Psicologia sociale 3/ed

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CA P I T O LO

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Introduzione alla psicologia sociale 1.1 Che cos’è la psicologia sociale? 1.2 I capisaldi della psicologia sociale 1.3 La psicologia sociale e i valori

1.4 Lo so da sempre: la psicologia sociale è semplice senso comune? 1.5 Lo sviluppo storico della psicologia sociale

C’era una volta un uomo che in seconde nozze aveva sposato una donna vanitosa ed egoista. Questa donna aveva due figlie che erano vanitose ed egoiste come lei. L’uomo aveva anche una figlia che era mite e per nulla egoista. Questa dolce e gentile fanciulla, che tutti noi conosciamo con il nome di Cenerentola, imparò in fretta che doveva ubbidire, accettare i maltrattamenti e gli insulti delle sorellastre e della matrigna. Grazie alla sua fata madrina, tuttavia, Cenerentola riuscì a sfuggire alla sua situazione per una sera e a partecipare al © Lifesize/Getty Images RF


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2 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale gran ballo, ove attrasse l’attenzione di un bellissimo e gentile principe. Quando il principe innamorato della fanciulla incontrata al ballo rivide Cenerentola vestita di Ambrose Bierce, Il dizionario del diavolo (1911) stracci, nella sua abitazione, non la riconobbe. Poco plausibile? La fiaba porta a riflettere sul potere della situazione. In presenza della sua oppressiva matrigna, Cenerentola si sentiva oppressa e svalutata e così appariva dimessa e poco attraente, al gran ballo Cenerentola si sentiva bella e accettata – e così passeggiava, chiacchierava e sorrideva come se lo fosse stata sempre. In una situazione, era insignificante. Nell’altra situazione, era affascinante. Cambiamo scenario. Supponete che siano trascorsi vent’anni da oggi e di aver ricevuto una lettera da parte di un gruppo dei vostri attuali compagni che vi invita a una “rimpatriata”. Provate a immaginarvi in quella situazione… ci siete? Bene. Quali potrebbero essere i vostri pensieri? Nostalgia per il tempo trascorso? Rimpianti, felicità, gioia, tristezza? Quali pensieri ed emozioni potrebbero venirvi alla mente? La soddisfazione per aver superato il primo esame? La delusione per non aver superato l’esame di psicologia generale o psicologia sociale? Forse. Probabilmente, però, ciò che dominerà i vostri pensieri saranno le persone che avete incontrato, le interazioni che avete avuto con loro, le relazioni di amore o di odio che si sono sviluppate, le situazioni che avete vissuto insieme. Noi ci focalizziamo sulle situazioni sociali perché siamo esseri sociali. La nostra identità si forgia nelle relazioni con gli altri. Non viviamo passivamente le nostre interazioni sociali, le ricerchiamo attivamente. Continuamente cerchiamo di stringere relazioni: in famiglia, nel gruppo di amici, in università, nella società sportiva. Ricordate il film, La vita è meravigliosa, diretto da Frank Capra, con James Stuart nei panni di George Bailey? A Bedford Fall il brav’uomo George Bailey, onesto e sfortunato, vuole togliersi la vita. Gli appare, nelle vesti di un simpatico vecchietto, il suo angelo custode, Clarence, che gli mostra non quali sarebbero stati i momenti di felicità che lui avrebbe perso togliendosi la vita, ma quali sarebbero state le conseguenze per le persone che ama se lui non fosse mai nato. È stato il pensiero di queste persone, delle relazioni con loro, a salvare la vita di George. Proprio perché abbiamo un consistente bisogno degli altri, ci preoccupiamo delle nostre interazioni e relazioni e cerchiamo di curarle perché non finiscano mai e siano fonte di gioia per noi e per gli altri; inoltre il contesto sociale in cui ci troviamo può influenzarci profondamente. Il potere della situazione, del contesto sociale può essere più o meno manifesto, più o meno forte, ma pur sempre presente. Perché le storie di Cenerentola, di voi proiettati nel futuro e di George Bailey ci incuriosiscono e ci appassionano? Perché ci parlano di noi e del nostro mondo sociale. La psicologia sociale si occupa di questo. Poiché è una disciplina scientifica e non aneddotica, sistematica e non casuale, fornisce spiegazioni che vanno oltre l’intuizione e il pensiero soggettivo. Il presente capitolo si propone d’illustrare la definizione di psicologia sociale, i suoi presupposti e le sue peculiarità, il suo valore e la sua applicabilità. ◼ Pregiudizio. Opinione vagante senza visibili strumenti di supporto.

■ 1.1

CHE COS’È LA PSICOLOGIA SOCIALE?

Il filosofo francese Jean-Paul Sartre concorderebbe con quello che abbiamo scritto all’inizio di questo capitolo in merito a Cenerentola: «prima di tutto noi siamo persone in si-


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

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APPROFONDIMENTO Interazione e relazione È necessario chiarire la differenza tra relazione e interazione. Nel diffuso approccio interazionista non si distingue tra interazione e relazione e la relazione “collassa” nell’interazione. L’approccio relazionale-simbolico (Cigoli e Scabini, 2006; Scabini e Cigoli, 2000), invece, distingue e connette interazione e relazione. Secondo questo approccio, quello che noi vediamo nei gruppi è l’interazione, “il qui e ora”, lo scambio che avviene tra i membri. L’interazione è ciò che è alla base e viene riempita di significato dalla relazione. Il campo semantico dell’interazione è dominato dallo spazio, dalla co-costruzione di significati e di azioni

congiunte, mentre il tempo è focalizzato sul presente e sulla sequenza. Le relazioni non possono essere ridotte a una mera sequenza di azioni reciproche osservabili e, entro certi limiti, misurabili (Hinde, 1997). La relazione, invece, rimanda a un legame che precede l’interazione in atto e ne costituisce il contesto significativo. Essa non può essere osservata come si osserva l’interazione, può solo essere inferita. Per relazione s’intende un legame che connette tra loro i membri di un gruppo, un legame di senso che si dispiega nel tempo e che quindi ha un passato, un presente e un futuro (Scabini et al., 2006; Scabini e Iafrate, 2003).

tuazione», in un contesto sociale (1946, p. 59). Possiamo aggiungere che oltre a essere persone in situazione, siamo persone in interazione e persone in relazione con gli altri. «Nessuno vive solo», ricorda Lewin (vedi Approfondimento Interazione e relazione). La psicologia sociale è lo studio scientifico del modo in cui le persone e i gruppi percepiscono e Psicologia sociale Lo studio pensano gli altri, li influenzano e si pongono in rela- scientifico di come le persone e i gruppi percepiscono e pensano gli zione con essi (Figura 1.1). Questa disciplina foca- altri, li influenzano e si pongono in lizza l’attenzione sull’articolazione tra i processi psi- relazione con essi. cologici e quelli sociali, studia l’intersoggettività intesa come relazioni tra le persone, tra i gruppi e tra la persona e il contesto sociale in cui vive. In maniera più articolata, possiamo dire che la psicologia sociale «è la disciplina che, connettendo l’analisi dei processi psicologici degli individui con l’analisi delle dinamiche sociali nelle quali questi sono coinvolti, studia in particolare i modi e le forme con cui l’esperienza, l’attività mentale e pratica e i comportamenti si articolano con il contesto sociale. Tale articolazione è analizzata sia a livello di processi basici della vita di relazione (quali sono quelli implicati nell’attività cognitiva, nelle emozioni, nella comunicazione, nella motivazione e nell’azione) sia a quei fenomeni che questi processi vengono a costituire operando nell’ambito concreto dell’interazione sociale: atteggiamenti, pregiudizi, rappresentazioni sociali, influenza sociale ecc. I processi di base e questi fenomeni sono connessi perché è proprio in tale connessione che si collocano molti punti “cerniera”, concettualmente definibili ed empiricamente analizzabili, dell’articolazione psicosociale» (Amerio, 2007, p. 17).


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4 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

La psicologia sociale è lo studio scientifico…

della percezione e del pensiero sociale • Le percezioni • Le credenze sociali • I giudizi sociali • Gli atteggiamenti

dell’influenza sociale • La pressione a conformarsi • La persuasione • Le interazioni nei e tra i gruppi

delle relazioni sociali • Il pregiudizio • L’aggressività e il conflitto • L’attrazione e l’intimità • L’altruismo e la prosocialità

FIGURA 1.1 ◼ La psicologia sociale è…

Gli psicologi sociali, dunque, cercano di rispondere a domande intriganti, come per esempio quelle che seguono. ◾ Quanto del nostro mondo reale è contenuto nella nostra mente? Come vedremo in questo volume, i nostri comportamenti sociali variano non solo in relazione alla situazione oggettiva ma anche al nostro modo di costruire le realtà. Le credenze sociali possono avere valore profetico. Per esempio, persone felicemente sposate possono attribuire l’affermazione acida del partner «Ma possibile che quando usi tu una cosa non la rimetti mai al suo posto?» a una causa che impareremo a chiamare esterna – «Deve aver avuto una giornata stressante» – mentre persone che non hanno un matrimonio felice possono attribuirla a cause che chiameremo interne – «È sempre così ostile!» – e reagire con un contrattacco. Così, aspettandosi ostilità da parte del proprio partner, agiranno con risentimento e rabbia, inducendo l’ostilità che si attendono. ◾ Le persone possono essere crudeli se viene loro ordinato di esserlo? Come poterono i nazisti progettare e realizzare lo sterminio di 6 milioni di ebrei? Molte di queste azioni diaboliche furono eseguite perché qualcuno ordinò di compierle e altri ubbidirono. Stiparono i prigionieri su vagoni ferroviari, li spinsero entro affollate docce e li uccisero con il gas. Come possono le persone compiere gesti così tremendi? Si trattava di persone psicopatiche? Stanley Milgram (1974) dimostrò che non lo erano. Come? Costruì un congegno sperimentale in cui alle persone veniva ordinato di somministrare scosse elettriche di potenza sempre più elevata a qualcuno che si trovava in difficoltà in un compito di apprendimento. Come vedremo in seguito, i risultati che ottenne sono a dir poco sconcertanti: quasi 2/3 dei partecipanti ubbidì senza batter ciglio. ◾ Aiutare gli altri o aiutare se stessi? Un bel giorno d’autunno, a New York, mentre un furgoncino portavalori faceva una curva in centro città le porte posteriori si aprirono e caddero a terra banconote per circa due milioni di dollari. Alcuni automobilisti e


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

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pedoni si fermarono e aiutarono lo sventurato conducente del furgoncino a recuperare il denaro: raccolsero circa 100 000 dollari. Altri pedoni e automobilisti si fermarono e recuperarono complessivamente i restanti 1 900 000 dollari ma per se stessi. Voi che cosa avreste fatto? Quando incidenti analoghi si verificarono qualche mese più tardi a San Francisco e a Toronto successe la stessa cosa: i passanti tennero per sé gran parte del denaro (Bowen, 1988). Che cosa rende le persone prosociali o avide? Un filo rosso lega queste tre domande: tutte rimandano a come le persone percepiscono gli altri e interagiscono con essi. Questo è ciò di cui si occupa la psicologia sociale.

■ 1.2

I CAPISALDI DELLA PSICOLOGIA SOCIALE

Quali sono le lezioni principali della psicologia sociale? I risultati di decine di centinaia di studi, le conclusioni di migliaia di ricerche e le riflessioni di centinaia di ricercatori confluiscono in alcuni elementi di fondo, alcune idee centrali. La lista «di grandi idee che non devono essere dimenticate», secondo Myers, è rappresentata nella Figura 1.2.

le

Pe

1. Noi costruiamo la nostra realtà sociale 2. Le nostre intuizioni sociali sono potenti, ma talvolta pericolose 3. Gli atteggiamenti sono modellati dai comportamenti e, a loro volta, li modellano rc a ez ci io n so e e pensiero

6. Sentimenti e azioni verso le persone sono a volte positivi e a volte negativi 7. Sentimenti e azioni verso i gruppi sono a volte positivi e a volte negativi li Rel azioni socia

4. L’influenza sociale modella i comportamenti 5. Le disposizioni modellano i comportamenti In le f lu enza socia

a

I principi della psicologia sociale sono applicabili Ps alla vita quotidiana t a ic o l ic lo g i a sociale app

FIGURA 1.2 ◼ Alcune grandi idee della psicologia sociale.


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6 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

1.2.1

Noi costruiamo la nostra realtà

Gli esseri umani hanno un pressante bisogno di spiegare i comportamenti, attribuire loro delle cause e pertanto renderli ordinati, predicibili e controllabili. Voi e il vostro vicino di banco potete reagire diversamente alla medesima situazione perché pensate in maniera differente. Il nostro modo di reagire all’insulto di un compagno dipende dalla causa a cui attribuiamo il suo comportamento: a una giornata storta o a un tratto stabile di personalità. Una partita di football americano giocata nell’autunno del 1951 dalla squadra della Princeton University contro quella del Dartmouth College fornisce una dimostrazione chiara di come costruiamo la nostra realtà (Hastorf e Cantril, 1954; Loy e Andrews, 1981). Le due squadre erano rivali di lunga data, la partita iniziò in maniera turbolenta e terminò ancora peggio. Quella partita risultò essere la più dura e “sporca” partita della storia delle due squadre. I giocatori del Dortmouth si mostrarono poco sportivi, commisero numerosi falli ai danni degli avversari, tanto che un giocatore della squadra del Princeton dovette lasciare il campo a causa della frattura del setto nasale provocata da un avversario. Un mese dopo due psicologi sociali (Hastorf e Cantril, 1954), uno della Princeton University e l’altro del Dartmouth College, mostrarono il filmato della partita a un gruppo di studenti dell’uno e dell’altro campus. Ciò che si verificò fu sconcertante. Gli studenti dei due campus, utilizzati come osservatori-scienziati ingenui, riferirono eventi così diversi in merito al medesimo filmato da indurre a pensare che fossero stati mostrati loro due filmati differenti. Gli studenti della Princeton University notarono i costanti attacchi aggressivi degli avversari e il loro scarso spirito sportivo, tanto da ritenere che i propri giocatori fossero stati costretti a difendersi. Per gli studenti del Dartmouth College i giocatori delle due squadre erano parimenti fallosi e i propri giocatori avevano solo reagito ai brutali attacchi degli avversari. La conclusione che possiamo trarre da questo studio è che esiste una realtà oggettiva al di fuori di noi, ma la vediamo sempre attraverso le lenti delle nostre credenze e dei nostri valori. Siamo tutti scienziati ingenui. Spieghiamo il comportamento delle persone, solitamente con sufficiente rapidità e accuratezza, e questo risponde in maniera adeguata ai nostri bisogni quotidiani. Anche le credenze che riguardano noi stessi sono importanti. Abbiamo una visione ottimistica? Riteniamo di poter esercitare il controllo sugli eventi che ci riguardano? Ci vediamo superiori o inferiori agli altri? Le nostre risposte a questi quesiti influenzano le nostre emozioni e le nostre azioni. È estremamente importante capire come costruiamo la nostra realtà del mondo e di noi stessi.

1.2.2 Le nostre intuizioni sono spesso potenti ma talvolta pericolose Le nostre intuizioni immediate modellano le nostre paure (il volo sarà pericoloso?), le nostre impressioni (mi posso fidare di quella persona?) e le nostre relazioni (sono gradita/o a quella persona?). Le intuizioni influenzano le azioni dei presidenti in momenti di crisi, i giocatori d’azzardo al tavolo da gioco, i giurati nella formulazione dei loro verdetti, il responsabile


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

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delle risorse umane quando effettua una selezione di personale. Le intuizioni sono comuni. Gli psicologi sociali hanno rilevato la presenza di affascinanti processi mentali di cui non siamo consapevoli – la mente intuitiva che sta nel backstage – accanto a processi mentali di cui siamo consapevoli – la mente che sta nel front-stage. Impareremo a conoscere i primi e a nominarli come “processi automatici”, “memoria implicita”, “euristiche”, “inferenze di tratti spontanei”. Il pensiero, le percezioni, la memoria e gli atteggiamenti operano a due livelli: uno conscio e deliberativo, l’altro inconscio e automatico (Kruglanski e Gigerenzer, 2011). I ricercatori fanno riferimento a questo fenomeno denominandolo elaborazione duale. La capacità intuitiva che abbiamo è consistente ma anche pericolosa. Per esempio: poiché navighiamo spesso nella vita “inserendo il nostro pilota automatico”, intuitivamente giudichiamo la probabilità degli eventi sulla base di informazioni, ricordi, emozioni che ci vengono rapidamente alla mente. Soprattutto dopo l’11 settembre 2001, spesso la nostra mente è attraversata dalle immagini di disastri aerei. Per questa ragione, molti hanno sviluppato un forte timore nei confronti del trasporto aereo e preferiscono guidare per chilometri e chilometri per evitare il rischio di incidenti aerei; di conseguenza, considerato l’aumento del traffico su strada e gli annessi pericoli, siamo molto più al sicuro su un aereo che in un’automobile. Anche le intuizioni su noi stessi spesso sono errate. Intuitivamente ci fidiamo dei nostri ricordi più di quanto dovremmo. Spesso fraintendiamo la nostra stessa mente: negli esperimenti neghiamo di essere suggestionati da situazioni che invece ci influenzano in maniera evidente. Spesso sbagliamo anche nel predire i nostri sentimenti: come ci sentiremmo tra un anno se avessimo perso una persona cara o un’ingente somma di denaro? Come ci sentiremmo se invece avessimo vinto una lotteria? Le nostre intuizioni sociali, dunque, sono estremamente importanti sia per le loro potenzialità sia per i pericoli che nascondono. Ricordandoci questo gli psicologi sociali cercano di rendere forte il nostro pensiero. In molte situazioni giudizi semplici e veloci possono andare bene, ma in altri casi, quando è importante l’accuratezza, sarebbe meglio controllare l’intuizione e utilizzare il pensiero critico.

1.2.3 Le influenze sociali plasmano i nostri comportamenti Come già Aristotele aveva osservato, noi siamo animali sociali. Parliamo e pensiamo con parole che abbiamo imparato dagli altri. Desideriamo essere in relazione con gli altri, appartenere a gruppi, essere giudicati bene dagli altri. Matthias Mehl e Pamela Pennebaker (2003) hanno quantificato il comportamento sociale dei loro studenti all’Università del Texas invitandoli a partecipare a un esperimento che prevedeva di portare con sé per tutta la giornata un microfono e un audioregistratore. Per un weekend, durante tutta la giornata, ogni 12 minuti veniva effettuata una registrazione di 30 secondi. I risultati mostrarono che gli studenti impiegavano almeno il 30% del tempo in conversazioni. Le relazioni sono una parte importante della vita umana. Come creature sociali noi rispondiamo al contesto in cui ci troviamo. Talvolta il potere della situazione sociale porta ad agire in maniera distante dai nostri atteggiamenti. Potenti situazioni negative talvolta soverchiano le nostre buone intenzioni, inducendoci ad agire in maniera contraria ai nostri principi. Per esempio, durante il nazismo molte


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persone contribuirono all’Olocausto. Altre situazioni possono portare a comportamenti all’insegna della generosità e della compassione. Dopo la catastrofe dell’11 settembre, i cittadini di New York hanno donato un’ingente quantità di cibo, denaro, indumenti per le persone colpite dalla tragedia. Le situazioni sono importanti. Anche la cultura di appartenenza gioca un ruolo cruciale nel definire la percezione delle situazioni in cui ci troviamo e le nostre reazioni. La psicologa sociale Hazel Markus (2005) riassunse quanto sinora affermato nella seguente frase: «le persone, dopo tutto, sono molto malleabili». In altre parole, le persone si adattano al contesto sociale in cui si trovano. I nostri atteggiamenti e comportamenti sono modellati dalle forze sociali.

1.2.4 I nostri atteggiamenti e le nostre disposizioni plasmano i nostri comportamenti Anche le forze interne sono importanti. Noi non siamo esseri inermi che vengono sospinti in ogni dove dal vento sociale. I nostri atteggiamenti influenzano i nostri comportamenti. Le nostre opinioni politiche influenzano il nostro comportamento di voto. Il nostro atteggiamento verso gli indigenti influenza la nostra disponibilità ad aiutarli. Anche le nostre disposizioni personali influenzano i nostri comportamenti. Dopo aver trascorso anni in prigione per motivi politici, una persona potrebbe mostrare asprezza e risentimento. Nelson Mandela ha cercato di avviare processi di riconciliazione e unità con i nemici di un tempo. Gli atteggiamenti e i tratti di personalità influenzano il comportamento.

1.2.5 I principi della psicologia sociale sono applicabili alla vita quotidiana La psicologia sociale ha la potenzialità di “illuminare” la vita quotidiana, rendendo visibili le sottili influenze che guidano i nostri pensieri e le nostre azioni. Come vedremo in questo volume, essa offre molte idee in merito alla conoscenza di noi stessi, a come far fronte a processi d’influenzamento, come trasformare le situazioni. Le ricadute degli studi della psicologia sociale nel concreto della vita quotidiana sono consistenti. La psicologia sociale non si propone di dare risposte a domande cruciali quali: qual è il senso della vita? Qual è il nostro destino? Ma ci offre un metodo per porre domande e trovare risposte in merito ad aspetti rilevanti della vita: la psicologia sociale si occupa della vita concreta e reale delle persone.

■ 1.3

LA PSICOLOGIA SOCIALE E I VALORI

La psicologia sociale è più un insieme di strategie per rispondere a domande socialmente rilevanti che non una collezione di risultati scientifici. È opinione diffusa che, nei contesti scientifici, i ricercatori non possano esprimere posizioni personali, soggettive. Tutto deve limitarsi a un piano oggettivo. Anche gli psicologi sociali fanno riferimento a questo tipo di oggettività? Essendo esseri umani, i valori di cui sono portatori – ossia le loro personali


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convinzioni in merito a ciò che è desiderabile e a come La scienza non si limita le persone dovrebbero comportarsi – non filtrano nel semplicemente a descrivere e loro lavoro? Se sì, come possono gli psicologi sociali interpretare la natura; è parte di un gioco tra la natura e noi stessi; mantenere alto il livello di scientificità? I valori dei ricercatori penetrano nel loro lavoro, descrive la natura così come si presenta sulla base delle nostre sia che si occupino di psicologia sociale sia che si oc- domande di ricerca e del metodo cupino di altre discipline, attraverso due vie: mani- che usiamo per porre tali domande. festa o non manifesta. I valori del ricercatore divengono manifesti, per Werner Heisenberg, fisico, 1958 esempio, nella scelta dell’ambito e dell’oggetto di studio (Kagan, 2009). Non è un caso che lo studio del pregiudizio si sviluppò soprattutto negli anni Quaranta quando il fascismo regnava in Europa, che negli anni Cinquanta, un periodo connotato dall’intolleranza, si diffusero gli studi sul conformismo, che gli anni Sessanta videro un incremento dell’interesse per lo studio dell’aggressività e della prosocialità. La psicologia sociale riflette la storia sociale e i valori di cui i suoi ricercatori sono portatori. I valori influenzano anche il tipo di persone che sono attratte dalle diverse discipline: per esempio, molti psicologi che hanno vissuto sulla propria pelle la diaspora si sono avvicinati alla psicologia sociale e meno ad altri ambiti psicologici. Talvolta, però, i valori agiscono in maniera non manifesta. Scienziati e filosofi oggi sono d’accordo nell’affermare che la scienza non è mai del tutto oggettiva. Gli scienziati non si limitano a leggere semplicemente la natura: piuttosto, interpretano la natura sulla base delle loro categorie mentali. Nella nostra vita quotidiana noi vediamo il mondo attraverso le lenti delle nostre preconcezioni. Che cosa vedete nella Figura 1.3? Riuscite a vedere il dalmata che annusa il terreno? Senza questa indicazione, molte persone non riescono a vedere il dalmata, ma una volta che la loro mente ha afferrato questa conoscenza, essa influenza la loro visione dell’immagine, cosicché diventa molto difficile, se non impossibile, non vedere più il cane. La nostra mente lavora così. Mentre stavate leggendo queste parole, eravate inconsapevoli del fatto che stavate guardando anche il vostro naso: la vostra mente ha impedito che divenisse consapevole qualcosa che comunque c’era, se solo foste stati pronti a percepirlo. Questa tendenza a leggere in maniera pregiudiziale la realtà, fondata sulle nostre aspettative, è un aspetto di base della nostra mente. Poiché ricercatori e studiosi di qualunque settore scientifico-disciplinare condividono un comune punto di vista o provengono da una Cultura I comportamenti, gli cultura comune, i loro assunti di base possono di- atteggiamenti, le idee e le tradizioni stabili condivise da un venire inconsapevoli e difficilmente verificabili o ve- ampio gruppo di persone e rificati. Ciò che riteniamo oggettivo spesso non è al- trasmesse di generazione in tro che il frutto di credenze condivise, quelle che generazione. Moscovici (1961) ha denominato rappresentazioni sociali (vedi Capitolo 5), di cui non si è del tutto consapevoli e che non vengono sottoposte a verifica. Come ci ricordano gli studenti di Princeton e di Darthmouth, ciò che guida il nostro comportamento non è la situazione così com’è ma la situazione così come la costruiamo. Anche per gli psicologi, come per gli altri ricercatori, i valori di cui sono portatori giocano un ruolo molto importante nelle teorie che essi sostengono.


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FIGURA 1.3 ◼ Che cosa vedete in questa figura? Per gentile concessione di R.C. James.

Il punto non è che i valori impliciti sono negativi, ma che assumere valori e agire di conseguenza è un’attività umana da cui gli psicologi non sono esenti. È quindi inevitabile che i valori di cui sono portatori gli psicologi sociali influenzino ciò che pensano o scrivono. Che cosa possiamo fare allora? Quello che fanno i ricercatori delle altre discipline scientifiche: mettere a punto congegni di ricerca sempre più precisi e accurati che ci consentano di rilevare, oltre ai bias cognitivi, la presenza o meno di queste interpretazioni soggettive, come queste funzionano e come possono essere tenute sotto controllo. Solo così potremo ridurre gli errori interpretativi. L’osservazione sistematica, la sperimentazione, tutte le strategie di ricerca ci aiutano a “pulire” le lenti che usiamo per comprendere la realtà.

■ 1.4 LO SO DA SEMPRE: LA PSICOLOGIA SOCIALE È SEMPLICE SENSO COMUNE? Le teorie della psicologia sociale forniscono nuove interpretazioni e conoscenze sulla vita umana o si limitano a descrivere l’ovvio?


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Poiché i fenomeni e i processi studiati dalla psicologia sociale sono presenti nella vita quotidiana di ogni persona, vi sarà capitato di vivere in prima persona molte delle situazioni narrate nelle ricerche che leggerete in questo volume e di giungere alle medesime conclusioni. Noi osserviamo costantemente le modalità di pensiero, l’influenza reciproca e le relazioni tra le persone. Questo consente di discernere il significato di una espressione facciale, di comprendere come convincere qualcuno a fare qualcosa, di decidere se considerare una persona amica o nemica. Per secoli filosofi, romanzieri e poeti hanno osservato e commentato il comportamento sociale. Ciò significa forse che la psicologia sociale non è altro che senso comune mascherato con parole accademiche? Se così fosse questo volume, come gli altri volumi di psicologia sociale, non esisterebbero. Spesso però gli psicologi sociali si sentono rivolgere due critiche tra loro in contraddizione: (1) la psicologia sociale è banale perché documenta l’ovvio; (2) la psicologia sociale è pericolosa perché i suoi risultati possono essere usati per manipolare le persone. Affronteremo questa seconda critica nel Capitolo 7. Dedichiamoci ora alla prima obiezione. La psicologia sociale, così come le altre scienze, si limita semplicemente a formalizzare ciò che lo scienziato ingenuo coglie in maniera intuitiva? Certamente no. Vediamo perché. Il fatto è che invochiamo il senso comune dopo che siamo venuti a conoscenza degli eventi. Gli eventi sono molto più ovvi e predicibili retrospettivamente che non anticipatamente. Gli esperimenti rivelano che, quando una persona apprende i risultati di un esperimento, quei risultati le paiono poco sorprendenti – certamente meno sorprendenti di quando le viene raccontato l’esperimento e i possibili risultati (Slovic e Fischhoff, 1977). Verosimilmente, nella vita quotidiana spesso non ci aspettiamo che accada qualcosa prima che questo accada realmente. Dopo che è accaduto, improvvisamente vediamo i processi che hanno prodotto l’evento e non proviamo sorpresa. Inoltre, noi possiamo anche dimenticare le nostre prime percezioni sugli eventi (Blank et al., 2008; Nestler et al., 2010). Dopo la devastante inondazione di New Orleans, a seguito dell’uragano Katrina nel 2005, sembrava ovvio che gli addetti ai lavori avrebbero dovuto prevedere e anticipare la situazione: gli studi sulla vulnerabilità delle barriere erano stati condotti, gli studi socio-demografici avevano posto in evidenza che molti dei residenti erano poveri e pertanto non possedevano un’automobile né il denaro per sostenere le spese di viaggio e alloggio necessarie per lasciare la città in caso di disastro naturale e, infine, gli studi meteorologici avevano mostrato con chiarezza la gravità della situazione. Come ha affermato il filosofo Kierkegaard: «la vita è prima vissuta e dopo compresa». Bias della retrospezione La Poiché questo bias della retrospezione (anche tendenza, dopo che si è verificato chiamato il “fenomeno del io-lo-so-da-sempre”) è per- un evento, a esagerare la propria vasivo, voi ora potrete dire che conoscevate già que- abilità nell’averlo previsto come qualcosa che si sarebbe verificato. sto fenomeno! Potete dimostrare a voi stessi la presenza di que- È noto anche come il fenomeno del io-lo-so-da-sempre. sto fenomeno. Chiedete la collaborazione di un grup-


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12 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

po di persone e comunicate a metà di loro una situazione e all’altra metà l’opposto. Per esempio, a metà gruppo dite: gli psicologi sociali hanno rilevato che nella scelta degli amici e del partner siamo più attratti da coloro che possiedono tratti di personalità diversi dai nostri. C’è della saggezza nel vecchio proverbio: “gli opposti si attraggono”. E all’altra metà dite: gli psicologi sociali hanno rilevato che nella scelta degli amici e del partner siamo più attratti da coloro che possiedono tratti di personalità uguali ai nostri. C’è della saggezza nel vecchio proverbio: “chi si somiglia si piglia”. Chiedete alle persone di riflettere su quanto avete comunicato loro; poi chiedete di dirvi se è sorprendente o meno. Virtualmente tutti troveranno una buona spiegazione e diranno che non è affatto sorprendente. Il bias della retrospezione può creare qualche problema a molti studenti di psicologia. Talvolta essi ritengono che alcuni risultati degli esperimenti che hanno studiato siano sorprendenti. Più spesso, quando leggono e studiano i manuali di psicologia sociale li ritengono semplici e ovvi. Quando più tardi si trovano a dover sostenere l’esame e a individuare la risposta corretta a un test a scelta multipla, ritengono che il compito sia sorprendentemente molto difficile: «non capisco che cosa sia successo» lamenta lo studente bocciato «pensavo di conoscere tutto il materiale bibliografico». Il fenomeno del io-lo-sapevo-già può avere conseguenze nefaste. Poiché le conseguenze degli eventi sembrano sempre semplicemente predicibili, spesso vengono commessi errori di comprensione, interpretazione, presa di decisione e scelta di comportamenti da porre in atto. Pensiamo, per esempio, all’attentato dell’11 settembre. Dopo l’evento una commissione governativa ha focalizzato l’attenzione su un elenco di segnali sottovalutati o trascurati del tutto: la CIA sapeva che alcuni affiliati di Al Qaeda erano entrati negli Stati Uniti, un agente dell’FBI aveva spedito un rapporto al quartier generale in cui si diceva chiaramente che Bin Laden aveva inviato giovani per frequentare corsi dell’aviazione americana, ma queste informazioni vennero del tutto ignorate. Possiamo allora concludere che il senso comune porta sempre a errare? A volte sì e a volte no, non è questo il punto. Il punto è che esso si rivela giusto dopo che i fatti si sono verificati. La psicologia sociale, grazie all’impiego di metodi di ricerca rigorosi e accurati, consente di comprendere meglio processi e fenomeni, di distinguere chiaramente la realtà dall’illusione e di prevedere i fatti prima che si verifichino.

■ 1.5 LO SVILUPPO STORICO DELLA PSICOLOGIA SOCIALE Quali sono le radici storiche della psicologia sociale? Quale sviluppo ha avuto questa disciplina in Europa e negli Stati Uniti? Quali eventi storici l’hanno influenzata? In questo paragrafo cercheremo di rispondere a queste domande.


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

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1.5.1 Le radici europee della psicologia sociale: la psicologia delle folle e la Völkerpsichologie Il termine psicologia sociale fu coniato dall’italiano Carlo Cattaneo in un articolo della rivista da lui fondata, Il Politecnico (Jahoda, 2007). «L’articolo, in verità non era dedicato alla psicologia sociale in generale, ma al tentativo di applicare il pensiero di Hegel alle relazioni interpersonali» (Kruglanski e Stroebe, 2012). Comprensibilmente, Il Politecnico, a causa della lingua, non aveva un’ampia diffusione e, pertanto, tale termine non ebbe una divulgazione degna di nota. A parere di Jahoda (2007) maggiore diffusione ebbe il testo di Gustav Adolph Lindner, Idee per una psicologia della società come scienza sociale (1871), il quale sostenne che la società non è nulla se non l’insieme delle persone, in quanto la sua vita mentale altro non è che ciò che accade nella vita mentale delle persone che la compongono. Le radici della psicologia sociale vengono però ricondotte a due approcci sviluppatisi in Europa nel XIX secolo al fine di comprendere e spiegare i fenomeni collettivi. Entrambi gli approcci si inscrivono entro la matrice socio-costruttivista, secondo la quale la costruzione della conoscenza da parte dei soggetti, in merito a sé e in merito al mondo, affonda le radici nel contesto sociale, non inteso in modo generico ma come un contesto organizzato nei sistemi simbolici e reali cui le persone appartengono. Tali approcci sono la psicologia delle folle, di origine italo-francese, e la psicologia dei popoli o Völkerpsichologie, di origine tedesca. La psicologia delle folle trae il proprio nome dal celebre testo di Gustave Le Bon, La psychologie des foules, del 1895, un volume che ha avuto molto successo e che è stato ripreso da grandi della psicologia, come Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, e apprezzato da statisti, quali Hitler e Mussolini, affascinati dalla vena antidemocratica e autoritaria che serpeggia tra le sue pagine. In realtà, le idee contenute nel volume di Le Bon erano già state proposte dall’italiano Scipio Sighele che, con insuccesso, accusò il collega francese di plagio. Anche se il plagio verosimilmente esiste, è grazie a Le Bon che questo approccio e le sue teorizzazioni vennero conosciute e si diffusero. Il suo merito fu quello di occuparsi di un tema che incuteva timore nella società dell’epoca: le folle, espressione di grandi movimenti di massa quali quello che aveva condotto alla Rivoluzione francese o alle organizzazioni dei lavoratori, capaci di produrre notevoli mutamenti sociali e politici. Le Bon offre un’immagine decisamente negativa delle folle: sono caratterizzate dalla presenza di irrazionalità. «La conoscenza delle folle dimostra come queste ultime, per la loro natura impulsiva, siano assai poco influenzate dalle leggi e dalle istituzioni, e come nello stesso tempo siano incapaci di avere un’opinione qualsiasi al di fuori di quelle suggerite da altri. Non si lascerebbero mai guidare da un’astratta e teorica imparzialità. Si lasciano invece sedurre dalle impressioni che qualcuno è riuscito a far sorgere nel loro spirito» (Le Bon, 1895, trad. it. 1927, p. 43). A suo avviso, dunque, le persone si annullano nella folla, i loro sentimenti e le loro idee si polarizzano e si genera una sorta di corpo composto da elementi eterogenei saldati tra di loro, che manifesta caratteristiche comuni di pensiero e di azione molto diverse da quelle di cui ciascuno risultava portatore. A parere di Le Bon ciò è dovuto al fatto che il comportamento umano è sorretto da motivi inconsci comuni che portano


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la folla a sviluppare un’anima collettiva, a regredire verso un inconscio collettivo che determina la perdita della coscienza soggettiva, delle qualità intellettuali e delle caratteristiche personali. Secondo Le Bon alla base di questo fenomeno si collocano tre meccanismi fondamentali. 1. Contagio mentale, che propagando atti e sentimenti porta a confondersi con l’anima collettiva. Le Bon attinse quest’idea dall’epidemiologia: il contagio mentale diffuso tra i membri della folla è analogo a quello batteriologico ben illustrato in quegli anni da Louis Pasteur e Robert Koch. Questo fenomeno offre una spiegazione plausibile dell’intensa emotività e dell’anomia (Durkeim), ossia messa in discussione, misconoscimento o rifiuto delle norme, presenti nella folla. 2. Senso di potenza, che si genera dal riunirsi e che ha come conseguenza la riduzione del senso di responsabilità e del corretto rapporto con la realtà. Quest’idea giunse a Le Bon dalla criminologia. Ciò che per la psicologia era uno stato della mente inconscio e affettivo, per i giuristi era una responsabilità ridotta dell’individuo immerso nella folla o, addirittura, nella folla delinquente. 3. Suggestionabilità, che, messa in moto dall’indebolirsi della coscienza, annulla la volontà personale trasformando la persona in automa. In questo stato la mente delle persone tende a regredire fino a un livello più primitivo. Il retroterra scientifico di questo meccanismo, che è ritenuto da Le Bon il più importante per spiegare il comportamento delle folle, è rintracciabile nelle tecniche e concezioni molto diffuse a quel tempo della suggestione, in particolare dell’ipnosi, ossia l’induzione di una condizione simile al sonno in cui la persona è sottoposta, entro certi limiti, al potere dell’ipnotizzatore. Sempre a partire da questo framework teorico Le Bon sviluppa l’idea dell’importanza dell’esistenza di capi entro le folle e soprattutto della loro personalità: uomini carismatici, d’azione, spesso nevrotici ma caratterizzati da una forte volontà, capaci d’imporsi e di guidare un «gregge che non può fare a meno di un padrone». Uomini che con il loro prestigio esercitano un potere magnetico sulla folla ed estremamente abili nell’utilizzare alcune strategie di comando: l’uso di affermazioni concise e nette, l’utilizzo della ripetizione, l’uso del contagio dell’irrazionalità, l’attrazione emotiva. A differenza di Le Bon, Gabriel Tarde, altro sostenitore di questo approccio, rifiuta l’idea che la realtà collettiva sia un’entità autonoma dalle persone che la compongono (Mucchi Faina, 2002). A suo parere, dietro ogni fatto sociale vi è la persona e il suo contesto di vita: neanche nelle situazioni di «maggior comunione di idee e di passioni» le differenze individuali si cancellano. Ciò non significa che le persone non s’influenzino tra loro, anzi, tale processo è proprio alla base di ogni fenomeno psichico e sociale sotto forma d’imitazione. Nel suo celebre testo Le leggi dell’imitazione (1976), Tarde sostiene che l’imitazione sia il vero motore del mondo. Alla base della vita sociale vi sarebbero tre cause di ordine psicologico: il desiderio, l’invenzione e la relazione interpsicologica. La prima è intesa come la molla dell’attività umana, ciò che spinge ad agire verso ciò che si crede desiderabile. La seconda è definita come attuazione individuale del processo di desiderio e fa riferimento all’operazione per cui, attraverso l’eredità delle generazioni e le suggestioni del contesto, vengono


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

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costruite nuove idee sia nella realtà interna sia nella realtà sociale; infine, la terza è intesa come luogo dell’intersezione tra i primi due, a sua volta centro di nuovi sviluppi e nuove creazioni. Anche se questi processi sono diffusi in tutti gli uomini, alcuni sono particolarmente abili nell’inventare idee: questi diventano modelli da imitare, capi carismatici della folla. Pertanto, mentre l’invenzione crea modelli di comportamento originali e provoca differenza sociale, l’imitazione diffonde progressivamente le novità spingendo le persone ad adeguarvisi. L’imitazione è l’esito del sonno della ragione: Tarde afferma infatti che la gran parte degli uomini, come se affetti da sonnambulismo ipnotico, finiscono con l’imitare comportamenti visti adottare dai leader. Attorno agli stessi anni in cui in Francia si sviluppa e si diffonde la psicologia dei popoli, in Germania prende vita la Völkerpsichologie, termine di complessa traduzione, spesso reso con “psicologia dei popoli”, ma che in realtà sta a indicare una psicologia sociale comparata e storica che si occupa dei prodotti della cultura (linguaggio, miti, costumi…) che derivano dall’interazione sociale. Si tratta di una psicologia che esprime appieno lo spirito tedesco di quell’epoca, il forte nazionalismo e lo sforzo anche politico di riunificazione dello stato-nazione Germania, basati sull’assunto che la forma di base dell’associazione umana, la comunità culturale (Gemeinschaft), sia il Volk «in cui avvengono la formazione e l’educazione (Bildung) degli individui […] e il cui spirito o mente (Volksgeist) costituisce il principio mentale unificante o idea» (Hewstone et al., 1998, p. 23). Massimo esponente di questo approccio è Wilhelm Wundt, colui che, per aver fondato nel 1879 a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale, è riconosciuto come padre fondatore della disciplina. Nei dieci volumi di psicologia sociale che scrisse tra il 1900 e il 1920, anno della sua morte, Wundt considerò distinte ma complementari la psicologia sperimentale e la psicologia sociale: mentre la prima, a suo parere, studia l’individuo con metodi sperimentali, la seconda si occupa di fenomeni collettivi non indagabili sperimentalmente. Gli assunti di base di questo approccio sono i seguenti: 1. l’essere umano ha una natura intrinsecamente sociale, pertanto centrale è lo studio del rapporto tra persona e comunità; 2. la psicologia sociale non può che essere una disciplina storica, poiché occupandosi del linguaggio, dei miti, dei costumi di un popolo non può prescindere dal contesto storico socio-culturale in cui si sviluppa; 3. oggetto della psicologia è lo studio del rapporto tra le persone e i prodotti della loro interazione (linguaggio, religioni, miti, fenomeni magici) che, a loro volta, influiscono sulle menti delle persone arricchendole. La psicologia sociale di Wundt, dunque, si interessava allo studio delle origini e delle trasformazioni

Wilhelm Wundt (1832-1920). © INTERFOTO/AlamyStock Photo


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del pensiero nelle società, alla cultura di un popolo, intesa come qualcosa «che è al di là della consapevolezza degli individui, al tempo stesso li ingloba ed essi la trasmettono, è qualcosa che sta dentro e sta fuori la loro consapevolezza» (Emiliani e Zani, 1998, p. 25). Sia la psicologia delle folle sia la Völkerpsichologie focalizzano l’attenzione sui fenomeni collettivi, sulla società, più che sulle singole persone; inoltre, ambedue individuano quale metodologia privilegiata per indagare questi oggetti quella osservativointerpretativa in luogo di quella strettamente sperimentale. Si tratta di due approcci che oggi stanno vivendo un momento di rilancio, come testimoniato nel recente testo di Angelica Mucchi Faina (2002), Psicologia collettiva, ove viene anche dibattuto il tema delle somiglianze e delle differenze tra folla reale e folla virtuale. Un interessante recente sviluppo della Völkerpsychologie di Wundt è la psicologia culturale (vedi l’Approfondimento La psicologia culturale).

1.5.2

La psicologia sociale in America

Nelle prossime pagine verranno illustrate le fasi di sviluppo della psicologia sociale negli Stati Uniti, i suoi protagonisti, i suoi metodi e le sue idee principali.

L’esordio: 1885-1934 Lo psicologo dell’Università dell’Indiana Norman Triplett è unanimemente considerato il primo ricercatore di psicologia sociale. Nel 1895 Triplett si pose la seguente domanda: «com’è la performance di una persona quando sono presenti altre persone?». La questione nasceva da una semplice osservazione: assistendo a una gara ciclistica, Triplett si accorse che la velocità del corridore era maggiore quando pedalava di pari passo con altri, che non quando correva da solo. Essendo un appassionato di corse in bicicletta e desiderando trovare una risposta alla sua domanda, ideò il primo esperimento di psicologia sociale in cui poter studiare il fenomeno in maniera precisa e attentamente controllata. In questo studio chiese a dei bambini di avvolgere velocemente della lenza da pesca sui rispettivi rocchetti in presenza di altri o da soli. Come da lui previsto, i bambini avvolgevano il filo più velocemente quando si trovavano in presenza di altri rispetto a quando erano da soli. Pubblicato nel 1897, questo studio è ritenuto il primo in cui il metodo sperimentale è stato applicato alle scienze umane. In verità, il primo studio di tal fatta era già stato realizzato attorno al 1880 a opera di Max Ringelmann, un agronomo francese, che però ne diede notizia, pubblicandolo, solo nel 1913. In un sorprendete intreccio di destino, anche Ringelmann si era occupato delle prestazioni delle persone in presenza di altri, ma, contrariamente a Triplett, aveva rilevato che le persone impegnate in un compito in presenza di altri, per esempio tirare una fune, mostravano prestazioni inferiori se lo facevano in gruppo rispetto a quando lo facevano da soli. Per questa apparente contraddizione, come vedremo nel Capitolo 8, è stata nel tempo trovata una soluzione: il fenomeno indagato da Triplett è oggi noto come “facilitazione sociale”, quello studiato da Ringelmann come “inerzia sociale”.


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

APPROFONDIMENTO La psicologia culturale Bruno M. Mazzara, Sapienza Università di Roma Con l’espressione psicologia culturale ci si riferisce a una specifica versione della psicologia, che più di ogni altra valorizza a fondo il ruolo delle dinamiche sociali nel condizionamento dei processi psicologici. L’idea di fondo è che i processi psicologici, e più in generale la mente in quanto entità complessa, siano non solo fortemente influenzati, ma addirittura di fatto strutturati dalle interazioni sociali, e in particolare dalla cultura, intesa come insieme di artefatti materiali e ideali, socialmente costruiti, tramite i quali le persone si rapportano al mondo (Mantovani, 1998). Secondo questa prospettiva, i processi psicologici sono solo in minima parte determinati dalle caratteristiche funzionali, biologicamente fondate, del sistema cerebrale. Al contrario, essi consistono in delicate operazioni di attribuzione di senso alla realtà, svolte tramite strumenti d’interpretazione del mondo che sono il prodotto, storicamente connotato, della specifica comunità umana nella quale le persone vivono. Sulla base di questa impostazione, la psicologia culturale si caratterizza per alcune opzioni di tipo teorico e metodologico che la distinguono, in maniera talvolta molto netta, da altri filoni (Shweder, 1990); tra queste ricordiamo: ◾

un approccio di tipo costruzionista, secondo il quale la conoscenza del mondo è un processo incessante di assegnazione di significati, che è sempre espressione di un tessuto di relazioni sociali; il costrutto di mediazione, vale a dire l’idea che la relazione degli esseri umani con il mondo e con le altre

persone avvenga sempre per il tramite di artefatti culturali, e risulti dunque inevitabilmente mediata da essi; l’enfasi sul linguaggio e sulla comunicazione in quanto luoghi di effettiva costruzione non solo delle relazioni sociali, ma anche delle stesse strutture mentali; il riferimento alle pratiche operative, nelle quali gli individui realizzano concretamente la costruzione e la condivisione degli artefatti culturali; una prospettiva relativista, che rinuncia a ricercare qualità universali dell’essere umano nella convinzione che i processi mentali, data la loro connessione con i processi sociali, possano comprendersi solo in relazione al contesto culturale di riferimento; una concezione della cultura come processo in continuo divenire nella negoziazione interpersonale e non come insieme definito e stabile di strumenti operativi; un approccio di ricerca centrato sull’osservazione dei contesti reali e sull’uso di metodi qualitativi piuttosto che sulla sperimentazione di laboratorio e sui metodi quantitativi.

Tali opzioni, che costituiscono il terreno qualificante di questo approccio, sono tuttavia adottate in forma più o meno forte da singoli autori e correnti di pensiero, dando luogo a una variegazione di punti di vista e prassi di ricerca. In generale, si può dire che risulti variamente articolato quello che può considerarsi il nucleo teorico fondante dell’approccio, vale a dire il rapporto tra

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mente e cultura. In alcune versioni, tale rapporto resta comunque quello tra due entità distinte, sia pure in fortissima relazione; in altre versioni, più radicali, il rapporto è considerato talmente stretto da portare a una sorta d’identificazione, sicché la mente viene di fatto identificata con la cultura. È su questo stesso argomento, peraltro, che la psicologia culturale tende a distinguersi da altri filoni di studio che pure valorizzano a fondo il ruolo della cultura. In particolare si distingue dalla psicologia cross-culturale, che tende a considerare le culture come entità date e circoscritte e ha come finalità quella di verificare in che modo i processi mentali, anch’essi considerati come univocamente e autonomamente definiti, siano influenzati dai differenti contesti culturali (Berry et al., 2002). La psicologia culturale si è andata costituendo come orientamento autonomo negli ultimi decenni del Novecento, spesso in contrapposizione con le sempre più diffuse prospettive cognitive e neurobiologiche. Essa tuttavia può a ragione considerarsi come lo sviluppo maturo di una linea di pensiero molto antica nella psicologia, le cui radici affondano nella Völkerpsychologie di Wundt,

negli straordinari contributi di Vygotskji e della scuola storico-culturale, nel pragmatismo e nell’interazionismo simbolico, nelle correnti fenomenologiche e interpretative, ma anche in molti autori e filoni che, pur adottando una prospettiva cognitiva, hanno considerato indispensabile lo studio della dimensione sociale e culturale dei processi mentali (Jahoda, 1992). Inoltre, proprio per l’attenzione alla dimensione sociale e culturale, la psicologia culturale si caratterizza per una grande apertura interdisciplinare, in particolare nei confronti dell’antropologia e della sociologia, e mantiene rapporti stretti – anche se talvolta problematici – con il variegato mondo degli orientamenti “postmoderni” in psicologia, quali il socio-costruzionismo, la psicologia critica, la psicologia discorsiva, la psicologia retorica (Fox e Prilleltensky, 1997). Fra gli autori che hanno contribuito a strutturare questo campo disciplinare ricordiamo J. S. Bruner (1986; 1990), M. Cole (1996), J. Valsiner (1998), C. Ratner (2002), R. A. Shweder (2003) e in Italia G. Mantovani (1998), A. Smorti (2003), P. Inghilleri (2009). Fra le riviste di riferimento si possono segnalare Culture & Psychology, e Mind, Culture & Activity.

Sebbene Triplett condusse il primo esperimento di psicologia sociale, il merito della nascita della psicologia sociale come disciplina autonoma viene unanimemente attribuito allo psicologo William McDougall e al sociologo Eduard Ross, che nel 1908 pubblicarono due testi (Introduction to social psychology, il primo e Social psychology, il secondo) nel cui titolo comparivano le parole “psicologia sociale”. McDougall, che ha denominato la sua psicologia “ormica” (dal greco hormè, impulso, movimento verso) sosteneva che la persona doveva essere la principale unità di analisi della nuova disciplina e soprattutto i suoi istinti. Gli istinti, intesi come disposizione innata, a suo parere, sono collegati con le emozioni e rilevabili attraverso esse. Alcuni di questi istinti, quelli ritenuti di natura più sociale, quali per esempio la socievolezza e la simpatia, sono collocati dall’autore alla base dei comportamenti delle persone e della vita sociale. Ross, invece, sottolineava l’importanza del gruppo e dello studio dei comportamenti collettivi che, a suo parere, esercitano una grossa influenza sulla persona, determinandone pensieri, opinioni ma anche sentimenti e interessi.


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Numerosi erano gli interrogativi attorno alla neonata disciplina, soprattutto in merito alla sua differenziazione dalla psicologia generale e dalla sociologia, e in merito alla specificità dei suoi metodi di ricerca. Sarà un terzo psicologo, Floyd Allport, fratello maggiore di Gordon Allport (ideatore dell’ipotesi del contatto che affronteremo nei Capitoli 9 e 13), a rispondere a queste domande formulando la prima chiara definizione di psicologia sociale: «non esiste una psicologia dei gruppi che non sia essenzialmente e interamente una psicologia degli individui [...] la psicologia sociale è parte della psicologia dell’individuo» (1924, p. 24). Egli propose una concezione individualista della psicologia sociale: essa è una scienza sperimentale e del comportamento. I fenomeni sociali, i gruppi, non necessitano di modelli teorici specifici né di metodi peculiari: possono essere compresi tramite i modelli utilizzati per capire le singole persone e indagati con i medesimi metodi. Lo sviluppo della psicologia sociale negli Stati Uniti degli anni Venti e Trenta dello scorso secolo si colloca in un clima culturale particolare, caratterizzato dalla consistente ondata d’immigrazione, soprattutto dalla Polonia, dall’Italia e dalla Russia, quindi da Paesi culturalmente molto diversi dall’America, con una lingua molto diversa e con un sistema valoriale e di tradizioni molto forte. È in questo contesto che si diffonde la “psicologia delle razze”, chiaro esempio di collusione tra gli psicologi sociali dell’epoca e il clima pregiudiziale e intriso di razzismo culturalmente diffuso: suo scopo era cercare di dimostrare scientificamente la differenza tra le razze e pertanto sia che i nativi americani erano più intelligenti degli afroamericani sia che gli immigrati provenienti dal nord Europa erano più competenti e culturalmente più adeguati rispetto agli immigrati che provenivano dal sud o dall’est dell’Europa.

Gli anni della costituzione: 1935-1945 Attorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, gli psicologi sociali avevano iniziato ad avere un corpus teorico e metodologico abbastanza consistente e definito. Due eventi storici determinarono in qualche modo l’indirizzo che la disciplina avrebbe preso in quegli anni. A seguito della grande crisi del Ventinove anche molti giovani psicologi persero il lavoro e iniziarono a occuparsi di tematiche sociali. Molti di loro nel 1936 fondarono un’associazione tutt’oggi molto attiva, la Society for the Psychological Study of Social Issues (SPSSI), dedita allo studio di questioni sociali quotidiane, presenti in quello che definirono il real world, il mondo reale delle persone. Loro merito fu anche quello d’iniziare a introdurre il tema dei valori e dell’etica nell’ambito della psicologia sociale. Contemporaneamente, l’ascesa del nazismo in Europa aveva prodotto un forte clima antisemita e l’impossibilità per molti psicologi ebrei di esercitare e lavorare nelle università europee. Fu così che Fritz Heider, Kurt Lewin, Theodor Adorno e molti altri emigrarono negli Stati Uniti. Quando anche gli Stati Uniti entrarono in guerra, molti psicologi – europei e americani – applicarono le loro conoscenze sul comportamento umano ad ambiti connessi al conflitto e alle forze militari, compresa la selezione e la formazione del personale, così come l’individuazione di strategie per minare il morale delle truppe nemiche. In questo periodo uno dei più importanti e influenti psicologi


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Kurt Lewin (1890-1947). © INTERFOTO/AlamyStock Photo

fu Kurt Lewin, un ebreo fuggito dalla Germania nazista. Lewin contribuì alla costituzione della SPSSI e la diresse fino al 1941. Egli era convinto che la psicologia sociale non dovesse scegliere tra essere una scienza pura e una disciplina applicata, ma che dovesse essere entrambe. Sono molto note e citate due sue espressioni: «non vi è nulla di più pratico di una buona teoria» e «no alla ricerca senza l’azione, no all’azione senza la ricerca». Sino alla sua morte, avvenuta prematuramente a 57 anni, Lewin delineò gli orientamenti di gran parte della psicologia sociale ed è a ragione ritenuto il fondatore della moderna psicologia sociale. Alla fine della guerra il prestigio della disciplina e dei suoi rappresentanti era molto elevato negli Stati Uniti: questo significò assegnazione di ingenti fondi di ricerca da parte delle istituzioni pubbliche e private e la diffusione della disciplina in tutte le università.

La rapida espansione: 1946-1969 Grazie alle ingenti somme di denaro da destinare alla ricerca, la presenza degli psicologi europei emigrati sul suolo americano, la formazione di una giovane generazione di psicologi sociali molto preparati sia dal punto di vista della ricerca sia dal punto di vista teorico, la psicologia sociale visse tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Sessanta un momento di grande e rapida espansione. Sono questi gli anni in cui vennero condotti famosi esperimenti, descritti in questo volume, e vennero affrontate spinose e sconcertanti questioni sociali. Per comprendere che cosa era accaduto nella Germania nazista, Theodor Adorno (Adorno et al., 1950) studiò i parametri per delineare quella che fu denominata “personalità autoritaria”. Qualche anno dopo, nel 1963, Stanley Milgram estese questa linea di ricerca nei suoi noti esperimenti volti a comprendere come si comportano le persone in presenza di un’autorità che impartisce loro ordini che possono portare ad atrocità. Altri psicologi iniziarono a studiare i processi di influenza del gruppo sulla persona (Asch, 1956) e il potere della comunicazione persuasiva (Hovland et al., 1949). Sono questi gli anni in cui Leon Festinger propose la teoria della dissonanza cognitiva, secondo la quale le persone sono portate a mantenere coerenza cognitiva tra comportamenti e atteggiamenti. L’America negli anni Sessanta venne sconvolta da un’ondata di violenza, di protesta sociale, nonché, dalla guerra del Vietnam e dalle sue conseguenze. Le persone chiedevano spiegazioni, teorie per comprendere questi fatti ma anche per poter produrre cambiamenti in positivo. Gli psicologi sociali risposero a questa domanda sociale studiando fenomeni quali l’aggressività, la violenza, la prosocialità, le relazioni interpersonali. Ellen Berscheid ed Ealine Hatfield (1969) diedero l’avvio a un importante filone di ricerche sulle relazioni interpersonali. Sino alla fine degli anni Sessanta la psicologia sociale fu un vulcano di teorie, modelli, metodi di ricerca (Pion et al., 1996).


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Gli anni della crisi e della rinascita: 1970-1984 All’inizio degli anni Settanta, quando anche gli psicologi sociali si resero conto che il momento della risoluzione dei problemi sociali che avevano studiato non era prossimo e incominciarono a dubitare della correttezza di alcune procedure di ricerca nonché a porsi domande in merito all’etica della ricerca sociale, si verificò una grande crisi di fiducia nei confronti di questa disciplina. Vennero messi in discussione i risultati raggiunti dalle ricerche, ritenuti frutto degli errori cognitivi di cui era portatrice la gran parte degli psicologi sociali di quel tempo, per lo più uomini e appartenenti al ceto medio. Non solo, vennero contestati anche i metodi di ricerca utilizzati e soprattutto quello dominante all’epoca: il metodo sperimentale di laboratorio. Molti psicologi definirono alcune pratiche utilizzate negli esperimenti di laboratorio come non etiche (Kelman, 1967), osservarono che le aspettative dello sperimentatore influenzavano spesso gli esiti della ricerca (Rosenthal, 1976) e che le teorie testate in laboratorio erano culturalmente e storicamente limitate (Gergen, 1973). Coloro che, invece, sostenevano la ricerca sperimentale di laboratorio argomentavano che i loro congegni d’indagine erano etici, i risultati validi e i loro principi teorici ampiamente applicabili (McGuire, 1967). La psicologia sociale americana sembrava dunque spaccata in due. Fortunatamente, da questa crisi di sviluppò un dibattito molto vivace e produttivo. Vennero stabiliti standard etici più rigorosi e, sebbene il metodo sperimentale di laboratorio restasse quello privilegiato, molti psicologi si avvicinarono al metodo correlazionale e ad altri metodi di ricerca. Sono gli anni in cui anche dalla psicologia sociale viene vissuta la rivoluzione cognitivista, il cui impatto è ancora oggi molto evidente. Alcuni psicologi sociali assunsero una prospettiva che potremmo definire “calda”, ossia focalizzata sulle emozioni e le motivazioni come determinanti del pensiero e dell’azione, altri la prospettiva “fredda”, che enfatizza l’influenza delle cognizioni sul modo in cui le persone percepiscono, sentono, desiderano.

Gli anni dell’espansione e della visione pluralistica della psicologia sociale: dal 1985 a oggi La rinascita seguita alla crisi è caratterizzata dal diffondersi del pluralismo teorico, dell’approccio multiculturale e di una prospettiva multimetodologica. Dalla metà degli anni Ottanta a oggi, gli psicologi sociali americani hanno messo a frutto quanto imparato negli anni precedenti e avviato un lavoro di confronto e integrazione tra le diverse anime sia culturali – europea e nordamericana – sia metodologiche – ricerca di laboratorio, ricerca correzionale, ricerca osservativa – sia teoriche – cognitivismo, approccio relazionale… – presenti nella psicologia sociale. La tradizione della SPSSI è ancora viva e a questa si sono aggiunte molte altre associazioni di psicologia sociale. Ancora molto aperto e vivace è il dibattito tra chi sostiene che la psicologia sociale debba avvicinarsi a una psicologia sperimentale dell’individuo nel gruppo e nella società e chi, invece, la ritiene una disciplina eminentemente applicativa che indaga questioni di rilevanza sociale con metodi differenti. Tra queste due posizioni estreme si snoda un ventaglio di posizioni intermedie, tutte parimenti vivaci e attive.


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22 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

Abbiamo a che fare con una disciplina giovane, nella fase del “giovane-adulto” potremmo dire, che ha il merito di seguitare a crescere grazie al dibattito e al confronto continuo. Un recente sviluppo all’interno della psicologia sociale è quello relativo alle Neuroscienze sociali.1 Di recente fondazione anche sul piano terminologico, la disciplina delle Neuroscienze Sociali (Social Neuroscience) sembra essere caratterizzata dalle principali sfide e criticità proprie, da un lato, delle scienze sociali e dei paradigmi che gli sono propri, dall’altro del dominio neuropsicologico e della complessità teorica e metodologica che la caratterizza. Definita in linea generale come la disciplina che studia come i processi neurofisiologici implementino i processi e i comportamenti sociali, essa trova spazio fondativo nella pubblicazione Social Neuroscience Bulletin una rivista quadrimestrale edita dal 1988 al 1994. Testimoni di eccellenza della nascita della nuova disciplina sono gli psicologi John Cacioppo e Gary Bernston, cui è possibile ricondurre l’uso del termine neuroscienze sociali in un noto articolo pubblicato su American Psychologist (1992). Lo sviluppo dinamico e frenetico delle ricerche di natura neuropsicologica in ambito sociale hanno caratterizzato, dunque, gli ultimi tre decenni. Esemplificativo tra tutti la nascita recente della rivista Social Neuroscience (2006), che ospita uno spaccato dei principali filoni di ricerca, i quali includono tra i propri oggetti di analisi gli individui-in-interazione. Seppure giovane, la neonata disciplina appare intrattenere rapporti stretti sia con le neuroscienze affettive sia con quelle cognitive. Elemento comune a entrambe la focalizzazione delle modalità con cui il sistema cerebrale è in grado di mediare e modulare i processi d’interazione sociale. Neuroscienza-sociale: una dicotomia reale? In realtà, un esame attento del ricco panorama di pubblicazioni afferenti alle neuroscienze sociali rivela la dicotomia soggiacente al filone, dicotomia che ne caratterizza la natura molteplice. Infatti, sul versante delle scienze sociali, l’attenzione agli aspetti neurofisiologici ha dato origine a un ricco repertorio di studi, perlopiù incentrati sui temi classici della psicologia sociale come lo studio dell’identità sociale o dei processi di attribuzione (Cozolino, 2008). Questi ultimi, pur riconoscendo la rilevanza dei fattori fisiologici nella comprensione delle questioni “sociali”, includendoli a pieno titolo tra le variabili oggetto di analisi, mostrano maggiore cautela nel fare ricorso a “spiegazioni” basate su paradigmi fisiologici ritenuti “forti” (basati cioè su paradigmi esplicativi di natura causale) cervello-comportamento. D’altro canto, sul versante delle neuroscienze applicate, si è via via fatta strada la necessità d’includere quale proprio oggetto di studio fenomeni originariamente “confinati” nel dominio della psicologia, poiché difficili da circoscrivere in termini di specifiche unità di analisi o da indagare mediante le metodiche classiche (sperimentali e di laboratorio) dell’approccio neuroscientifico (Damasio, 2000). Si assiste in questo secondo caso all’“inclusione” delle scienze sociali nel dominio delle neuroscienze del comporta-

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La parte seguente di questo paragrafo è un contributo di Michela Balconi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

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mento, in alcuni casi con l’intento esplicito di fornire “spiegazioni” ultime (di tipo microanalitico e microbiologico) di macro-fenomeni che chiamano in causa non solo l’individuo ma l’individuo in interazione, in gruppo, nei molteplici contesti di vita reale. Appare evidente che il progredire dei due filoni paralleli ha richiesto il reciproco adattamento e in molti casi l’integrazione di modelli e teorie di riferimento, nonché di approcci metodologici e di strumenti di analisi in origine molto distanti tra loro. L’adeguamento reciproco dei vocabolari testimonia il ricco processo d’interscambio che intercorre tra le due discipline: ciò che appariva altamente improbabile sino a qualche decennio fa circa l’applicazione di concettualizzazioni e metodi di analisi a oggetti eminentemente sociali (come il costrutto di empatia, vedi l’Approfondimento Cervello e processi sociali: Il caso dell’empatia per il dolore altrui, o d’identità) risulta oggi come un dato di fatto, per cui è frequente imbattersi in espressioni come “neurobiologia del dolore” o “del lutto” o “neurofisiologia dell’etica”. Da tale convergenza ne è emerso un modello di riferimento bifocale, che ha da un lato visto la necessità di costruire un prototipo di homo-biologicus dentro ai contesti di vita reale. Esemplificativi al riguardo sono gli studi sulla biologia delle differenze di genere o gli studi sui sistemi di neuromodulazione (mediate da sistemi ormonali), tipici della cosiddetta biological psychology. Dall’altro lato, grazie soprattutto al contributo della neuropsicologia clinica, ci si è orientati verso la definizione di modelli “funzionali” dei processi sociali, di un homo-socialis portatore di un ampio corredo di strutture neurofisiologiche. Ne costituisce un valido esempio il contributo fornito dagli studi sulle patologie del sistema nervoso centrale (SNC) e sistema nervoso periferico (SNP) che coinvolgono il comportamento sociale (come nel caso della sindrome disesecutiva o della sindrome prosopagnosica) e ne compromettono il normale funzionamento. S’innestano su quest’ultimo filone anche gli studi di neuropsichiatria sociale, che comprendono la disamina dei disturbi emotivo-correlati, come i meccanismi della rabbia e dell’aggressività o, ancora, i deficit della cognizione sociale legati a danni della corteccia frontale o a sindromi degenerative. I “luoghi” delle neuroscienze sociali In particolare, facendo riferimento ai principali filoni di ricerca sui quali si orienta l’attenzione delle neuroscienze sociali occorre innanzitutto distinguere tra fenomeni che chiamano in causa l’individuo e i suoi processi psicologici esaminati nella dinamica dell’interazione, e fenomeni che chiamano in causa più direttamente le realtà sociali (i gruppi, i contesti sociali ecc.) in cui i singoli individui si trovano a operare. Le neuroscienze sociali hanno dunque posto tra i propri oggetti di analisi sia i fenomeni di microlivello, come lo studio delle emozioni (neuropsicologia delle emozioni), i meccanismi di costruzione dei modelli cognitivi e intenzionali del sé e dell’altro, i processi di attribuzione sociale e di etero-attribuzione (neuroscienze della cognizione sociale), nonché di costruzione del senso di agentività e d’inter-agentività. Un ruolo particolare è svolto dai medium che consentono di veicolare i “significati sociali”, quali i processi comunicativi (neuropsicologia della comunicazione e neuropragmatica). Sebbene in misura più ridotta, le “realtà sociali” di macrolivello sono divenute anch’esse oggetto di analisi delle neuroscienze, con particolare riferimento ai processi decisionali (neuroscienze della decisione), alla costruzione degli atteggiamenti e del sistema di valori sociali (neuretica), nonché dei meccanismi evolutivi che li sostengono (neuroscienze sociali dello sviluppo).


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APPROFONDIMENTO Cervello e processi sociali: il caso dell’empatia per il dolore altrui Michela Balconi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Tra gli ambiti più fertili delle neuroscienze sociali, quello dello studio dei processi emozione-correlati appare il più rappresentativo, a fronte di un crescente interesse sia empirico sia teorico dei ricercatori. Gli studi sui processi d’immedesimazione, contagio emotivo ed empatia, in particolare, hanno interessato il panorama europeo e statunitense degli ultimi decenni. A partire dalle prime indagini sugli effetti del dolore fisico percepito e dei meccanismi sottesi a tali processi d’immedesimazione e “simulazione”, si sono susseguite ricerche che, mediante metodiche di neuroimaging, ERPs (potenziali evento-relati) e indici autonomici (come la conduttanza cutanea), hanno consentito di esplorare il senso più profondo del dolore non solo connotato fisicamente (la percezione fisica del dolore) ma piuttosto con valenza psicologica (la percezione e la condivisione del dolore psicologico altrui). La vista di un proprio simile in condizioni di sofferenza (una vittima che subisce violenza) predispone gli individui ad attivare specifiche strutture sia corticali (della corteccia) sia sottocorticali (strutture più ancestrali, sottostanti alla corteccia), “come se” egli stesso si trovasse nella medesima condizione. Nello specifico, il nostro cervello è in grado di “accendere” le medesime aree che attiverebbe se provasse egli stesso la sensazione di dolore: la corteccia prefrontale dorsolaterale appare essere la componente maggiormente implicata in tali meccanismi di simulazione (o anche meccanismi mirror per il dolore riferito). Allo stesso modo, una ingiustizia subita od osservata (per esempio una spartizione iniqua di una somma di denaro) è in grado di “scatenare” meccanismi di rifiuto e allontanamento sociale nel no-

stro cervello, mediante strutture sottocorticali come l’insula, componente anche associata al disgusto e alla repulsione verso stimoli esterni sgradevoli. O, ancora, osservare nel volto dell’altro un’espressione di rabbia o di gioia attiva in noi una serie di risposte di feedback analoghe a quelle che adotteremmo se noi stessi provassimo quell’emozione: il sistema nervoso centrale (SNC) e quello periferico (SNP) si adeguano, per così dire, all’emozione e ne simulano gli effetti. Quali vantaggi per l’individuo e per la specie nel disporre di tali meccanismi? Apparentemente essi potrebbero costituire un sistema altamente dispendioso di energie, poiché “obbligano” l’individuo a immedesimarsi e ad adottare comportamenti simili a quelli osservati, seguendo automatismi che giacciono al di fuori del proprio controllo volontario. Tuttavia, essi possono costituire meccanismi utili di adattamento al contesto sociale, da un lato, consentendo di entrare in sintonia reale con l’altro (non solo riflessa ma anche “embodied”) e di anticiparne le reazioni future; dall’altro predisponendo a reagire in termini “sociali”, con comportamenti di supporto che rendono più diretta e automatica la risposta cooperativa. In altri termini, il cervello dell’individuo sembra essersi plasticamente adattato al contesto sociale, per consentire una più elevata integrazione inter-individuale soprattutto in condizioni aversive ed emotivamente negative. Da ciò può conseguire la considerazione che il nostro cervello “risponde” e si “attiva” quando facciamo esperienza in un reciproco processo circolare in cui causa ed effetto (il sociale o il biologico) appaiono elementi reciproci e interrelati.


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

1.5.3

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La psicologia sociale in Europa

La psicologia delle folle e la Völkerpsichologie, dopo un fase di espansione in tutta Europa, subirono un radicale e drastico declino che le portò quasi a scomparire all’inizio del XX secolo. Tramontata l’epoca di questi due approcci, in Europa la psicologia sociale sembrò assopirsi tanto che fino alla metà degli anni Quaranta non si può dire che nel vecchio continente fosse individuabile come disciplina specifica né che esistesse una comunità di psicologi che si riconoscesse sotto questa denominazione. Esistevano singoli studiosi che svolgevano ricerche in ambito sociale e che retrospettivamente vennero definiti come “socio-psicologi”. Tra questi va ricordato Willy Hellpach in Germania, fondatore nel 1923 del primo laboratorio europeo di psicologia sociale e autore del primo volume di psicologia sociale nel 1933. Anche il pensiero sociale di Freud, espresso in Psicologia delle masse e analisi dell’Io e in Totem e tabù, esercitò una notevole influenza sulla germinale psicologia sociale europea. Fu però solo dopo il 1945, grazie alla collaborazione con gli Stati Uniti, che la psicologia sociale europea iniziò una lenta ma solida ripresa. Il punto d’inizio di questo cammino viene collocato nello studio Seven Nations Study, un progetto di ricerca interculturale e interdisciplinare sulla minaccia e il rifiuto. Lo studio vide la partecipazione di famosi ricercatori americani, come Stanley Schacter e Leon Festinger, e ricercatori europei (norvegesi, inglesi, tedeschi, svedesi e olandesi). La ricerca non produsse risultati scientificamente rilevanti ma consentì a un gruppo di psicologi europei di riconoscersi in un’identità di gruppo, che divenne pubblicamente visibile nel 1963 quando, a Sorrento, si tenne la prima Conferenza europea di psicologia sociale sperimentale. Dopo questa conferenza, gli psicologi sociali europei si ritrovarono a Frascati nel 1964 e a Royamont (vicino a Parigi) nel 1966, ove prese vita l’associazione europea di psicologia sociale sperimentale (European Association of Experimental Social Psychology, EAESP). Il primo comitato esecutivo dell’associazione era composto da Mulder, Irle, Jahoda, Nuttin, Tajfel, Rommetveit e Moscovici, primo presidente per il quadriennio 19661969. La psicologia sociale europea manifestò da subito una forte identità distintiva rispetto alla psicologia sociale nordamericana, ritenuta eccessivamente individualista. Alla costruzione di tale identità contribuirono soprattutto Hanri Tajfel e Serge Moscovici, i quali posero le basi per una “psicologia sociale più sociale”. Le critiche rivolte alla psicologia nordamericana erano sostanzialmente due. 1. L’assunzione di una prospettiva individualista in base alla quale il comportamento sociale veniva spiegato quasi esclusivamente in riferimento a processi individuali e presociali. In particolare, Tajfel nel suo articolo del 1972, Experiments in a vacuum, affermò che la psicologia sociale nordamericana si era troppo a lungo dedicata soprattutto allo studio di processi propri dell’uomo in quanto specie e quindi presenti nel comportamento umano, ma non specifici di quest’ultimo. 2. L’assunzione di una concezione della società ingenua e astorica, intesa come semplice aggregato di individui collegati tra loro da relazioni interpersonali. A parere di Tajfel, invece, la società ha una struttura propria che non può essere definita in base alle peculiarità delle singole persone. Pertanto, la psicologia sociale si occupa


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26 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale Foundation Meeting EASP, Leuven 1965; da sinistra: J.M. Nuttin, G. Jahoda, S. Moscovici, H. Tajfel, M. Mulder. Per gentile concessione della European Association of Social Psychology.

dei rapporti face-to-face ma «può e deve includere nelle sue preoccupazioni teoriche e di ricerca, un interesse diretto per i rapporti tra il funzionamento psicologico umano e i processi ed eventi sociali su larga scala», che plasmano questo funzionamento e ne sono a loro volta plasmati (Tajfel, 1981). A Tajfel dobbiamo la definizione della teoria dell’identità sociale che incontreremo nei Capitoli 8 e 9. In sintonia con le riflessioni di Tajfel, Moscovici, criticando a sua volta la posizione della psicologia sociale nordamericana, sostenne che l’oggetto della psicologia sociale è rappresentato dal comportamento simbolico dei soggetti sociali, persone o gruppi. Il suo pensiero si sviluppa attorno ai seguenti assunti. 1. Oggetto di studio della psicologia sociale è il conflitto che si genera, e che non è mai eliminabile, tra persona e società. Per Moscovici il conflitto è una tensione continua che deve e può trovare punti di risoluzione ed equilibrio sia nella storia delle persone sia nella storia dei gruppi. Dalla riflessione attorno a questi temi è nata la teoria delle minoranze attive (Capitolo 8). 2. La psicologia sociale studia anche la genesi, la struttura e il funzionamento dei fenomeni simbolici della cognizione e della comunicazione. Le riflessioni su questi temi sono confluiti nella teoria delle rappresentazioni sociali (Capitolo 5). A parere di Moscovici, a questa peculiarità di oggetti corrisponde anche una peculiarità di metodo o meglio di “sguardo psicosociale” agli oggetti. Con sguardo psicosociale si intende una modalità particolare di osservare e indagare i fenomeni sociali, orientato da teorie e osservazioni dirette dei rapporti tra persone e gruppi in uno specifico contesto sociale. Così, mentre di solito la psicologia si avvale di una lettura di tipo binario della realtà, ossia di una lettura in cui il soggetto percepente e l’oggetto sono separati e definiti indipendentemente l’uno dall’altro, Moscovici propone una visione ternaria dei fatti e delle


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale 27

Oggetto (fisico, sociale, immaginario, reale)

Io

Altro

FIGURA 1.4 ◼ La lettura ternaria dei fatti e delle relazioni secondo Moscovici.

relazioni. Tale lettura si gioca su tre poli: soggetto individuale, soggetto sociale e oggetto, ovvero, Io-Altro-Oggetto (Figura 1.4). In altre parole, tra soggetto e oggetto s’inserisce un terzo elemento che funge da mediatore, il sociale. Pertanto, la relazione tra soggetto e oggetto è sempre mediata dall’altro attraverso le rappresentazioni, le credenze, i significati elaborati e costruiti da questo sistema e in base al quale il soggetto agisce e reagisce. L’altro può essere un alter ego, ossia qualcuno simile a sé, oppure un semplice alter, ossia qualcuno differente da sé. A seconda che ci si trovi nella prima o nella seconda situazione, si possono avviare processi di confronto sociale o di riconoscimento. In sintesi: queste sono le caratteristiche che connotano la psicologia sociale europea e la differenziano dalla psicologia sociale americana. 1. L’assunzione di una prospettiva interazionista del soggetto: le persone sono soggetti sociali e la società è continuamente costruita e ricostruita dall’interazione delle persone. L’interazione sociale non è semplicemente un contenitore entro cui si sviluppa l’azione individuale o la molla che la scatena, ma è costitutiva e strutturante nei confronti del comportamento medesimo. 2. La concezione del sociale: quello cui fa riferimento la psicologia sociale europea è un sociale organizzato, quindi non un aggregato di persone ma una realtà articolata e stratificata in gruppi e sottogruppi, gerarchicamente organizzati in base a relazioni di potere e chiaramente identificati sulla base di orientamenti valoriali e ideologici. 3. La scelta metodologica: le persone vengono considerate non soggetti sperimentali, ma cittadini (Doise, 1980) situati in un contesto e in una struttura sociale, pertanto devono essere individuate strategie di ricerca che consentano non di annullare ma di valorizzare questi elementi.

1.5.4

La psicologia sociale di Lewin

Tra i padri fondatori della psicologia sociale tutti riconoscono un posto particolare a Kurt Lewin, nato a Mogilno nel 1890, studente a Berlino all’inizio del Novecento, affiliato alla scuola gestaltista ed emigrato nel 1933 negli Stati Uniti. Grazie a lui la psicologia sociale americana giunse a livelli elevati. Il suo lavoro è stato costantemente caratterizzato dall’interesse per i problemi concreti e contemporaneamente per i problemi di fondazione teorica, le questioni epistemologiche e la concettualizzazione matematica.


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28 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

I suoi contributi spaziano su diversi fronti. Dal punto di vista epistemologico, Lewin propose la famosa distinzione tra concezione aristotelica e concezione galileiana della scienza. La prima giunge a una conoscenza di tipo classificatorio: si basa sull’assunto che gli eventi che si possono studiare scientificamente sono solo quelli che si ripetono con una certa frequenza e che quindi consentono di dedurre leggi stabili ed elementi comuni. La seconda è di natura genetico-condizionale: sostenendo che tutti gli eventi seguono delle leggi, anche quelli più rari e inconsueti, tale concezione non focalizza l’attenzione sugli elementi comuni o costanti, ma piuttosto sul rapporto che intercorre tra il loro verificarsi e la presenza nell’ambiente di determinate condizioni. La notorietà giunse per Lewin con la proposta della teoria di campo che egli stesso definisce più come un metodo: «Un metodo di analisi delle relazioni causali fra eventi e di produzione di costrutti scientifici, orientata a fornire una comprensione scientifica dei fatti sociali» (Lewin, 1951, trad. it 1972, p. 69). Assunto di base della teoria è che qualsiasi comportamento entro un campo psicologico dipende dalla configurazione del campo nell’hic et nunc, ossia in quello specifico momento (principio di contemporaneità). Lungi dall’espungere la dimensione temporale, «il campo psicologico che esiste in un dato momento contiene anche i punti di vista da cui l’individuo guarda al suo futuro e al suo passato». Il campo viene definito come la totalità dei fatti coesistenti nella loro interdipendenza. Le leggi del campo, quindi, non derivano dalle caratteristiche dei singoli elementi presenti in esso, ma dalla sua configurazione globalmente considerata, dall’energia che il campo possiede e dalla direzione delle forze. Il campo è un sistema dinamico, un sistema di forze. Come ben evidenzia Amerio, per Lewin «le proprietà di ogni fatto derivano dalla relazione con tutti gli altri fatti presenti e in base a questo sistema di interrelazioni ogni fatto trova la sua spiegazione e la sua funzione nel concorrere alla dinamica del sistema» (1995, p. 104). Considerando i fatti esistenti in uno specifico momento, Lewin individua tre ambiti in cui i mutamenti sono di particolare interesse. 1. Lo spazio di vita, ossia la relazione tra persona (P) e ambiente psicologico (A) così come viene visto da essa. Di qui, la nota equazione di Lewin: C = f(PA), ossia il comportamento di una persona è funzione sia di elementi personali sia di elementi ambientali. Lo spazio di vita della persona include i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue motivazioni, la sua struttura cognitiva, i suoi ideali. 2. I fatti che, anche se presenti nel mondo fisico e sociale, non avendo effetti diretti sulla persona, non entrano nel campo psicologico. 3. I fatti posti nella zona di confine o di frontiera tra lo spazio di vita e il mondo esterno in un processo d’interscambio attraverso processi percettivi. Osservando questa zona è possibile comprendere i mutamenti del campo e la direzione in cui possono avvenire. A Lewin si devono altri due contributi importanti: l’analisi della dinamica dei gruppi e la focalizzazione sulla ricerca-azione. Come vedremo in maniera più approfondita nel Capitolo 8, per Lewin il gruppo è una totalità dinamica connotata dall’interdipendenza dei membri. È un’unità in grado di esprimere comportamenti e valori culturali diversi da quelli dei singoli membri. Esso non è né più né meno la somma delle parti: è qualcosa di diverso.


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Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale 29

Dall’interesse di Lewin per l’analisi e la soluzione di problemi reali hanno tratto origine la ricerca-azione (action-research) e i gruppi di formazione (T-group). Per quanto riguarda la ricerca-azione, Kurt Lewin impiegò per primo questo termine riferendosi ai lavori che stava conducendo al Center for Group Dynamics al Massachusetts Institute of Technology (MIT), interessato a esplorare dei mezzi non solo per analizzare ma anche agire sui problemi sociali. Le idee alla base dell’action-research sono quelle di collaborazione, partecipazione e democrazia. Essa si propone di cogliere gli aspetti oggettivi e soggettivi del campo d’indagine, guarda all’evoluzione della teoria e della pratica sociale e cerca di produrre contemporaneamente la conoscenza della realtà esistente e il suo cambiamento. Metodologicamente si basa sull’utilizzo dei gruppi e sulla riflessività entro i gruppi e strategicamente si avvale della collaborazione attiva di tutti i soggetti coinvolti.

1.5.5 I livelli di spiegazione in psicologia sociale secondo Willem Doise Willem Doise, collaboratore di Tajfel e Moscovici, sostiene che in psicologia sociale si possono individuare quattro livelli di spiegazione: 1. 2. 3. 4.

psicologico o intrapersonale; interpersonale o intrasituazionale; posizionale; ideologico.

Non si tratta di quattro livelli della realtà, ma di livelli di analisi: ognuno consente di conoscere un pezzo del complesso puzzle che è la realtà. Per riuscire a cogliere la realtà nella sua interezza, per poter ricostruire il puzzle, occorre condurre analisi complementari che combinino i risultati delle ricerche a diversi livelli. Il livello psicologico o intrapersonale consente di comprendere come la persona organizza la sua percezione e valutazione del mondo sociale e come si comporta in esso. Le teorie sviluppate a questo livello si propongono di spiegare i meccanismi attraverso cui la persona organizza la sua esperienza: come per esempio la teoria della dissonanza cognitiva di Festinger. Il livello interpersonale o intrasituazionale consente di comprendere le dinamiche che si manifestano tra le persone considerate in maniera acontestuale, ossia indipendentemente dalle loro posizioni sociali e dalla situazione specifica. Un esempio di teoria sviluppata a questo livello è la teoria dell’attribuzione sociale di Kelley. Il livello posizionale permette di comprendere l’impatto delle differenze di ruolo o status delle persone sui processi psicosociali osservati. Spesso le teorie del secondo livello si innestano su quelle del terzo livello. Per esempio la teoria del confronto sociale di Festinger può trovare applicazione al secondo livello ed essere riletta alla luce del terzo. Infine, il livello ideologico consente di comprendere come le credenze ideologiche universali portino a rappresentazioni mentali e sociali, e come queste si traducano nell’assunzione di comportamenti differenziati e discriminatori. Un esempio di teoria sviluppata a questo livello è la cosiddetta “ipotesi del mondo giusto” di Lerner.


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30 Capitolo 1 ◼ Introduzione alla psicologia sociale

1.5.6

Persona o individuo?

Chiudiamo questo capitolo introduttivo con una precisazione. Nel proseguo del testo si è deciso di usare prevalentemente il termine persona in luogo di individuo. Non si tratta di una scelta né casuale né scontata né banale. Come proposto da Burr (2002) mentre il termine persona fa riferimento a un soggetto morale capace di pensiero libero e dotato di pensieri, credenze e valori unici che si costruisce e ri-costruisce in interazione e relazione con il sociale e le persone significative, il termine individuo rimanda all’idea di un soggetto contenuto nel proprio spazio psicologico, separato dalla realtà materiale e dagli altri individui. Il contesto sociale può esercitare una forte influenza ma il soggetto gli preesiste ed è da esso indipendente. La psicologia sociale che ci appassiona e affascina non dimentica mai che si sta occupando di persone così come definite da Burr. «Gli psicologi» scrive Lewin (1951) «studiano dei fenomeni ma “dopotutto!” quelli che osservano “sono esseri umani”. Persone felici e infelici, uomini che si suicidano e bambini che giocano, persone deluse che cadono in depressione, persone che si sforzano per raggiungere fini alti e difficoltosi, persone che sognano, progettano, che delinquono e così via. Persone che hanno bisogno di guida, di aiuto, di cure. Quale giovamento possono trarre queste persone “dal calcolo, dalla misurazione e classificazione delle loro pene?” Poco. Quello che occorre fare» egli aggiunge «è guardare dietro la facciata degli eventi, andare al di sotto della superficie» cercando di elaborare una metodologia descrittiva, ma anche tale da consentirci un’analisi empirica senza fermarci alla pura “speculazione”» (Amerio, 2003, p. 231).


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