kong
123
2,8%
72,4%
Irlanda
125
2,7%
27,9%
Irlanda
118
2,7%
9,7%
Singapore
122
2,6%
29,6%
Singapore
107
2,4%
-0,7%
Corea del Sud
112
2,4%
29,6%
Corea del Sud
106
2,4%
11,5%
Italia
110
2,4%
13,9%
Italia
105
2,4%
9,4%
Belgio
106
2,3%
16,7%
Belgio
98
2,2%
19,3%
Fonte:
1.3
WTO
Secretariat.
Gli investimenti diretti esteri
1.3.1
La definizione e le dimensioni del fenomeno degli investimenti diretti esteri
L’investimento diretto estero (IDE) è11 un investimento realizzato da un’organizzazione residente in un Paese in un’impresa residente (già esistente o creata ex novo) in un altro Paese, finalizzato ad acquisirne il controllo, e a gestirne le attività in maniera integrata e funzionale alle proprie. I flussi di IDE sono determinati dai flussi di capitale impiegato dall’investitore (direttamente o attraverso una sua controllata) per acquisire il controllo di una struttura estera e dalle risorse finanziarie fornite a quest’ultima dall’investitore stesso. Tali flussi possono quindi avere natura di: a) equity; b) utili prodotti dall’impresa estera e rein-
11
Cfr.
UNCTAD
(2010), World Investment Report, Methodological note, p.3.
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16
Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
aa
Tabella 1.3
Esportazioni e importazioni mondiali: settori di attività, 2013 e variazione percentuale 2013-2010 (valori espressi in miliardi di dollari e in percentuale) Esportazioni Valore
Manifatturiero
Quota
11 848
Macchinari e mezzi di trasporto
Importazioni Var % 20132010 18,5%
Valore Manifatturiero Macchinari e mezzi di trasporto
454
3,8%
7,0%
2001
16,9%
17,0%
Sostanze e prodotti chimici
Metalli
1153
9,7%
22,8%
Tessile
5932
50,1%
Abbigliamento
306
Altri
460
Sostanze e prodotti chimici
Servizi
Quota
12 345
Var % 20132010 19,1%
477
3,9%
10,5%
2061
16,7%
17,7%
Metalli
1153
9,3%
22,8%
16,4%
Tessile
6178
50,0%
15,9%
2,6%
21,2%
Abbigliamento
324
2,6%
21,2%
3,9%
30,2%
Altri
481
3,9%
30,2%
21,3%
Servizi
4645
4381
21,3%
Trasporti
906
19,5%
12,2%
Trasporti
1165
26,6%
19,7%
Turismo
1184
25,5%
24,4%
Turismo
1072
24,5%
24,9%
23,9%
Altri servizi
2144
48,9%
23,8%
Altri servizi Fonte:
WTO
2555
55,0%
Secretariat.
vestiti al suo interno; c) prestiti intra-company. Il valore stock degli IDE è invece calcolato con il valore del capitale netto (capitale sociale più riserve) delle società controllate all’estero più il loro indebitamento netto verso la controllante o altre società dello stesso gruppo. Gli IDE hanno una duplice (e speculare) natura: sono investimenti in entrata quando si considerano dal punto di vista del Paese in cui questi sono realizzati; in altri termini, sono gli investimenti che entrano in un determinato territorio, realizzati da imprese che non ne sono parte. Sono investimenti in uscita quando sono considerati dal punto di vista del Paese dove ha sede l’impresa che li realizza; in altri termini, sono gli investimenti che escono da un determinato territorio e realizzati in un Paese diverso da quello dove ha avuto origine l’impresa che li realizza. Su scala mondiale, teoricamente, gli IDE in uscita corrispondono in valore a quelli in entrata12: nel 2013, i flussi sono stati di poco oltre 1,4 trilioni di dollari e lo stock di quasi 19 trilioni. La rilevanza di questo fenomeno può essere adeguatamente apprezzata anche considerando l’impatto degli IDE su alcune tra le principali grandezze economiche a livello mondiale. Nel 2013, l’UNCTAD13 stima che l’occupazione complessiva delle controllate 12
Nella realtà, i dati non mostrano questa identità a causa delle complessità della rilevazione statistica e in particolare di alcune differenze nel metodo seguito nei vari Paesi. 13 Cfr. UNCTAD (2014), World Investment Report, p.29.
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Capitolo 1
17
estere sia stata pari a quasi 71 milioni di persone (in crescita dell’11% rispetto al 2011), a fronte di attività totali detenute per un valore di oltre 96 trilioni di dollari. Il fatturato complessivo delle controllate estere è stato di 34,5 trilioni di dollari, di cui circa il 23% è stato realizzato attraverso esportazioni. La teoria del ciclo di vita internazionale degli IDE (Dunning, 1981, 1986; Dunning et al., 1998) sostiene che i flussi di IDE in uscita e in entrata di un Paese tendono a essere correlati al suo sviluppo economico; in particolare, i flussi di IDE in uscita si manifestano solo nei Paesi che hanno raggiunto un certo grado di maturazione economica e dispongono di un sistema d’imprese sufficientemente competitive a livello internazionale. La teoria in oggetto definisce cinque fasi della crescita economica di un Paese nelle quali i flussi in entrata e in uscita degli IDE hanno diverse dinamiche. Nelle prime fasi, in cui il livello di sviluppo economico è molto basso, il Paese non è né investitore internazionale, né è in grado di attrarre IDE dall’estero (i fattori di attrattività sono molto deboli); il flusso netto di investimenti (IDE in uscita meno IDE in entrata) tende a essere vicino a zero. Nelle fasi di transizione verso il consolidamento, tendono a prevalere gli IDE in entrata, perché il Paese inizia a offrire buone opportunità di insediamento produttivo agli operatori internazionali (bassi costi di produzione; elevata crescita del mercato locale; facilitazioni amministrative); il tessuto industriale endogeno è invece ancora complessivamente troppo debole per operare all’estero. Nella fase di piena crescita industriale, il flusso netto di IDE tende invece a essere positivo, perché prevale l’effetto dell’internazionalizzazione attiva delle imprese locali. Infine, nelle fasi di ulteriore crescita, il saldo tra IDE in entrata e in uscita tende a tornare in equilibrio, poiché la capacità di attrazione diviene analoga alla capacità di andare all’estero. L’UNCTAD ha verificato empiricamente l’affidabilità di questa teoria14. Si osserva che nelle diverse fasi del ciclo di sviluppo economico di un Paese cambia anche la natura degli IDE prevalentemente attratti in quel Paese; nelle fasi iniziali, i flussi in entrata sono costituiti prevalentemente da IDE nei settori delle materie prime e manifatturiero a bassa intensità tecnologica. Man mano che il Paese migliora il proprio sviluppo economico e industriale, aumenta la presenza degli IDE in settori/attività ad alto valore aggiunto. Al di là delle conclusioni di questa teoria, si osservano molti Paesi con un simile grado di sviluppo, ma con un flusso netto di IDE molto diverso; i Paesi dell’Europa occidentale sono un esempio evidente a riguardo. La capacità di attrarre IDE e di realizzare IDE in altre zone geografiche è infatti fortemente correlata anche alle specificità della struttura industriale e imprenditoriale del Paese, all’efficacia delle politiche per il rafforzamento della sua attrattività, alle specificità logistiche del Paese.
1.3.2 Le modalità di realizzazione di un investimento diretto estero Un
IDE
può essere realizzato attraverso due modalità:
1. insediamento di nuove strutture produttive (stabilimenti, impianti, strutture logistiche uffici, reti operative, centri di ricerca ecc.) che implicano l’incremento della capacità produttiva nel territorio ospitante (investimento di tipo greenfield); 14
Cfr. UNCTAD (2006), World Investment Report 2006. FDI form developing and transition economies: implications for development, pp. 143 e ss.
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
2. acquisizione della proprietà (o quantomeno di una quota di controllo) di aziende già esistenti nel Paese estero15. Una nuova struttura produttiva può essere creata in un sito precedentemente non utilizzato per attività economiche (investimento greenfield); oppure in un’area già utilizzata in passato per ospitare attività produttive e nuovamente disponibile in seguito a interventi di riconversione e/o bonifica (investimento brownfield). Occorre inoltre considerare che una parte consistente degli IDE è finalizzata alla creazione delle cosiddette special purpose entities (SPES), ovvero società all’estero che servono per beneficiare dei vantaggi fiscali e finanziari garantiti da alcuni Paesi alle società estere. Hong Kong e Lussemburgo, che figurano in posizioni molto rilevanti tra i Paesi target degli IDE, sono in realtà sedi di investimenti di questo genere. Negli ultimi venticinque anni, nei Paesi economicamente avanzati si è osservata una prevalenza degli investimenti realizzati attraverso fusioni e acquisizioni rispetto a quelli di tipo greenfield. Questa è spiegata dalla maggiore rapidità in termini sia di entrata nel mercato estero sia di predisposizione delle risorse per competere che normalmente caratterizza un investimento internazionale realizzato in questa modalità. È anche rilevante l’asimmetria informativa relativamente al valore potenziale dell’investimento che penalizza quelli di tipo greenfield. Mentre per le operazioni di acquisizione e fusione il mercato finanziario fornisce una valutazione sufficientemente affidabile, per i progetti greenfield mancano meccanismi di valutazione consolidati. In questi anni, anche per la minore affidabilità dei mercati finanziari, le operazioni di acquisizione e fusione internazionali sono fortemente diminuite, passando da un valore di circa 1000 miliardi di dollari nel 2007 a circa 600 nel 2011, a 349 nel 201316. In termini numerici, i greenfield sono di gran lunga superiori alle operazioni di M&A. Nel 2013, infatti, sono stati 13 919 rispetto alle 8624 acquisizioni e fusioni. Questo andamento è stato influenzato anche dalla pesante contrazione degli investimenti esteri finanziati dai fondi di private equity e di altra natura che negli anni precedenti avevano avuto, al contrario, un ruolo importante nel boom delle operazioni straordinarie a livello internazionale. Nel 2013, il valore degli investimenti internazionali realizzati dai fondi è crollato del 62% rispetto al 2008 e dell’11% rispetto all’anno precedente.
1.3.3
L’evoluzione quantitativa degli investimenti diretti esteri17
Il fenomeno degli investimenti diretti esteri non è nuovo nell’economia internazionale. Già nei primi decenni dello scorso secolo, i principali gruppi americani ed europei apri-
15
Nella modalità dell’acquisizione può essere compreso il caso della fusione con l’impresa estera. Utile rilevare che il valore delle acquisizioni e fusioni internazionali nel 2005 è stato di 462 miliardi di dollari e nel 2006 di 625 miliardi di dollari. 17 I dati presentati in questo paragrafo sono tratti da UNCTAD (2014), World investment Report. Per l’esatta comprensione degli aggregati e della fonte dati, si veda la nota metodologica in appendice del rapporto. 16
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Capitolo 1
19
aa
Tabella 1.4
Stock di
IDE
in entrata come percentuale del
PIL
Paesi di destinazione
1995
2011
2013
Mondo
11,5%
29,7%
34,3%
Europa
13,1%
44,3%
51,4%
Stati Uniti
13,7%
22,5%
29,4%
Africa
16,7%
31,9%
33,2%
16,1%
25,2%
27,0%
Asia Fonte:
UNCTAD, FDI/TNC
database.
vano società operative in Paesi diversi da quelli di origine; negli anni Cinquanta, il fenomeno delle multinazionali ha assunto notevole rilievo e non solo dal punto di vista economico, rappresentando tra l’altro un fattore rilevante del processo evolutivo degli allora “Paesi in via di sviluppo”. I flussi di IDE nel mondo sono comunque rimasti abbastanza stabili al di sotto dei cento miliardi di dollari fino alla prima metà degli anni Ottanta del Novecento e fortemente concentrati in poche aree del mondo; gli investimenti nei Paesi economicamente meno avanzati erano per lo più finalizzati all’acquisizione delle materie prime. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, i flussi di IDE hanno iniziato a crescere, e dopo un rallentamento nel 1990-91, tale crescita è continuata a tassi crescenti per tutto lo scorso decennio. Nel 2000 si è toccato un picco, con un valore di circa 1400 miliardi di dollari. Negli anni successivi i flussi hanno rallentato fortemente, fino al 2003, quando la dinamica espansiva è ripresa in maniera ancora più intensa rispetto al decennio precedente. Nel 2007, è stato raggiunto un secondo picco a quasi 2200 miliardi di dollari; la crisi mondiale di questi anni ha naturalmente avuto un riflesso sugli investimenti internazionali, facendo tornare il valore dei flussi ai valori di quattro, cinque anni prima18. Nel 2013 il valore degli IDE è stato pari a 1452 miliardi di dollari in diminuzione del 15% rispetto al 2011, ma in aumento del 9% rispetto al 2012. A livello globale, nel 2013, lo stock di IDE in entrata è pari (in valore) al 34,3% del prodotto interno lordo (Tabella 1.4). Lo scorso anno era intorno al 32%, nel periodo precrisi (2005-2007) era circa il 29%, mentre all’inizio del 2000 era al 23%. Nell’Unione Europea è oltre il 51%, con il Regno Unito al 63,3%, la Svezia la 67,8%, la Danimarca al 48%, la Spagna al 52% e la Francia al 40%. In Italia, siamo quasi al 20%, ma in aumento rispetto agli ultimi due anni. L’origine e la destinazione geografica degli investimenti diretti esteri Nel 2013 i Paesi sviluppati (UE25, Nord America e Giappone) hanno perso il primato come principale destinazione degli IDE, mentre rappresentano ancora la loro principale origine. In questi ultimi anni si è assistito all’aumento considerevole della rilevanza e
18
Nel valutare questi andamenti, è importante ricordare che i valori degli IDE sono fortemente influenzati dall’andamento dei corsi azionari nei mercati mondiali, poiché una parte molto considerevole di questi è realizzata attraverso acquisizione o fusione.
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20
Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
Riduzione del costo del lavoro Accesso a nuovi mercati Decisioni strategiche assunte dalla capogruppo Riduzione degli altri costi rispetto al costo del lavoro Altre motivazioni Focus sul core business Miglioramento della qualità o introduzione di nuovi prodotti Accesso a conoscenza/ tecnologie specializzate Riduzione dei costi di impresa diversi dal costo del lavoro Tasse o altri incentivi finanziari
0%
Figura 1.2
10%
20%
30%
40%
50%
Le motivazioni per le attività di approvvigionamento interne, porzione di imprese che si approvvigionano a livello internazionale. Fonte: EUROSTAT, SBS.
attrattività delle economie emergenti che, in particolare come destinazione degli investimenti, hanno progressivamente superato i Paesi sviluppati. Nel 2011 i Paesi sviluppati hanno assorbito in valore (misurato in dollari) circa il 52% degli IDE mondiali e originato addirittura il 71% di questi. Nel 2013, i valori hanno subito una considerevole riduzione rispettivamente al 39% e 61% circa (Tabella 1.5). L’Unione Europea ha subito il maggior ridimensionamento vedendo il valore degli IDE attratti scendere dal 28,8% al 17% e per quanto concerne quelli originati dal 34,2% al 17,8%. Per quanto riguarda specificatamente gli investimenti greenfield, all’inizio degli anni Ottanta del Novecento i flussi di IDE che avevano i Paesi in via di sviluppo come destinazione non superavano il 3% del totale; nel 2005 erano circa il 40%; nel 2009 erano circa il 48%. Nel 2012 e nel 2013, il numero di operazioni nei Paesi emergenti è stato di poco inferiore a quello nei Paesi sviluppati (45% rispetto al totale 2013), invertendo leggermente il trend degli anni passati (Tabella 1.6). Tra le aree sviluppate, l’Unione Europea assorbe i due terzi degli IDE (quindi il 30% del totale mondiale, dato che rimane sostanzialmente costante dal 2003); il resto è in gran parte orientato verso gli Stati Uniti, mentre il Giappone rappresenta una destinazione relativamente meno rilevante, soprattutto in proporzione al peso della sua economia. Tra le economie emergenti, nel 2013 l’Asia attrae oltre il 29% degli investimenti internazionali (in diminuzione rispetto agli anni precedenti), Cina e India da sole ne assorbono circa il 37%.
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Capitolo 1
21
aa
Tabella 1.5
Flusso di IDE
IDE
per Paese, 2011-2013 (valori espressi in milioni di dollari)
in entrata (valori)
Paesi
IDE
in entrata (%)
2011
2013
2011
2013
Paesi sviluppati
880 000
566 000
51,8%
Unione Europea
490 000
246 000
IDE
in uscita (valori)
2011
IDE
in uscita (%)
2013
2011
2013
39,0% 1216 000
857 000
71,0%
60,8%
28,8%
17,0%
585 000
250 000
34,2% 1 7,8%
Francia
38 547
4875
2,30%
0,30%
59 552
-2555
Germania
59 317
26 721
3,50%
1,80%
80 971
57 550
4,70%
4,10%
Italia
34 324
16 508
2,00%
1,10%
53 629
31 663
3,10%
2,20%
51 137
37 101
3,00%
2,60%
106 673
19 440
6,20%
1,40%
Nord America
263 000
250 000
15,5%
17,2%
439 000
381 000
25,6%
27,0%
America Latina
244 000
292 000
14,3%
20,1%
111 000
115 000
6,5%
8,1%
Paesi in via di sviluppo
725 000
778 000
42,6%
53,6% 423 000
454 000
24,7%
32,2%
Asia
431 000
426 000
25,3%
29,4%
304 000
326 000
17,8%
23,1%
Cina
123 985
123 911
7,30%
8,50%
74 654
101 000
4,40%
7,20%
India
36 190
28 199
2,10%
1,90%
12 456
1679
0,70%
0,10%
Regno Unito
Mondo Fonte:
3,50% -0,20%
1 700 000 1 452 000 100,0% 100,0% 1 712 000 1 411 000 100,0% 100,0%
UNCTAD, FDI/TNC
database.
Gli investimenti greenfield Per quanto riguarda l’origine degli investimenti greenfield (Tabella 1.7), il peso dei Paesi avanzati risulta ancora del tutto prevalente, rappresentando nel 2013 l’81% del totale; nel 2003 erano di poco superiori all’83%. Dai Paesi dell’Unione Europea partono oltre il 45% degli investimenti diretti esteri. Risulta interessante osservare come nel 2003 questo valore era intorno al 40%: l’Unione Europea sta dunque aumentando la propria proiezione internazionale anche sul piano della produzione. Di contro, in questi ultimi anni gli Stati Uniti hanno visto ridurre il peso dei loro investimenti internazionali rispetto al totale. Per quanto riguarda i Paesi emergenti, tra il 2003 e il 2013, la Cina ha quasi triplicato le operazioni all’estero (non diminuendo neanche tra il 2007 e il 2009), l’India le ha raddoppiate; il Brasile le ha aumentante di poco oltre il 50%, mentre la Russia dopo un aumento del 30% nel 2009, oggi ha valori simili al 2003. Nel complesso, comunque, il volume di investimenti diretti esteri provenienti da questi Paesi rimane ancora limitato e largamente inferiore rispetto alla dimensione che le economie di quei Paesi vanno assumendo. Si prevede che nei prossimi anni il peso delle economie emergenti continuerà ad aumentare sia come origine sia come destinazione dei flussi di IDE. Un’indagine19 con19
Cfr.
UNCTAD
(2014), World Investment Report, p. 28.
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22
Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
aa
Tabella 1.6
Numero di progetti
IDE
greenfield per Paese di destinazione
Paesi di destinazione
2003
2012
2013
Mondo
9450
14 215
13 919
Paesi sviluppati
4133
6935
6934
Unione Europea
2836
4349
4342
Francia
162
304
412
Germania
277
858
784
Irlanda
130
169
164
Italia
114
120
113
Polonia
156
299
244
Romania
115
198
209
Spagna
221
388
362
Regno Unito
428
921
911
Stati Uniti
594
1552
1615
Giappone
135
144
171
4513
6572
6299
Africa
335
773
762
Sud America
534
830
838
Brasile
289
459
359
Centro America
214
377
578
3371
4523
4021
72
142
141
Cina
1324
1083
1040
India
452
744
469
804
708
686
660
497
486
Paesi in via di sviluppo
Asia Turchia
Europa Sud-Est e CIS
Fonte:
UNCTAD,
CIS
basato su informazioni del “Financial Times”,
FDI
Markets.
dotta su un ampio campione di gruppi transnazionali per comprendere quali saranno le aree maggiormente preferite per la localizzazione degli IDE evidenzia come la Cina sia di gran lunga la meta preferita, seguita dagli Stati Uniti, poi (a distanza) Indonesia, India, Brasile e Germania, poi Regno Unito e Tailandia. Tra le prime 17 destinazioni, 12 sono Paesi emergenti o in transizione. La posizione dell’Italia Nella dinamica degli IDE, l’Italia risulta largamente staccata dai principali Paesi dell’Unione Europea (Regno Unito, Francia, Belgio e Germania), ma poco distante da Spagna e Olanda. Si posiziona, invece, davanti ai Paesi Scandinavi e a quelli dell’Europa centro-
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23
Capitolo 1
aa
Tabella 1.7
Numero di progetti
IDE
greenfield per Paese d’origine
Paesi
2003
2012
2013
Mondo
9450
14 215
13 919
Paesi sviluppati
7863
11 532
11 344
Unione Europea
3752
6137
6304
Francia
498
741
841
Germania
830
1359
1255
Italia
276
365
430
Olanda
250
337
346
Spagna
171
511
559
Regno Unito
697
1396
1378
Nord America
2752
3497
3234
Stati Uniti
2427
3112
2879
Giappone
885
986
873
1429
2471
2384
Africa
65
191
244
Sud America
96
144
187
Centro America
30
42
85
Asia
1231
2084
1854
Cina
108
352
314
India
173
299
305
CIS
151
203
169
Paesi in via di sviluppo
Fonte:
UNCTAD,
basato su informazioni del “Financial Times”,
FDI
Markets.
orientale. Nel 2013 gli IDE in entrata nel nostro Paese sono in valore circa il 5% di quelli affluiti nell’Unione Europea. Il dato significativo e incoraggiante è la crescita degli IDE in entrata che è superiore rispetto a quella registrata a livello di Unione Europea: l’Italia cresce infatti dell’11% rispetto al 7% dell’Unione Europea. Inoltre, in termini di crescita il nostro Paese si posiziona al di sopra dei principali Paesi leader. Del resto, secondo stime UNCTAD20, l’Italia risulta al sesto posto (dopo Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Germania e Francia) in termini di intensità localizzativa21 dei cento maggiori gruppi transnazionali; questo significa che per le principali compagnie internazionali l’Italia rimane uno dei Paesi dove è comunque “necessario” essere pre-
20
Cfr. UNCTAD (2006), World Investment Report, pp. 34 e ss. L’intensità localizzativa di un Paese è misurata dal numero totale dei primi cento gruppi transnazionali che hanno in tale Paese almeno un’affiliata, meno il numero di gruppi trasnazionali compresi tra i primi cento originari di tale Paese.
21
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24
Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
senti, al pari degli Stati Uniti e delle altre principali nazioni europee. In particolare, oltre 81 tra questi gruppi sono presenti in Italia (nel Regno Unito, primo tra i Paesi europei, questo valore è superiore a 91). È anche utile rilevare che lo stesso indice, calcolato con riferimento ai principali gruppi transnazionali originari dei Paesi in via di sviluppo o in transizione, vede l’Italia in una posizione molto inferiore, con un valore di appena 7,5. Questi dati evidenziano come l’Italia sia debole sul piano dell’attrazione per quanto riguarda soprattutto i gruppi transnazionali medi o medio-grandi e quelli provenienti dalle aree fino a ora economicamente meno consolidate. L’UNCTAD ha anche realizzato un interessante benchmark tra la maggior parte dei Paesi, confrontando per ciascuno il potenziale di attrattività con le performance realizzate in termini di effettiva attrazione degli IDE nel proprio territorio. L’Italia rientra nell’insieme dei Paesi caratterizzati da performance inferiori rispetto al potenziale. Il nostro Paese sembra dunque attrarre meno IDE di quelli che potrebbe, in base alla qualità complessiva dei fattori di natura macro e micro-economica. In questa prospettiva, non può essere escluso che il fatto di registrare flussi piuttosto contenuti di IDE in entrata abbia nel tempo contribuito a determinare una percezione circa il grado di attrattività del territorio peggiore di quella reale, contribuendo a consolidare il basso livello delle performance. Un altro dato di cui è importante tenere conto riguarda la localizzazione estera delle attività di ricerca e sviluppo dei gruppi transnazionali. Ancora sulla base di dati UNCTAD22 riferiti al periodo 2001-2003, l’Italia risulta collocata al decimo posto nel mondo, davanti a Spagna, Francia e Germania, in termini di quota di attività di R&D realizzate da gruppi internazionali in Paesi diversi da quello di origine. Contrasta con questo dato il risultato di un’altra indagine condotta ancora dall’UNCTAD23: il 62% dei soggetti intervistati ha indicato la Cina come l’area che in prospettiva futura appare più vantaggiosa per la localizzazione di attività di R&D; gli Stati Uniti sono al secondo posto (41%), seguiti dall’India (29% dei rispondenti) e dal Giappone (15%); la Gran Bretagna, quinta con il 13% delle indicazioni, è il primo tra i Paesi dell’Europa occidentale, seguita a distanza da Francia, Germania e Olanda; l’Italia è piuttosto in basso con solo il 3% delle indicazioni. La posizione dell’Italia è molto più forte come origine degli investimenti diretti. Secondo l’UNCTAD, nel 2013 l’Italia si posiziona all’undicesimo posto tra i primi venti Paesi per flusso di IDE in uscita, mentre era al quattordicesimo posto nel ranking 2011. Nel 2010 dal nostro Paese sono partiti il 6,8% degli investimenti esteri dell’Unione Europea. In questi ultimi anni la diminuzione degli IDE in uscita osservata a livello europeo è stata superiore a quella del nostro Paese, con la conseguenza che nel 2013 la quota dell’Italia è aumentata al 12,6%. La posizione dell’Italia risulta più debole per quanto riguarda la sola parte degli IDE costituita da investimenti di tipo greenfield. Per quanto concerne quelli in entrata,
22
Cfr. UNCTAD (2005), World Investment Report-Transnational corporations and the internationalization of R&D. 23 Cfr. UNCTAD (2005), World Investment Report-Transnational corporations and the internationalization of R&D, pp. 151 e ss.
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Capitolo 1
25
Gli investimenti diretti esteri delle aziende italiane Nel 2012, le imprese italiane avevano 21 830 controllate in 160 Paesi esteri, con un’occupazione di circa 1,7 milioni di persone e un fatturato di 546 miliardi di euro. Rispetto all’anno precedente, il numero di affiliate estere è cresciuto in maniera molto limitata (intorno allo 0,5%), mentre sono aumentati in modo significativo gli occupati e il fatturato (rispettivamente del 3,3% e del 7,1%). Nel biennio 2013 – 2014, prosegue la tendenza al rafforzamento dell’internazionalizzazione produttiva del nostro sistema produttivo: circa il 60% dei principali gruppi italiani già presenti all’estero ha dichiarato di aver avviato o quantomeno pianificato nuovi investimenti internazionali; rimane positiva, ma è limitata al 10-15% la percentuale dei piccoli gruppi multinazionali che dichiara analoga intenzione. Il grado di “internazionalizzazione attiva”* è pari a poco meno del 18% nel manifatturiero e a quasi il 7% nei servizi non finanziari; in entrambi i casi, il valore è in aumento rispetto allo scorso anno. I settori del manifatturiero con i valori più alti sono estrazione di minerali (con un valore addirittura del 119%) e fabbricazione di autoveicoli e rimorchi (oltre il 100%); poi, la produzione di plastiche e gomme (45%), produzione e fornitura di energia elettrica e gas (44%), farmaceutica (39%) e fabbricazione di apparecchiature elettriche (36%). Tra i servizi, i valori di internazionalizzazione attiva più consistente si osservano nell’insieme delle imprese finanziarie e assicurative (grado di internazionalizzazione attiva intorno al 36%) e in quello di servizi di TLC. È interessante osservare che la dimensione media delle imprese estere controllate da aziende italiane è piuttosto alta, superando gli 80 addetti, soprattutto se si considera quella del complesso delle imprese italiane che non arriva a 4 addetti. Nel caso delle sole imprese manifatturiere estere, la media degli addetti arriva addirittura a oltre 119 unità. Le differenze dimensionali maggiori tra controllate estere italiane e imprese residenti in Italia si osservano nella fabbricazione di mobili, nel tessile-abbigliamento, pelli e calzaturiero. In sostanza, in buona parte delle imprese del made in Italy, le imprese internazionalizzate riescono a raggiungere una dimensione molto maggiore di quelle che rimangono confinate al contesto nazionale. Le “multinazionali” italiane (al netto dei servizi finanziari) realizzano all’estero un fatturato pari a quasi il 15% di quello complessivo delle imprese residenti in Italia. Circa un terzo (ma con forti differenze a seconda dei settori) del fatturato realizzato dalle affiliate italiane all’estero è esportato verso Paesi diversi da quello ove esse sono localizzate. In gran parte dei settori, la parte ri-esportata proprio verso l’Italia è su valori intorno al 10% o anche inferiori; fanno eccezione il tessile-abbigliamento, la fabbricazione di articoli in pelle e il mobile, con valori rispettivamente addirittura del 51%, del 42% e del 25%, a conferma della persistente rilevanza del meccanismo tipico del traffico di perfezionamento passivo. L’automobile e l’elettronica sono, in-
* L’“internazionalizzazione attiva” indica l’incidenza delle attività realizzate all’estero rispetto al complesso di quelle svolte nel Paese d’origine; in questo caso, sono entrambe misurate in termini di addetti; i valori percentuali riportati indicano, dunque, la percentuale di addetti all’estero sul totale degli addetti in Italia.
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26
Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
vece i comparti dove la massima parte della produzione realizzata dalle controllate estere è venduta nel Paese dove esse sono collocate (con valori intorno all’80%). Per quanto concerne la collocazione geografica, la principale area di localizzazione delle controllate estere di imprese italiane è l’UE27 con il 58% delle imprese, il 41% degli addetti e il 54% del fatturato. La presenza in Asia e in America settentrionale sono abbastanza simili, oscillando a seconda del parametro di misurazione su valori tra il 13 e il 7%. Interessante osservare che per quanto riguarda la ricerca e sviluppo, il Nord America attrae quasi il 60% degli investimenti realizzati dalle imprese italiane al di fuori del nostro Paese. Fonte: elaborazione dell’autore su dati
ISTAT
– report statistico del 15 dicembre 2014.
Le ragioni che spingono le imprese italiane a investire all’estero Un’indagine ISTAT* ha verificato le ragioni che, nel biennio 2013 – 2014, hanno spinto le imprese italiane già internazionalizzate a realizzare o pianificare ulteriori investimenti esteri. Tra le imprese manifatturiere, l’86% ha dichiarato come motivazione fondamentale la possibilità di accedere a nuovi mercati; l’82% tra quelle dei servizi. Il 50-1% delle imprese considera molto o abbastanza importante come spinta per investire all’estero, l’aumento di qualità e lo sviluppo di nuovi prodotti, nonché la riduzione dei costi per l’impresa (ma solo il 40% la riduzione dello specifico costo del lavoro). Interessante osservare che, sia nel manifatturiero che nei servizi, per il 60-65% delle aziende, la possibilità di sfruttare benefici fiscali è considerata una spinta poco rilevante. Per quanto riguarda la tipologia di attività, i nuovi IDE previsti per questi anni sono principalmente finalizzati alla produzione di merci e servizi (per il 37% nel caso delle imprese manifatturiere e per il 31% per quelle di servizi). Seguono, gli investimenti in distribuzione e logistica (28% nel manifatturiero e 18% nei servizi); poi marketing, vendite e servizi post-vendita, inclusi i centri di assistenza e i call center (22% e 17% rispettivamente)i * ISTAT report statistico, dicembre 2014.
l’Italia dal 2003 ha assorbito costantemente attorno al 3-4% delle iniziative arrivate nell’Unione Europea, ma a grande distanza da Regno Unito, Francia e Germania e alle spalle anche di Spagna, Polonia, Romania e Irlanda e Repubblica Ceca. Anche in questo caso, la posizione dell’Italia è relativamente migliore come origine degli investimenti esteri. Nel 2013 sono partiti dall’Italia il 9,2% del totale di quelli partiti dall’Unione Europea. Come origine di greenfield l’Italia si posiziona al quinto posto a grande distanza dai “tre grandi” (Germania, Gran Bretagna e Francia) e dopo la Spagna. Risulta notevole (e crescente in questi ultimi anni) la differenza tra il numero di greenfield in uscita dal nostro Paese e in entrata: nel 2013, sono stati rispettivamente 430 contro 113.
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Capitolo 1
27
L’andamento degli investimenti diretti esteri per macrosettore produttivo Nel 2013, il 47% degli IDE di tipo greenfield ha riguardato i settori manifatturieri, il 52% i servizi e il rimanente 1% il primario. Nel 2003, il manifatturiero pesava molto di più (54% del numero totale di operazioni), mentre i servizi erano al 42% (Tabella 1.8). Nel primo comparto, le industrie più coinvolte sono il tessile, l’alimentare, la meccanica, l’automotive, l’alimentare e il chimico-farmaceutico. Nei servizi, le business activities rappresentano di gran lunga il comparto più rilevante; molto coinvolti sono anche i trasporti, la finanza, le telecomunicazioni e l’informatica, il turismo e il leisure, il commercio. In tutti i comparti, la prevalenza dei settori citati rimane stabile negli anni. Per quanto riguarda gli IDE realizzati attraverso acquisizioni e fusioni, i settori hanno rilevanza diversa a seconda che si consideri il numero di operazioni o il loro valore complessivo. Sul piano della numerosità, nel 2013, il 63% dei casi ha riguardato i servizi (e di questi circa il 32% ha riguardato l’aggregato dei business services che comprende servizi di consulenza, real estate, software e IT). Il 28,5% delle operazioni ha riguardato aa
Tabella 1.8
Numero di progetti
IDE
greenfield per settori economici, 2003-2013
Settori economici
2003
Primario1 Manifatturiero Food, beverages e
tabacco2
Tessile Chimico e prodotti
chimici3
Macchinari ed equipaggiamenti Elettrico ed equipaggiamenti
4
elettrici5
Veicoli a motore e altri mezzi di trasporto6
2013
411
85
5137
6585
524
476
426
1247
183
111
358
817
909
868
878
863
3956
7249
Hotel e turismo
254
166
Trasporto, immagazzinaggio e comunicazioni7
472
1065
Servizi finanziari
646
959
1448
3460
104
159
9504
13 919
Servizi
Business activities
8
Lusso e intrattenimento Totale
Fonte: UNCTAD, basato su informazioni del “Financial Times”, FDI Markets. Note. 1. Il settore primario si suddivide in: minerali; carbone, petrolio e gas naturali; energia rinnovabile/alternativa. 2. Comprende i seguenti sottosettori: bevande; cibo e tabacco. 3. Comprende i seguenti sottosettori: biotecnologico; chimico; farmaceutico. 4. Comprende: motori e turbine; macchinari, equipaggiamenti e strumenti industriali. 5. Comprende: macchinari ed equipaggiamenti aziendali; elettronica di consumo; componenti elettronici; semiconduttori. 6. Comprende: aerospazio; componenti automotive; automotive OEM; trasporti OEM non-automotive. 7. Comprende: comunicazioni; trasporti; warehousing e strumenti di immagazzinaggio. 8. Comprende: servizi aziendali; real estete; software e servizi IT.
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28
Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
aa
Tabella 1.9
Valore complessivo delle operazioni Valori (miliardi dollari) 2011
Settori economici Primario
M&A
Valori (miliardi dollari) 2013
cross border per settore, 2013 Numero di casi 2011
Numero di casi 2013
93
27
783
474
Manifatturiero
224
96
2485
1965
Servizi
238
225
7129
6185
Totale
556
348
10 397
8624
Fonte:
UNCTAD,
cross-border
M&A
database.
il manifatturiero e solo l’8% il settore primario. In termini di valore, aumenta al 36% il peso del manifatturiero, si riduce al 44,5% quello dei servizi e soprattutto raddoppia a poco più del 19% il rilievo del primario. L’andamento degli investimenti diretti esteri per tipologia Gli investimenti diretti esteri possono essere realizzati attraverso operazioni di acquisizione e fusione oppure nella forma di greenfield. Nel 2013, vi sono state 8624 operazioni del primo tipo e 13 919 del secondo; ovviamente, in termini di valore, il peso delle acquisizioni e fusioni è molto maggiore. Nel triennio 2011-2013, i flussi IDE attraverso acquisizioni e fusioni hanno subito una contrazione di poco più del 17%, mentre i greenfield sono diminuiti di oltre il 13%; nel 2009, il numero totale di progetti è stato di circa 14 740. Del resto, il valore delle operazioni di M&A a livello internazionale è passato da circa 556 miliardi nel 2011 a circa 348 nel 2013, meno della metà del valore del 2007 e nel 2008, ma superiore a quello del 2009 e costante rispetto al 2010 (Tabella 1.9). La rilevanza degli IDE attraverso acquisizioni e fusioni è decisamente maggiore nelle economie avanzate (USA, UE15 e Giappone), anche se in declino negli ultimi anni a favore dei Paesi emergenti e in particolare di quelli asiatici. La distribuzione geografica degli investimenti di tipo greenfield risulta invece più equilibrata, pur mostrando anch’essa un certo aumento del peso delle economie emergenti e in modo particolare dell’Asia. Fino all’inizio di questo decennio, il peso dei Paesi sviluppati era nettamente maggiore sia nel caso dei greenfield sia delle acquisizioni e fusioni. Durante gli anni Ottanta e Novanta, in Europa occidentale e successivamente in Europa orientale e in molti Paesi emergenti, le privatizzazioni hanno rappresentato un potente volàno degli IDE realizzati attraverso acquisizioni. Il generale orientamento dei governi di quasi tutti i Paesi del mondo verso la riduzione della presenza pubblica nella proprietà delle imprese che ha prevalso (con dinamiche temporali molto diverse nelle varie aree) a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, ha generato in un tempo relativamente molto breve un’enorme offerta di opportunità di investimenti internazionali, costituita appunto dalle imprese, normalmente di grandi e grandissime dimensioni, che gli Stati o i governi locali intendevano privatizzare. È evidente come gli investimenti stimolati dalle privatizzazioni siano stati attuati attraverso le acquisizioni. Proprio l’ondata di privatizzazioni, che dalla metà circa degli anni ’90 ha iniziato a riguardare anche Paesi con economie emergenti, spiega la crescita che gli IDE attraverso fusioni e acquisizioni hanno avuto anche in questi Paesi.
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Capitolo 1
29
Il ruolo degli investitori finanziari Gli investitori di natura finanziaria (private equity, fondi sovrani, fondi di investimento, hedge funds, merchant banks ecc.) hanno rappresentato un fenomeno rilevante, per la notevole importanza che hanno avuto nel boom di fusioni e acquisizioni internazionali registrato in questi ultimissimi anni. Essi rappresentano quindi una variabile rilevante nella dinamica degli IDE. Secondo i dati UNCTAD, le acquisizioni e le fusioni cross border realizzate da fondi di private equity e altri fondi sono più che raddoppiate dal 1996, fino al 2013, raggiungendo circa il 24% del totale delle operazioni. Sempre più spesso e diffusamente questi soggetti non si limitano all’acquisto di pacchetti azionari nella prospettiva tipica dell’investimento puramente finanziario, preferendo intervenire “a tutto campo” con l’acquisizione di quote di controllo della società e l’intervento diretto nella gestione, magari in partnership con operatori di natura industriale. Si osserva un’evoluzione della logica degli investimenti di portafoglio tipicamente attuati dalle istituzioni finanziarie con un aumento della dimensione delle partecipazioni, un allungamento dei tempi in cui queste sono mantenute e un forte coinvolgimento nella definizione delle strategie competitive. È importante riflettere sull’impatto che un’acquisizione internazionale può avere sul sistema economico del territorio dove ha sede l’impresa acquisita24.
1.4
La politica per l’attrazione degli investimenti diretti esteri
La relazione tra i governi locali e gli investitori internazionali Le politiche verso gli investimenti esteri e più in generale le relazioni con le imprese straniere presenti nel proprio territorio hanno rappresentato un tema cruciale sia nei Paesi economicamente avanzati sia in quelli meno sviluppati almeno a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, epoca in cui la presenza di imprese di matrice straniera nei mercati, nel tessuto produttivo e nella proprietà di asset strategici di molti Paesi nel mondo ha iniziato a essere consistente. È noto che in passato le relazioni tra quelle che allora erano comunemente chiamate “multinazionali” e i governi dei Paesi in via di sviluppo sono state molto complesse, attraversando anche periodi di intensa conflittualità. Negli anni Ottanta dello scorso secolo, le relazioni tra gruppi internazionali e governi locali hanno iniziato a migliorare. Questi ultimi hanno cominciato a considerare l’attrazione degli investimenti esteri come un’opzione significativa nella loro politica per lo sviluppo produttivo. L’accelerazione dell’internazionalizzazione produttiva che iniziò a manifestarsi proprio in quegli anni rese gli investimenti di provenienza estera una consistente opportunità per rafforzare il tessuto produttivo locale, magari bilanciando un basso livello di sviluppo endogeno o fenomeni di de-localizzazione delle imprese locali. Le imprese internazionali che cercavano opportunità di investimento in nuove aree geografiche cominciavano
24
Questo approfondimento anticipa con riferimento specifico alle acquisizioni e fusioni il tema più generale trattato nel prossimo paragrafo relativamente appunto agli effetti degli investimenti diretti esteri nel sistema economico e sociale del Paese dove questi sono realizzati.
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
a essere considerate dai governi come un “cliente”, rispetto al quale ciascun contesto geografico si doveva confrontare con gli altri sul piano della maggiore o minore attrattività. Con il progredire del proprio processo di internazionalizzazione, anche l’impresa ha modificato il suo atteggiamento di fondo verso le aree geografiche ospitanti: non più semplicemente sede di un mercato o di risorse naturali da sfruttare, quanto ambiente dove poter stabilire relazioni rilevanti per la creazione del proprio vantaggio competitivo a livello globale. Questo reciproco mutamento di prospettiva ha favorito lo sviluppo di rapporti di concreta collaborazione e un progressivo affinamento dei diritti e degli impegni reciproci tra le grandi imprese internazionali e i governi, a livello sia nazionale che locale. I gruppi esteri hanno tendenzialmente mostrato crescente impegno nell’essere “buoni cittadini” nelle comunità dei contesti geografici ospitanti, intensificando tra l’altro le proprie politiche di sostenibilità ambientale e sociale. In questi ambiti sono aumentate le iniziative attuate dalle imprese estere in collaborazione con i rappresentanti degli stakeholder locali e con le organizzazioni non profit. Sia nei Paesi emergenti sia in quelli consolidati, hanno assunto grande importanza le collaborazioni tra imprese estere e organismi pubblici (normalmente indicate come private public partnership) per la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali e altre iniziative di interesse generale. Le aree di confronto dove, con maggiore frequenza, si determina in concreto l’equilibrio tra gli obiettivi dell’impresa estera e quelli del governo locale sono: • valore aggiunto prodotto dall’impresa nel Paese estero: la ricchezza creata da un’impresa internazionale in un certo ambito geografico è determinata dalla porzione di valore aggiunto trasferito agli attori che ne sono parte. Questa porzione deriva dalla quantità e qualità delle attività produttive svolte nel Paese che si riflettono nell’occupazione creata e nel valore degli acquisti dagli attori locali. Dipende anche dagli investimenti effettuati e dalla profittabilità della sussidiaria estera; • localizzazione delle attività di ricerca e sviluppo: la scelta dell’area dove collocare i laboratori di ricerca è molto delicata, in quanto tale attività costituisce un importante fattore di sviluppo di conoscenze e competenze avanzate all’interno del tessuto produttivo locale; • buona cittadinanza: nell’insediarsi in un territorio estero, l’impresa dovrebbe perseguire un’adeguata strategia di “buona cittadinanza”, finalizzata a raggiungere una favorevole accettazione da parte degli stakeholder del territorio; questo significa centrare la gestione dell’impresa sui criteri della sostenibilità. Nel quadro di questo orientamento l’impresa dovrebbe adoperarsi per migliorare le condizioni ambientali e sociali dell’area in cui opera, anche attraverso il sostegno finanziario a attori e iniziative locali; • bilancia commerciale della sussidiaria estera: in linea generale, tenuto conto delle situazioni più specifiche, una sussidiaria estera acquista determinate quantità di beni e servizi nel territorio ospitante e realizza nel mercato certi volumi di fatturato. È importante che si verifichi un buon equilibrio tra il valore erogato al territorio attraverso la collaborazione con fornitori locali e quello drenato dal mercato geografico; • occupazione e sviluppo delle risorse umane: normalmente, gli attori locali attribuiscono grande importanza all’occupazione creata nel tempo da un investimento estero. A riguardo, bisogna considerare sia l’occupazione direttamente creata dalla nuova struttura produttiva, sia quella indotta, che consegue allo sviluppo di nuove iniziative economiche legate all’investimento estero. Questi effetti devono essere valutati alla
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luce delle conseguenze prodotte dalla nuova entrata sulla posizione competitiva dei concorrenti e quindi sull’offerta di lavoro delle imprese locali. Dal punto di vista dell’impresa estera, è invece rilevante verificare la qualità della forza lavoro esistente nell’area geografica di interesse e le condizioni di utilizzo di tale fattore, con riferimento non solo al costo diretto, ma anche al grado di flessibilità. Un terzo elemento importante è il ruolo che la sussidiaria può svolgere nello sviluppo delle competenze professionali delle risorse umane locali; • trasferimento di fondi finanziari: la misura in cui le risorse prodotte dalla gestione economica di una determinata consociata vengono reinvestite all’interno della stessa (e quindi nell’area geografica dove sono state generate) è fortemente influenzata dalla corporate, pur nell’ambito del fabbisogno di autofinanziamento dovuto alla strategia di sviluppo della sussidiaria. La gestione dei fondi finanziari realizzati nelle diverse unità che costituiscono l’impresa internazionalizzata viene realizzata principalmente attraverso tre leve: la politica dei dividendi, i mutui interni e i prezzi di trasferimento. I governi nazionali (in modo particolare nei Paesi emergenti) hanno attuato anche in questi ultimi quindici-venti anni numerosi interventi legislativi concernenti gli IDE. Le misure più frequenti hanno riguardato la libertà di entrata di imprese estere in determinati settori produttivi; incentivi e aiuti agli investitori esteri (tra cui i benefici fiscali, in particolare nelle special economic zones); misure di facilitazione delle operazioni di acquisizione di asset da parte di investitori esteri; semplificazione delle procedure amministrative. La maggior parte di questi interventi sono stati favorevoli agli IDE: nel 2013, sono state censite 90 nuove misure rilevanti per gli IDE attuate da politiche nazionali25; il 67% circa di queste erano nella direzione di un’ulteriore liberalizzazione dei settori e facilitazione degli investimenti di provenienza estera e dell’entrata nel Paese di operatori stranieri. Il numero di misure sfavorevoli agli IDE assunte nel 2013, per quanto largamente minoritario è il maggiore dall’inizio degli anni Novanta. La crisi economica e finanziaria di questi anni ha dunque in una certa misura irrigidito una parte dei governi nazionali, sia pur in un quadro ancora ampiamente favorevole alla globalizzazione della produzione. Le strategie di rafforzamento dell’attrattività del territorio per le imprese estere È necessario tenere conto dell’evoluzione internazionale dei settori produttivi; la teoria economica, a partire dal contributo ormai classico di Vernon, e l’esperienza empirica mostrano chiaramente che molte produzioni sono caratterizzate da un fenomeno di naturale “migrazione”, generalmente lenta ma comunque ineluttabile, dalle aree geografiche dove hanno avuto origine a altre dove nel tempo si vengono a creare condizioni di vantaggio per la loro realizzazione. Queste migrazioni sono spiegate dallo spostamento geografico che caratterizza nel tempo sia i fattori di vantaggio competitivo, sia i mercati di maggiori dimensioni per una determinata produzione. Nella prospettiva della competitività di un territorio, quindi, la questione cruciale non è la minimizzazione dei flussi di IDE in uscita e la generica massimizzazione di
25
Cfr.
UNCTAD
(2014), World investment report, investing in a low-carbon economy, p. 113.
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Esempi di misure per la promozione degli investimenti internazionali nel 2009/2010 CINA Il Consiglio statale ha espresso parere favorevole agli investimenti diretti esteri; ha indicato che la soglia dei progetti di investimento di provenienza straniera nei settori permessi o incoraggiati sarà alzata da 100 a 300 milioni di dollari. La nuova regolamentazione incoraggerà tra gli altri investimenti esteri nei settori ad alta tecnologia, nelle nuove energie e negli apparati per la protezione dell’ambiente. INDIA È stata introdotta la consolidated FDI policy che riunisce in un unico documento tutte le precedenti norme/misure in materia di investimenti diretti esteri, con l’obiettivo di rendere le politiche su questo tema più semplici, trasparenti e facilmente comprensibili. RUSSIA È stata modificata la legge sulle special economic zones, prevedendo: a) la riduzione della soglia minima di investimento; b) l’ampliamento della lista delle attività e dei business ammessi; c) la semplificazione delle procedure amministrative in particolare per l’acquisto di terreni. LIBIA La Lybyan Arab Jamahiriya ha adottato una legge di promozione degli investimenti che incoraggia i progetti di investimento esteri in accordo con le strategie nazionali di sviluppo. RUANDA Ha migliorato la legge sulla formazione delle imprese, semplificato le procedure amministrative e tutte le procedure per le start-up. MALESIA Ha aumentato la soglia raggiungibile da azionisti esteri dal 49 al 70% nel settore assicurativo e nell’investment banking e deregolato l’acquisto di proprietà immobiliari da soggetti stranieri. INDONESIA Ha abolito il monopolio statale sulla trasmissione e distribuzione dell’elettricità, avviando il processo di privatizzazione aperto anche a investitori esteri.
quelli in entrata. Il fatto che le imprese locali investano anche al di fuori del proprio Paese di origine è una manifestazione positiva della loro capacità competitiva internazionale e in diversi casi può essere conseguenza naturale dello spostamento geografico delle aree dove è più conveniente realizzare determinate attività economiche e dove i mercati hanno maggiori prospettive di crescita. La questione fondamentale riguarda, piuttosto, la capacità del territorio di sviluppare le condizioni di contesto che favoriscono la nascita e lo sviluppo al suo interno di nuove attività/filiere economiche attraverso l’apporto di investimenti di origine sia interna sia esterna. Diviene, dunque, fondamentale per il territorio identificare e porre in essere una strategia per rafforzare la propria attrattività come sede di attività produttive. Tale strategia deve tenere conto delle condizioni interne del territorio ma anche delle dinamiche internazionali delle filiere e delle attività economiche, nonché dei mercati a cui esse fanno riferimento. In questa prospettiva, la strategia competitiva di un territorio mira a sviluppare determinati fattori che lo rendono una sede ideale per quelle attività/funzioni economiche
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che la logica attuale dei flussi internazionali degli investimenti e dei mercati orienta potenzialmente verso ambiti geografici con caratteristiche di fondo simili alle sue. La strategia di attrazione degli IDE implica, quindi, anche una precisa riflessione circa le tipologie di investimenti verso cui orientare gli sforzi competitivi. La logica di un numero sempre maggiore di imprese internazionali di organizzare il complesso delle proprie attività attraverso catene del valore globali, quindi frammentando le attività e le funzioni in strutture, anche esterne, collocate in tanti Paesi diversi ha una conseguenza importante per le aree geografiche. I Paesi tendono ad avere l’opportunità (che è anche una necessità) di sviluppare una specializzazione, relativa appunto a determinate attività; mentre è sempre meno possibile ricercare una leadership sull’intera industria, appunto perché difficilmente un unico territorio può offrire le condizioni migliori per la realizzazione di tutte le attività del valore inerenti una certa industria. Dal punto di vista di un’area geografica e del suo tessuto produttivo, è allora fondamentale raggiungere un significativo coinvolgimento nella global value chain di un adeguato numero di settori, riuscire a presidiare le attività di maggior valore intrinseco e, comunque, più rilevanti per il processo di più ampio sviluppo sostenibile del territorio stesso. La valutazione dei fattori di attrattività da parte dell’impresa internazionale I fattori che un investitore prende in considerazione per valutare l’attrattività di un territorio sono stati oggetto di numerose riflessioni nell’ambito sia della ricerca scientifica, sia di studi di taglio professionale26; il quadro di riferimento disponibile appare pertanto consolidato e di sicuro affidamento. I fattori considerati nella valutazione dell’attrattività di un territorio possono essere raggruppati nei seguenti otto insiemi: a) mercato; b) risorse umane; c) infrastrutture materiali; d) tessuto economico; e) istituzioni e politiche pubbliche; f) sistema normativo e burocratico; g) qualità del sistema sociale e dell’ambiente; h) immagine e reputazione del territorio. Gli specifici fattori all’interno di ciascuno di questi insiemi sono indicati nella Tabella 1.10. I fattori potenzialmente rilevanti nella valutazione dell’attrattività di un’area geografica sono dunque numerosi, anche se assumono rilevanza diversa in relazione alla natura dell’investimento e alle specificità dell’impresa che lo pone in essere. Da recenti analisi comparative nei Paesi dell’UE27, emerge che la disponibilità di una forza lavoro con elevate competenze costituisce una “costante” tra i principali fattori di attrattività in tutti i comparti produttivi. Nel corso del secondo decennio di questo secolo, tra le spinte agli investimenti esteri è ulteriormente aumentata la rilevanza dell’essere vicini ai mercati finali o ai clienti fondamentali e del trovarsi nei contesti dove è migliore la disponibilità delle competenze chiave per costruire il vantaggio competitivo. Questa tendenza sta rap-
26
Si vedano tra gli altri: Committieri M., Investire in Italia? risultati di una recente indagine empirica, Banca d’Italia, temi di discussione del Servizio Studi, n. 491, 2004; Siemens, Gli indicatori e le politiche per migliorare il sistema Italia e le sue attrattività positive, Siemens Italia, 2004. 27 Cfr. Holt J. et al., Decision factors influencing MNEs regional headquarters location selection strategies. Available at SSRN 982119 http://papers.ssrn.com/sol3/papers, 2006. Si veda anche Nennart J.F., Larimo J., “the impact of culture on the strategy of multinational enterprises: does national origin affect ownership decisions?” Journal of International Business Studies, 3 (1), pp. 1-14, 1998.
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aa
Tabella 1.10
Una tassonomia dei criteri di valutazione dell’attrattività di un territorio
Mercato
• Dimensione e tasso di crescita della domanda • Caratteristiche qualitative della domanda • Prossimità ad altri mercati
Risorse umane
• • • • •
Dimensione della forza lavoro Qualità delle risorse umane componenti la forza lavoro Costo del lavoro Flessibilità del lavoro (efficienza del mercato del lavoro) Qualità delle relazioni industriali
Infrastrutture
• • • • • •
Trasporti Telecomunicazioni Infrastrutture logistiche Infrastrutture per la ricerca e l’innovazione Sistema universitario e della formazione superiore Servizi di pubblica utilità
Tessuto economico
• • • • • •
Accesso e disponibilità delle materie prime Qualità e dimensione dei fornitori locali Sistema distributivo Sistema finanziario Struttura del sistema industriale locale Risorse country specific
Istituzioni e politiche pubbliche
• • • • •
Pubblica amministrazione centrale e locale Istituzioni economiche locali Politiche economiche e industriali Politiche per l’impresa Politiche per gli investimenti esteri
Sistema normativo e burocratico
• • • • •
Leggi e regolamenti in materia amministrativa e ambientale Leggi e regolamenti in materia contrattuale e societaria Normativa fiscale Regolamentazioni settoriali Efficienza della burocrazia
Qualità sociale e ambientale
• • • •
Coesione sociale Sicurezza Qualità ambientale e urbanistica Qualità dell’offerta culturale, artistica, ricreativa
Immagine e reputazione
• Reputazione generale del luogo • Reputazione del luogo come sede di attività produttive • Politiche di immagine
presentando una formidabile opportunità di sviluppo per i Paesi vicini ai grandi mercati geografici, soprattutto se in grado di dotarsi di infrastrutture adeguate, buona stabilità politico-sociale e di un capitale umano caratterizzato da elevato rapporto di prezzo/qualità; la grande crescita di investimenti internazionali in Messico conferma questa tendenza. In linea generale, le imprese nei settori a medio ed elevato valore aggiunto privilegiano sempre di più il near shoring, ovvero la localizzazione in contesti geografici “vicini”. Solo nelle produzioni a bassa tecnologia e alto impiego di lavoro poco qualificato le imprese scelgono di produrre nei territori che offrono bassi costi del lavoro, anche se molto lontane dai mercati e magari con altri fattori di svantaggio. In questi
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casi, per altro, si osserva una continua rincorsa alle condizioni economiche più convenienti, considerato che il vantaggio si acquisisce su margini anche ridotti e che le strutture produttive possono essere spostate (ovvero chiuse in un luogo e aperte in un altro) in modo agevole e rapido. La riduzione dei flussi di investimenti diretti esteri verso la Cina osservata negli ultimi anni, a vantaggio in particolare di Vietnam, Thailandia, Indonesia, o anche di alcuni Paesi dell’Africa centrale e orientale, testimonia chiaramente questa tendenza. Così come la tendenza contraria di un aumento degli investimenti produttivi esteri in Cina che non esportano, essendo finalizzati a presidiare il mercato della stessa area geografica. Le scelte di insediamento dell’impresa dipende non solo da come si presentano i fattori di attrattività del territorio, ma anche dall’orientamento dell’impresa relativamente a tre questioni: 1. la scelta relativa alla configurazione sovralocale della catena del valore; 2. le modalità di acquisizione dei fattori di vantaggio competitivo attraverso le relazioni con gli interlocutori nel nuovo contesto insediativo; 3. la dinamica attraverso cui si attua la valorizzazione all’interno di tutta l’impresa delle competenze acquisite in una determinata area geografica. Viene, di conseguenza, a modificarsi l’angolatura dalla quale le aziende considerano l’offerta territoriale: questa appare non tanto come insieme di fattori oggettivamente considerati, quanto principalmente come insieme di condizioni che incidono sulle opportunità competitive. Il grado di attrattività di un’area geografica è funzione della qualità (in termini di valore delle risorse che vi fluiscono) delle relazioni che l’impresa può attivare con gli attori che costituiscono il sistema territoriale. L’impresa non definisce la propria ubicazione in un quadro di adattamento passivo alle condizioni economiche e strutturali del luogo, ma, al contrario, in funzione delle opportunità di ottimizzare la propria posizione attraverso la gestione attiva delle relazioni con un certo insieme di soggetti locali. La rilevanza dei fattori di attrattività di un Paese è influenzata non solo dalle caratteristiche dell’impresa estera e dall’attività per la quale essa valuta diverse opportunità localizzative; dipende in modo significativo anche dal Paese di origine dell’investitore. Diversi autori hanno rilevato che questo fattore influenza la scelta sia della strategia di entrata sia i criteri maggiormente da considerare per decidere la localizzazione dell’attività. Holt et al. (2006), hanno osservato che nella decisione localizzativa dei regional headqueters, i gruppi americani attribuiscono maggiore importanza a fattori come le infrastrutture economiche e sociali o i servizi a supporto del business, mentre quelle orientali agli elementi “soft”, come le relazioni sociali, i comportamenti delle persone, il grado di apertura culturale. L’attrazione di nuove imprese estere e il rafforzamento della presenza di quelle esistenti La strategia di attrazione degli investimenti esterni si articola su due piani distinti: l’acquisizione nel territorio di iniziative economiche da parte di investitori di origine esterna e precedentemente non presenti nel territorio; l’estensione della presenza di investitori di origine esterna ma già operanti nel territorio. In termini di marketing, la prima strategia corrisponde all’allargamento del portafoglio clienti; la seconda, alla fidelizzazione dei clienti già acquisiti. I vantaggi della cu-
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Parte 1 Il processo di internazionalizzazione delle imprese
Gli orientamenti prevalenti nelle politiche di attrazione degli IDE nei Paesi dell’Unione Europea Tutti gli Stati dell’Unione Europea attuano una politica per l’attrazione degli IDE; negli ultimi anni, molti hanno rafforzato questa politica, aumentando le risorse messe a disposizione degli organismi (nazionali o regionali) cui è affidata la realizzazione di queste politiche, per altro in linea con quanto sta accadendo a livello internazionale. Le strategie degli stati membri sono fortemente competitive, essendo ancora molto limitato il coordinamento in sede comunitaria e comunque l’azione unitaria dell’Unione. A riguardo, è utile ricordare che nell’ambito del Trattato di Lisbona del 2009, l’attrazione degli investimenti esteri, fu inclusa nell’ambito delle Politiche Commerciali Comuni, prevedendo di conseguenza il trasferimento di una parte di competenze su tale materia dai singoli Stati all’UE. In particolare, è previsto che l’UE possa concludere trattati sul tema degli investimenti internazionali; per altro, la crescente competitività delle grandi economie “emergenti” rende sempre più opportuno cercare politiche sinergiche, soprattutto tra i Paesi di minore dimensione. Il principio della smart specialization, cardine della strategia dell’UE in campo economico orienta anche le politiche per l’attrazione degli IDE. Non solo i singoli Stati, ma anche le regioni al loro interno, cercano di sviluppare un vantaggio competitivo in specifiche filiere e per specifiche attività produttive; cercano, appunto, di sviluppare e promuovere un limitato numero di “specializzazioni” dove risultare eccellenti a livello non solo nazionale, ma europeo e possibilmente mondiale. Di conseguenza, l’azione di promozione dell’offerta territoriale è sempre più “targettizzata” su specifiche tipologie di potenziali investitori. In tutti gli Stati dell’UE esistono agenzie nazionali per l’attrazione degli IDE; in gran parte di essi, operano anche analoghi organismi di livello regionale, in considerazione del fatto che le questioni relative allo sviluppo produttivo e alle imprese sono di competenza (concorrente o esclusiva) dei governi regionali. Nonostante la dimensione e la sfera di azione (così come le performance) di queste agenzie sia piuttosto eterogenea, si possono individuare alcuni orientamenti prevalenti comuni in tutta Europa. In primo luogo, la diffusione dei programmi di incentivazione degli investimenti gestiti per lo più direttamente dagli organi di governo nazionale o regionale. Le agenzie di attrazione degli investimenti si occupano normalmente di svolgere le tipiche attività di marketing (analisi dei potenziali investitori, sviluppo della relazione con i potenziali investitori prima, durante e dopo la realizzazione dell’investimento; realizzazione di servizi a beneficio dell’investitore anche in collaborazione con altri attori istituzionali locali; realizzazione di attività di comunicazione e promozione dell’offerta territoriale). Crescente diffusione ha l’attività di “connessione” dell’investitore estero con il tessuto produttivo locale, anche attraverso la realizzazione di progetti di sviluppo sistemico dell’economica locale.
stomer retention si manifestano anche nel caso del territorio: in primo luogo, un’impresa di origine estera può divenire un fattore trainante del sistema produttivo locale e generare esternalità positive a vantaggio del territorio principalmente nel medio-lungo termine e in seguito allo sviluppo di relazioni significative con gli attori locali. Inoltre, l’espansione degli investimenti di un operatore esterno già insediato nel territorio tende a essere più facilmente collocata in un quadro coerente con gli indirizzi di sviluppo sostenibile del territorio. Diversi elementi agiscono favorevolmente in questo senso:
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l’esistenza di relazioni comunque stabilizzate tra autorità locali e impresa estera, circostanza che favorisce il dialogo e la comprensione reciproca; la migliore conoscenza che l’impresa estera ha del territorio e delle sue condizioni; l’accesso più diretto alle informazioni che facilita la valutazione da parte dell’impresa estera delle opportunità di espansione del proprio insediamento nel territorio. Deve, per altro, essere precisato che le due manifestazioni della strategia di attrazione degli investimenti esterni non necessariamente si escludono; per molti aspetti, sono anzi piuttosto complementari. Tuttavia, i diversi elementi che differenziano le due categorie di utenti, soprattutto per quanto riguarda la relazione con il territorio, richiedono un approccio abbastanza differenziato. L’estensione di un investimento estero già localizzato nel territorio è il risultato innanzi tutto dello sviluppo di una relazione positiva con l’impresa internazionale, finalizzata a creare nel tempo una sorta di partnership tra questa e il sistema territoriale ospitante. In questa prospettiva, si sottolinea la necessità che il rapporto con l’operatore di origine esterna non si concluda nel momento in cui questo effettua l’investimento industriale sul territorio, ma prosegua con l’obiettivo, appunto, di fidelizzarlo. In linea generale, le questioni su cui è più rilevante lavorare per sviluppare una positiva relazione con gli investitori esteri sono: • miglioramento delle condizioni ambientali che incidono sull’efficienza e sulla produttività delle attività produttive svolte nel territorio; • realizzazione di interventi sull’offerta territoriale per risolvere specifiche problematiche che l’impresa estera incontra sul territorio; • collaborazione nell’attuazione di progetti di sviluppo territoriale di interesse comune; • sviluppo di forme di integrazione tra l’impresa estera e determinate categorie di attori economici locali. Per favorire il radicamento dell’impresa estera nel territorio è anche essenziale attivare adeguate modalità di monitoraggio della percezione che questa ha della sua condizione localizzativa e della qualità delle relazioni con gli attori locali, in primo luogo con le autorità di governo. La partnership tra impresa estera e territorio nella prospettiva dell’estensione degli investimenti può arrivare anche a prevedere un’intesa volta ad attuare precisi adeguamenti dell’offerta territoriale esistente per rendere quest’ultima particolarmente attrattiva per gli specifici investimenti che l’impresa estera avrebbe interesse a effettuare. Nella strategia di attrazione nel territorio di nuovi investimenti di provenienza estera, il nodo essenziale è l’individuazione dei potenziali clienti e l’attivazione di meccanismi efficaci per intercettarli e avvicinarli alle offerte territoriali disponibili. È, quindi, essenziale organizzare un’adeguata attività di scouting internazionale e di accompagnamento del potenziale investitore sul territorio. Assume particolare rilievo la costruzione delle offerte localizzative e la loro promozione nell’ambito però di una comunicazione che riguarda il contesto territoriale nel suo insieme. Nelle due articolazioni della politica di attrazione degli investimenti esteri la politica di incentivazione economico-finanziaria e fiscale assume natura e peso molto diversi. Senza entrare nell’esame specifico di tale politica, si ricorda che gli interventi diretti del governo locale che comportano la sensibile riduzione dei costi di impianto o, per un certo arco temporale, di quelli di gestione rappresentano una leva molto efficace nell’attrarre nuovi investimenti produttivi. Questo vale in modo particolare nelle aree relativamente meno
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avanzate sul piano industriale, infrastrutturale e del mercato, e per quanto riguarda gli insediamenti il cui obiettivo primario è la minimizzazione dei costi di produzione e la rapidità del ritorno finanziario dell’investimento. Per l’azione volta a favorire l’insediamento nel territorio di nuove iniziative produttive, il sostegno finanziario diretto rappresenta dunque una leva di fatto molto efficace, anche se tutt’altro che esaustiva e probabilmente non adeguata nella prospettiva di lungo termine. In linea generale, infatti, l’investitore dovrebbe attribuire agli incentivi un rilievo progressivamente minore man mano che si stabilizza la sua presenza nel territorio. Ne consegue che la politica per il radicamento dell’investitore estero sul territorio dovrebbe basarsi sull’offerta di servizi qualificati all’impresa e sulla valorizzazione delle relazioni con gli attori locali, mentre dovrebbe in via solo residuale fare affidamento sul sostegno economico-finanziario diretto28. È utile sottolineare che la concessione di incentivi determina un vantaggio competitivo scarsamente difendibile; qualunque governo ha infatti la possibilità di adottare misure di questo tipo, pur nei limiti eventualmente stabiliti dalla legislazione dell’area sopranazionale di cui il suo Paese fa parte. La dinamica degli investimenti diretti esteri in Europa in quest’ultimo decennio conferma in modo evidente questa considerazione. Competere con altre aree geografiche sulla base degli incentivi rischia di attivare un meccanismo dannoso per il territorio stesso. In primo luogo, aumenta il costo implicito nell’acquisizione dell’investimento estero; in secondo luogo, aggiunge un ulteriore stimolo alla già elevata mobilità geografica degli investimenti produttivi, rendendo più difficile l’attuazione di una strategia di customer retention. Infine, i vantaggi economici riconosciuti agli investitori esteri possono creare elementi di distorsione competitiva per gli operatori locali. Il marketing territoriale per l’attrazione degli investimenti esteri: cenni29 La politica di attrazione di IDE può beneficiare dell’approccio metodologico e operativo del marketing territoriale. Il marketing territoriale introduce nella gestione strategica di un’area geografica un principio importante: la necessità di raccordare l’evoluzione dell’offerta territoriale alle esigenze espresse da coloro che ne rappresentano la domanda, e in particolare da coloro che con la loro presenza nel territorio contribuiscono positivamente alla sua crescita equilibrata. Da questo principio deriva la necessità di un’attenta riflessione circa le tipologie di soggetti economici e, quindi, di investimenti produttivi, cui rivolgere in via prioritaria l’offerta territoriale disponibile. Deriva, inoltre, l’opportunità di basare gli interventi volti al miglioramento delle condizioni (materiali e immateriali) di un’offerta territoriale su un’attenta valutazione delle aspettative dei principali utenti potenziali a cui tale offerta è rivolta.
28 Vale la stessa logica della promozione di un nuovo prodotto attraverso la concessione di uno sconto. La riduzione del prezzo serve per indurre il consumatore a provare la nuova offerta, vincendo la sua naturale inerzia e abbattendo gli eventuali costi “di passaggio” (switching costs). Questa azione ha un senso strategico se si assume che il consumatore, dopo aver provato il nuovo prodotto, rimanga convinto della sua qualità e continui ad acquistarlo per il suo valore intrinseco; in questo caso, è corretto e possibile riportare (più o meno rapidamente) il prezzo a livelli normali. 29 Per una trattazione approfondita di questo argomento si veda: Caroli M., il marketing per la gestione competitiva del territorio, Franco Angeli, 2014.
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L’approccio del marketing territoriale deve essere basato su quattro criteri: a) chiarezza; b) collaborazione; c) consenso; d) continuità. La chiarezza indica la definizione di un orientamento delle iniziative per lo sviluppo competitivo del territorio che risulti il più possibile unitario e coerente rispetto alle caratteristiche del territorio stesso e alle aspettative dei soggetti che ne fanno parte. La collaborazione sottolinea l’opportunità che la strategia di marketing territoriale e le misure operative conseguenti siano il risultato di un efficace coordinamento e integrazione di attori pubblici e privati coinvolti nel territorio. Il consenso richiama la necessità che l’azione di marketing sia comunque basata sull’individuazione di interessi comuni e su moderne forme di concertazione che garantiscano l’adeguata considerazione degli interessi di tutti. Infine, la continuità fa riferimento all’orientamento di lungo termine che deve caratterizzare il marketing territoriale e alla necessità di attuare un’azione continua sui fattori di sviluppo competitivo dell’area geografica in questione. Il metodo e le attività del marketing territoriale possono essere sintetizzate in cinque funzioni trasversali. La funzione cognitiva, relativa all’acquisizione e all’elaborazione di conoscenze sull’offerta territoriale e sulla sua domanda; la funzione progettuale, che si esprime nell’ideazione, nella progettazione e nello stimolo alla realizzazione di iniziative volte al rafforzamento della attrattività del territorio; la funzione politica, che concerne la rilevazione degli interessi degli attori che costituiscono il sistema territoriale e la loro composizione in una visione condivisa; la funzione gestionale, che descrive le azioni di intervento diretto e di coordinamento per l’attrazione di investitori esterni; la funzione di comunicazione, volta a rafforzare la percezione di un certo posizionamento del sistema territoriale nel suo insieme e a esplicitare il valore delle sue componenti più significative. In base a un orientamento di marketing, la strategia per l’attrazione di tali investimenti deve essere focalizzata su alcuni specifici segmenti di domanda. La necessità di adottare questo orientamento appare ineludibile anche in considerazione dell’impatto assolutamente decisivo che le economie di agglomerazione hanno sulle dinamiche localizzative delle attività economiche. Le politiche industriali locali tendono, quindi, a ricercare sempre più la massima specializzazione (che non significa, però, mono-specializzazione); a tal fine richiedono a monte una scelta abbastanza precisa dei settori/attività produttive ove cercare di eccellere a livello internazionale e il mantenimento nel tempo di una sufficiente focalizzazione sulle scelte assunte. Questo approccio trova ulteriore fondamento nella volontà dell’UE di stimolare i singoli Stati membri a sviluppare al loro interno delle smart specialization, ovvero gli ambiti produttivi rilevanti per lo sviluppo sostenibile dove poter raggiungere o mantenere una posizione competitiva forte a livello mondiale. Questo orientamento non esclude, tuttavia, che specifiche azioni per l’attrazione degli IDE siano implementate anche con riferimento a filiere produttive diverse da quelle target in tutti quei casi in cui qualificati stakeholder locali presentino a riguardo iniziative consistenti, coerenti con le prospettive di sviluppo sostenibile del proprio territorio e comunque non in contrasto con la più generale politica di sviluppo economico della regione. Per l’identificazione delle filiere/attività della catena del valore che un territorio può considerare come proprio target della politica di attrazione di IDE, sono consolidati i seguenti due criteri di segmentazione: il potenziale di attrattività del territorio; l’apporto potenziale dell’attività economica allo sviluppo sostenibile del territorio.
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Il potenziale di attrattività del territorio è determinato dal livello raggiunto dai fattori materiali e immateriali che influenzano tale attrattività, rispetto a quello mostrato dagli analoghi fattori nelle aree geografiche concorrenti. È importante sottolineare che, a parte i casi estremi, il potenziale di attrattività di un’area geografica può variare in relazione al tipo di investimento/attività economica che si intende attrarre. Questo perché investimenti/attività economiche diverse attribuiscono evidentemente un rilievo in qualche misura distinto agli stessi fattori determinanti l’attrattività. Di conseguenza, la stima della competitività di un’area geografica deve essere preferibilmente fatta con riferimento a una specifica tipologia di investimento, attraverso un’opportuna ponderazione del peso attribuito nella valutazione alle varie determinanti della competitività. L’apporto potenziale dell’attività economica allo sviluppo sostenibile deriva dalla valutazione di due aspetti: il valore aggiunto netto che le imprese della filiera in questione possono realisticamente creare a vantaggio del territorio; l’interesse condiviso tra gli attori locali e concretamente esplicitato, verso l’insediamento nel loro territorio di imprese della filiera in questione. Per quanto riguarda il primo aspetto, si osserva che in generale il livello del valore aggiunto netto prodotto da un investimento nel contesto ospitante è determinato da numerosi fattori, tra i quali i principali sono: a) dimensione e qualità dell’occupazione creata; b) impatto ambientale dell’investimento e delle conseguenti attività produttive; c) impatto sul tessuto produttivo locale (sviluppo del sistema di fornitori qualificati e pressione competitiva su attori locali, stimolo a nuova imprenditorialità qualificata); d) opportunità di diffusione della conoscenza e di trasferimento della tecnologia; e) rafforzamento economie di agglomerazione; f) miglioramento della qualità del capitale umano e di attrazione risorse umane eccellenti; g) realizzazione di investimenti di pubblico interesse. L’impatto degli investimenti esteri sul territorio ospitante Gli effetti prodotti da un IDE sul sistema territoriale ospitante sono correlati alle condizioni in cui questo si trova. È facile comprendere che in un’area geografica economicamente poco sviluppata e con un elevato tasso di disoccupazione, un IDE di tipo greenfield ha comunque buone probabilità di generare un effetto complessivamente positivo. In una certa misura, tali effetti sono anche indotti dall’azione degli attori appartenenti al territorio. Sono cioè gli stessi soggetti locali che possono stimolare determinati comportamenti da parte degli operatori di origine esterna dalle quali possono derivare effetti positivi per il sistema territoriale. Per quanto riguarda, invece, gli investimenti esteri attraverso acquisizione di aziende locali, si osserva che questi non necessariamente generano un aumento dello stock di capitale investito nel Paese dove viene effettuata l’acquisizione, implicando, almeno in prima battuta, solo il cambiamento del controllo proprietario delle attività dell’impresa acquisita. Tale cambiamento non ha normalmente effetti rilevanti nel breve termine e non ha effetti univoci nel medio-lungo termine, per quanto riguarda appunto l’incremento dello stock di capitale investito nel Paese di appartenenza dell’impresa acquisita, così come per quanto concerne i livelli di occupazione. Nei casi (peraltro, abbastanza frequenti) in cui l’acquisizione di un’azienda estera sia principalmente finalizzata a ottenere
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la quota di mercato che questa detiene nella sua area geografica e più in generale il suo posizionamento sul mercato, risulta anzi possibile che, qualche tempo dopo l’operazione, la casa-madre proceda a un ridimensionamento delle attività produttive fino ad allora svolte dall’impresa acquisita, trasferendole in altri stabilimenti produttivi del gruppo, magari più efficienti e collocati in altri Paesi. Può, tuttavia, verificarsi anche un’altra situazione: l’impresa locale acquisita da un gruppo estero si rivela in grado di svolgere determinate funzioni produttive in maniera eccellente; queste competenze spingono allora la casa-madre ad attribuire a tale impresa nuovi compiti e quindi nuove risorse. In definitiva, l’impatto che un IDE realizzato attraverso l’acquisizione di un operatore locale ha sul Paese ospitante in termini sia di capitale investito, sia di valore aggiunto creato e di nuova occupazione, è piuttosto incerto; dipende essenzialmente dagli obiettivi che sono a monte dell’operazione di acquisizione e dalle risorse distintive che l’impresa locale è in grado di sviluppare a beneficio del gruppo internazionale di cui è entrata a far parte. Salvo i casi limite in positivo o in negativo, la valenza di un IDE sul territorio non può, dunque, essere valutata in senso assoluto e generalizzata; deve, piuttosto, essere contestualizzata rispetto alle specifiche condizioni del territorio ospitante e degli attori che ne fanno parte. La valutazione dell’impatto di un IDE sull’evoluzione fisiologica del sistema territoriale ospitante richiede, dunque, tre passaggi logici: a) identificazione delle esternalità positive e negative potenzialmente generate da un IDE sul territorio ospitante; b) valutazione dell’effettivo impatto di tali esternalità individuate al punto precedente, in relazione alle specifiche condizioni del territorio ospitante e agli obiettivi dell’investitore internazionale; c) comprensione dei fattori da cui dipende il manifestarsi delle esternalità individuate al punto a), con l’impatto previsto al punto b). Il trasferimento di conoscenza Grazie alla capacità di condividere conoscenze, informazioni e risorse tra più aree geografiche, la corporate, o gli specifici centri di eccellenza all’interno del gruppo, mettono le nuove conoscenze e tecnologie a disposizione di tutte le consociate; queste ultime, attraverso le possibili relazioni che le legano alle imprese locali in qualità di clienti o fornitori, agevolano la diffusione delle nuove conoscenze e tecnologie nei Paesi dove sono collocate. Per assolvere agli impegni contrattuali con gli operatori di matrice internazionale, le aziende locali sono spesso indotte ad adeguare i propri prodotti e/o processi agli standard tecnologici adottati dalle imprese estere. I rapporti con tali imprese stimolano un miglioramento del livello tecnologico e della qualità complessiva delle imprese locali che riescono a stabilire significativi rapporti di collaborazione con gli operatori di origine esterna. Esistono diverse modalità attraverso cui le imprese locali possono concretamente accedere alle tecnologie delle imprese di origine esterna presenti nel proprio territorio. In primo luogo, le imprese domestiche beneficiano di una sorta di effetto learning by observing o demonstration effect, che consente loro di imitare le innovazioni tecniche o organizzativo-manageriali introdotte positivamente dalle multinazionali nel contesto di riferimento (Blomström, Kokko, 1998; Marin, Bell, 2006). I legami contrattuali di tipo verticale tra le imprese estere e fornitori/acquirenti locali rappresentano una seconda modalità
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di trasferimento di competenze. Le imprese estere possono favorire il rafforzamento dei fornitori locali, fornendo loro assistenza in sede di acquisto delle materie prime, o agendo affinché essi rispettino determinati standard quali-quantitativi, o specifici requisiti di time-to-market, o infine fornendo formazione a manager, tecnici e altre figure professionali. L’effettiva rilevanza di questi effetti appare in qualche modo correlata al gap tecnologico esistente tra il territorio di destinazione dell’investimento estero e il suo Paese di origine. Per un verso, i trasferimenti tecnologici sarebbero positivamente correlati al divario iniziale tra i Paesi; gli stimoli al cambiamento nell’area meno sviluppata sono infatti funzione crescente delle opportunità tecnologiche esistenti nella regione più avanzata; da un altro punto di vista, se le affiliate estere investono in un settore del Paese ospite già sviluppato, il loro apporto di conoscenze trova un contesto più ricettivo e in grado di valorizzarne l’impatto. Sul piano empirico, sembra prevalere l’ipotesi che l’impatto di lungo periodo degli investimenti diretti esteri cambi significativamente da Paese a Paese, in proporzione inversa al livello pregresso di sviluppo economico, e che gli spillovers emergano positivamente – e con maggior evidenza – nelle economie comparativamente meno sviluppate. Va anche sottolineato come la possibilità di fare propria e utilizzare la tecnologia estera dipenda dalla capacità di assorbimento di cui sono dotate le realtà imprenditoriali locali; questa dipende dall’esistenza all’interno di tali realtà di una soglia minima di tecnologia, al di sotto della quale gli effetti positivi di un IDE risultano non fruibili30 (Castellani, Zanfei, 2002); inoltre, dalla loro dimensione e dalla qualità del capitale umano disponibile. L’aumento delle esportazioni e valorizzazione delle produzioni locali Un altro possibile effetto degli investimenti diretti esteri consiste nell’arricchimento delle tipologie di attività economico-produttive nell’area geografica ospitante31, da cui 30
L’ipotesi del catching-up ha trovato una prima enucleazione negli studi di Findlay, e in altri più recenti di Wang e Blomström i quali enfatizzano positivamente i divari tecnologici; al contrario, altri autori attribuiscono un’importanza maggiore alla capacità di assorbimento e dunque alla produttività delle imprese domestiche (Cantwell, Kokko). L’evidenza empirica mostra che i potenziali effetti indesiderati dei divari tecnologici (spiazzamento di concorrenti e fornitori locali da parte delle multinazionali) sono più che compensati dalle possibilità di accesso a conoscenze avanzate. In proposito Abramovitz (1986) introduce i concetti di “potenziale per il catch-up” e di “fattori o vincoli che supportano la realizzazione di tale potenziale”. I fattori che incidono sul potenziale sono le risorse naturali, la congruenza tecnologica e le social capabilities. Per quanto concerne l’appropriabilità della tecnologia più efficiente, si tratta di un problema cruciale nei Paesi follower (Perkins, Ho Koo, 1995) causato dalla differente proporzione dei fattori produttivi (come il ridotto stock di capitale); dalla limitata dimensione del mercato (che non permette ai Paesi poveri di utilizzare tecnologie scale-intensive) e dai fattori istituzionali che possono limitare il raggiungimento di livelli dimensionali efficienti dell’apparato produttivo. La definizione di social capabilities, come componente che incide sul potenziale, è legata alle “competenze tecniche (misurate in base ai livelli di scolarizzazione) e alle istituzioni politiche, industriali, commerciali e finanziarie di un Paese.” 31 In proposito Lipsey rileva il decisivo contributo delle imprese statunitensi alla sedimentazione dell’industria elettronica asiatica; Lipsey R.E., Affiliates of U.S. and Japanese Multinationals in East Asian Production and Trade, in Takatoshi Ito, Anne O. Krueger, The Role of Foreign Direct Investment in East Asian Development and Trade, NBER East Asian Seminar on Economics, vol. 9, Chicago, The University of Chicago Press, 2000, pp.147-190.
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può derivare anche un incremento della produzione locale e un possibile aumento delle esportazioni (Rhee e Belot, 1990). Da questo punto di vista, gli investimenti diretti esteri in entrata connettono il territorio con le reti internazionali di produzione e di scambio. Sia nelle economie sviluppate sia in quelle emergenti la presenza di operatori esteri tende a comportare livelli crescenti di esportazione, sulla base di quattro meccanismi: 1. l’impresa produce nel territorio estero determinati semilavorati o componenti che sono poi inviati alla casa-madre nel Paese di origine, dove sono svolte le fasi essenziali del processo produttivo; 2. l’impresa svolge nel territorio determinate produzioni per soddisfare il fabbisogno di unità operative a valle, collocate in altri Paesi, alle quali quelle produzioni sono vendute (flussi commerciali intra-company); 3. l’impresa colloca nel territorio strutture di produzione che operano per il mercato locale, ed eventualmente anche per mercati convenientemente raggiungibili dal Paese in questione; 4. l’impresa sviluppa nel territorio un’offerta fortemente caratterizzata per l’immagine e le competenze del Paese stesso poi commercializzata nei mercati internazionali. Sulla base di quest’ultimo meccanismo, l’investitore internazionale può avere un impatto positivo sui prodotti e sui marchi di origine locale; può dare loro un decisivo impulso verso l’affermazione internazionale, che risulterebbe altrimenti non raggiungibile qualora essi rimanessero nell’ambito dell’impresa locale. Un’elevata capacità di investimento, le migliori competenze di marketing, la maggiore capacità produttiva e il migliore controllo delle reti distributive nei diversi Paesi sono i principali fattori che permettono a un valido marchio di rango locale entrato nel portafoglio di un gruppo internazionale di affermarsi sui mercati esteri. In questo senso, l’impresa estera non determina semplicemente un aumento della quantità di esportazioni, ma una vera e propria valorizzazione internazionale di marchi e prodotti, rappresentativi di una certa tradizione industriale del territorio ospitante. Essa diviene un amplificatore a livello internazionale di eccellenze produttive di un’area geografica e, quindi, il continuatore delle tradizioni manifatturiere che le hanno generate. Ne deriva anche il rafforzamento della percezione che i mercati internazionali hanno dell’eccellenza raggiunta da una determinata area geografica in certe tipologie di produzione, del capitale reputazionale e del posizionamento di un territorio presso gli investitori esteri. La valorizzazione del capitale umano La presenza di imprese internazionali in un determinato territorio ha un effetto positivo sul suo capitale umano, sia quello direttamente impiegato dall’impresa stessa, sia, in qualche misura, quello collocato altrove. Sul piano retributivo, si osserva che le imprese a partecipazione estera tendono a offrire remunerazioni complessivamente superiori rispetto a quelle medie delle imprese locali. Nei Paesi economicamente avanzati, tale differenziale è innanzi tutto spiegato dalla particolare composizione intersettoriale dei flussi di investimenti diretti esteri mondiali, proporzionalmente sbilanciata a favore di attività caratterizzate da livelli retributivi più alti. Può anche dipendere dal fatto che l’impresa estera intende stabilire buone relazioni nel sistema sociale del Paese ospitante.
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La tendenza delle imprese a delocalizzare quote significative della propria capacità produttiva nei Paesi caratterizzati da un minor costo del fattore lavoro può avere conseguenze negative sia per il Paese di origine che per quello di destinazione; nel primo caso, per la riduzione di domanda interna di forza lavoro, e nel secondo caso per l’instaurarsi di fenomeni di dumping sociale nelle economie ospitanti, desiderose di risultare vincenti nell’attrazione degli investimenti esteri (race to the bottom). L’attrazione di IDE in una determinata area geografica stimola l’arrivo in quella stessa area di persone con elevata qualificazione. Questo accade in modo particolare quando gli investimenti di origine esterna si inseriscono e rafforzano cluster produttivi di rilievo internazionale; in questo caso, infatti, il territorio si evidenzia come sede ove determinate competenze professionali trovano le migliori condizioni per esprimere le proprie potenzialità. La presenza di imprese estere può anche stimolare il tasso di imprenditorialità locale. In alcuni casi può essere la stessa multinazionale a incoraggiare fenomeni di spinoff32, con l’obiettivo di acquisire in outsourcing attività che, per diverse ragioni, risulterebbe non conveniente svolgere all’interno. Questo meccanismo risulta tanto più agevole quanto più le strutture produttive estere riescono a fertilizzare reciprocamente le proprie competenze con quelle di altrettanti partner operanti a livello locale, grazie anche all’esistenza di fenomeni agglomerativi fra questi ultimi. L’agglomerazione produttiva Gli IDE possono funzionare da importanti attivatori delle dinamiche di agglomerazione nel tessuto economico di destinazione (Driffield, Munday, 2000; Head et al., 1995). L’insediamento in un determinato contesto geografico di un’impresa internazionale ne rafforza la visibilità e l’attrattività, almeno per i soggetti appartenenti alla filiera in cui tale impresa opera. Tali effetti sono naturalmente tanto più consistenti, quanto maggiore è la dimensione assoluta e la rilevanza competitiva dell’impresa estera e quanto più questa tende a stabilire collaborazioni significative con gli operatori locali. Il verificarsi di dinamiche di agglomerazione preesistenti alla decisione di entrata delle multinazionali costituisce invece un rilevante fattore di attrattività per il territorio. L’intensità della concorrenza nel mercato locale L’insediamento di imprese estere in un determinato contesto geografico quasi sempre aumenta la concorrenza nel mercato interno. Esse tendono a superare con relativa facilità le barriere che in alcuni casi proteggono le imprese locali nel proprio mercato geografico, aumentando la concorrenza, con effetti positivi per i consumatori, per il settore nel suo insieme (poiché vengono scremate le imprese meno efficienti) e per le stesse imprese locali con maggiore potenziale, che vengono stimolate al miglioramento e all’adozione di standard gestionali di livello internazionale. A un esame più attento, l’effetto di un IDE sulle dinamiche dei mercati locali risulta però tutt’altro che univoco. Occorre in primo luogo distinguere la modalità attraverso cui è realizzato l’IDE: acquisizione di un’impresa locale o realizzazione di una nuova struttura produttiva. Nel primo caso, fa molta differenza se viene acquisita un’impresa che aveva una posizione
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È il caso dei cosiddetti corporate spin-off.
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di leadership nel mercato locale o un operatore relativamente meno forte; è molto probabile che un aumento della concorrenza nel mercato locale si avrà solo in questa seconda ipotesi; nella prima è, anzi, probabile il verificarsi di un effetto esattamente contrario. Gli effetti sulla concorrenza dipendono anche dalla specifica struttura del mercato e dall’impatto che l’impresa internazionale entrante può avere sulla sua evoluzione. Infine, non si devono trascurare le motivazioni che sono alla base dell’IDE e che orientano i comportamenti, anche nella sfera della competizione, attuati dall’operatore di origine esterna. Vi sono tre situazioni in cui è più probabile che la presenza di IDE determini effetti negativi per il sistema economico locale. In primo luogo, il caso in cui l’investitore internazionale raggiunge una posizione di dominio, determinando la crisi diffusa degli operatori locali e l’evoluzione del mercato verso forme di oligopolio. Vi è poi il caso in cui l’IDE ha un peso economico molto elevato nel sistema economico esterno dove va a localizzarsi e conseguentemente un forte potere di influenza sugli organi di governo e sulle istituzioni. In queste condizioni, l’operatore di origine esterna può influenzare le scelte dei decisori pubblici in un senso vantaggioso per la massimizzazione del proprio valore economico, ma magari negativo per lo sviluppo sostenibile del sistema territoriale ospitante. Infine, è essenziale sottolineare la pressione competitiva che la presenza dell’IDE determina sull’offerta locale di risorse, in particolare sulle risorse umane. Grazie al loro maggiore potere di attrazione, le imprese di origine esterna possono causare un effetto di “spiazzamento” a danno di quelle locali e in particolar modo di quelle di dimensioni minore, normalmente caratterizzate da minore attrattività e potere negoziale nei confronti dei fornitori delle risorse.
DOMANDE DI RIPASSO 1. Elencare i cinque ambiti della globalizzazione rilevanti per l’impresa. 2. Quali sono le caratteristiche che distinguono i nuovi concorrenti provenienti dai Paesi emergenti? 3. Illustrare il concetto e i contenuti del global sourcing. 4. Quali sono le possibili modalità di realizzazione di un investimento diretto estero? 5. Quali possono essere gli effetti degli investimenti diretti esteri sui territori ospitanti? 6. Quali sono i fattori di attrattività territoriale che vengono valutati
7.
8. 9. 10.
dall’impresa internazionale nel processo di scelta di potenziali localizzazioni produttive? In che modo gli investimenti diretti esteri possono impattare sulla concorrenza nei Paesi ospitanti? Definire il concetto di competitività di un territorio. Descrivere sinteticamente l’andamento degli IDE negli ultimi 20 anni. Spiegare la possibile interdipendenza tra investimenti diretti esteri ed esportazioni.
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