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Decisioni di impresa: informazioni, rappresentazioni, driver e criteri
Ducati è una impresa italiana specializzata nella produzione di motociclette sportive. Il principale impianto produttivo è localizzato vicino alla città di Bologna con una superfice totale di 360 000 metri quadrati che accoglie circa mille addetti. La fabbrica è responsabile prevalentemente della produzione dei motori e della successiva fase di assemblaggio dei componenti. In termini annui, il numero di motociclette prodotte è pari a circa 35 000, con una produzione giornaliera di circa 140 unità, impiegando 250 giorni di lavoro/uomo per ogni anno. Il suo Amministratore delegato si pone il problema se sia opportuno rimanere un’impresa di nicchia, con una produzione limitata, oppure accrescere in maniera significativa i volumi produttivi, raggiungendo la soglia delle 100 000 unità annue. Un ulteriore problema è quello di valutare l’opportunità di incrementare gli investimenti in automazione industriale e, parallelamente, rivedere i turni di lavori nella fabbrica. L’esempio propone diversi interrogativi ai quali il decisore dell’impresa è chiamato a dare risposta. Il presente capitolo è finalizzato a descrivere, in termini generali, le decisioni, quale momento fondamentale dell’impresa e della sua dinamica evolutiva. Il tema in oggetto viene affrontato, in primo luogo, con riferimento alle fasi che caratterizzano il processo decisionale. In secondo luogo, il capitolo si concentra sugli elementi di base che accompagnano tale processo riconducibili alle informazioni e alle rappresentazioni nonché ai driver generali da tener presenti nelle scelte. Questi driver sono riferibili alla visione e alla missione dell’impresa nonché alla sua finalità e ai suoi obiettivi generali e specifici. Il capitolo si sofferma, infine, su un modello di decisione di impresa e su tre criteri decisionali riconducibili all’efficacia, all’efficienza e alla redditività. In conclusione, lo studio si focalizza sul rapporto tra redditività, rischio e incertezza.
Obiettivi di apprendimento In questo capitolo discuteremo di: 1. le decisioni di impresa come processo di scelta tra soluzioni alternative; 2. informazioni e rappresentazioni; 3. i driver generali che guidano i processi decisionali nelle imprese; 4. efficienza, efficacia e redditività, quali criteri di scelta tra soluzioni alternative; 5. il legame tra redditività e rischio; 6. le decisioni di impresa in condizioni d’incertezza e ambiguità.
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Capitolo 2
2.1
Introduzione
L’impresa e la sua dinamica evolutiva sono scandite da decisioni tese, da un lato, a migliorare o a modificare le combinazioni produttive tipiche del contesto interno dell’impresa, introducendo variazioni ai prodotti, processi, tecnologie, organizzazione, e, dall’altro lato, a influenzare il contesto esterno, acquisendo nuovi clienti, stimolando nuovi bisogni da parte degli utenti, sviluppando accordi con i fornitori, distributori e anche con i concorrenti. Le decisioni sono inoltre interdipendenti tra loro nel senso che quelle di carattere generale si specificano in altre decisioni caratterizzate da indirizzi sempre più specifici e che comportano la risposta a interrogativi quali che cosa produrre, come e con quali mezzi produrre, quanto produrre, dove e quando operare (Panati e Golinelli, 1991). Le decisioni dell’impresa sono in generale qualificate da deliberazioni o scelte, singole o collegiali, risolutive di una problematica. La definizione appena riportata introduce gli elementi essenziali di una decisione nell’ambito di una impresa. In primo luogo è necessario un atto volitivo ovvero un momento nel quale si manifesta la volontà di un soggetto di scegliere determinati corsi di azione piuttosto che altri. In secondo luogo, l’atto volitivo è assunto da un decisore afferente l’impresa. Questo soggetto può coincidere con un singolo individuo (per esempio, un amministratore delegato, un direttore generale, un responsabile di reparto) ovvero con un gruppo di individui (per esempio un consiglio di amministrazione, un comitato di vigilanza o semplicemente un gruppo di lavoro). In terzo luogo, la decisione implica un oggetto che sovente è rappresentato da una problematica suscettibile di influenzare l’impresa e la sua dinamica evolutiva (Fazzi, 1984, pag. 9). Infine, a fronte di una problematica, il decisore dispone di possibili alternative di cui si conoscono, in sostanza, le conseguenze e le valenze in termini di impatto economico e finanziario sull’impresa (Gherardi, 1993). Date le caratteristiche delle decisioni, si possono individuare diverse classi di atti volitivi tipicamente riconducibili all’impresa. Con riferimento all’oggetto, le decisioni di impresa possono riguardare le dimensioni reale e finanziaria. Rispetto alla dimensione reale, le decisioni riguardano anzitutto la trasformazione degli input in output. Queste decisioni sono volte a definire le proporzioni e i tempi attraverso i quali i vari fattori della produzione sono impiegati nell’ambito delle combinazioni produttive (per esempio il rapporto tra lavoro e capitale) nonché le modalità attraverso le quali esse possono svolgersi (layout delle macchine in linea o in parallelo). L’impresa si trova, inoltre, ad assumere decisioni concernenti l’approvvigionamento degli input necessari per alimentare, con le opportune quantità, qualità e proporzioni, il processo di trasformazione, nonché il collocamento degli output sul mercato, specificando i bisogni da soddisfare, le tipologie di clienti da servire, i prodotti da offrire qualificati, questi ultimi, in termini di quantità vendibili, di qualità resa al cliente e di prezzi di vendita. Rientrano nelle scelte di collocamento degli output anche quelle scelte collegate alla distribuzione del prodotto, con l’individuazione degli attori (per esempio, grossisti o grande distribuzione), dei canali (diretti o lunghi) e dei luoghi. Si noti che le decisioni riguardanti i processi di approvvigionamento, trasformazione e distribuzione sono accompagnate da altre decisioni che, pur non concorrendo direttamente alla trasformazione in senso tecnico di un input in un output, concorrono comunque a fornire supporto a questi processi. Rientrano in questo ambito le scelte riguardanti l’amministrazione dell’impresa, il controllo di gestione, la gestione del personale, la gestione dei sistemi informativi, ecc. Tra queste scelte meritano una nota di rilievo, in ragione della loro importanza, le cosiddette decisioni di investimento.
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Queste ultime sono finalizzate a creare i presupposti ovvero la struttura attraverso cui l’impresa sia in grado di svolgere con continuità la sua attività di produzione di beni economici. Si comprendono in questa classe le scelte riguardanti, per esempio, l’acquisto di un impianto o di un macchinario, l’espansione della capacità produttiva, il ridisegno dei processi produttivi, l’investimento in attività di ricerca e sviluppo (Ceccanti, 1967). Rispetto alla dimensione finanziaria, le decisioni di impresa si propongono di mantenere nel tempo una condizione di equilibrio tra i fabbisogni scaturenti dai processi di produzione e di investimento e le fonti disponibili o comunque prontamente reperibili. Sono esempi di scelte finanziarie quelle concernenti la definizione del peso delle fonti esterne rispetto al totale delle fonti finanziarie disponibili, il rapporto di indebitamento ovvero il peso del capitale di credito rispetto al capitale proprio, il grado di durevolezza delle fonti raccolte a titolo di credito (in considerazione del tempo disponibile per il loro rimborso). Altre decisioni finanziarie riguardano poi la gestione della tesoreria (ovvero la gestione degli incassi e dei pagamenti), l’amministrazione del credito mercantile (ovvero la gestione dei crediti e debiti commerciali) e, più in generale, del capitale circolante netto, nonché le decisioni in materia di politica dei dividendi e di impiego di eventuali eccedenze finanziarie connesse allo svolgimento delle attività correnti (in merito ai rapporti tra economia e finanza nel governo dell’impresa vedi Golinelli, 2003). A cavallo tra le decisioni rientranti nelle dimensioni reale e finanziaria, si collocano altre decisioni che, pur non avendo a oggetto le combinazioni produttive dell’impresa incluse nelle predette dimensioni, talvolta sfuggendo anche alla logica economica che contraddistingue l’impresa, danno contenuto al ruolo svolto dall’impresa stessa nei sistemi capitalistici. Si tratta in sostanza di decisioni che investono variegati ambiti, quali quello sociale, politico e tecnologico, e si propongono talora di armonizzare gli interessi di vari soggetti (Fazzi, 1984) e talvolta si spingono anche nella direzione di creare condizioni durevoli di benessere extra-economico (Demaria, 1962, pag. 216). Rispetto al livello al quale le decisioni sono assunte, l’impresa si trova a dover considerare scelte di natura strategica, tattica e operativa. Le decisioni di natura strategica attengono a scelte fondamentali che caratterizzano l’impresa e la sua dinamica evolutiva. Utilizzando le parole di Fazzi (1984), attraverso le scelte strategiche sono «determinati obiettivi e linee di azione e a dar contenuto a determinati piani; ma pure a modificarli, ampliandoli o riducendoli, ovvero ad accelerare il loro compimento o a ritardarlo, ovvero ancora a sospendere la loro attuazione o ad annullarli» (pag. 10). Le scelte strategiche contribuiscono, dunque, a modificare, nel corso del tempo, la dinamica evolutiva dell’impresa attraverso un’azione di combinazione dei fattori della produzione in modi e in modalità via via diverse in vista di mantenere una sostanziale coerenza tra l’impresa e l’evoluzione del contesto. Queste decisioni sono sovente assunte dagli organi di vertice, si caratterizzano per l’elevata complessità, hanno uno stampo non ricorrente e, infine, scaturiscono da problemi che, il più delle volte, sono difficili da individuare ovvero richiedono al decisore una particolare abilità nel leggere i segnali deboli ai quali si associa l’esigenza di decidere. Sono esempi di scelte strategiche la definizione del mercato da servire o dei prodotti da offrire, gli investimenti in ricerca e sviluppo, la ristrutturazione delle attività produttive. Le decisioni di natura tattica svolgono un ruolo di attuazione delle decisioni strategiche e si sostanziano nella individuazione delle combinazioni di fattori della produzione che consentano all’impresa di raggiungere obiettivi posti in condizioni di efficienza. Questa ultima, come si vedrà in seguito, riguarda l’uso ottimale delle risorse a disposizione per produrre un dato quantitativo di beni economici. Le de-
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cisioni tattiche sono spesso assunte da funzionari e dirigenti di livello intermedio, presentano un carattere ricorrente, riguardano problemi di natura evidente e investono aree specifiche dell’impresa. Rientrano tra le scelte tattiche la programmazione della produzione, il disegno della struttura organizzativa, la fissazione del layout degli impianti, l’organizzazione della rete di vendita, la programmazione e la gestione del budget commerciale. L’attuazione di una data strategia è, infatti, vincolata all’uso di risorse e di capacità di varia natura. Ne consegue che le scelte in merito al profilo quali/quantitativo delle risorse e delle capacità disponibili assumono valenza tattica nel momento in cui influenzano il ventaglio delle strategie effettivamente realizzabili. Tra decisioni strategiche e tattiche sussiste, quindi, un’interdipendenza, nel senso che la prospettiva strategica guida la tattica di impresa e al contempo gli effetti conseguenti a scelte tattiche possono, a seconda dei casi, vincolare o ampliare lo spettro delle decisioni strategiche attuabili. Le decisioni di natura operativa, infine, attengono ai processi necessari ad attuare le scelte di natura sia strategica che tattica. Le decisioni operative sono numerose, riguardano ambiti specifici dell’impresa e trovano spesso riflesso nei cosiddetti budget il cui orizzonte temporale è tipicamente l’esercizio amministrativo. Queste decisioni vengono assunte da unità di livello operativo, sono frequenti, caratterizzate da limitata incertezza e spesso risolvibili medianti algoritmi. Queste decisioni riguardano, dunque, la ricerca del miglior uso possibile dei fattori della produzione e comprendono, per esempio, la programmazione della produzione, l’attività di promozione del prodotto, la gestione delle scorte. Non appare inutile osservare che, in un contesto stazionario, ovvero in un contesto dinamico nel quale le tendenze irreversibili di fondo siano state correttamente anticipate e comprese nelle combinazioni produttive correnti, l’impresa sarà attraversata da scelte prevalentemente tattiche e operative. In un regime di stabilizzazione, i fattori della produzione sono combinati in modalità sostanzialmente invarianti così come i prodotti sono collocati nei mercati di sbocco in quantità e in qualità che variano assai debolmente. In questo contesto, le scelte riguardano sostanzialmente adeguamenti della capacità produttiva e dei prodotti offerti. In contesti di rapido cambiamento e di sostanziale incertezza, invece, le scelte strategiche assumono un peso crescente, contribuendo a variare la dinamica evolutiva dell’impresa in accordo con le tendenze irreversibili di fondo. L’introduzione di nuove combinazioni produttive, la ricerca di nuovi fattori stessi, la variazione delle modalità di combinazione dei fattori stessi così come la modifica dei prodotti finiti rappresentano aspetti qualificanti di un regime dinamico di sviluppo dell’impresa.
2.2
La realtà delle decisioni di impresa
L’impresa è pervasa da una miriade di decisioni con natura e contenuti diversi e varianti nel tempo che si inseriscono, a loro volta, nell’ambito di un contesto nel quale sono presenti sostanziali interdipendenze tra le decisioni stesse. Si può ipotizzare la presenza di una interdipendenza tra: •
una decisione su un aspetto che influenza scelte future su altre situazioni. Per esempio, una decisione potrebbe evocare nuovi problemi ovvero rendere quelli correnti obsoleti e irrilevanti, trasformare in possibili alcune decisioni che in precedenza non erano tali e favorire lo sviluppo di conoscenze utilizzabili in altre scelte successive;
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•
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una decisione su un aspetto che influenza una scelta successiva sulla stessa situazione. Per esempio, una decisione strategica generale dalla quale scaturiscono una serie di altre decisioni specifiche di ordine tattico e operativo, un insieme di decisioni specifiche a carattere operativo o tattico dalle quali poi emerge una decisione strategica di ordine generale e, infine, una decisione che viene ripetuta nel corso del tempo; una decisione su un aspetto che influenza una scelta concorrente su un fatto diverso in quanto entrambe le situazioni condividono gli stessi fattori della produzione, quali risorse finanziarie, persone, supporto manageriale, e gli stessi elementi del contesto interno dell’impresa, quali unità organizzative, incentivi, cultura (Langley, Mintzberg et al., 1995).
Si consideri ancora l’esempio di una decisione strategica relativa all’ingresso di un nuovo mercato. Essa crea un potenziale che, per essere sfruttato, necessita sia scelte tattiche concernenti la creazione di una rete di vendita attraverso cui il prodotto è commercializzato, sia scelte operative in materia di creazione di un listino prezzi dei prodotti offerti. A sua volta questa scelta dovrà basarsi su decisioni preesistenti e richiederà, allo stesso tempo, l’assunzione di altre decisioni successive necessarie per supportare, nell’esempio citato, l’ingresso nel nuovo mercato. Per esempio, l’impresa potrà valutare l’opportunità di adeguare il portafoglio prodotti introducendone di originali pensati specificatamente per il nuovo Paese così come di adeguare il sistema informativo al fine di disporre di informazioni e di rappresentazioni adeguate nel nuovo contesto in cui l’impresa ha deciso di operare. A quanto osservato va aggiunto che le decisioni non sono solo interdipendenti ma il segno di questa interdipendenza può essere diverso. In particolare, si possono osservare tra le decisioni relazioni di complementarietà, ovvero i benefici netti associati a una decisione si accrescono per effetto dell’assunzione di altre scelte concorrenti, e di sostituibilità o di trade-off, ovvero i benefici netti imputati a una decisione si riducono per effetto di altre scelte prese dai decisori dell’impresa (Milgrom e Roberts, 1995). Per illustrare la proposizione appena formulata si consideri, nel campo delle scelte cosiddette reali, la relazione di complementarietà ravvisabile tra l’introduzione di sistemi flessibili di produzione e la variazione dell’ampiezza della gamma di prodotti offerta. Si richiama che il concetto di gamma include il numero di linee di prodotti offerte; linea che qualifica un insieme di prodotti considerati come omogenei dal consumatore in quanto destinati a soddisfare gli stessi bisogni (per esempio, prodotti per l’igiene personale, prodotti per l’igiene della casa). A sua volta una linea di prodotti include modelli e articoli il cui numero definisce la sua profondità (Kotler, 1994). I sistemi flessibili di produzione sono, invece, definiti come «mezzo di produzione composto da macchine operatrici automatiche a tecnologia convenzionale o meno, per lo più a controllo numerico, da impianti di trattamento, da macchine di misura, da predisposizioni automatiche di servizi, da mezzi di trasferimento, movimentazione e magazzinaggio; il tutto sotto il controllo di un calcolatore centrale opportunamente programmabile» (Panati e Golinelli, 1991, pag. 253). L’ampliamento della flessibilità nelle attività produttive consente all’impresa con costi ridotti di variare la gamma di prodotti offerti in relazione alle esigenze dei consumatori. Allo stesso tempo, l’ampliamento della gamma prodotti ha effetti positivi sulla scelta di introdurre sistemi flessibili in quanto, i maggiori costi di questi sistemi rispetto ad altre alternative, sono compensati, per esempio, da maggiori livelli di soddisfazione del cliente così come da minori esigenze di mantenere scorte di prodotti in magazzino, stante la capacità dell’impresa di adattare la sua offerta alle esigenze della domanda.
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Si potrebbe, invece, osservare una relazione di sostituibilità o di trade-off tra l’introduzione di impianti a elevata automazione e standardizzazione dell’output prodotto e la scelta di variare la gamma dei prodotti offerti. In questo caso, la variazione delle linee di prodotto e della loro profondità richiederebbe modifiche, talora anche sostanziali, nelle componenti e nel layout dei processi produttivi, con il sostenimento di costi elevati da parte dell’impresa. Le interdipendenze tra decisioni sono ravvisabili anche tra quelle che rientrano nella dimensione reale e finanziaria. Per esempio, la decisione di ricorre al credito mercantile nei confronti dei clienti finali potrebbe dar luogo a situazioni di incaglio. Alterando lo stato di liquidità aziendale (Corsani, 1941, pag. 506), l’incaglio pone i manager in condizioni sfavorevoli nella stipula dei contratti di acquisto, favorendo l’accettazione di prezzi-costo maggiori pur di ottenere dilazioni di pagamento dai fornitori, e di vendita, consentendo la fissazione di prezzi-ricavo minori pur di ottenere pagamenti immediati dai clienti, nella formazione delle scorte, la cui entità e ritmo di accumulo potrebbe manifestarsi non più con la regolarità desiderata, così come anche nel rinnovamento degli impianti e delle strutture, che potrebbero essere rinviate a causa della carenza di fonti finanziarie (Giannessi, 1982, pag. 16). Il numero elevato di decisioni che vengono assunte nell’impresa e le loro interdipendenze generano alcune conseguenze. Da un lato, si viene a creare un contesto nel quale è difficile individuare un’alternativa migliore in assoluto. Piuttosto, si intravedono alternative multiple che sono migliori soltanto in un ambito produttivo, mercatistico e/o temporale ben definito. In altre parole, nel campo dell’impresa sono ravvisabili per la soluzione di un problema, alternative multiple tutte potenzialmente soddisfacenti, sebbene in senso soltanto locale e non assoluto (Simon, 1996). La scelta di ampliare la gamma dei prodotti offerti potrebbe rappresentare un’alternativa valida in un certo ambito geografico, sebbene in altri, date le caratteristiche dei mercati serviti, il restringimento della gamma potrebbe apparire la soluzione migliore. Dall’altro lato, la presenza di più alternative ‘ottime’ comporta che, ove il decisore abbia scelto di orientare i propri sforzi verso una di queste, lo stesso stia implicitamente trascurando, ovvero abbandonando, altre possibili opzioni. In altre parole, ogni decisione, assunta sia a livello individuale che collettivo, si traduce sempre in un processo di selezione ed eliminazione, nel senso che decidere implica comunque una scelta tra due o più alternative (Edwards, 1954). Ne consegue che le decisioni generano sempre dei costi opportunità nel momento in cui, alla scelta di un’alternativa, corrisponde sempre lo scarto di un’altra. L’assunzione di decisioni nell’impresa è, dunque, difficile e richiede la formazione di un quadro coerente e valido, tenuto conto delle mutue connessioni intercorrenti tra le varie decisioni. Si è in proposito osservato che i responsabili dell’impresa dovranno attentamente considerare i rapporti di interdipendenza tra le decisioni, creando un quadro unitario nel quale le scelte individuali siano il più possibile coerenti, ovvero complementari, tra loro (Chandler, 1962). A tal fine, si palesa l’importanza che il decisore sia accompagnato, in questa attività di scelta, da adeguate informazioni, rappresentazioni, consideri attentamente il contesto in cui queste scelte si inseriscono e, allo stesso tempo, faccia riferimento a determinati criteri decisionali. Questi aspetti di base delle decisioni nelle imprese sono oggetto di approfondimento nei paragrafi successivi.
2.3
Elementi di base nelle decisioni di impresa
La nascita e l’evoluzione nel tempo di una data impresa dipendono da flussi decisionali orientati a selezionare le migliori alternative rispetto al raggiungimento di traguardi prefissati e al superamento di problemi emergenti. Il decisore di impresa,
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cioè, effettua continuamente scelte selettive che possono essere inquadrate sia nell’ambito di piani volti al conseguimento di determinati risultati aziendali, sia rispetto alla soluzione di nuovi problemi non preventivabili ex ante. Le decisioni di impresa, quali scelte tra alternative poste tra loro in concorrenza, indipendentemente dalla dimensione orizzontale o verticale su cui insistono, emergono da un processo articolato in più fasi tra loro concatenate. In particolare, detto processo si articola tipicamente in: individuazione dei problemi; fissazione di traguardi; raccolta delle informazioni; valutazione delle diverse soluzioni; decisioni circa le soluzioni migliori per il perseguimento dei traguardi fissati; trasformazione della decisione assunta in azioni concrete; controllo sugli effetti prodotti dalle azioni che conseguono alle decisioni poste in essere (Simon, 1996). Per completezza si rammenda che una parte degli studiosi ha rilevato che nelle organizzazioni il processo decisionale non è così ordinato e sequenziale come ci si potrebbe attendere ma è basato, invece, su scelte che emergono talora in maniera inconsistente e, anziché risolvere problemi, cercano esse stesse complicazioni a cui applicarsi, difficoltà che a loro volta tentano di trovare situazioni nelle quali potrebbero essere discusse o risolte, e soluzioni che cercano problemi ai quali potrebbero offrire delle risposte e, infine, decisori che individuano occasioni per impiegare il proprio tempo (Cohen, March et al., 1972). Il processo decisionale assume, comunque, un ruolo centrale nell’ambito dell’economia e gestione delle imprese. Questo processo si traduce, infatti, nella combinazione tra attività di analisi, valutazione, scelta, applicazione e controllo ex post dei risultati conseguiti. La conclusione del processo decisionale/manageriale, ossia il controllo ex post, diventa input di un nuovo processo teso a migliorare le fasi di analisi, valutazione e attuazione secondo una logica di feedback (vedi Figura 2.1). Le suddette fasi del processo decisionale dell’impresa richiedono, per essere correttamente affrontate, informazioni e rappresentazioni, debbono essere coerenti con i driver generali delle decisioni (visione, missione, finalità, obiettivi), essere inquadrate in un ben definito modello di decisione ed essere permeate da criteri di efficacia, efficienza e redditività.
2.3.1
Informazioni e rappresentazioni
Le informazioni sono un insieme di dati riguardanti fenomeni ai quali il decisore assegna rilievo. Le informazioni possono riguardare il contesto interno dell’impresa toccando aspetti quali, per esempio, il rapporto sulle quantità vendute articolate per area geografica, il canale distributivo e la tipologia di cliente, gli scarti di lavorazioni divisi per reparto e per prodotto, il complesso delle ore lavorate, i costi
Analisi dei problemi
Valutazione delle soluzioni
Attuazione delle soluzioni adottate
Definizione dei traguardi
Scelta delle soluzioni
Controllo ex post
Feedback
Figura 2.1 Generalizzazione dei processi decisionali
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delle materie prime, il prospetto dei fabbisogni finanziari, il prospetto delle fonti disponibili. Le informazioni riguardano anche il contesto esterno. Con riferimento a quest’ultimo assumono rilievo, tra le altre, gli andamenti macro economici di contesto, l’evoluzione della regolamentazione, le informazioni relative alla domanda, la struttura dell’industria e il grado di competizione, il numero di imprese produttrici di beni similari, complementari e sostituti, i fattori di cambiamento a livello politico, sociale, economico e tecnologico, l’esistenza di barriere all’entrata e all’uscita (Buttà, 1991, pag. 83). Le informazioni possono poi assumere un carattere sintetico (per esempio, numero di clienti) oppure dettagliato (per esempio, sesso, età e area geografica dei clienti). Le informazioni debbono, infine, corrispondere in termini quali-quantitative alle aspettative ovvero alle esigenze dei soggetti decisori nell’impresa e parallelamente debbono essere disponibili al momento giusto. Si pensi, per esempio, a un dato sui clienti che viene reso disponibile al decisore soltanto dopo che esso abbia già deciso in merito al lancio di una campagna promozionale. In questo caso, l’informazione non offre alcun valore alla decisione. Le informazioni disponibili vanno, dunque, confrontate con i fabbisogni espressi dai decisori. Da questo confronto possono derivare per l’impresa simmetrie e asimmetrie di informazione. Questa ultima circostanza comprende «il caso in cui le informazioni sono ritenute sufficienti per orientare l’agire, laddove una quantità-qualità più ampia avrebbe orientato in modo difforme l’agire medesimo; il caso in cui le informazioni pur sufficienti in senso medio, non vengono ritenute tali per orientare l’agire, e in cui s’induce un fabbisogno informativo aggiuntivo» (Canziani, 1984, pag. 97). Non appare inutile osservare che la qualità delle decisioni tende ad ampliarsi nei casi in cui le informazioni disponibili sono coerenti con i fabbisogni stessi. Le rappresentazioni comprendono elementi quali modelli, teorie, routine di calcolo, procedure che consentono al decisore di indossare una lente attraverso la quale semplificare la complessità della realtà oggetto di osservazione. Le rappresentazioni possono assumere una natura più o meno formalizzata (si pensi a un modello che associa a una variazione del prezzo una data variazione della quantità venduta oppure al cosiddetto rendiconto finanziario) e possono riguardare ancora una volta sia il contesto interno (per esempio, una regola di calcolo del numero di ore lavorate incorporate in ciascun prodotto realizzato) sia esterno dell’impresa (per esempio, un modello che associa un mutamento di prezzo dell’impresa a una variazione dei prezzi dei concorrenti). Le rappresentazioni possono focalizzarsi sulle componenti elementari di un fenomeno oppure offrirne una vista di insieme. Nella seconda accezione, le rappresentazioni sono sovente il portato di un modo di scrutare i fenomeni, focalizzando sulle interrelazioni e interdipendenze (ovvero le relazioni di rinforzo, bilanciamento e opposizione tra decisioni, azioni e fenomeni che si manifestano all’interno e all’esterno dell’impresa) piuttosto che sulle relazioni lineari di causa-effetto, così come sui processi di cambiamento (ovvero sugli elementi strutturali che sono pro-tempore invarianti di un fenomeno e della loro evoluzione nel corso del tempo) piuttosto che sulla configurazione assunta da un fenomeno in un certo istante (Senge, 1990, pagg. 451-459). Sebbene informazioni e rappresentazioni sono elementi salienti del processo decisionale, esse assumono una particolare importanza nella fase di analisi stante che dalla bontà di queste valutazioni dipenderanno la qualità dei piani di azione e dei meccanismi di controllo ex post. In aggiunta, introducendo la distinzione proposta da Simon (1968) tra decisioni programmate (decisioni che si ripetono nel tempo e sono supportate da procedure e processi che l’organizzazione ha sviluppato) e non programmate (decisioni sovente di natura strategica con accadimento occasionale e che richiedono l’utilizzo di procedimenti specifici di soluzione), va da sé che quanto più la decisione assume un carattere non programmato, tanto più im-
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portanti sono la disponibilità di informazioni tempestive e di rappresentazione accurate a supporto della decisione. A questo fine, l’organizzazione delle informazioni e talvolta delle rappresentazioni nelle imprese sono incorporate nell’ambito della funzione dei sistemi informativi. In aggiunta, l’ampliarsi delle informazioni disponibili, tenuto conto delle rappresentazioni utilizzate, accresce l’accuratezza della decisione. Tuttavia, la maggiore meticolosità ricercata in una decisione potrebbe confliggere con la necessità di assumere la decisione stessa con rapidità. Nell’ambito di questo conflitto assume pregnante significato il concetto di intuizione che esprime l’abilità, parzialmente inconscia, di un decisore di sintetizzare efficacemente e velocemente le informazioni in vista di assumere decisioni in tempi rapidi (Dane e Pratt, 2007), attraverso anche la formulazione di associazioni olistiche tra più fenomeni (Barile, 2009).
2.3.2
I driver decisionali
Oltre alle informazioni e alle rappresentazioni il decisore è chiamato a considerare altri aspetti che qualificano il contesto nel quale la scelta si inserisce. Si parla in questo senso di driver decisionali che riguardano la visione, la missione, la finalità e gli obiettivi generali e specifici dell’impresa (vedi Figura 2.2 per un raccordo tra i concetti appena richiamati). La visione indica una prospettiva futura rispetto a ciò che l’impresa intende diventare. Si tratta, quindi, di un driver decisionale pervasivo rispetto alla vita dell’impresa, considerata nel suo complesso, così come nelle sue aree specifiche. La visione, da un lato, produce effetti (diretti o indiretti) su tutte le decisioni di impresa, dall’altro, ne qualifica il comportamento in un certo contesto competitivo. Per esempio, negli anni ’80 Bill Gates stabilì come visione della Microsoft Corporation la massima diffusione nell’uso dei computer, grazie a un software fruibile anche da persone prive di conoscenze informatiche. Tale prospettiva ha prodotto nel tempo decisioni completamente diverse da quelle adottate da imprese operanti nello stesso settore, ma aventi una diversa visione, come quella di risolvere calcoli complessi attraverso software utilizzabili solo in determinati ambienti scientifici. In generale, quindi, la visione indica una sorta d’intenzione generale da cui discendono decisioni e attività dell’impresa nel lungo periodo (Hamel e Prahalad, 1989).
Decisioni strategiche Informazioni e rappresentazioni
Decisioni tattiche
Decisioni operative
Figura 2.2 Natura delle decisioni, obiettivi e fine dell’impresa
Perseguimento di obiettivi intermedi e parziali legati all’impresa e alle sue componenti
Sopravvivenza dell’impresa
Visione, missione, obiettivi generali e legati alla capacità economico-finanziaria
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La missione può essere qualificata utilizzando il linguaggio tipico del campo militare nel quale il concetto richiama che cosa si vuole ottenere mediante la guerra e nella guerra. La missione collega, dunque, il voler essere dell’impresa in un certo ambito competitivo e, più precisamente, la combinazione di prodotti/mercati in cui essere presenti unitamente al ruolo che l’impresa decide di assumere in ciascuna di queste combinazioni (Panati e Golinelli, 1991). Per esempio, si consideri il caso di un’organizzazione operante nel trasporto ferroviario, avente come missione l’essere leader di mercato nel far risparmiare tempo ai propri clienti. Così qualificata la missione spiega il ruolo che l’impresa intende svolgere nel mercato. Per completezza, il modo di voler perseguire la missione qualifica la cosiddetta vocazione (Panati e Golinelli, 1991). Si pensi, per esempio, a imprese che abbracciano una vocazione all’eccellenza oppure una vocazione all’innovazione o alla soddisfazione del cliente. Visione e missione si qualificano, quindi, come driver rispetto ai quali si collegano altre decisioni. Cambiamenti in merito a come l’impresa guarda al proprio presente e futuro impattano, in modo radicale, su altre decisioni che essa stessa assumerà nel tempo. Inoltre, tra visione e missione sussiste un’evidente relazione. La missione può essere considerata, infatti, come conseguenza della visione, nel momento in cui l’attuale ruolo che l’impresa decide di auto-assegnarsi scaturisce da una precedente visione del futuro e, al contempo, da ciò che attualmente l’impresa ambisce a diventare. La finalità dell’impresa promana sovente dagli organi di vertice che governano l’impresa stessa (Sciarelli, 1988, pag. 50) ed esprime i traguardi che si intendono perseguire nel lungo andare utilizzando i fattori della produzione disponibili o prontamente acquisibili (Pellicelli, 1980). La finalità identifica, dunque, un orientamento generale che si pone a monte del processo decisionale. Gli obiettivi generali, invece, definiscono traguardi funzionali rispetto al fine dell’impresa. La tipica finalità di impresa può essere ricondotta alla cosiddetta continuità aziendale, ossia alla capacità dell’impresa stessa di sopravvivere nel tempo. Si è in proposito osservato che «se proprio si vuole formulare una ipotesi circa l’obiettivo fondamentale delle imprese, di ogni tipo di impresa, lo si può identificare nella sopravvivenza» (Moss, 1981, p. 29). Nella stessa prospettiva, Bertini (1990) rileva che «il fine dell’azienda, in quanto istituzione al servizio del soggetto economico per il perseguimento delle finalità personali di esso soggetto, non può essere che l’equilibrio del sistema medesimo in tutti i suoi molteplici aspetti, ma ricondotto al comune denominatore economico». Similmente, Zappa (1956) sottolinea che «l’azienda vive di vita ininterrotta, ricreandosi necessariamente nei suoi elementi costitutivi, sempre trascendendo gli interessi attuali degli individui o dei gruppi che concorrono al suo svolgimento» ed è un «istituto economico destinato a perdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina e svolge in continua coordinazione la produzione o il procacciamento e il consumo della ricchezza» (pagg. 19 e 37). Si noti, peraltro, come l’Autore sottolinea il profilo della proiezione nel tempo, superando inquadramenti precedenti, rilevando che l’azienda è una «coordinazione economica in atto istituita e retta per il soddisfacimento di bisogni umani» (Zappa, 1927, pag. 54). Nella stessa prospettiva si colloca Golinelli (2012) che concepisce l’impresa come sistema vitale e, dunque, entità tesa alla sopravvivenza. Sebbene aspetti quali la redditività, lo sviluppo dimensionale, nonché l’equilibrio finanziario ovvero l’autonomia/indipendenza finanziaria siano stati nel tempo indicati come possibili finalità dell’impresa questi, a ben vedere, possono meglio qualificarsi come obiettivi generali il cui conseguimento è strumentale rispetto al perseguimento di condizioni di sopravvivenza. Si tratta, in altre parole, di obiettivi prevalentemente economico-finanziari che vincolano l’attività di impresa al rispetto di determinati parametri di breve, medio e lungo termine. La capacità, per esempio,
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di raggiungere condizioni d’equilibrio economico (ovvero la capacità tendenziale dei ricavi di uguagliare, o meglio di superare, i costi totali), rappresenta un obiettivo generale che assume un ruolo strumentale rispetto alla sopravvivenza dell’impresa. Si vuole, inoltre, sottolineare che rispetto all’equilibrio economico, l’equilibrio finanziario (ovvero la capacità puntuale, istante per istante, delle fonti finanziarie di uguagliare i fabbisogni finanziari) ha una natura strumentale nel senso che «un’eccessiva dipendenza finanziaria può tradursi in una grave minaccia alla sopravvivenza stessa dell’impresa: come la redditività è nel lungo andare una condizione necessaria all’esistenza stessa dell’impresa, ma rispetto alla redditività non può dirsi anche un’aspirazione intrinseca del finalismo imprenditoriale» (Panati e Golinelli, 1991, p. 807).
Equilibrio economico ed equilibrio finanziario L’equilibrio economico
L’equilibrio economico, ovvero l’autosufficienza economica, è una delle condizioni che un’impresa, se vuole essere vitale, deve soddisfare. Tale vincolo consiste nell’attitudine della gestione aziendale a generare un flusso di ricavi che, a condizioni di mercato, risulti idoneo a coprire i costi dei fattori della produzione in posizione contrattuale e a remunerare congruamente quelli in posizione residuale. In formula, si ottiene la seguente uguaglianza. Ricavi = Remunerazione dei fattori in posizione contrattuale + Congrua remunerazione dei fattori in posizione residuale Nell’uguaglianza appena introdotta i ricavi derivano dalla somma algebrica del fatturato, della variazione delle rimanenze di prodotti finiti, dei lavori interi e degli altri ricavi. A sua volta, il fatturato risulta dal prodotto tra le quantità vendute e il prezzo unitario (Panati e Golinelli, 1991, pag. 494 e segg.). Come osserva l’Onida (1971), l’autosufficienza economica non significa autosufficienza finanziaria, ossia non si richiede all’impresa di essere finanziata in ogni momento e interamente dal fluire delle entrate per ricavi d’esercizio, in maniera tale da non avere bisogno di finanziamenti da parte di altre economie, o di non averne bisogno al di là del capitale proprio. È noto, infatti, che le imprese necessitano di una variabile quantità di capitale con vincoli di conferimento (capitale proprio) o con vincoli di credito per saldare le eccedenze dei flussi di uscite monetarie per costi sui flussi per entrate monetarie per ricavi, dato il vario e mutevole avvicendarsi di questi flussi nel tempo. È importante, dunque, non confondere i due concetti. La definizione di equilibrio economico necessita però di alcune precisazioni, la prima delle quali è di carattere temporale. Occorre dare una qualificazione riguardante il tempo a cui riferire l’equilibrio. Come osserva l’Onida (1971), «l’autosufficienza economica dell’impresa può essere considerata con riferimento a diversi periodi di tempo, nel breve, nel medio e nel lungo andare» (pag. 59). Poiché si ricercano delle condizioni affinché l’azienda possa durevolmente operare, tale equilibrio deve essere di lungo periodo. Può anche succedere però che un’impresa presenti solo un equilibrio di breve, mentre non altrettanto avviene per il lungo periodo, ossia è possibile che, per il verificarsi di congiunture particolarmente favorevoli, ma non du-
Approfondimento 2.1
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rature, un’impresa sia profittevole per un breve periodo, ma non presenti prospettive di autosufficienza per il futuro. Viceversa, l’equilibrio economico può mancare nel breve termine, ma presentarsi in un periodo di tempo più lungo. In virtù dell’alternanza di esercizi ora favorevoli, ora avversi, un’impresa può presentarsi autosufficiente nel medio o nel lungo andare, nonostante i momenti di squilibrio economico del breve. La seconda osservazione riguarda l’adeguatezza della copertura dei costi. Per poter asserire che un’impresa ha raggiunto l’equilibrio economico, non è sufficiente che la stessa abbia coperto i costi relativi ai fattori lavoro e capitale con un’entità di ricavi a ciò sufficiente. L’equilibro economico, infatti, richiede anche che la copertura di tali fattori sia adeguata (lavoro) e congrua (capitale). Quanto al fattore lavoro si tratta di valutare se le retribuzioni corrisposte al personale di tutti i livelli risultano coerenti con quelle corrisposte nel mercato. Per quanto riguarda il fattore capitale, poiché il principio richiede un’adeguata copertura di tutti i fattori in posizione contrattuale, deve ritenersi compreso in tale categoria anche il capitale di debito. Quanto al capitale di rischio, la sua remunerazione deve essere congrua. La congrua remunerazione è quel compenso che, tenuto conto del rischio e del lavoro imprenditoriale eventualmente prestato, è in linea con i migliori investimenti alternativi. L’equilibrio finanziario
Per equilibrio finanziario si intende la capacità dell’impresa di reperire capitale di rischio o capitale di credito per coprire continuamente, pienamente e convenientemente il fabbisogno finanziario derivante dall’eccedenza delle uscite rispetto alle entrate di gestione. Questo bisogno di reperimento di risorse finanziarie nasce dal fatto che, nella generalità dei casi, la gestione delle imprese vede precedere il sostenimento dei costi al conseguimento dei ricavi. Questo sfasamento temporale tra costi e ricavi si traduce in un accresciuto fabbisogno finanziario, che determina per l’impresa l’esigenza di reperire risorse finanziarie sufficienti alla copertura di uscite da sostenere in via anticipata rispetto alle entrate. Sarà compito della funzione finanziaria ricercare la copertura di tale fabbisogno provvedendo alla ricerca dei mezzi finanziari più idonei a consentire il normale svolgimento dell’azienda. A lungo andare, se un’impresa è vitale, gli incassi fronteggeranno tutti i pagamenti e lasceranno un’eccedenza pari alla congrua remunerazione attesa. La capacità finanziaria dell’impresa è, quindi, adeguata se consente di soddisfare in ogni istante il fabbisogno finanziario. Una volta quantificato il proprio fabbisogno finanziario, l’impresa può scegliere tra due alternative di copertura: il capitale proprio (all’interno del quale rientra l’autofinanziamento) e il capitale di credito. Si ricorre al capitale proprio qualora l’impresa, per fronteggiare il fabbisogno, richieda versamenti in conto capitale dei propri soci o utilizzi, totalmente o parzialmente, il flusso reddituale prodotto dalla gestione (autofinanziamento). L’autofinanziamento è, infatti, l’insieme delle risorse finanziarie provenienti dalla gestione corrente che residua dopo aver dedotto dal flusso dei ricavi di vendita, i costi che hanno dato luogo a uscite finanziarie.
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Si fa ricorso al capitale di credito quando le coperture sono effettuate da soggetti esterni all’impresa. Sul punto occorre precisare che, mentre è di immediata comprensione la circostanza che il capitale di credito (nella sua qualità di debito) è una fonte esterna di finanziamento rispetto al sistema impresa, non è sempre di altrettanta immediata comprensione (forse per l’appellativo ‘proprio’) che anche parte del capitale proprio è una fonte esterna. Si tenga presente che il sistema di impresa può essere dotato di capitale proprio (cioè di capitale di rischio con remunerazione residuale) tramite due modalità: 1. 2.
con conferimenti da parte dei soci; trattenendo utili conseguiti.
Nel caso sub 1) il finanziamento rispetto al ‘soggetto-impresa’, è da considerarsi fonte esterna. I soci che conferiscono il capitale sono terzi rispetto all’impresa e, pertanto, il capitale da loro apportato è una fonte esterna di finanziamento. Nel caso sub 2) la produzione di ricchezza che va a incrementare il capitale proprio è prodotta dall’economia dell’impresa ed è, quindi, un ‘capitale di origine interna’, è un autofinanziamento prodotto dal sistema aziendale. Ogni impresa deve valutare secondo quali modalità combinare le due forme di copertura tenendo presenti i seguenti vincoli: •
• • • •
l’onere di ciascuna fonte (il riferimento è soprattutto agli oneri finanziari dovuti per il ricorso al capitale di credito che, se troppo elevati, potrebbero compromettere la situazione patrimoniale-finanziaria dell’impresa); la natura del fabbisogno (il ricorso al capitale proprio, per esempio, è opportuno e/o possibile solo in presenza di fabbisogni durevoli); le possibilità di accesso dell’impresa al mercato finanziario a condizioni economiche soddisfacenti; il rischio di ingerenza del finanziatore nelle scelte di governo dell’impresa; la concreta possibilità e disponibilità dei portatori di capitale di rischio a conferire nuovo capitale.
La modalità di copertura del fabbisogno finanziario è comunque la risposta a una esigenza unitaria della gestione, nel senso che essa deve essere presa alla luce dell’unitaria vita gestionale dell’impresa e non in funzione dei singoli investimenti da realizzare. In altre parole, il fabbisogno finanziario non può e non deve essere collegato a un preciso investimento da attuarsi, per cui l’impresa dovrebbe vincolare a sé capitale proprio e/o capitale di credito a lunga scadenza per fronteggiare investimenti in capitali fissi, mentre dovrebbe ricorrere al credito di breve periodo per fronteggiare i costi relativi all’acquisizione di capitale circolante. L’errore fondamentale in questo modo di interpretare la realtà aziendale sta nel confondere fabbisogno durevole con capitale fisso e fabbisogno temporaneo con capitale circolante, o meglio nel ritenere che la parte durevole del complessivo fabbisogno finanziario sia determinata dagli investimenti a lento rigiro (capitale fisso) e la parte temporanea sia determinata dagli investimenti a più rapido rigiro (capitale circolante).
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La realtà aziendale è data da una gestione unitaria nello spazio e nel tempo per cui il fabbisogno finanziario non può essere oggettivamente ascritto a questo o a quel preciso investimento, piuttosto a un’unitaria esigenza di capitali. Le scelte finanziarie dell’amministrazione, in un secondo momento, dovranno essere opportunamente programmate avendo cura di distinguere il fabbisogno durevole da quello temporaneo e coprire il primo con capitale proprio o di credito a lunga scadenza e il secondo con capitale di credito di breve periodo.
Si richiama, infine, che una parte degli studi sottolinea la necessità di includere gli obiettivi sociali e, più in generale, di sostenibilità tra le finalità-obiettivi generali dell’impresa (Sciarelli, 1988). A ben vedere, piuttosto che parlare di finalità od obiettivi generali, la sostenibilità può qualificarsi come un insieme di principi e di pratiche operative che le imprese debbono considerare nell’ambito delle proprie decisioni (Golinelli e Volpe, 2012). Si può inoltre osservare che mentre la missione e la visione hanno carattere volontaristico, nel senso che guidano le decisioni di impresa in ragione di ciò che la stessa intende essere e diventare, il fine della sopravvivenza e gli obiettivi generali e specifici a essa connessi delimitano l’insieme delle alternative tra cui selezionare le soluzioni migliori. In altri termini, una giusta visione rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente al successo imprenditoriale. Detto successo richiede scelte che rendano la visione sostenibile sul piano economico, finanziario, organizzativo ecc. Al riguardo si pensi al caso di Henry Ford che nella prima metà del secolo scorso riuscì a realizzare la visione di trasformare l’automobile da bene di lusso a prodotto di largo consumo, grazie a un modello organizzativo (noto come ‘fordismo’) in grado di ridurre drasticamente i costi medi di produzione e, quindi, i prezzi del prodotto finale. Si tratta di un caso paradigmatico, ove il successo imprenditoriale si lega a decisioni capaci di combinare una visione illuminata del futuro con la sopravvivenza dell’impresa e l’obiettivo di sviluppo economico-industriale della stessa. Il perseguimento di obiettivi generali passa, poi, attraverso il raggiungimento di obiettivi specifici, parziali e intermedi, riguardanti diverse combinazioni produttive che impattano, direttamente o indirettamente, sulle dinamiche economiche e finanziarie dell’impresa (Argenziano, 1967). Gli obiettivi parziali e intermedi sono, quindi, qualificati rispetto a un traguardo da raggiungere, un indicatore che misuri il suo grado di raggiungimento, un traguardo ovvero una soglia minima superata la quale si ritiene che l’obiettivo sia stato raggiunto e, infine, un tempo nel quale il traguardo deve essere raggiunto (Hofer e Schendel, 1988, pag. 43 e segg.). Rispetto agli obiettivi generali, quelli specifici debbono essere misurabili, quantificabili, riferiti a un orizzonte temporale e fattibili (Panati e Golinelli, 1991). Rispetto all’obiettivo generale dello sviluppo dimensionale, un obiettivo intermedio può essere rinvenuto, per esempio, nell’ammontare delle unità vendute che deve essere pari a 1,000 nel primo anno, 1,200 nel secondo anno e 1,400 nel terzo anno. Considerando, invece, la redditività, un obiettivo intermedio può riguardare la redditività del capitale investito (cosiddetto ROI) che deve essere pari a 10% nel primo anno, a 12% nel secondo anno e a 14% nel terzo anno. Rispetto agli obiettivi intermedi appena indicati si possono ipotizzare obiettivi parziali riferiti alle varie unità organizzative in cui l’attività di impresa è articolata. Rispetto all’obiettivo intermedio riferito all’ammontare delle unità vendute è possibile specificare, per esempio, obiettivi a livello sia della funzione di produzione, in termini di grado di utilizzo della capacità produttiva e numero di scarti, sia della
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funzione commerciale, in termini di soddisfazione dei clienti e la loro fedeltà. Per quanto concerne, invece, l’obiettivo intermedio della redditività del capitale investito, questo può dar vita a obiettivi parziali nell’ambito della funzione ricerca e sviluppo in termini di numero di nuovi prodotti, di fatturato ottenuto da essi e del loro tasso di innovatività. In sintesi, si può affermare che nell’impresa le decisioni, strategiche, tattiche e operative, debbono essere alimentate da informazioni e rappresentazioni e nel loro svolgersi debbono tenere in adeguata considerazione, ovvero essere coerenti, con i driver generali rappresentati da visione, missione, finalità dell’impresa e obiettivi generali e specifici. A margine, il riferimento ai driver decisionali si collega a modelli di comportamento nei quali i decisori ricercano soluzioni soddisfacenti ai propri problemi (per esempio, il raggiungimento di un determinato livello di fatturato o di profitto), allentando così la tensione verso la massimizzazione del profitto e, più in generale, verso la ricerca di soluzioni ottime nel quadro delle scelte di impresa (Simon, 1979).
Decisioni e cicli della pianificazione, della programmazione e del controllo Nell’impresa il decisore oltre a basarsi su informazioni e rappresentazioni, tenendo presenti i driver che sono a base delle decisioni, può anche avvalersi di un modello sulla base del quale si esplicano i passaggi ovvero il percorso attraverso cui una o più scelte sono assunte. Questo percorso sovente nell’impresa consta di un ciclo della previsione e della pianificazione, di un ciclo della programmazione e di un ciclo del controllo. Attraverso il ciclo della previsione si ipotizza, sulla base delle informazioni e delle rappresentazioni disponibili, tenuto conto dei fatti e degli andamenti storici e correnti, il probabile futuro evolversi delle tendenze irreversibili di fondo inerenti i contesti interno ed esterno dell’impresa (le cosiddette previsioni ambientali). A ciò si accompagnano previsioni finanziarie, riguardanti l’atteggiarsi prospettico dei movimenti del denaro e dei crediti e dei debiti, previsioni economiche, concernenti i costi o spese e i ricavi o proventi, e previsioni patrimoniali, attinenti la struttura del patrimonio aziendale nelle sue componenti finanziarie ed economiche colte a un tempo (Cassandro, 1965, pag. 16 e segg.). Sulla base delle previsioni si innesta il ciclo della pianificazione nel quale si definisce il quadro generale delle azioni di sviluppo, il piano degli investimenti e dei finanziamenti nonché le azioni di modifica del quadro organizzativo direzionale. Il quadro generale delle azioni di sviluppo individua gli obiettivi generali (riferiti all’impresa nel suo complesso) e specifici (riferiti ad ambiti più ristretti ai quali afferiscono nuclei di combinazioni produttive che il decisore ritiene rilevanti ai fini del conseguimento degli obiettivi generali) che l’impresa intende raggiungere nel corso del tempo nonché i principi e le regole che dovranno informare il comportamento dei manager nel perseguimento di tali obiettivi. Con il piano degli investimenti e dei finanziamenti, si definiscono gli interventi che dovranno essere posti in essere nel prossimo e lontano futuro al fine di modificare le combinazioni produttive correnti dell’impresa insieme con la determinazione delle fonti finanziarie necessarie per soddisfare i fabbisogni scaturenti dai richiesti interventi.
Approfondimento 2.2
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Con le azioni di modifica del quadro organizzativo direzionale si vengono a definire le variazioni nel contesto interno (per esempio, il mutamento del numero e delle attribuzioni degli organi di vertice e le loro relazioni), creando, per tale via, le condizioni necessarie per assecondare le predisposte azioni di sviluppo (Fazzi, 1966, pag. 384 e segg.). La pianificazione trova riflesso nel piano che esprime in termini di grandezze fisiche, economiche e di tempo sia gli interventi che dovranno essere attuati in un periodo prestabilito, sia i risultati attesi e, quindi, conseguibili dagli interventi inclusi nella pianificazione. Attraverso il ciclo della programmazione si specificano, tenuto conto degli obiettivi realizzabili, delle ipotesi e vincoli fissati nell’ambito della pianificazione, e con riferimento ad archi temporali più brevi, le specifiche linee di intervento e le operazioni che dovranno essere avviate e svolte nel periodo considerato. La programmazione trova riflesso nel piano di gestione che, sebbene di durata pluriennale, si articola in stadi coincidenti, ciascuno, con singoli esercizi amministrativi di durata annuale. Il piano di gestione si compone di piani parziali o particolari, aventi a oggetto, in relazione alle caratteristiche dell’impresa, ambiti più o meno vasti in senso funzionale (per esempio, produzione, approvvigionamenti, marketing, finanza) e/o mercatistico (per esempio, divisione Europa, divisione Stati Uniti). Sono esempi di piani parziali il programma delle vendite, il programma della produzione, il programma degli acquisti di materie, il programma dei fabbisogni di personale, il preventivo finanziario di cassa e di competenza, il preventivo generale della situazione patrimoniale. In termini di contenuto, i piani parziali qualificano i ritmi di attività e, quindi, i rendimenti degli input, della forza lavoro e degli impianti nonché i volumi dei fattori da acquistare, le quantità di prodotti da produrre, quelle da vendere o da mantenere in giacenza, i prezzi-costo e i prezzi-ricavo e le associate entrate e uscite monetarie. Sulla base delle richiamate quantità fisiche ed economiche, i piani parziali comprendono anche le operazioni, gli obiettivi e i risultati attesi che ciascun ambito di riferimento dell’impresa deve realizzare in un dato arco temporale (Capaldo, 1964; Argenziano, 1967). Per esempio, il programma delle vendite contiene, rispetto ai periodi considerati, indicazioni circa le unità da collocare, i prezzi unitari e i ricavi attesi. Il programma degli acquisti di materie riporta, per ciascuna linea di produzione, le disponibilità di magazzino, le quantità delle diverse specie di materie prime da acquistare, il relativo prezzo-costo unitario e il costo totale di acquisto (Cassandro, 1965, pag. 105 e segg.). Attraverso il ciclo del controllo l’impresa verifica periodicamente il livello di raggiungimento degli obiettivi generali e specifici stabiliti in sede di pianificazione e poi dettagliati nell’ambito della programmazione. Questo ciclo si fonda su due momenti di base. Il primo consiste nella misurazione dei risultati conseguiti a livello sia dell’impresa nel suo complesso sia delle sue subarticolazioni. Il secondo collega i risultati conseguiti con i traguardi generali e specifici al fine di evidenziare i possibili scostamenti e le cause che hanno concorso alla loro manifestazione (Panati e Golinelli, 1991, pagg. 96-98). La conoscenza degli scostamenti, con l’evidenziazione delle possibili cause, rappresentano informazioni essenziali che, unitamente alle previsioni sui mutamenti del contesto, consentono di predisporre vuoi interventi correttivi rivolti a contrastare il manifestarsi dei richiamati scostamenti nei prossimi
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esercizi vuoi interventi di più ampio respiro tesi a rivedere l’intero quadro di sviluppo dell’impresa. Questa seconda alternativa si palesa necessaria quando le tendenze irreversibili presenti nei contesti interno ed esterno si palesano incompatibili con quelle previste nel vigente quadro di sviluppo definito in sede di pianificazione.
2.4
I criteri di scelta nelle decisioni di impresa: efficienza, efficacia e redditività
Tema centrale nell’ambito degli studi sulle decisioni di impresa è rappresentato dai criteri a base del processo decisionale utilizzabili al fine di selezionare, date le informazioni e le rappresentazioni disponibili, le migliori soluzioni rispetto ai driver rappresentati da visione, missione, finalità e obiettivi (generali e specifici) dell’impresa. Nel definire i criteri a base del processo decisionale si considera che il decisore sia alla ricerca di una sostanziale coerenza rispetto agli obiettivi perseguiti e di una consequenzialità rispetto alle aspettative sulle implicazioni associate a una scelta. La consequenzialità implica che il decisore, nel valutare due alternative, tenderà a preferire quella che offre la migliore conseguenza attesa (March, 1998). Tra i criteri di base che rappresentano la ricerca di coerenza e complementarietà del decisore, si distinguono quelli di efficacia, efficienza e redditività (vedi Figura 2.3). Prima di entrare nel dettaglio dei criteri appena indicati si riportano alcune considerazioni preliminari. In primo luogo i criteri indicati non coincidono con le finalità e con gli obiettivi generali e specifici dell’impresa. La finalità, così come gli obiettivi, individuano il traguardo mentre il criterio definisce il modo in cui un soggetto valuta le alternative al fine di raggiungere il traguardo stesso. In sostanza, dunque, il criterio definisce in che misura (efficacia), con quali modalità (efficienza) e con quali benefici (redditività) il traguardo è stato raggiunto. In secondo luogo, le decisioni dell’impresa non sempre sono informate da criteri di cosiddetta ‘razionalità economica’. Le decisioni possono essere il portato di pres-
Contesto esterno
EFFICACIA
REDDITIVITÀ
Economicità
Produttività Contesto interno
Figura 2.3 Efficienza, efficacia e redditività. Fonte: Panati e Golinelli (1991)
EFFICIENZA
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sioni politiche o sociali e di motivazioni individuali di varia natura, ovvero guidate sovente da emozioni, immaginazioni e ricordi del passato, apparendo così, talvolta, economicamente irrazionali, sebbene, nella loro essenza, informate da logiche di natura extra-economica (Langley, Mintzberg et al., 1995). In terzo luogo, si segnala, infine, che i criteri richiamati sono influenzati anche dalle preferenze del decisore che scaturiscono da una sua funzione di utilità e sulla base della quale le varie alternative sono oggetto di valutazione. Funzione di utilità che risente delle specificità del soggetto con le sue aspirazioni, bisogni, motivazioni e aspettative, frutto anche della sua esperienza e del suo trascorso storico. L’utilizzo di criteri nei processi decisionali deve, dunque, considerare la soggettività del decisore e l’importanza che lo stesso, come individuo, riveste in questo processo di scelta (Andrews, 1971). Con le premesse di cui sopra, nei paragrafi che seguono vengono analizzati i criteri di efficacia, efficienza e redditività. In questo ambito si nota che l’efficacia e la redditività sono collegate con la capacità dell’impresa di armonizzare le proprie combinazioni produttive con le dinamiche evolutive del contesto esterno, mentre l’efficienza, nelle sue dimensioni di produttività e di economicità, riflette più specificatamente le condizioni di operatività del contesto interno dell’impresa (vedi ancora Figura 2.3).
2.4.1
L’efficacia
Il termine efficacia, nel linguaggio corrente, qualifica un’attitudine, ovvero una capacità di produrre l’effetto desiderato. Nelle discipline manageriali l’efficacia è stata variamente definita, collegandola al raggiungimento di uno scopo comune dell’organizzazione (Barnard, 1938), ovvero al grado di rispondenza degli output effettivi agli output desiderati (Hofer e Schendel, 1988). Il criterio dell’efficacia riguarda, quindi, la capacità di un’alternativa decisionale di perseguire risultati predefiniti. Questo criterio si può, dunque, esprimere come un rapporto tra i risultati ottenuti e quelli programmati. In questo senso, più vicini sono i risultati ottenuti rispetto a quelli programmati, tanto maggiore sarà l’efficacia. In generale, la ricerca dell’efficacia nelle decisioni di impresa passa soprattutto attraverso scelte che siano coerenti con l’ambiente esterno e in grado di tramutare le opportunità ambientali in risultati di impresa. Specie in un sistema concorrenziale, infatti, l’impresa è efficace quanto più soddisfa i propri clienti e gli altri soggetti con cui intrattiene rapporti di vario tipo. Per esempio, la capacità di cogliere, in anticipo rispetto ai concorrenti, un bisogno emergente dal mercato di riferimento determina, a parità di altre condizioni, una crescita di profittabilità indotta da maggiore efficacia in termini di soddisfazione dei clienti. In generale, quindi, i giudizi di efficacia sono fortemente condizionati da come soggetti esterni all’impresa guardano alle strategie e ai comportamenti adottati dalla stessa. Del resto, l’impresa emerge come strumento funzionale al soddisfacimento di bisogni (Ferrero, 1980). Può così accadere che un miglioramento di natura tecnica apportato a un certo prodotto non si traduca in maggiore efficacia sul piano economico, nel momento cui tale miglioramento non venga percepito all’esterno o, in ogni caso, sia considerato dai consumatori come irrilevante. Dunque, orientare le decisioni a traguardi di efficacia significa, in primo luogo, comprendere le mutevoli aspettative di una vasta gamma di soggetti e, in secondo luogo, adeguare a dette aspettative le strategie e l’operatività dell’impresa. Dalle considerazioni svolte discendono due ulteriori aspetti che necessitano di essere segnalati. In primo luogo, l’efficacia si collega immediatamente con le
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scelte strategiche dell’impresa che, come già osservato, contribuiscono all’armonizzazione del contesto interno con quello esterno dell’organizzazione imprenditoriale. In secondo luogo, l’efficacia è collegata alle singole decisioni e azioni poste in essere nell’impresa (Vermiglio, 1980). In altre parole, il richiamato mantenimento di un’armonia tra i contesti interno ed esterno dell’impresa è conseguenza di singole decisioni e azioni. In terzo luogo, il decisore dovrà considerare le decisioni in una ottica unitaria, valorizzando i rapporti di complementarietà, limitando, ove possibile, gli effetti negativi connessi alla presenza di rapporti di sostituibilità tra le decisioni stesse.
2.4.2
L’efficienza
L’efficienza misura la capacità dell’impresa di minimizzare le risorse necessarie al conseguimento di un risultato. Per esempio, l’aumento delle quantità prodotte a parità di input produttivi si traduce in un miglioramento della efficienza. Più in generale, un’impresa raggiunge condizioni di massima efficienza quando riesce a sfruttare pienamente il potenziale produttivo ed economico dei mezzi (reali e finanziari, tangibili e intangibili) di cui dispone. Il criterio dell’efficienza può, quindi, essere generalizzato come rapporto tra risultati ottenuti e mezzi impiegati. L’assunzione di decisioni coerenti con l’accrescimento del suddetto rapporto produce benefici in termini di riduzione dei costi di produzione, con la conseguente possibilità di praticare prezzi di vendita dei prodotti finali maggiormente competitivi. Qualificato il concetto di efficienza, questa ultima come criterio decisionale può essere riferita al sistema economico nel suo insieme o alle sue componenti, quali, per esempio, l’impresa. Quando riferita al sistema economico, questo criterio si specifica in una efficienza di tipo allocativo e una di tipo adattivo. L’efficienza allocativa si ha quando tutti i beni economici sono allocati ai migliori usi noti in un certo istante temporale. In questa accezione l’efficienza esprime un concetto collegato alla produzione di beni e servizi senza sprechi (Alchian e Allen, 1977). L’efficienza adattiva esprime una qualità del sistema di sopravvivere in presenza di cambiamenti radicali e/o incrementali, cambiamenti che divengono parte integrante della dinamica evolutiva di successo del sistema (North, 1994). In sostanza i due concetti qui richiamati implicano, il primo, una capacità del sistema al miglior uso delle risorse in una situazione data e, il secondo, qualifica un’attitudine del sistema a evolvere nel corso del tempo. Quando l’efficienza è riferita all’impresa, essa può riguardare sia specifici fattori della produzione (cosiddette misure analitiche) o combinazioni degli stessi (cosiddette misure sintetiche). Da un lato, si considera l’efficienza di specifici fattori della produzione come, per esempio, l’efficienza del lavoro o l’efficienza delle macchine. In questa configurazione, l’efficienza è sovente espressa come livello di output prodotto per unità di fattore impiegato. Quando l’efficienza è riferita a combinazioni di fattori, questa è espressa tramite un rapporto tra un risultato da conseguire (per esempio, il totale della quantità prodotta) e un complesso di fattori impiegati a tal fine (per esempio, il totale delle ore uomo e delle ore macchina). Tra gli indici sintetici di efficienza si richiama la produttività globale dei fattori che viene riferita a un incremento dell’output prodotto in un dato periodo che non è spiegabile da un parallelo accrescimento del volume totale degli input utilizzati nel processo produttivo (Prescott, 1998). Si consideri inoltre la cosiddetta efficienza integrale del lavoro o efficienza totale del lavoro che consiste nel rapportare il totale dell’output prodotto in un certo periodo
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Capitolo 2
con il totale del lavoro impiegato. Quest’ultimo è calcolato con riferimento al lavoro diretto inerente alle persone e il lavoro indiretto incorporato negli altri fattori della produzione (Panati e Golinelli, 1991). Sempre riferendoci alla efficienza applicata all’impresa, è possibile qualificare una efficienza cosiddetta storica allorquando output e input sono espressi attraverso dati consuntivi ovvero mediante dati effettivamente conseguiti. A questa nozione si affianca quella di efficienza teorica dove i rapporti tra output e input sono espressi rispetto a condizioni ipotetiche di migliore utilizzo dei fattori della produzione. Questa ultima nozione qualifica un livello tendenziale di efficienza al quale il decisore dovrebbe far convergere la sua impresa attraverso le proprie scelte. Si nota che il concetto di efficienza teorica si lega al concetto di costo standard dei fattori della produzione il quale indica «il costo determinato dalla acquisizione, combinazione e utilizzazione di fattori produttivi, in condizioni di organizzazione interna dell’impresa che possano supporsi raggiungibili per le più elevate efficienze concrete, il tutto in relazione a una produzione di impresa che trovi possibilità di collocamento nel mercato e che risponda pertanto alle condizioni di domanda» (Amaduzzi, 1966, pag. 25). In merito al legame tra efficienza e costi standard si consideri l’esempio di una impresa industriale che abbia redatto un piano triennale delle vendite nel quale sono riportate, su base annuale, le quantità vendibili e i prezzi di vendita dei beni ai consumatori finali. Considerando l’organizzazione dei fattori della produzione si esprimono, rispetto ai preventivi di prezzo-costo e di prezzo-ricavo, dopo aver determinato i rapporti tra quantità prodotte e fattori della produzione impiegati conseguenti ai livelli di efficienza teorici, i costi standard connessi alla produzione delle quantità indicate per ciascuno degli anni facenti parte del piano. Si esprime, invece, l’efficienza marginale o differenziale per indicare come varia l’efficienza al mutare delle combinazioni dei fattori della produzione. Si noti che l’efficienza differenziale può essere collegata a movimenti e variazioni che sono conseguenza delle scelte dell’impresa e/o delle condizioni di contesto. Si consideri, per esempio, una riorganizzazione del layout produttivo oppure una rinegoziazione di un accordo sindacale, con modifiche nei turni di lavoro e nelle pause. Prima di procedere oltre occorre rilevare che il criterio di efficienza spinge il decisore a preferire quelle alternative che a parità di risorse impiegate accrescono gli output prodotti ovvero a parità di output prodotti si riducono le risorse impiegate. In proposito, soprattutto in imprese caratterizzate da eterogenee combinazioni produttive, il criterio di efficienza «mentre fornisce un denominatore comune per il confronto tra le alternative, non fornisce un numeratore comune» (Panati e Golinelli, 1991, pag. 104). In altre parole, è difficile, ancorché empiricamente possibile, confrontare l’efficienza di una fornace con l’efficienza di una rete di vendita oppure confrontare l’efficienza di una linea produttiva dedicata alla produzione di turbine per aerei con l’efficienza di una linea produttiva per la produzione di motori per autovetture. Sebbene gli input siano sempre costituti da lavoro, materiali e impianti, l’output presenta sostanziali differenze tra le due linee considerate nell’esempio appena proposto. Si sottolinea ancora che l’efficienza è un criterio che, sebbene qui riferito all’impresa, può essere applicato anche ad altre organizzazioni. Si osserva, però, che, mentre nell’impresa l’efficienza rappresenta una esigenza internamente determinata, considerando le necessità dettate dalla dinamica competitiva, nelle altre organizzazioni, si pensi a un ente pubblico, l’efficienza sovente è stimolata da entità esterne all’organizzazione stessa (Panati, 1974). Nell’ambito della qualificazione di efficienza, stante le molteplici accezioni e configurazioni, ci riferiamo di seguito, in relazione ai modi in cui output e input
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Capitolo 2
sono espressi, all’efficienza tecnica o produttività e all’efficienza economica o economicità. Produttività L’efficienza può avere natura tecnica (in questo caso si denomina come produttività) ed esprime un rapporto tra output e input definiti entrambi in termini di quantità fisiche. La produttività può essere riferita a qualsiasi processo interno all’impresa per il quale siano note le quantità di output e dei fattori necessari alla loro produzione. Tipici esempi di efficienza tecnica sono la produttività degli impianti (quantità di output divisa per le ore macchina), la produttività del lavoro (quantità di output divisa per le ore uomo) e la produttività delle materie prime (quantità di output divisa per le quantità di input impiegate). La produttività può essere riferita anche a combinazioni di fattori produttivi, dando così vita a indici sintetici quali, per esempio, la produttività integrale dei fattori. La produttività fornisce al decisore un criterio di scelta nell’ambito delle combinazioni produttive correnti, indirizzando così le scelte verso quelle combinazioni di fattori che sono foriere di accrescere il rapporto tra output prodotto e mezzi impiegati. In altre parole, sono coerenti con il criterio della produttività tutte quelle scelte che tendono ad accrescere le quantità prodotte, dati gli input impiegati, a ridurre gli input impiegati, dati gli output prodotti, ovvero a diminuire gli input impiegati aumentando al contempo gli output prodotti. Per esempio, la richiamata meccanizzazione associata all’organizzazione della funzione di produzione attraverso la fabbrica industriale viene spesso rappresentata come una via per accrescere la produttività. Questa modalità produttiva tende ad accrescere il volume della produzione, la migliora qualitativamente, riduce i tempi delle lavorazioni e, soprattutto, contiene il tempo connesso al passaggio dall’acquisizione della materia prima all’ottenimento del prodotto finito (cosiddetto ciclo di fabbrica) a parità di fattori produttivi impiegati (Fazzi, 1984, pag. 35). Altri esempi di scelte poste in essere nell’ottica dell’accrescimento della produttività riguardano l’impiego di manager di talento unitamente alla qualità delle pratiche di lavoro seguite, gli investimenti in ricerca e sviluppo con le conseguenti innovazioni di processo e/o di prodotto, la qualità della forza lavoro nonché degli input utilizzati nell’ambito dei processi produttivi, la composizione della struttura organizzativa. Si noti che la produttività dell’impresa può essere accresciuta anche grazie a fattori esterni all’impresa quali le esternalità prodotte da altri operatori (si pensi alle innovazioni tecnologiche nelle fasi a valle e a monte dell’impresa), la regolamentazione, la flessibilità dei mercati per l’approvvigionamento dei fattori della produzione (per approfondimenti si veda Syverson, 2011). Con riferimento a quest’ultima considerazione si può notare come la produttività può essere il portato della mobilità ovvero dello spostamento o riallocazione dei fattori della produzione da una organizzazione a un’altra (si consideri in proposito CollardWexler e De Loecker, 2015). Prima di affrontare il tema dell’economicità, consideriamo alcuni ulteriori aspetti qualificanti riguardanti l’efficienza tecnica. In primo luogo, la produttività, qui intesa come criterio decisionale, assume il ruolo di guida e si distingue, ancorché legata intimamente, dai concetti di coefficienti tecnici di produzione e coefficiente di spesa. I coefficienti tecnici rappresentano la quantità fisica di ciascun fattore che è necessario per produrre una unità di prodotto. Sono esempi di coefficienti tecnici la quantità di grano necessaria per produrre 1Kg di pasta, il numero di ore macchina per la produzione di 1Kg di pane, il numero di ore lavoro necessarie per la produzione di 1 metro di tessuto (per approfondimenti vedi Dringoli, 1995). Questi ultimi, così come i coefficienti di spesa, sono delle misure caratteristiche dei processi di produzione e non già dei criteri decisionali.
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In secondo luogo, la richiamata interdipendenza tra le decisioni nell’impresa potrebbe indurre, per ipotesi, che l’accrescimento della produttività di un fattore contrasti con la produttività di un altro fattore. Si consideri l’aumento del numero di pezzi prodotti, date le ore macchina, accompagnato però da un aumento degli input necessari per produrre gli output, richiesto, per esempio, dal maggior numero di scarti di produzione. In questo caso, se la produttività della macchina aumenta, la produttività delle materie prime si contrae. In altri casi, si potrebbe immaginare un effetto opposto. Per esempio, nell’attività di controllo di qualità si incrementano il numero di prodotti controllati per unità di tempo. Questa migliore produttività nell’attività di controllo consente al decisore informazioni più tempestive, con possibilità di miglioramento dei processi produttivi e conseguente accrescimento della produttività degli input, connessa quest’ultima alla riduzione degli sprechi. In aggiunta, si consideri il caso nel quale la produttività dipenda non già da una singola decisione ma da una combinazione di scelte. In questo caso sorge l’interrogativo se la produttività sia conseguita per effetto delle scelte strategiche assunte dal singolo manager dell’impresa oppure se questa sia il portato della complementarietà tra le scelte strategiche, tattiche e operative. Quest’ultimo aspetto assume rilievo anche nei casi in cui l’impresa voglia costruire un sistema che incentivi gli individui, attraverso premi, a tener presente il criterio della produttività nelle proprie scelte. Economicità L’efficienza economica o economicità è intesa come l’attitudine a ricavare dalle risorse disponibili (considerate sia singolarmente che come sistema di fattori tra loro interrelati) il massimo beneficio economico. In altre parole, il passaggio dalla produttività alla economicità è dettato dal considerare i costi associati ai fattori impiegati nelle combinazioni produttive. In sostanza, dunque, l’economicità si esprime attraverso un rapporto tra output prodotto e costo sostenuto, espresso quest’ultimo a prezzi costanti ovvero eliminando dal rapporto le variazioni dei prezzi sui mercati di fornitura e di consumo (Panati, 1974). Il criterio decisionale dell’economicità spinge il decisore verso un forte razionamento delle risorse, il cui obiettivo è il contenimento dei costi all’interno dell’impresa rispetto a un output da produrre. Prima di procedere oltre ci sia permesso di proporre ancora la produzione di fabbrica quale esempio di scelta informata anche da criteri di economicità. In particolare, si è osservato che nelle imprese a elevata intensità di lavoro, gli incrementi dell’output prodotto sono accompagnati dall’aggiunta di personale, macchine e attrezzature. Nelle imprese che, invece, abbracciano la produzione di fabbrica, la crescita dell’output si lega a una modifica del rapporto di impiego tra lavoro e capitale nelle combinazioni produttive. Sostituendo il lavoro con il capitale, l’impresa organizzata attraverso la fabbrica è in grado di migliorare la capacità produttiva dei macchinari, grazie anche alla standardizzazione e semplificazione dei processi di produzione, consentendo così una crescita delle quantità prodotte a parità di costo di produzione. Ne consegue che il costo unitario medio di produzione tende a contrarsi man mano che la capacità produttiva viene espansa e la connessa quantità prodotta tende ad aumentare (Chandler, 1990, pag. 23 e segg.). Nell’utilizzare questo criterio occorre però attentamente considerare la dimensione temporale. Da una parte, infatti, l’acquisizione di un nuovo fattore della produzione causa un peggioramento dell’economicità fin tanto che lo stesso non sia pienamente sfruttato dall’impresa; dall’altra, i fattori della produzione disponibili determinano effetti (positivi o negativi) sull’economicità prospettica dell’impresa. L’utilizzo di criteri di economicità nei processi decisionali implica anche la definizione dell’arco temporale di applicazione degli stessi. Per esempio, la decisione concernente un nuovo macchinario, orientato a un maggiore sfruttamento della do-
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manda, causa una riduzione di economicità nel periodo intercorrente tra il suo acquisto e il suo pieno utilizzo. L’accrescimento dell’economicità attuale potrebbe talora pregiudicare l’economicità futura. L’esempio tipico in tal senso è rappresentato da un’impresa che, al fine di limitare gli sprechi attuali, rinunci a sfruttare opportunità di sviluppo, potenzialmente in grado di rafforzare nel tempo i livelli di efficienza economica. Le considerazioni formulate rimandano al cosiddetto paradosso amministrativo (Thompson, 1967), in base al quale le scelte di mantenimento, focalizzate sul maggior sfruttamento possibile delle risorse esistenti, potenziano l’efficienza immediata, indebolendo, al contempo, l’efficienza attesa; lo sviluppo di risorse e capacità interne si qualifica, invece, come spreco che assume valore economico in previsione di un suo successivo annullamento (Renzi, 2012). In generale, quindi, il criterio dell’efficienza deve essere considerato in termini relativi, definendo cioè il lasso temporale entro il quale una certa decisione passa dall’essere fattore di spreco a condizione di economicità e tenendo conto della capacità dell’impresa di fronteggiare le fasi di non pieno utilizzo dei fattori produttivi. Il criterio di efficienza economica si collega inoltre con quello di efficienza tecnica. In altre parole, l’economicità collega le dimensioni fisica ed economica, concorrendo a definire se e in che misura un incremento di produttività sia stato perseguito in presenza di costi crescenti o meno. Potrebbe per esempio palesarsi il caso di una decisione di rivisitazione dei turni di lavoro comportante un incremento della produttività, accompagnato però da un aumento del costo del lavoro. In questo caso, la scelta comporta un beneficio in termini di efficienza tecnica sebbene peggiori l’economicità.
2.4.3
La redditività
Alla luce della discussione appena conclusa, il criterio dell’efficienza spinge il decisore a guardare verso l’interno della propria realtà organizzativa mentre quello dell’efficacia richiede una costante attività d’analisi volta a cogliere i cambiamenti esterni, per poi adattare agli stessi le decisioni di natura strategica, tattica e operativa (vedi la precedente Figura 2. 3). Dalla combinazione tra efficienza ed efficacia scaturisce poi la redditività, quale criterio decisionale base di tipo economico. La redditività esprime la capacità dell’impresa di generare reddito in proporzione agli stock di capitale in essa investiti. In altre parole, la redditività implica un rapporto tra un risultato economico e un capitale remunerato da questo flusso. Al riguardo si è osservato che «it is not, therefore, a matter of the amount of profit but the relation of that profit to the real worth of invested capital within the business. Unless that principle is fully recognized in any plan that may be adopted, illogical and unsound results and statistics are unavoidable» (Sloan Jr., 1963, pag. 49). Il risultato economico può essere riferito al risultato di esercizio, al profitto o al surplus. Il risultato di esercizio è un dato contabile e si esprime come differenza tra ricavi e costi desumibili dal conto dei profitti e delle perdite. Il profitto o reddito è un risultato economico che rettifica il risultato di esercizio per l’insieme dei costi opportunità sostenuti dall’impresa (per esempio, il salario del lavoro svolto dall’imprenditore, la remunerazione del capitale conferito dagli azionisti a titolo di rischio, i costi impliciti nei fattori della produzione). Si pensi, per esempio, a una impresa che acquista un impianto di produzione a un costo estremamente contenuto in quanto altamente inquinante. Nel considerare il costo d’acquisto dell’impianto al fine del calcolo del risultato di esercizio l’impresa non
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sta considerando che il valore dell’impianto nel futuro, ovvero nell’ipotesi di rivendita, potrebbe essere assai più contenuto per effetto dei costi potenziali connessi, per esempio, a procedimenti a carico dell’impresa per l’immissione nell’ambiente di un quantitativo di inquinanti superiore al livello consentito. Il surplus o sovrareddito è la differenza tra il livello di profitto conseguito e un livello di profitto considerato normale. Si parla inoltre di tasso di profitto come rapporto tra profitto lordo (profitto prima del risultato della gestione finanziaria e delle rivalutazioni e/o svalutazioni delle poste dell’attivo) e ammontare del capitale investito nell’impresa e margine di profitto come rapporto tra profitto e fatturato. Per quanto concerne, infine, il capitale utilizzato a base del calcolo della redditività si fa sovente riferimento al capitale investito netto (somma totale dell’attivo patrimoniale al netto dei fondi di rettifica) o al capitale proprio (somma del capitale sociale, delle riserve e degli utili/perdite riportate a nuovo).
Approfondimento 2.3
Redditività e sue potenziali componenti La redditività dell’impresa può essere scomposta in varie componenti (per approfondimenti si veda Mancke, 1974). La prima componente riguarda la cosiddetta redditività normale ovvero quella considerata comune o tipica delle imprese che operano in un certo contesto o ambito competitivo. In altre parole, questa fonte di redditività origina da particolari caratteristiche del contesto che tendono a produrre benefici non già per una impresa ma per il complesso delle imprese che in esso vi operano. Si pensi, per esempio, a limiti regolamentari alla concorrenza o all’ingresso di nuovi operatori, al limitato potere di mercato da parte dei fornitori e dei clienti in relazione alla loro ridotta dimensione rispetto alle imprese di produzione. La seconda componente attiene al tempo ed è riferibile alla redditività conseguibile dall’impresa in uno specifico periodo. Questa fonte di redditività origina da condizioni favorevoli che l’impresa è in grado di cogliere in un certo arco temporale. Si pensi, per esempio, alla cessione a carattere straordinario di alcuni fattori della produzione a fecondità ripetuta, all’incremento temporaneo della domanda legato a fattori straordinari ovvero alla protezione legale di una nuova tecnologia. La terza componente comprende la redditività che l’impresa è in grado di generare grazie alle sue capacità e competenze a trasformare gli input produttivi in output ai quali i clienti assegnano un valore percepito superiore rispetto a quello attribuito ai concorrenti ovvero che, dato il valore percepito assegnato dai consumatori ai prodotti offerti dall’impresa, questa è in grado di produrre il bene stesso a un costo medio unitario inferiore rispetto a quello dei concorrenti. Questa fonte di redditività si lega ai fattori della produzione posseduti dall’impresa e alla loro combinazione e ricombinazione attuata dal management dell’impresa. La quarta e ultima componente della redditività si lega alla capacità dell’impresa di appropriarsi di una parte del valore potenzialmente creato in un certo ambito di operatività, in particolare riducendo i costi di acquisto degli input in misura maggiore rispetto ai concorrenti (appropriazione di valore rispetto ai fornitori) oppure accrescere, a parità di valore percepito, il prezzo di vendita praticato ai consumatori in misura più ampia rispetto ai concorrenti (appropriazione di valore rispetto ai clienti).
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La redditività emerge, dunque, come misura relativa della forza economica dell’impresa ovvero come indice che esprime la convenienza a impiegare risorse nell’ambito dell’impresa (Anthony, 1966). In aggiunta, collegandosi al flusso di reddito, la redditività si associa con le condizioni di equilibrio economico che, proprio dal confronto tra ricavi e costi, tende a scaturire. L’importanza che la redditività riveste nelle scelte di imprese non deve comunque trarre in inganno facendo credere che il decisore possa orientarsi verso la compatibilità con criteri volti verso la ricerca della massima redditività possibile. A ben vedere, condizioni di massima redditività o di ‘ottimo’ potrebbero essere individuabili solo nei casi di certezza circa lo stato corrente e gli andamenti prospettici di impresa e di sostanziale assenza di condizioni di interdipendenza tra le singole decisioni e i fatti che qualificano l’impresa stessa. Tuttavia, come abbiamo rimarcato in precedenza, le condizioni sopra richiamate raramente si ravvisano nelle imprese, dando così origine al cosiddetto paradosso del criterio massimizzante. Questo paradosso consiste nel fatto che orientando le decisioni di impresa nell’ambito di un quadro adeguatamente determinato, sebbene stabilito non già in base alla massimizzazione della redditività ma, per esempio, in relazione alla sicurezza di raggiungere un livello di redditività attesa (in merito alla teoria dei livelli di aspirazione si veda Simon, 1957), è possibile raggiungere ex post livelli di redditività maggiori di quelli ottenibili da scelte informate dalla ricerca della massima redditività (Ceccanti, 1967, pag. 166). D’altro canto si è anche osservato che «il mondo ha assai poco di magico e l’insensatezza della gente e dei sistemi costituisce una delle tante cose che non riescono a fare miracoli. Tuttavia, a certe condizioni, l’insensatezza costituisce uno dei numerosi modi in cui alcuni dei problemi delle nostre teorie contemporanee dell’intelligenza possono essere superati. L’insensatezza conserva le virtù della coerenza pur prestandosi a stimolare il cambiamento. Se disponessimo di una buona tecnologia dell’insensatezza, questa, unitamente alla tecnologia della ragione, potrebbe sia pur modestamente aiutare a sviluppare le insolite combinazioni di atteggiamenti e comportamenti che configurano le persone interessanti, le organizzazioni interessanti e le altrettanto interessanti società di questo mondo» (March, 1998, pag. 251). Chiusa la breve parentesi sul tema della massimizzazione e sul ruolo dell’insensatezza nelle decisioni, si osserva ancora che il criterio della redditività è intimamente connesso con i criteri di efficacia e di efficienza. Sul piano economico, le decisioni orientate all’efficienza sono motivate dall’obiettivo di contenere i mezzi impiegati per ottenere un determinato risultato, mentre quelle adottate in ragione del criterio di efficacia guardano principalmente al grado attraverso il quale una impresa è capace di conseguire un certo obiettivo. Se una impresa persegue, nelle proprie decisioni, condizioni di efficacia e di efficienza, essa sarà in grado di centrare gli obiettivi prefissati (sia essi definiti in termini di fatturato, quota di mercato, tasso di sviluppo, ecc.) utilizzando il minimo necessario delle risorse disponibili. Pertanto, decisioni compatibili con il criterio della redditività sono ravvisabili in contesti nei quali l’impresa assuma provvedimenti che siano a monte coerenti con i criteri di efficacia e di efficienza (Giudici, 1992, pag. 75). Si possono immaginare casi nei quali le imprese nel perseguire condizioni di efficacia debbano rinunciare, in parte, all’efficienza. Prendiamo in esame una impresa che investa in automazione, con benefici sia in termini di aumento della produzione a parità di ore lavorate sia di riduzione dei costi di produzione, connessi alla riduzione marcata del costo del lavoro. Orbene, nell’ipotesi considerata l’impresa ha posto in essere decisioni conformi con il criterio di efficienza. Tuttavia, qualora i pro-
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Capitolo 2
dotti realizzati attraverso i processi automatizzati smarriscano alcune caratteristiche di autenticità, il consumatore potrebbe perdere l’interesse ad acquistare tali prodotti, riorientandosi verso quelli offerti dai concorrenti. Conseguentemente, il livello delle vendite effettivo si contrae, collocandosi al di sotto del risultato atteso. La scelta di investire in automazione è coerente con l’efficienza ma non con l’efficacia. L’effetto sulla redditività è indeterminato, dipendendo dal confronto tra la riduzione dei costi e la riduzione dei ricavi. D’altro canto una scelta può essere coerente con l’efficacia ma non con l’efficienza. Si ipotizzi una impresa che per raggiungere l’obiettivo di vendita espanda l’ammontare del credito mercantile. Attraverso dilazioni di pagamento concesse ai clienti in misura via via più ampie ed estese nel tempo, l’impresa riesce ad attrarre un numero maggiore di consumatori così come ad aumentare il numero di prodotti acquistati per consumatore. Il livello delle vendite conseguite è ampiamente superiore al risultato atteso. Tuttavia, l’espansione del credito mercantile accresce i fabbisogni finanziari, con conseguente rilevante aumento dei costi connessi alla ricerca delle fonti di copertura. La decisione in oggetto è coerente con il criterio di efficacia ma non con quello di economicità. L’effetto sulla redditività sarà così ancora una volta incerto. Le esemplificazioni riportate suggeriscono che il decisore deve considerare congiuntamente i criteri di efficacia, efficienza e redditività. Ciò non fa venire meno la possibilità che, soprattutto nel breve periodo, in condizioni di sostanziale invarianza delle combinazioni produttive, tra efficacia ed efficienza si possono manifestare delle condizioni di conflittualità che potrebbe spingere il decisore a rilasciare un criterio piuttosto che l’altro. Per esempio, gli investimenti in R&S, finalizzati a innovare i prodotti che l’impresa colloca sul mercato, implicano inefficienza fin tanto che non emergano condizioni di sfruttamento economico delle ricerche svolte. Nel lungo periodo, invece, l’impresa deve ricercare decisioni che siano compatibili con entrambi i criteri. Peraltro, si può ipotizzare, in relazione anche al maggiore tempo disponibile, che tra i due criteri si inneschi anche una relazione complementare e sinergica nel senso che crescenti livelli di efficacia possano essere anche forieri di maggiori livelli di efficienza e viceversa. In chiusura si osserva che la redditività assume, oltre che la richiamata veste di obiettivo generale (e in questo senso la redditività viene definita come traguardo da raggiungere), anche la natura di parametro da tener presente nelle decisioni di investimento. Questa ultima caratterizzazione è spesso richiamata nelle imprese i cui titoli rappresentativi del capitale proprio sono quotati in mercati regolamentati. In questi mercati, nelle scelte di impiego delle risorse finanziarie, gli azionisti/investitori fanno sovente riferimento alla redditività dell’impresa. La redditività assume anche particolare rilevanza nell’ambito di analisi comparative spazio-temporali. Infatti, il confronto tra la redditività dell’impresa oggetto d’analisi e i suoi concorrenti, non può basarsi su valori assoluti di profitto, ma deve necessariamente tener conto del capitale investito. Allo stesso modo, lo studio circa la dinamica della capacità economica dell’impresa in un certo lasso temporale può richiedere un confronto tra la redditività finale e quella iniziale.
2.5
Redditività e rischio nelle decisioni di impresa
La redditività, quale criterio di scelta in ambito manageriale, non può essere analizzata separatamente dal concetto di rischio. In altre parole, considerazioni circa la redditività richiedono anche di valutare il rischio che si ritiene opportuno sostenere nell’ambito delle decisioni.
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Capitolo 2
Senza entrare nel merito delle diverse classificazioni di rischio, ai nostri fini è sufficiente considerare la distinzione tra rischio asimmetrico e rischio simmetrico (DeLoach e Andersen, 2000). Il rischio asimmetrico si riferisce alla possibilità che l’attività oggetto di valutazione generi una redditività inferiore alle attese. In questa ottica, il rischio evidenzia un potenziale pericolo che può essere interpretato rispetto alla prospettiva del decisore, oppure tenendo conto di fenomeni la cui manifestazione produrrebbe solo effetti negativi. Al riguardo, si considerino le seguenti ipotesi di rischio asimmetrico: un imprenditore decide di scartare una iniziativa che, a prescindere dal suo potenziale reddituale, potrebbe pregiudicare la sopravvivenza della sua impresa; la realizzazione di un nuovo sito produttivo viene scartata in quanto la sua localizzazione avverrebbe in un’area soggetta a calamità naturali. Per rischio simmetrico, invece, s’intende la dispersione positiva e negativa rispetto al rendimento atteso più probabile. Per cui, mentre il rischio asimmetrico assume una valenza esclusivamente negativa, quello simmetrico emerge anche come opportunità, nel senso che la probabilità di subire perdite di natura economica tende a essere compensata dalla probabilità di ottenere risultati economici migliori rispetto alle attese. Per esempio, investire in un prodotto, radicalmente nuovo per il mercato, amplifica la possibilità che il ritorno sul capitale sia straordinariamente alto o basso. In sostanza, il concetto di rischio simmetrico si lega alla cosiddetta logica rischio-rendimento, in base alla quale le attività economiche che promettono un’elevata redditività sono più rischiose di quelle caratterizzate da una redditività potenziale contenuta. Ciò significa che la ricerca di alti livelli di redditività implica una forte esposizione al rischio; al contrario, scelte prudenziali, orientate a contenere potenziali risultati negativi, abbassano le aspettative in termini di redditività attesa. Il processo decisionale è, quindi, fortemente influenzato dal soggettivo grado di propensione al rischio del decisore. I decisori avversi al rischio tendono a fissare obiettivi contenuti in termini di redditività, sostenendo così costi opportunità dovuti alla rinuncia di elevati ritorni sul capitale. Gli operatori propensi al rischio, invece, tendono verso la massimizzazione della redditività attesa e sono, quindi, disposti a fronteggiare performance attese particolarmente aleatorie (Varian, 1992). Con specifico riferimento alle imprese, la propensione al rischio dipende anche dalle caratteristiche strutturali interne all’organizzazione e dalla capacità finanziaria e patrimoniale di sopportare squilibri economici indotti da decisioni particolarmente rischiose. Occorre, inoltre, considerare una dimensione oggettiva della relazione rischio-rendimento, secondo la quale l’operatore razionale è avverso al rischio, nel senso che assume decisioni che, a parità di redditività attesa, minimizzano il rischio, oppure a parità di rischio, massimizzano le aspettative reddituali. Fermo restando che ciascun attore del sistema economico si caratterizza per una sua soggettiva propensione/avversione al rischio, il decisore (il cui comportamento sia ispirato al principio di razionalità economica) scarta tutte quelle alternative decisionali comportanti una relazione sub-ottimale tra rischio e redditività potenziale, come, per esempio, nel caso di un investimento poco profittevole (anche sul piano potenziale) e contemporaneamente asimmetricamente molto rischioso in quanto difficile da realizzare. In conclusione, dunque, la logica rischio-rendimento limita le decisioni di impresa (o più in generale degli operati economici) a quelle iniziative che incorporano una rischiosità coerente con la loro redditività attesa.
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Capitolo 2
Redditività attesa come remunerazione del rischio
Approfondimento 2.4
Orientare le decisioni a obiettivi di redditività significa, in primo luogo, selezionare investimenti profittevoli, in secondo luogo, utilizzare le forme più idonee di copertura del fabbisogno finanziario originato dagli investimenti stessi. Infatti, una decisione d’investimento agisce positivamente sul valore economico dell’impresa, ove la sua redditività marginale sia superiore a quella degli investimenti preesistenti e, al contempo, risulti essere maggiore del costo di acquisizione del capitale. Quest’ultimo emerge come rendimento minimo atteso dai finanziatori dell’impresa, remunerativo dei fattori tempo e rischio. Ciò trova spiegazione nella circostanza che a ogni concessione di risorse finanziarie (sotto forma di capitale di rischio o di credito) si determina sempre un sacrificio per il finanziatore. Occorre, in particolare, considerare che: gli operatori che finanziano una determinata iniziativa rinunciano per un certo periodo di tempo al capitale liquido; le risorse monetarie nel tempo perdono valore per effetto dell’inflazione; i risultati economico-finanziari attesi dall’attività di impresa sono, generalmente, grandezze incerte.
2.6
Incertezza e ambiguità nelle decisioni di impresa
L’assunzione di una data decisione in funzione del trade-off tra rischio e redditività presuppone la possibilità di trasformare l’incertezza, relativa ai rendimenti futuri, in un’unità di misura definita. I cosiddetti modelli rischio-rendimento prevedono che la volatilità dei risultati attesi sia misurabile in base alla distribuzione dei rendimenti conseguiti attorno a un rendimento medio atteso (Damodaran, 2001, p. 61), il che significa considerare il rischio come aleatorio, ovvero quantificabile in termini probabilistici e statistici. La quantificazione del rischio, tuttavia, è spesso accompagnata da inadeguatezza delle informazioni e rappresentazioni disponibili, da scarsa capacità di interpretare la realtà osservata e/o da indeterminatezza oggettiva della stessa. Ciò causa, nell’ambito di stime previsionali, l’impossibilità di includere tutti i possibili cambiamenti di scenario, l’insieme delle variabili interpretative e la mutevole rilevanza che queste possono assumere nel tempo. Dalle analisi previsionali derivano, quindi, risultati provvisori e parziali, o addirittura, in alcuni casi, del tutto fallaci. Al riguardo, fondamentali sono gli studi di Knight (1921) sui concetti di rischio e incertezza. Secondo l’autore detti concetti differiscono nettamente: mentre il rischio esprime una volatilità misurabile, l’incertezza riguarda eventi non prevedibili, o per i quali non è, in ogni caso, possibile definire una distribuzione di probabilità. In questa prospettiva, Culp (2002) distingue il rischio finanziario (da non intendersi nella comune accezione di rischio legato alla struttura finanziaria) dal rischio di business, individuando: nel primo un evento atteso la cui evoluzione può essere espressa mediante l’esplicitazione di una distribuzione di probabilità, in termini oggettivi sulla base di frequenze storiche, oppure in termini soggettivi, in ragione di percezioni dell’analista fondate sulla sua esperienza personale; nel secondo un evento atteso di cui l’analista ha una conoscenza limitata riguardo ai possibili tempi e modi di manifestazione. Pertanto, le decisioni di impresa sono migliorabili, in termini di redditività attesa e del rischio che incorporano, solo nel limite in cui sia possibile attribuire un peso a eventi futuri. Tale possibilità diminuisce al crescere dell’instabilità ambientale, da intendersi come rapidi cambiamenti all’interno dell’ambiente competitivo in cui opera l’impresa.
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Capitolo 2
Dinamismo ambientale e incertezza nelle decisioni Una tipica chiave di lettura dell’incertezza si basa sul nesso tra cambiamenti esterni all’impresa (detti ambientali), di natura sociale, economica, finanziaria e perdita di significatività dei dati concernenti il passato. In sostanza, l’incertezza aumenta allorquando le esperienze già vissute e i risultati precedentemente osservati non siano idonei a dare indicazioni valide circa il futuro. Ciò contrasta con le tecniche previsionali normalmente utilizzate in ambito manageriale; tecniche basate sull’ipotesi che il passato rappresenti una buona approssimazione del futuro. Al riguardo, Stacey (1996) analizza la relazione tra dinamismo ambientale e complessità decisionale in funzione di tre tipi di cambiamenti: cambiamento chiuso; cambiamento limitato; cambiamento aperto. Il cambiamento chiuso individua una variabilità già verificatasi in passato e, in quanto tale, caratterizzata da un livello basso o addirittura nullo di complessità decisionale. Il cambiamento limitato si riferisce a un evento già accaduto, la cui manifestazione attuale, tuttavia, presenta elementi di differenziazione rispetto a quelle passate. Infine, il cambiamento aperto si ha all’emergere di situazioni uniche e comportanti conseguenze (positive o negative) imprevedibili. Adottando tale prospettiva, dunque, le imprese più soggette a incertezza sono quelle operanti in ambienti competitivi particolarmente dinamici, generalmente caratterizzati da forte spinte all’innovazione dei prodotti e/o dei processi. Infatti, i fenomeni altamente innovativi, causati dall’impresa o da fattori esterni alla stessa, implicano forte discontinuità rispetto al passato, quindi, l’impossibilità di ancorare i processi decisionali a eventi già osservati nel tempo.
Naturalmente, la distinzione proposta tra fenomeni rischiosi e incerti non deve essere considerata in termini assoluti, in quanto, un fenomeno, da una parte, può includere elementi sia di rischio calcolabile che di incertezza pura, dall’altra, può alternare nel tempo alta e bassa incertezza. Un altro aspetto fortemente condizionante i processi decisionali di impresa riguarda la cosiddetta ‘ambiguità decisionale’ che, seppur in parte connessa al tema dell’incertezza, assume una sua connotazione specifica. Infatti, come nel caso dell’incertezza, l’ambiguità emerge rispetto alla difficoltà di attribuire dei pesi (probabilità) a eventi futuri. Tuttavia, l’ambiguità non si riferisce all’impossibilità assoluta di individuare detti fattori di ponderazione, ma alla tendenza degli individui, così come delle organizzazioni, a considerare simultaneamente più probabilità per ogni scenario esaminato. In sostanza, l’ambiguità può essere considerata come una conseguenza dell’incertezza, nel senso che la carenza di informazioni e conoscenze spinge gli individui e le organizzazioni a formulare diverse ipotesi circa la probabilità di accadimento futuro di un certo evento. Per esempio, si ipotizzi che una data decisione concernente l’apparato produttivo dell’impresa dipenda dai risultati previsionali relativi alla domanda attesa. Tale decisione sarà assunta in condizioni di ambiguità, ove il decisore consideri, per ogni livello di domanda ipotizzato, due o più probabilità. Al riguardo, si osserva che i tradizionali strumenti previsionali, utilizzati dalle imprese in fase di selezione delle alternative decisionali, tendono a escludere il problema dell’ambiguità. Normalmente, infatti, tali strumenti si fondano sulla teoria di Savage (1954), nota come subjective expected utility (SEU), in base alla quale gli
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Approfondimento 2.5
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Capitolo 2
attori e le organizzazioni economiche ricercano la massimizzazione dei risultati applicando un’unica probabilità a ogni scenario atteso (si veda in proposito anche de Finetti, 1931). Ricerche empiriche hanno, tuttavia, dimostrato come, malgrado formalmente la modellistica decisionale nelle imprese sia riconducibile alla SEU, spesso le decisioni manageriali siano assunte in condizioni di forte ambiguità. Al riguardo, Ellsberg (1961) ha dimostrato teoricamente e fornito evidenze sperimentali su come i processi decisionali siano in molti casi ambigui in quanto la scelta delle singole probabilità da associare agli eventi attesi è spesso accompagnata da dubbi e incertezze. Il livello di ambiguità tende ad aumentare nell’ipotesi in cui il soggetto decisionale sia un organo collegiale, come nel caso di un consiglio di amministrazione chiamato ad assumere decisioni strategiche che impatteranno lungamente sulla vita dell’impresa. La collegialità nelle decisioni causa, infatti, una sorta di ‘ambiguità di gruppo’, nel senso che ogni membro del gruppo decisionale è portatore di una soggettiva idea circa le giuste probabilità da attribuire agli eventi attesi (Gilboa, Maccheroni et al., 2010).
Approfondimento 2.6
Incertezza, ambiguità e flessibilità L’assunzione di decisioni in contesti incerti spinge i manager di impresa a ricercare continuamente condizioni di flessibilità. Nell’ambito delle teorie economiche e manageriali, il tema della flessibilità è stato affrontato secondo diverse angolature, con risultati spesso contrastanti (Carlsson, 1989; Genus, 1995). Diversi studiosi hanno sottolineato come la flessibilità di impresa sia difficile da catturare in un unico concetto, giacché emerge in modo multi-dimensionale (De Toni e Tonchia, 2005). Tuttavia, ai nostri fini, è sufficiente richiamare i concetti di flessibilità ex ante e flessibilità ex post (o flessibilità manageriale). La flessibilità ex ante si manifesta ove emerga la facoltà di assumere decisioni strategiche in via anticipata rispetto a cambiamenti di scenario attesi. La propensione ad anticipare un nuovo scenario mediante l’attivazione di investimenti orientati alla crescita e all’innovazione può essere definita come un approccio ‘aggressivo’ al cambiamento che, necessariamente, accresce la relazione diacronica tra sviluppo delle risorse e formazione del reddito, con ciò che ne deriva sul profilo rischio-rendimento dell’impresa: la redditività attesa tende ad aumentare in condizioni di rischio e incertezza crescente. La flessibilità ex post si qualifica, invece, come manageriale, nel senso che attiene alla possibilità di adattare i processi decisionali alle evoluzioni di contesto. Essa agisce, quindi, in modo protettivo, giacché il suo esercizio avviene mediante la correzione finanziaria, temporale, strategica e/o industriale degli investimenti, in ragione dell’effettivo concretarsi di eventi capaci di alterare, positivamente o negativamente, l’andamento delle variabili in giuoco. Mentre, quindi, lo sfruttamento della flessibilità ex ante è accompagnato da forte incertezza, l’esercizio della flessibilità ex post (o flessibilità manageriale) si realizza in condizioni di certezza o, comunque, di volatilità contenuta. In generale, la combinazione delle due forme di flessibilità (ex ante ed ex post) caratterizza imprese capaci, da un lato, di ‘scommettere’ sulla competitività attesa in funzione di scelte strategiche ad alto impatto, dall’altro, di intervenire a revisione delle strategie adottate, una volta verificati eventuali errori commessi in sede di pianificazione delle stesse.
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Capitolo 2
La combinazione tra condizioni di incertezza e ambiguità determina, secondo alcuni studiosi, i seguenti due effetti: una maggiore avversione a intraprendere iniziative innovative, o comunque, caratterizzate da discontinuità rispetto al passato; il passaggio da una logica massimizzante, basata sulla ricerca della soluzione migliore, a una logica minimizzante, basata sulla ricerca del migliore risultato nell’ambito d’ipotesi minime. Con riferimento a quanto appena osservato, Gilboa e Schmeidler (1989) hanno ipotizzato un modello decisionale di tipo comportamentale, ove il decisore definisce una sorta di graduatoria delle alternative poste in concorrenza, in base alla loro utilità economica; tuttavia, il confronto tra due o più alternative viene effettuato comparando livelli di utilità minima. Incertezza e ambiguità nelle decisioni di impresa producono anche crescenti opportunità connesse alla discontinuità del contesto (Fiocca, 2007, p. 7). La difficoltà a quantificare pienamente il rischio e gli errori decisionali che ne derivano amplificano, cioè, gli spazi per lo sviluppo di progetti innovativi e l’emersione di nuovi soggetti imprenditoriali votati all’innovazione. Per esempio, la nascita e lo sviluppo di Microsoft (tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80) non sarebbe stata possibile se il principale competitor (IBM) avesse disposto di un set di informazioni e conoscenze sufficienti a considerare una vasta gamma di scenari futuri e ad assegnare agli stessi un’unica probabilità di accadimento. Più in generale, si può affermare che tra incertezza e ambiguità da un lato, e dinamismo ambientale dall’altro, sussiste una relazione biunivoca: l’emergere di nuovi fenomeni e idee imprenditoriali rendono le analisi poste a supporto delle decisioni d’investimento più sfocate in relazione al loro profilo reddituale e di rischio; l’assunzione, da parte di imprese già affermate, di decisioni in condizioni d’incertezza e ambiguità favorisce la possibilità che nascano imprese innovative in grado di alterare le regole competitive in un dato settore. Al contrario, la stabilità ambientale produce un rafforzamento delle imprese esistenti, che diventa, a sua volta, fattore di ulteriore stabilità (vedi Figura 2.4).
Analisi rischiorendimento sfocate
Analisi rischiorendimento chiare Alta incertezza e ambiguità decisionale
Dinamismo ambientale
Bassa incertezza e ambiguità decisionale
Stabilità ambientale
Nascita di imprese innovative
Figura 2.4 Dinamismo/stabilità ambientale, incertezza e ambiguità decisionale
Rafforzamento delle imprese esistenti
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Capitolo 2
Sommario Il presente capitolo prende le mosse dal concetto di decisioni come scelta tra soluzioni alternative: ogni decisione si sostanzia sempre in un processo selettivo che, a seconda della prospettiva utilizzata, può essere visto come finalizzato alla massimizzazione assoluta dei risultati attesi o, a causa di limiti conoscitivi del decisore, al perseguimento di ottimi relativi. Detto processo selettivo assume caratteristiche particolari nelle diverse realtà produttive in ragione, soprattutto, della disponibilità di informazioni e di rappresentazioni nonché di driver decisionali quali la missione e la visione assunti dall’impresa rispetto alla propria finalità e agli obiettivi generali e specifici posti. La scelta tra soluzioni alternative deve, in ogni caso, salvaguardare la sopravvivenza dell’impresa e, quindi, perseguire obiettivi generali (aventi natura economico-finanziaria) che, a loro volta, dipendono dalla capacità dell’impresa di raggiungere traguardi particolari connessi alla competitività esterna e all’organizzazione interna. A ciò si lega la tradizionale distinzione tra decisioni strategiche, tattiche e operative. Nell’assunzione delle scelte il decisore deve anche considerare i criteri decisionali riconducibili all’efficacia, all’efficienza e alla redditività. Rispetto ai criteri decisionali, la qualità delle decisioni assunte deriva, in primo luogo, dalla relazione tra mezzi utilizzati e risultati ottenuti, e, in secondo luogo, dalla capacità di conseguire risultati che siano in linea con quelli programmati in sede decisionale, infine, dal tasso di trasformazione degli investimenti (conse-
guenti alle decisioni assunte) in flussi di reddito. Il criterio della redditività emerge dalla combinazione tra efficacia ed efficienza, nel senso che livelli costantemente elevati di redditività richiedono sia scelte efficienti, orientate alla riduzione dei costi, sia scelte efficaci sul piano anche della generazione di ricavi. L’obiettivo di accrescere la redditività non può prescindere, tuttavia, dal rischio che ogni decisione incorpora. Da questo punto di vista, assume importanza la distinzione tra rischio asimmetrico e simmetrico. Il primo si riferisce all’idea di rischio come pericolo di eventi sfavorevoli, il secondo si basa sul concetto di rischio come volatilità rispetto a un risultato medio atteso. Al riguardo, è stato evidenziato come tra redditività attesa e rischio sussista una relazione positiva: puntare all’accrescimento della redditività implica realizzare progetti aziendali altamente rischiosi; al contrario, l’avversione al rischio del decisore comporta un ridimensionamento degli obiettivi di redditività. La ricerca di un giusto trade-off tra redditività attesa e contenimento del rischio spesso incontra difficoltà dovute alle carenze informative e di conoscenza del decisore, da cui derivano le condizioni di incertezza e ambiguità decisionale. L’incertezza riguarda eventi non prevedibili, o per i quali non è, in ogni caso, possibile definire una distribuzione di probabilità. Il concetto di ambiguità si riferisce alla tendenza degli individui e delle organizzazioni a considerare due o più probabilità per ogni scenario ipotizzato.
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