Capitolo
Strategie di collaborazione
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Sconfiggere l’HIV. Sangamo Bioscience e il gene editing Nel 1995, Edward Lanphier fondò Sangamo Bioscience, allo scopo di sviluppare le “nucleasi a dita di zinco” (zinc-finger nucleases o più semplicemente ZNF), una sofisticata tecnica che offriva una soluzione innovativa per modificare il codice genetico di un individuo così da curare malattie genetiche, quale per esempio l’emofilia, l’anemia falciforme, il morbo di Huntington, o per conferire una maggiore resistenza a malattie non genetiche. Le malattie genetiche sono causate da alterazioni nella sequenza del DNA genomico di una cellula. Tali cambiamenti (o mutazioni), nei casi più frequenti, aboliscono la funzione di un gene. La terapia genica ha come scopo la cura di un difetto genetico, adoperando un frammento di DNA contenente la sequenza del gene “corretto” come agente terapeutico. Da tempo, per trasferire il DNA corretto nella cellula bersaglio, erano utilizzati vettori virali, ovvero virus modificati in laboratorio. I vettori, una volta penetrati nella cellula, dovrebbero ristabilire la funzione del gene mutato. Negli ultimi anni, tale approccio era stato ampiamente applicato, soprattutto per malattie genetiche che interessano il sistema immunitario. Tuttavia, nonostante i primi successi, rimaneva il rischio che il vettore virale potesse integrarsi in porzioni “funzionali” del genoma, favorendo l’insorgenza di tumori o di indurre reazioni del sistema immunitario. Le ZFN agiscono invece correggendo direttamente la mutazione nel gene alterato. Le ZFN sono proteine sintetiche in grado di riconoscere e tagliare un determinato frammento di DNA. Operano come un bisturi molecolare di precisione, come strumento di ingegneria genomica, attraversando la membrana cellulare senza ricorrere ai vettori virali. Il principio è semplice: la componente del dito di zinco (zinc-finger) si lega al DNA, quella della nucleasi (nucleases) lo taglia, non a caso, ma in punto preciso del genoma. Così come i missili sensibili al calore, le ZFN sono costruite in modo da identificare segmenti di DNA predeterminati e di tagliarli. Per farlo, si servono di una specie di sequenza di navigazione, un piccolo frammento di DNA, tramite il quale aderiscono a determinati punti del genoma e unicamente a quelli. Il DNA sarà utilizzato dalla cellula come stampo per correggere la mutazione presente in quella specifica posizione del genoma del paziente, proprio come un
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correttore di bozze edita un testo scritto. Il legame della sequenza può essere modificato in laboratorio e adattato a destinazioni specifiche. Quando il DNA di una cellula subisce un danno, di solito viene riparato in uno di due modi: (i) “saldando” di nuovo insieme le due estremità non omologhe del DNA oppure (ii) attraverso un meccanismo di ricombinazione omologa, copiando la sezione corrispondente del DNA nell’altra metà di una coppia di cromosomi. Poiché molte malattie insorgono a causa di un gene difettoso in una sola metà di una coppia di cromosomi, la ricombinazione omologa agisce come uno stampo, operando in modo preciso. Il primo meccanismo di riparazione, invece, pur essendo efficiente e rapido, non sempre è preciso, determinando talvolta mutazioni nel cromosoma (si veda la Figura 8.1). Il gene editing offriva a imprese come Sangamo l’opportunità di sviluppare un modo radicalmente nuovo di curare o prevenire una malattia genetica, ma richiedeva un forte impegno di R&S sia per sviluppare ZFN che fossero precise e affidabili per modificare in modo sicuro i geni di un individuo, sia per concepire un meccanismo di delivery affinché le ZFN penetrassero a sufficienza nelle cellule di un individuo così da garantire l’efficacia della terapia genica. I trial clinici per stabilire la sicurezza e l’efficacia della tecnica, così da ottenere l’approvazione del FDA (la Food and Drug Administration è l’ente governativo che negli Stati Uniti si occupa della regolamentazione del mercato dei prodotti alimentari e farmaceutici), rappresentavano anch’essi un ostacolo enorme da superare. Poiché ancora nessuno dei prodotti di Sangamo era disponibile in commercio, l’impresa era costretta ad affidarsi completamente a grant di ricerca e a fondi ottenuti dai suoi partner per poter sopravvivere. Benché avesse siglato degli accordi di collaborazione con Shire AG e Biogen IDEC per numerose aree terapeutiche,
Nucleasi Cromosoma Taglio
Riparazione del DNA Incolla
Inserimento del gene (knock-in)
Riparazione del DNA Ricombinazione omologa
Saldatura delle estremità non omologhe Perdita di sequenza di DNA
Incolla
Riparazione del gene
Disattivazione del gene (knock-out)
Figura 8.1 Il gene editing attraverso la tecnica della nucleasi.
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Sangamo aveva però l’ambizione di sviluppare da sola un trattamento rivoluzionario per l’HIV, trasformandosi in un’impresa biofarmaceutica totalmente integrata, dalla scoperta di nuovi farmaci fino alla loro commercializzazione nel mercato.
Correggere le malattie monogeniche Le malattie monogeniche sono causate da un difetto in un singolo gene. Una di queste per esempio è l’emofilia. I pazienti affetti da emofilia soffrono di una grave insufficienza nella coagulazione del sangue, per la mancanza, totale o parziale, di un fattore di coagulazione nel sangue. Gli emofilici lievi sono soggetti a sanguinamenti soltanto nel corso di interventi chirurgici o infortuni. Nei pazienti con emofilia grave, invece, episodi di sanguinamento possono avvenire in modo spontaneo o causati da traumi banali. In particolare, le emorragie interne possono determinare danni significativi e mettere i pazienti in pericolo di vita. Gli individui colpiti da emofilia hanno bisogno di trasfusioni regolari per sostituire i fattori di coagulazione nel sangue. Il trattamento con le ZFN di Sangamo offriva la speranza di una cura, piuttosto di essere condannati a una terapia a vita. Sangamo aveva già dimostrato che il suo metodo basato sulle ZFN per la cura della emofilia aveva funzionato nei topi e si stava preparando a richiedere l’autorizzazione per cominciare i trial clinici. Sangamo aveva anche sviluppato trattamenti per l’anemia falciforme e la beta talassemia (o anemia mediterranea), due altre malattie monogeniche. Di norma, i pazienti affetti da anemia falciforme o da beta talassemia richiedono terapie a vita oppure un trapianto di midollo osseo, con grandi costi e alti rischi. Sangamo aveva invece dimostrato in laboratorio che il suo trattamento poteva disattivare (knock out) il gene BCL11A che causa tali malattie. Un altro esempio di malattia monogenica è il morbo o còrea di Huntington (HD). L’HD è una malattia neurologica devastante: i pazienti perdono il controllo della coordinazione del movimento e subiscono un declino cognitivo e il calo della memoria. La malattia è progressiva e di solito conduce alla morte in un tempo dai 10 ai 20 anni a partire dall’esordio dei sintomi. La malattia è il risultato di una mutazione in un singolo gene, che codifica una proteina chiamata huntingtina. L’effetto è un numero di ripetizioni superiori in una sequenza del DNA tale da determinare un accumulo nelle cellule della forma mutante di tale proteina. La maggior parte degli individui eredita solo una copia del gene difettoso, ma basta per l’insorgere della malattia. Inoltre, vi è il 50% di probabilità che i figli di una persona affetta da HD ereditino la malattia. Benché ricerche precedenti avessero esplorato i modi per far diminuire la proteina nelle cellule, si era scoperto che l’huntingtina interagiva con molte altre proteine e svolgeva funzioni biologiche, rendendo essenziale la sua presenza: in laboratorio, il topo privo della proteina moriva prima di nascere. Sangamo, però, aveva sviluppato un metodo basato sulle ZFN in grado di identificare e “spegnere” solo il gene difettoso. Ciò significava che un individuo avrebbe avuto soltanto una copia funzionante del gene (tutti gli esseri umani hanno due copie del gene che codifica l’huntingtina) che così continuava a produrre la forma normale della proteina. Mentre c’erano cure disponibili in grado di fermare o almeno rallentare la progressione dell’emofilia, dell’anemia falciforme e della beta-talassemia, non esistevano terapie per la malattia di Huntington e non era stato scoperto ancora
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alcun farmaco in grado di arrestarne la progressione. Pertanto, la presentazione da parte di Sangamo dei promettenti risultati ottenuti dalla sperimentazione della sua terapia dedicata all’HD destò una forte eco: il successo del trattamento poteva significare la differenza fra la vita e la morte per i pazienti.
Lo sviluppo di un farmaco e i trial clinici Lo sviluppo di un farmaco è un processo estremamente costoso e denso di rischi. La maggior parte degli studi ritiene che tale processo assorba almeno 1,5 miliardi di dollari e che occorra un decennio di ricerche per introdurre nel mercato un nuovo prodotto farmaceutico approvato dall’FDA. I dati statistici relativi ai costi di sviluppo di un farmaco sono in realtà sottostimati, non tenendo conto delle spese sostenute dalle imprese per i molti farmaci che falliscono prima di raggiungere il mercato, abbandonati lungo il percorso. Nel settore farmaceutico solo uno ogni 5000 composti testati riesce ad arrivare allo scaffale della farmacia e soltanto un terzo di questi otterrà abbastanza successo per ripagare l’investimento necessario a scoprire e sviluppare le migliaia di sostanze originarie. Tenendo conto delle risorse finanziarie assorbite dai medicinali “bocciati” è ragionevole ipotizzare che il costo di sviluppo di un farmaco sia molto superiore a quanto tipicamente riportato dalle statistiche. Uno studio sulle spese complessive di R&S confrontate con le approvazioni di nuovi farmaci pubblicato da Forbes nel 2012, per esempio, ha rivelato che le imprese spendono oltre 6 miliardi di dollari per ciascun farmaco approvato (si veda la Tabella 8.1). Tabella 8.1 Spesa in ricerca e approvazione di nuovi farmaci.
Impresa
Numero di farmaci approvati
Spesa per R&S 1997-2011 (in milioni di $)
Spesa di R&S per farmaco (in milioni di $)
AstraZeneca GlaxoSmithKline Sanofi Roche Holding Pfizer Johnson & Johnson Eli Lilly & Co Abbott Laboratories Merck & Co Inc Bristol-Myers Squibb Co Novartis Amgen Inc MEDIA
5 10 8 11 14 15 11 8 16 11 21 9 11,58
58 955 81 708 63 274 85 841 108 178 88 285 50 347 35 970 67 360 45 675 83 646 33 229 66 872,33
11 790,93 8 170,81 7 909,26 7 803,77 7 727,03 5 885,65 4 577,04 4 496,21 4 209,99 4 152,26 3 983,13 3 692,14 6 199,85
Fonte: InnoThink Center For Research In Biomedical Innovation; Thomson Reuters Fundamentals via FactSet Research System.
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La maggior parte degli studi indica che il costo principale nel processo di sviluppo di un farmaco sia quello relativo ai trial clinici, un costo sostenuto dall’organizzazione sponsoring, di norma l’impresa “proprietaria” che scopre e sviluppa il farmaco. Per ottenere l’approvazione da parte della FDA negli Stati Uniti, la maggior parte dei farmaci deve superare una serie di fasi (i trial). In primo luogo, negli studi preclinici, l’impresa è chiamata a valutare la sicurezza e l’efficacia del farmaco attraverso la sperimentazione in vitro e in vivo, sugli animali. Nella fase 0, una singola dose inferiore a quella che dovrebbe essere impiegata per fornire il trattamento terapeutico è somministrata a un piccolo gruppo di soggetti sani (10-15) per valutare l’effetto e la tollerabilità del farmaco sull’organismo. In caso di successo, ovvero di esito positivo, il farmaco può entrare nella fase 1 della sperimentazione clinica, dove il farmaco è somministrato a un gruppo più esteso di soggetti sani (20-80) per fornire una prima valutazione della sicurezza e della tollerabilità, determinarne il range di dosaggio, identificarne gli effetti collaterali. Se oggetto della sperimentazione sono gravi patologie (per esempio tumori o l’AIDS), gli studi di fase 1 possono essere condotti direttamente su pazienti che ne sono affetti e per i quali il farmaco è stato pensato. Se la sostanza dimostra di avere un livello di tossicità accettabile rispetto al beneficio previsto, potrà passare alle fasi successive di sperimentazione. Nei trial di fase 2, il farmaco è somministrato a gruppi ancora maggiori di individui (100-300), stavolta soggetti affetti dalla patologia per cui il farmaco è stato pensato, per indagarne l’efficacia terapeutica e verificare ancora una volta la sicurezza e gli effetti collaterali. In fase 3, la sostanza medicinale è somministrata a gruppi ancora più ampi di soggetti (1000-3000) per confermare la sua efficacia terapeutica, comparandola a farmaci alternativi già in uso o con nessun trattamento, nonché per raccogliere ulteriori informazioni sulla sua sicurezza e monitorare gli effetti sulla qualità della vita del paziente e la sua sopravvivenza. Infine, se il farmaco supera anche le prove di sperimentazione clinica di fase 3, tutti i dati e le informazioni relative alle sperimentazioni precliniche e cliniche sono raccolti in un dossier che l’organizzazione sponsoring sottopone all’autorità di regolamentazione del mercato (l’FDA negli Stati Uniti, l’AIFA in Italia) per richiedere l’approvazione del nuovo farmaco e l’autorizzazione alla commercializzazione. L’intero processo prende di solito dai 10 ai 12 anni e costa centinaia di milioni di dollari; tuttavia, in larga maggioranza, i progetti di sviluppo di nuovi farmaci non riescono a superare tutte le fasi del processo con successo.
Le tecnologie concorrenti Come se lo sviluppo del farmaco non fosse già di per sé rischioso, Sangamo doveva affrontare un ulteriore minaccia: la sua tecnologia basata sulle ZFN poteva essere “sconfitta” da tecniche alternative di gene editing. All’inizio del 2015, due tecniche differenti stavano prendendo piede: le TALEN (transcription activator-like effector nucleases) e le CRISPR (clustered regularly interspaced short palindromic nucleases). Le TALEN erano simili alle ZFN, nel senso che entrambe erano nucleasi che identificavano una parte specifica del DNA per poi “legarsi” a essa e quindi
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“tagliare” il genoma nel punto desiderato. La differenza principale tra le due tecniche era nel modo di identificare il giusto punto di rottura per “legarsi” con il DNA. Nel 2015, la tecnologia ZFN era più matura e meglio sviluppata; le TALEN però erano considerate più semplici e immediate per concepire trattamenti terapeutici, utilizzando peraltro tecniche di clonaggio standard. Per gli esperti, le TALEN erano destinate ad avere un vantaggio competitivo nel lungo termine. Secondo il parere di Stephen Ekker, direttore di un centro di ricerca alla Mayo Clinic Cancer Center, mentre le ZFN avevano fornito la dimostrazione (proof of principle) della tecnica di gene editing, le TALEN “do most of what ZFNs do, but cheaper, faster and better”. D’altro canto, le molecole TALEN avevano maggiori dimensioni, e ciò rendeva più difficile trasferirle verso la parte selezionata dell’organismo: la vera sfida era ottenere nucleasi per il gene editing in grado di penetrare oltre la barriera cerebrale (ematoencefalica) per la cura di malattie come la còrea di Huntington. Poiché entrambe le tecnologie presentavano vantaggi e svantaggi, i rispettivi sponsor erano chiamati a gareggiare l’uno contro l’altro per riuscire a sviluppare e portare sul mercato le cure efficaci prima dei “concorrenti”. Le CRISP erano invece una tecnologia in qualche modo differente, poiché sfruttavano il sistema di difese naturali dei batteri che evolveva per riconoscere ed eliminare il DNA “estraneo”, fornendo a essi una “immunità adattiva”. Le CRISP erano anche più efficienti dei TALEN, poiché richiedevano un processo di sintesi dell’RNA (da associare alla sequenza di DNA che si intendeva colpire) molto più semplice rispetto a quello di un’intera proteina personalizzata. La scoperta dei CRISP con l’uso degli RNA per l’editing genetico, permettendo agli scienziati di indirizzarsi verso geni bersaglio da silenziare o attivare, suscitò un enorme entusiasmo riguardo alle potenzialità di impiego. Tuttavia, poiché i CRISP adoperavano una sequenza brevissima di RNA come guida per identificare e tagliare il DNA bersaglio, alcuni esperti temevano che l’azione potesse non essere sufficientemente precisa, in altre parole potevano determinare “tagli” fuori target, un risultato assolutamente indesiderato. All’inizio del 2015 c’erano ancora molti dubbi riguardo a quale delle tecniche di gene editing si sarebbe affermata. Tale situazione di incertezza, purtroppo, rischiava di smorzare l’entusiasmo e il sostegno degli sponsor per tutte e tre le tecnologie.
Le partnership di Sangamo Le imprese biotecnologiche potevano trascorrere anni registrando solo perdite, mentre erano impegnate a sviluppare nuovi farmaci. Salgamo non faceva eccezione: non aveva ancora ricavato un dollaro dalle vendite di suoi prodotti. Tutti i ricavi derivavano da grant di ricerca e da accordi di collaborazione, ma le entrate non erano in grado di coprire i costi di R&S, facendo così accumulare perdite anno dopo anno. Tale aspetto poneva bene in evidenza la complessità e la natura critica nel processo di sviluppo di un farmaco. Sebbene l’impresa avesse sviluppato una terapia innovativa, in grado di migliorare radicalmente la vita di molti pazienti, rimaneva molto vulnerabile sotto il profilo finanziario. Nel 2015, Sangamo aveva solo 84 dipendenti a tempo pieno; ma non aveva le risorse per condurre da sola i suoi testi clinici, avviare processi di produzione
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o svolgere attività di marketing. Per queste fasi del processo di sviluppo di un farmaco, Sangamo era costretta ad affidarsi ad accordi di collaborazione con imprese molto più grandi. Biogen Idec. Biogen Idec era un colosso del biotech, con sede a Cambridge, Massachusetts. Nel 2014, i suoi ricavi avevano sfiorato i 10 miliardi di dollari. La maggior parte delle sue terapie era focalizzata sull’immunologia e la neurologia ed era probabilmente meglio conosciuta per i suoi farmaci di grande successo: l’Avonex, per la cura della sclerosi multipla; il Tysabri, per la sclerosi multipla e il morbo di Crohn; il Rituxan, una terapia antibiotica monoclonale per il linfoma non-Hodgkin e l’artrite reumatoide. La quota principale di ricavi era in Nord America (70%), ma Biogen gestiva operazioni di vendita diretta in oltre 30 Paesi e si appoggiava a partner per distribuire i suoi prodotti in altri 60 mercati. Biogen era entusiasta dalle potenzialità e delle prospettive future della tecnologia ZFN di Sangamo e aveva stretto una partnership con l’impresa per lo sviluppo di farmaci destinati alla cura dell’anemia falciforme e della beta-talassemia. Secondo i termini dell’accordo, Biogen avrebbe corrisposto a Sangamo una somma di 20 milioni di dollari come upfront payment; Sangamo invece si impegnava a svolgere tutte le attività di R&S riguardo ai trattamenti terapeutici fino a quando non si fossero dimostrati efficaci sull’organismo umano. A quel punto sarebbe subentrata Biogen, prendendo in carico le attività di trial clinici, di produzione e di marketing, mentre Sangamo avrebbe ottenuto un pagamento per il raggiungimento dell’obiettivo (milestone payment) fino a 300 milioni di dollari e la corresponsione di royalty qualora i prodotti fossero giunti sul mercato. Shire AG. Shire era una delle maggiori imprese britanniche specializzate in prodotti biofarmaceutici con quasi 5 miliardi di dollari di ricavi nel 2013. Operava in tre segmenti principali: le specialità farmaceutiche, le terapie genetiche, la medicina rigenerativa. La società disponeva di un’estesa e consolidata rete di marketing e vendite. Sebbene la maggior parte dei suoi ricavi fosse riconducibile al Nord America (70%), svolgeva operazioni dirette di vendita in 30 Paesi e vendeva i suoi prodotti in oltre 50 mercati. Shire era nota per avere intrapreso negli ultimi anni un’aggressiva strategia di crescita esterna, avendo acquisito in poco tempo NPS Pharmaceutical, ViroPharma, Janssen Pharmaceuticals e Advanced Biohealing. I suoi due farmaci più conosciuti erano entrambi destinati alla cura della malattia da deficit di attenzione (Attention Deficit Disorder, ADD): il Vyvanse e l’Adderall. Nel gennaio del 2012, Sangamo aveva siglato un accordo con Shire AG per proseguire lo sviluppo di una terapia basata sulle ZFN per l’emofilia, il morbo di Huntington e altre malattie. Come era accaduto nell’accordo con Biogen, Shire aveva concordato con l’impresa il pagamento di un upfront fee, oltre a riconoscerle milestone fee fino a 213,5 milioni di dollari, per ciascuno di sette target terapeutici prestabiliti.
Un’opportunità formidabile: una terapia per l’HIV Una delle applicazioni più entusiasmanti delle ZFN riguardava lo sviluppo di una terapia in grado di combattere l’HIV (Human Immunodeficiency Virus, il virus responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita, AIDS). Nel 2013, c’erano al mondo circa 35 milioni di persone che vivevano con l’HIV/AIDS (Figura 8.2).
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EUROPA ORIENTALE E ASIA CENTRALE 1,1 milioni NORD AMERICA ED EUROPA OCCIDENTALE E CENTRALE [980 000 – 13 milioni] 2,3 milioni [2,0 milioni – 3,0 milioni] MEDIO ORIENTE E NORD AFRICA 230 000 PAESI CARAIBICI [160 000 – 330 000] 250 000 [230 000 – 280 000] AMERICA LATINA 1,6 milioni [1,4 milioni – 2,1 milioni]
AFRICA SUB-SAHARIANA 24,7 milioni [23,5 milioni – 26,1 milioni]
ASIA E AREA DEL PACIFICO 4,8 milioni [4,1 milioni – 5,5 milioni]
TOTALE: 35,0 milioni [33,2 milioni – 37,2 milioni]
Figura 8.2 La diffusione dell’ HIV/AIDS nel mondo, 2013. Fonte: UNAIDS.
Una piccola percentuale di individui, però, presenta una mutazione nel gene CCR5, che codifica una proteina presente sulla membrana dei leucociti, coinvolta nel sistema immunitario come recettore e utilizzata da molte forme di HIV nelle fasi iniziali per entrare nelle cellule da infettare. Tale mutazione rende difficile al virus di penetrare all’interno delle cellule. Gli individui ricevono i loro geni a coppie – uno dal padre, l’altro dalla madre per ciascun cromosoma. Gli individui con una copia del gene mutato sono protetti dall’infezione HIV e sperimentano una forma della malattia di minore gravità. Gli individui con due copie del gene CCR5 mutato sono di norma immuni dall’HIV. Tali mutazioni geniche compaiono fino al 20% delle persone di origine europea (gli scienziati ipotizzano che la mutazione del gene conferisce una particolare resistenza alla peste bubbonica o alle epidemie di vaiolo, determinando una maggiore presenza del gene mutato soprattutto nelle popolazioni riuscite a sopravvivere a tali epidemie). Inoltre, sembra che persone con il gene mutato non soffrano di alcuna malattia o problema di salute particolare a causa di tale mutazione. Le potenzialità di sfruttamento della mutazione del gene CCR5 riscosse una diffusa attenzione quando uno studio pubblicato nel 2011 rivelò che un paziente di AIDS colpito da leucemia aveva ricevuto un trapianto di cellule staminali di midollo osseo da un donatore con la mutazione del CCR5 ed era guarito dall’AIDS. Dopo il trapianto di midollo, il paziente aveva potuto interrompere tutte le terapie retrovirali senza che il virus ricomparisse nel suo sangue. Trovare una corrispondenza di midollo osseo con una mutazione del gene CCR5 è estremamente improbabile, e il trapianto rimane un’operazione ad alto rischio. Sangamo perciò decise di usare la sua tecnica di gene editing con le ZFN
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per sviluppare un metodo più semplice per indurre negli individui la mutazione genica. I primi risultati, presentati da Sangamo nel 2014, erano molto promettenti: dalla sperimentazione emergeva che il trattamento fosse ben tollerato e riduceva il carico virale di numerosi pazienti a cui erano state sospese le cure retrovirali nelle dodici settimane dello studio. Tuttavia, la percentuale di cellule che mostrava la mutazione tendeva a diminuire nel tempo, e ciò significava che doveva proseguire la ricerca volta a scoprire un modo efficace per modificare in misura adeguato i geni del paziente affinché la terapia risultasse affidabile e con risultati permanenti.
Verso il futuro Sangamo aveva senza dubbio ancora molta strada da percorrere. Disponeva di trattamenti rivoluzionari nei trial clinici per numerose e importanti malattie, compresa una terapia potenzialmente in grado di curare l’HIV. Nel breve termine, le sue attività erano focalizzate sullo sviluppo di trattamenti nelle prime fasi dei trial clinici (early stage), che poi avrebbe affidato ai suoi partner dotati di maggiori risorse e di un miglior posizionamento per condurre le fasi successive (late stage clinical trials), così come le attività di produzione e di marketing (Figura 8.3). Tuttavia, nel lungo termine, Sangamo voleva diventare capace di svolgere da sola le fasi di testing clinico, la produzione e il marketing, per meglio “catturare” il valore generato dalle sue tecnologie innovative. In quel momento, Sangamo non conseguiva ancora alcun ricavo dai prodotti nella sua pipeline, soltanto fondi di ricerca provenienti da fondazioni e la liquidità ottenuta dagli upfront payment versati dai partner con cui aveva stipulato accordi di licenza. Spendeva oltre 30 milioni di dollari l’anno in R&S, registrando ingenti perdite, anno dopo anno. Era questo il motivo per cui Sangamo doveva ben ponderare i benefici e i rischi di una strategia stand alone per lo sviluppo della terapia HIV.
PROGRAMMA INDICAZIONE SB-728
HIV/AIDS
Shire
EMOFILIA
biogen idec
BETA TALASSEMIA
biogen idec
ANEMIA FALCIFORME
Shire Multiple Multiple CERE-110
FASE RICERCA PRE-CLINICA
FASE 1
FASE 2
FASE 3
MALATTIA DI HUNTINGTON MALATTIA DI ACCUMULO LISOSOMIALE ALTRE MALATTIE MONOGENETICHE MALATTINA DI ALZHEIMER
Figura 8.3 I programmi di ricerca e la pipeline di Sangamo. Fonte: www.sangamo.com
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302 Capitolo 8
8.1 Temi del capitolo Le imprese sono chiamate non di rado a prendere difficili decisioni riguardo alla scelta delle attività da svolgere all’interno dei propri confini organizzativi; in seguito, esse devono altresì scegliere, quali, tra tali attività, realizzare in maniera autonoma, per proprio conto, e quali invece in collaborazione con uno o più partner. Come abbiamo accennato nel Capitolo 2, una buona parte delle innovazioni deriva non tanto da un singolo individuo o da una sola organizzazione, quanto piuttosto da una combinazione degli sforzi di più individui o di più organizzazioni. Spesso la collaborazione consente alle imprese di raggiungere risultati superiori in tempi più brevi e con costi o rischi più contenuti di quanto accadrebbe “correndo” da sole. Tuttavia, una strategia di collaborazione comporta una rinuncia sia al controllo esclusivo dello sviluppo del progetto sia a una quota dei ritorni previsti dal successo dell’innovazione, senza dimenticare il rischio di dover fronteggiare il comportamento opportunistico o scorretto dei partner. In questo capitolo analizzeremo, in un primo momento, le ragioni che possono spingere un’impresa a scegliere di stabilire o di evitare una strategia di sviluppo collaborativo. In un secondo momento, prenderemo invece in esame le tipologie di accordo più comuni, descrivendone i vantaggi e i limiti.
8.2 Vantaggi dello sviluppo autonomo Esistono diversi motivi per i quali un’impresa può decidere di avviare lo sviluppo di un progetto in totale autonomia. Innanzitutto, può non avvertire alcun bisogno di collaborare con altre organizzazioni in quanto già in possesso di tutte le competenze, le capacità e le risorse necessarie per lo sviluppo del progetto. Oppure, benché interessata ad acquisire competenze, capacità o risorse complementari da un ipotetico partner può non trovare alcuna organizzazione in grado o disponibile a collaborare. Il management può decidere altresì di non ricorrere a una strategia di collaborazione e proseguire lungo la strada dello sviluppo autonomo nel timore che un accordo con un operatore esterno possa mettere a repentaglio le tecnologie proprietarie dell’impresa, oppure qualora intenda mantenere il pieno controllo dello sviluppo del progetto e appropriarsi in maniera esclusiva delle rendite potenziali che attende di realizzare. Lo sviluppo autonomo di un’innovazione tecnologica può offrire inoltre maggiori opportunità e occasioni in un disegno più ampio orientato a costruire, rafforzare e rinnovare il patrimonio organizzativo di risorse, conoscenze e competenze.
Disponibilità delle capacità e delle competenze La decisione di collaborare con un partner per lo sviluppo di un progetto di innovazione è senza dubbio condizionata dalla disponibilità in-house, nell’impresa così come in uno o più dei potenziali partner, di tutte le capacità e le competenze necessarie allo sviluppo e alla realizzazione del progetto. Un’impresa che disponga già di tali risorse e capacità potrebbe non avvertire l’esigenza di collaborare con altri operatori e probabilmente sceglierà di procedere da sola.
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È quanto per esempio ha deciso Genzyme, la biotech incontrata nel capitolo precedente. E ancora, se l’impresa è consapevole di non possedere determinate capacità, ma al contempo non trova partner potenziali in grado di colmare tale gap, potrebbe essere costretta comunque a sviluppare essa stessa al proprio interno le capacità e le competenze di cui ha bisogno.
Protezione delle tecnologie proprietarie Può accadere che il management preferisca evitare strategie di collaborazione per paura di vedersi sottratti i risultati dei propri sforzi di innovazione. Una stretta interazione con un partner potrebbe esporre le tecnologie proprietarie dell’impresa allo sguardo indiscreto di un potenziale concorrente. Talvolta, il management potrebbe desiderare di mantenere un controllo esclusivo di qualunque tecnologia proprietaria creata durante il progetto di sviluppo. Per esempio, come suggerisce il caso Xenomouse sul sito web, la decisione di Abgenix di collaborare con un partner al suo progetto di sviluppo di un nuovo farmaco antitumorale, avrebbe garantito all’impresa l’accesso a risorse finanziarie e a risorse e capacità critiche di marketing e di sviluppo commerciale che non possedeva, ma al contempo avrebbe implicato la rinuncia al controllo esclusivo dei nuovi farmaci che sarebbero stati generati dal progetto. Anche Sangamo, che abbiamo appena incontrato nel caso di apertura, è chiamata a prendere una decisione riguardo a come proseguire nel suo processo di sviluppo di una tecnica di gene editing per curare l’HIV. Una strategia di collaborazione potrebbe consentire a Sangamo di disporre di liquidità, nonché di un accesso privilegiato alle competenze distintive del partner nella sperimentazione clinica, nella produzione e nel marketing; tuttavia, in tal caso, dovrà condividere i profitti futuri e i benefici reputazionali che potranno discendere dallo sviluppo del nuovo farmaco.
Controllo dello sviluppo e dell’utilizzo delle tecnologie In alcuni casi, le imprese scelgono di non collaborare perché intendono mantenere un controllo assoluto sui processi di sviluppo e beneficiare di un uso esclusivo di qualunque nuova tecnologia che ne derivi. Questa scelta può essere motivata da considerazioni di ordine pragmatico (per esempio, l’impresa prevede che la nuova tecnologia produrrà margini elevati e non desidera dividere i profitti con uno o più partner) o culturale (per esempio, la filosofia aziendale privilegia i valori dell’indipendenza e il principio di autonomia). Il caso Honda, sul sito web, mostra per esempio l’ostinazione con cui l’azienda giapponese ha sviluppato in casa il motore ibrido, senza cercare forme di collaborazione.
Creazione e rinnovo delle capacità Le imprese possono scegliere la strada dello sviluppo in autonomia anche quando una strategia di collaborazione potrebbe garantire un risparmio di tempo e di denaro, qualora ritengano che gli sforzi di sviluppo siano fondamentali ai fini della creazione e del rinnovo del proprio patrimonio di competenze organizzative. Lo sviluppo autonomo di un’innovazione tecnologica impone come sfida all’impresa la capacità di sviluppare nuove abilità, di rinnovare le risorse e di approfondire la conoscenza del mercato. Come abbiamo visto nel Capitolo 7, il
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percorso che conduce alla creazione e al rafforzamento delle competenze dell’impresa potrebbe rivelare un valore maggiore rispetto all’innovazione in sé. Nei prossimi paragrafi, discuteremo i vantaggi delle collaborazioni e i benefici e i limiti delle principali forme di collaborazione.
8.3 Vantaggi della collaborazione Collaborare con un partner in un progetto di sviluppo dell’innovazione è una strategia in grado di offrire all’impresa non pochi vantaggi. In primo luogo, può consentirle di accedere alle capacità e alle risorse necessarie di cui non dispone con maggiore rapidità di quanto avverrebbe in caso di sviluppo in-house. Talvolta, accade che un’impresa sia priva di alcune attività complementari che risultano tuttavia indispensabili per la trasformazione di un nucleo di conoscenze tecnologiche in un prodotto commerciale. Certo, con il tempo potrebbe riuscire a svilupparle internamente, ma ciò comporterebbe un allungamento dei cicli di sviluppo. Le alleanze strategiche o gli accordi di licensing, invece, possono permettere un rapido accesso a risorse complementari critiche (Hamel et al., 1989; Shan, 1990; Pisano, 1990; Venkatesan, 1992). Quando, per esempio, Apple cominciò a sviluppare la stampante laser ad alta risoluzione LaserWrite, non possedeva un’esperienza tecnologica adeguata alla produzione del motore di stampa. Poiché lo sviluppo in-house di queste capacità avrebbe richiesto molto tempo, Apple riuscì a convincere Canon, leader del mercato dei motori per stampanti, a collaborare al progetto e, con il suo aiuto, fu in grado di introdurre rapidamente nel mercato la sua stampante di alta qualità. Talvolta, un’alleanza strategica alla ricerca di risorse complementari critiche è adoperata per rafforzare la posizione competitiva in mercati ad alta intensità concorrenziale, dove lo standard tecnologico o il disegno dominante ancora non si è consolidato. Google, per esempio, è da qualche tempo alla ricerca di partner industriali per accelerare i tempi nello sviluppo di un automobile driverless, come illustra il prossimo box Google e Fiat Chrysler per l’auto del futuro. Ma anche Fiat, che a differenza dei suoi principali concorrenti si è a lungo tenuta lontano da progetti innovativi nel campo dei motori, è costretta ad esplorare nuovi scenari tecnologici che proprio la partnership con Google potrebbe dischiuderle.
Innovazione nel mondo Google e Fiat Chrysler per l’auto del futuro Alla fine l’immobilismo era finito e l’accordo con Google, ufficializzato alle 22.30 ore italiane del 3 maggio 2016, faceva
uscire Fiat Chrysler Automobiles (Fca) dall’angolo in cui si era cacciata. Più il tempo passava, più al Ces di Las Vegas
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(continua) le novità riguardavano principalmente il mondo dell’auto, più la presenza marginale di Fca dal centro del campo da gioco dell’innovazione diventava evidente. Completare l’integrazione tra Fiat e Chrysler e ridurre il debito: erano state a lungo le parole chiave della strategia di Sergio Marchionne. Una scelta che nel recente passato aveva pagato: le vendite erano cresciute a livello mondiale nel 2015 del 18% e il trend era continuato nel primo trimestre del 2016. Però i problemi di prospettiva erano sempre rimasti sullo sfondo ed erano chiarissimi allo stesso Marchionne. Problemi, innanzitutto, legati alla sempre maggiore difficoltà per i singoli gruppi automobilistici ad avere ritorni soddisfacenti sul capitale investito. La causa? Gli investimenti sempre più ingenti richiesti dallo sviluppo di nuovi modelli e soprattutto nuove piattaforme produttive, come aveva ricordato Marchionne un anno prima nella sua conference call dal titolo evocativo di Confessioni di un drogato di capitale (sul sito web le slide della presentazione di Sergio Marchionne). Guai comuni ma che, come aveva mostrato uno studio del 2014 di Mediobanca, colpivano la Fiat (ancor più di Chrysler) più di tutti (sul sito web, la sintesi dello studio di R&S Mediobanca). In attesa di un matrimonio, mentre Gm respingeva le avances e gli altri concorrenti, da Vw a Toyota, sembravano sempre più lontani, i ritardi sul lato della tecnologia si accumulavano. Quelli sul fronte dell’auto elettrica o ibrida erano rimasti sul terreno. Sul fronte delle auto senza pilota, il cambiamento di paradigma era invece stato drastico. Fca, mettendo a disposizione un centinaio di proprie Chrysler Pacifica, aveva bruciato sul tempo Ford, a lungo data per molto vicina a un accordo, così come Gm. Già nel 2015 Marchionne aveva parlato di una possibile intesa con Apple e Google. Aveva provato le auto di Mountain View e aveva strizzato l’occhiolino in maniera evidente alla società fondata da
Steve Jobs. Poi l’accordo era arrivato con Alphabet-Google e a sparigliare le carte sembrava fosse stata la decisione di cedere a Google il controllo dei dati che sarebbero stati ricavati dai test. Una condizione contro la quale si era opposta strenuamente Gm, e con ragione: chi avrà i dati avrà sempre più potere e potrà utilizzarli in futuri accordi. Non era un caso che un’altra clausola che Google-Alphabet aveva ottenuto stabiliva che entrambe le aziende sarebbero state libere di realizzare altri progetti con altri produttori. Nessuna esclusiva era in vista, come d’altra parte non erano state previste esclusive in un altro campo che Google conosceva bene, quello degli smartphone. In quel caso a realizzare le versioni dei telefoni e tablet Nexus erano stati praticamente tutti i grandi produttori: Samsung, Lg, Htc, Motorola, Asus. Il sistema Android si era potuto installare in tutti i cellulari, con la sola esclusione di quelli Apple e dei Windows Phone (ex Nokia). “Mi aspettavo che l’accordo prevedesse la cessione dei dati a Google, che è la società dei Big Data per definizione e il cui valore è di saper sfruttare i dati”, osservava l’economista Giuseppe Russo. Dove fossero i rapporti di forza era quindi ipotizzabile. Ancora una volta, Marchionne ne era sembrato consapevole ma non aveva visto alternative, perché i costi di sviluppare sistemi proprietari nel campo delle driverless car erano troppo alti. “Marchionne ha fatto bene, nessuno ha la forza per fare da solo”, commentava Giuseppe Berta, storico dell’industria all’Università Bocconi e tra i massimi studiosi della Fiat. “Le prospettive che Fca aveva davanti erano tre. La prima era quella di un accordo con un grande gruppo come General Motors, che non è riuscito. La seconda era di rimanere nei suoi perimetri attuali, ma si sarebbe trattato di un pericoloso galleggiare. La terza era proprio quella di appoggiarsi ai californiani”. L’alternativa a Google era
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(continua) Apple, ma si trattava di una strada quasi impossibile, perché la casa di Cupertino sembrava aver deciso di fare tutto da sé, componente hardware inclusa. Nel suo progetto Titan lavorava un numero imprecisato di progettisti strappati a Tesla, Volkswagen, Nvidia, Ford, Bosch e molti altri. Secondo le indiscrezioni erano tra i 600 e i 1800. “Al massimo avrebbe trattato la casa come un semplice fornitore, per questo il dialogo con Bmw sta andando avanti a fatica. Penso che troverà un produttore in Cina, come la Foxconn per l’iPhone”, prevedeva Berta. (Secondo alcune indiscrezioni, nel mese di ottobre del 2016, Apple decideva di ridimensionare il suo progetto Titan: si vedano sul sito web il rapporto di Bloomberg con le prime indiscrezioni e un commento del New York Times). Google, invece, era un erogatore di servizi e aveva bisogno di un produttore, perché non intendeva caricarsi della zavorra di costi degli impianti di produzione e perché il mestiere del costruttore di auto non si improvvisava (regola violata dal solo caso di Tesla) e richiedeva esperienza, cultura, storia. Fiat offriva a Google la sua capacità di produrre in mezzo mondo grandi volumi a costi competitivi. “Una magica coppia”, commentava un osservatore: “Google ci mette il software e Fca l’hardware” e, in futuro, la sua rete di distribuzione e di vendita. “Se il progetto la convincerà, sarà pronta a pagare bene, così come ha pagato miliardi per società come Instagram”, aggiungeva Berta. “Anche a Google l’accordo conviene, perché se continuava con i suoi prototipi rischiava di arrivare sul mercato dopo gli altri sviluppatori di tecnologia” precisava Russo. Molti produttori di auto, da Tesla ad Audi, passando per Bmw e Nissan-Renault avevano annunciato che sarebbero stati pronti con propri veicoli autonomi entro il 2020. “L’industria europea è tutt’altro che indietro”, ricordava Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor.
Parlare di veicoli autonomi in generale, comunque, aveva poco senso. Era molto diverso lo scenario di una guida con pilota che prevedeva l’assistenza della tecnologia e una guida completamente senza pilota. Nel primo gruppo rientravano tutti i progetti realizzati fino ad allora, per esempio da Tesla o da Audi con la sua V7, già in grado di fermarsi in caso di pericolo. Nel secondo, proprio le sperimentazioni di Google sui suoi prototipi, privi perfino del volante. Non era detto però che sarebbe stata la strada da scegliere. Considerati anche i non pochi problemi regolatori, lo scenario era ancora aperto. Secondo alcuni osservatori, le auto completamente senza pilota avrebbero circolato solo in contesti protetti. E la Fca? “Potrebbe essere che trovi con Google una via di mezzo tra le due visioni, in cui Google rinuncia a un po’ di autonomia e Fca a un po’ di ruolo centrale del guidatore. Oppure è possibile che si creino due gamme distinte”, ipotizzava Giacomo Cacciabue, amministratore delegato di Kostal Italia, società specializzata nella fornitura di componenti ad alta tecnologia. Secondo Cacciabue c’era un aspetto da non sottovalutare: “Oggi Fca non si può considerare in ritardo rispetto agli altri produttori, anche tedeschi, sul fronte dei sistemi tecnologici di supporto al guidatore. La nuova Giulia avrà dei sistemi che finora non sono stati adottati da nessun altra casa”. Tra i vantaggi che Fca avrebbe ricavato dall’alleanza se ne contavano altri due. Il primo era che così facendo avrebbe avuto accesso ai 4 miliardi di dollari di incentivi che il presidente Usa Barack Obama aveva stanziato per l’innovazione sul fronte delle driverless car. Una condizione che, almeno nelle fasi di sperimentazione, avrebbe obbligato a concentrare gli sforzi negli Usa, e in particolare in uno stabilimento del Michigan. Il secondo era che, accordandosi con Google, Fiat Chrysler stringeva un’alleanza con un lobbista formidabile. “Google ha un legame
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(continua) di ferro con la politica e un forte sostegno regolatorio”, spiegava Berta. La responsabile delle relazioni pubbliche di Mountain View, Johanna Shelton, era stata alla Casa Bianca 128 volte dall’inizio della presidenza Obama e le visite totali di membri di Google erano state almeno 427. Se si parlava di auto senza pilota, il tema regolatorio rimaneva enorme, perché andava cambiato alla radice il codice della strada, e il percorso da compiere era ancora lunghissimo. Solo pochi stati permettevano alle auto senza pilota di effettuare i test, mentre a livello federale non c’erano ancora autorizzazioni e non a caso era sul Congresso che si concentravano le pressioni di Google. E anche in questo caso la collaborazione con Fca poteva tornare utile. La tecnologia driverless spaventava e i marchi storici controllati da Fca, come Alfa Romeo, Ferrari, Fiat o Maserati senza dimenticare Chrysler o Jeep, avrebbero rassicurato il mercato qualora la collaborazione fra le due imprese fosse andata oltre la sperimentazione di un prototipo “Pacifica Google”. Gli appoggi, dunque, sarebbero serviti tanto quanto la tecnologia. Ma, lungo la strada verso il 2020, o più realisticamente il 2025, quando le auto autonome avrebbero cominciato a circolare, la Fca doveva porsi il tema del ritardo nel motore elettrico. “Dubito che con l’avanzare delle nuova mobilità Fca possa proseguire con i soli motori a scoppio”, sosteneva Berta. Un segnale in questa direzione era dato dal fatto che per i test di Google l’auto messa a disposizione era una Chrysler Pacifica in versione ibrida. L’ostilità di Marchionne all’auto elettrica era nota, ribadita perfino alla presentazione della 500 elettrica, a causa dei suoi alti costi. Alla presentazione della Tesla Model 3, di Elon Musk Marchionne aveva detto: “Se mi dimostra che (l’auto) riesce a essere profittevole a quel prezzo (35 mila dollari), copierò la formula, aggiungerò un tocco italiano e andrò sul mercato nel giro di 12 mesi”. Solo una boutade spaccona? No,
secondo un sindacalista Fim che conosceva bene la Fca, il segretario nazionale Ferdinando Uliano: “Non dobbiamo dimenticare che la Magneti Marelli (gruppo Fca) sviluppa già motori elettrici per altre case automobilistiche. Finora Marchionne ha sempre sostenuto che non c’erano i volumi per giustificare la produzione di auto a motore elettrico. Ma ha ragione quando dice che Fca potrebbe partire in pochissimo tempo”. Se la strada autartica non fosse stata praticabile, sarebbe emerso un problema. Perché i produttori di auto elettriche difficilmente avrebbero messo a disposizione la propria tecnologia in vendita se non dopo troppi anni. “Accadrebbe solo se gli investimenti si rivelassero talmente gravosi da rendere inevitabile una condivisione dei costi”, osservava Russo. Oppure in caso di una fusione a tutto tondo. Questo era il prossimo capitolo che i vertici di Fca avrebbero dovuto affrontare. Intanto, l’accordo raggiunto da Sergio Marchionne e dal Ceo del progetto Google Car, John Krafcik, ex Ceo di Hyundai Motors America, era un segno importante della volontà di Fca di non voler perdere il passo in un mercato molto promettente. La collaborazione con Google per la R&S avrebbe consentito alla casa automobilistica di ridurre i costi nella ricerca e di accorciare il ritardo dalla concorrenza nello sviluppo dei nuovi sistemi di guida. Marchionne già un anno prima aveva avviato un tavolo di discussione con Tesla e Apple mostrando il suo interesse per le tecnologie driverless. Da alcuni anni Google era impegnata a stringere accordi con partner interessati ad acquistare i sistemi per le auto a guida automatica. Oltre a cercare nuovi partner, negli ultimi anni i ricercatori di Google avevano lavorato per migliorare e rendere più affidabile il proprio sistema, realizzando un primo prototipo. In più occasioni il management aveva spiegato che l’azienda non intendeva diventare una casa automobilistica vera e propria:
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(continua) l’obiettivo era vendere le tecnologie sviluppate ai produttori che già esistevano e che erano interessati al progetto. Krafcik era stato assunto da Alphabet (l’holding che controlla Google) nel settembre del 2015 proprio con il compito di dirigere la divisione che si occupava di automobili, concentrandosi sulla creazione dei primi accordi industriali con le case automobilistiche. “È una grande opportunità per aiutare Google a sviluppare l’enorme potenziale delle auto che si guidano da sole”, aveva dichiarato quel giorno. “Questa tecnologia può salvare migliaia di vite, offrire una migliore mobilità a milioni di persone, e liberarci da molte delle cose che oggi troviamo frustranti alla guida. Sulle auto senza guidatore Google è impegnata su più fronti. Si è alleata con Ford e Uber per fare pressione sulle autorità americane per la definizione di regole certe sulle auto del futuro, nella convinzione che le vetture autonome renderanno le strade americane più sicure e meno congestionate. C’è bisogno, però di standard chiari che ne facilitino l’introduzione sul mercato”. Ora molti parlavano di una “alleanza storica” fra Google e Fca, ma il Ceo della casa automobilistica aveva invitato alla prudenza, ricordando che in fondo si trattava solo di un contratto per la fornitura di 100 vetture. E anche Krafcik la pensava così. A USA Today aveva dichiarato che Google avrebbe cercato altri partner oltre a Fca per il suo programma di sviluppo di auto driverless: “Stiamo parlando solo di Google e Fca che costruiscono 100 auto insieme. Al momento, però, stiamo conversando con molte altre case automobilistiche per trovare nuovi potenziali
accordi. Il nostro intento è quello di rimanere aperti a tutto ciò che può aiutarci, e sappiamo che in questo senso sarà necessario trovare molte partnership. Perché abbiamo una responsabilità importante: arrivare alla tecnologia self-driving il prima possibile. Non appena la tecnologia del pilota automatico ci darà risultati migliori rispetto a quelli della guida umana, dovremo premere il pulsante e andare”. Fonti: adattamento da F. Patti, “La verità su Fiat Chrysler? L’accordo con Google è l’unico modo per uscire dall’angolo”, Linkiesta, 4 maggio 2016; T. Chiarelli, “Decolla l’alleanza Fiat ChryslerGoogle. Assieme per l’auto che si guida da sola”, La Stampa, 3 maggio 2016; G. Mosca, “FiatChrysler, accordo con Google per l’auto senza conducente”, Wired, 2 maggio 2016; V. Borgomeo, “FCA Google, l’accordo del secolo: l’auto a guida autonoma è più vicina”, La Repubblica, 3 maggio 2016; M. Cianflone, “Auto che guidano da sole: ecco cosa sta succedendo davvero”, Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2016; B. Simonetta, “Il capo di Google Car: L’accordo con Fca non avrà ulteriori sviluppi”, Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2016. Per saperne di più: J. Bennett, “Google, Fiat Chrysler begin work on self-driving minivans”, The Wall Street Journal, 25 maggio 2016; M. Gurman e A. Webb, “How Apple scaled back its titanic plan to take on Detroit”, Bloomberg Technology, 17 ottobre 2016; B. Solomon, “Google teams up with Fiat to make 100 self-driving cars”, Forbes, 3 maggio 2016; D. Kiley, “Why Fiat Chrysler is the perfect partner for Google on autonomous cars”, Forbes, 3 maggio 2016. Per vederne di più: http://www.cnbc.com/2016/05/03/ alphabet-fiat-chrysler-strike-deal-for-self-drivingminivan-prototypes.html; http://www.autoblog.com/ 2016/04/28/google-fca-self-driving-minivan- partnership/; https://www.ted.com/talks/sebastian_ thrun_google_s_driverless_car; https://www.ted. com/talks/chris_urmson_how_a_driverless_car_ sees_the_road?language=it
In secondo luogo, l’acquisizione di capacità o risorse da un partner può consentire all’impresa di ridurre gli oneri finanziari e accrescere la propria flessibilità. Tali benefici possono rivelarsi particolarmente importanti all’interno di contesti economici caratterizzati da processi di evoluzione rapida, nei quali la velocità del cambiamento tecnologico provoca una trasformazione dei mercati e l’accorciamento dei cicli di vita dei prodotti. In queste circostanze, in effetti, l’innovazione
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diventa il principale fattore critico per il successo competitivo. Quando la tecnologia progredisce con rapidità, l’impresa potrebbe cercare di non restare ingabbiata in investimenti di capitale fisso, che rischiano di rivelarsi presto inadeguati o inadatti. Una strategia alternativa, per sottrarsi a vincoli simili, potrebbe invece suggerire all’impresa di focalizzarsi su una determinata area di specializzazione, utilizzando i collegamenti con altre imprese, altrettanto specializzate, per accedere a risorse e competenze di cui non dispone al proprio interno. Per esempio, Colnago, una delle più note aziende italiane nella produzione di biciclette di fascia alta, ha attinto alle competenze di Ferrari per la progettazione di un avveniristico telaio in fibra di carbonio (“Colnago, la Ferrari delle biciclette”).
Innovazione in Italia La fabbrica per incartare il cioccolato Ernesto Colnago sta alle bici da corsa, alla loro storia ed evoluzione degli ultimi cinquanta anni, come Enzo Ferrari stava alle Formula Uno e alle auto sportive. Non per niente i due erano amici. E insieme hanno firmato una serie di progetti innovativi. Come Ferrari, anche Colnago è quasi ossessionato dall’idea di andare sempre avanti, di spingere sulla qualità del prodotto, sul futuro, sull’eccellenza. Ancora oggi, Ernesto Colnago ogni mattina alle 7.30, con il sole o con la pioggia, dal lunedì al sabato compreso, saluta la moglie Vincenzina, indossa la giacca, attraversa la strada provinciale, a poche centinaia di metri dall’uscita autostradale di Cambiago, sulla Milano Bergamo, tra campagne padane, centri commerciali e capannoni industriali, con questo chiodo fisso che lo insegue da quando ha cominciato a costruire telai da corsa, ormai più di 60 anni fa: creare la bici più veloce, la migliore del mondo. Ripercorrere la storia di Colnago, della sua azienda e delle sue biciclette, equivale a ripercorrere la storia del ciclismo degli ultimi 60 anni. Negli archivi, ci sono le foto in bianco e nero di lui che assisteva Fiorenzo Magni, quando lasciata la carriera agonistica, innamorato pazzo di questo sport, passò dall’altra
parte del mondo delle corse e decise di fare il meccanico. Da Magni si passa agli anni della Molteni, lo squadrone che prima con Motta e poi con il cannibale Eddy Merckx vinceva tutto e su tutti. Colnago faceva le loro bici e li seguiva sull’ammiraglia durante le corse. È di Colnago la super bici arancione in acciaio leggerissima con cui Merckx nel 1972 conquistò il record dell’ora. Alleggerita dove si poteva. Sono di Colnago le bici bordeaux degli anni d’oro di Beppe Saronni, del Mondiale e del Giro d’Italia. Era di Colnago, conservata ancora infangata nel museo aziendale, la bici, una C 40, con la quale Franco Ballerini volava a 60 all’ora sul pavé della Parigi Roubaix e vinceva. Ben due volte. La classica delle classiche. In quegli anni, tutti gli altri costruttori di telai si ostinavano a ricercare soluzioni per ammortizzare il fondo sconnesso. Lo spauracchio era il belga Johan Museeuw e la sua bici. Giorgio Squinzi patron della Mapei non ci dormiva la notte: “Ernesto, quello ci ha una bici con gli ammortizzatori”. E Colnago che insisteva con la sua idea: le forcelle dritte, la bici senza molle: “È il ciclista che deve ammortizzare gli urti, con il suo corpo, con i polsi: le sospensioni rallentano la velocità del mezzo, facilitano la
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(continua) dispersione della potenza”. La strada e la gara gli diedero ragione . . . Da questa sua ossessione per migliorare il prodotto sono nate molte delle innovazioni di prodotto legate alla bicicletta, oggi di uso comune. Il telaio in carbonio, per esempio. Il primo telaio in carbonio monoscocca è nato quasi per caso nel 1980: fu lo stesso “Drake”a suggerirgli di provare a introdurre quel materiale nel mondo del ciclismo. “Hai solo cinquant’anni, io alla tua età ho fondato la Ferrari. Devi rischiare, guardare avanti, verso il futuro: io ci sono”. Colnago non se lo fece ripetere due volte: e così nacque l’intesa con FerrariEngineering, dimostrando di saper combinare avanguardia e tecnologia in una serie di biciclette sempre più leggere e performanti. E fu proprio Enzo Ferrari a dare la “benedizione” al modello Concept, realizzato in carbonio sia nel telaio sia nelle ruote a tre razze, come aveva suggerito il Drake. Fu la prima bici in carbonio al mondo, oltre a proporre una forcella a foderi dritti, una vera rivoluzione per i tradizionalisti, ancora oggi adottata nella maggior parte della gamma, una delle innovazioni più importanti della collaborazionecon la Ferrari-Engineering, che aveva già dimostrato quanto gli steli rettilinei fossero capaci di assorbire meglio le asperità dell’asfalto su tutta la lunghezza del fodero. La collaborazione tra Colnago e Ferrari non ha mai avuto l’aspetto di un’operazione commerciale. Una testimonianza significativa è offerta dallo sviluppo congiunto della V1R. Colnago voleva costruire una bici con un rapporto peso-prestazioni stellare, e per realizzare tale progetto aveva bisogno di una fibra di carbonio di qualità eccelsa. Gli ingegneri del Cavallino avevano contribuito con le loro conoscenze proprio in questo campo, consigliando la scelta della fibra di carbonio da utilizzare: il telaio alla fine pesava appena 835 grammi. Ispirandosi al top della produzione di Maranello,
la V1R puntava sull’aerodinamica e sul telaio monoscocca. La prima garantiva una minima resistenza all’aria, il secondo una grande rigidità torsionale, così da esaltare la reattività. Colnago, sempre in collaborazione con la Ferrari, aveva condotto uno studio molto accurato dei flussi d’aria: i risultati dei test in galleria del vento avevano portato allo sviluppo di tubazioni a sezione tronca, considerata il miglior compromesso date le possibili combinazioni di vento laterale e frontale. Un altro elemento che denotava grande attenzione all’aerodinamica era la forcella anteriore, costruita per sviluppare elevata rigidezza e con il comparto freni integrato. L’innovatività della bicicletta risaltava anche dall’utilizzo di componenti dedicate, come il reggisella, i forcellini in carbonio, che permettevano il montaggio di freni a disco, e il movimento centrale: un brevetto Colnago. Sempre ispirata all’idea fissa di innovazione di Colnago, la prima bicicletta da corsa con freni a disco idraulici era nata qualche anno prima, attraverso un progetto in collaborazione con Formula, un’azienda bergamasca che costruiva freni per moto da cross. Una volta realizzati e sperimentati con successo, l’azienda italiana aveva offerto gratuitamente ai produttori di componentistica per bici il suo know-how, in cambio di freni per i suoi telai. Shimano aveva deciso di provarci e ha continuato a lavorare in questi anni sull’evoluzione di questo primo prototipo creato da Colnago con Formula (“Voi italiani siete incredibili”). Ebbene Shimano è diventato il principale produttore mondiale di freni a disco di alta gamma per bici da corsa. Le azioni del gruppo giapponese, quotate in Borsa a Tokyo e a New York, hanno avuto un aumento di valore clamoroso, anche grazie ai freni a disco che dal 2016 l’Uci, la federazione ciclistica internazionale, ha ammesso in via sperimentale nelle gare dei professionisti. Un’altra caratteristica delle bici Colnago è la resistenza: i comuni telai in
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(continua) carbonio sono leggerissimi, ma molto fragili. Ci sono degli standard di resistenza minimi dettati dalle norme Iso. Ebbene Colnago, sempre per via dell’ossessione sul prodotto che lo caratterizza, testa la resistenza al carico e alle cadute di tutti i suoi nuovi telai in carbonio con degli standard che superano di almeno cinque volte i limiti di resistenza minimi previsti dalle normative tecniche internazionali. In caso di caduta, i telai americani o taiwanesi si spezzano, quelli Colnago restano interi o, nel peggiore dei casi, a parità di caduta, al massimo si scheggiano ma difficilmente si spezzano. Al primo posto c’è la sicurezza di chi va in bici e la qualità del prodotto. Certo, diranno in molti, Colnago è rimasto per molti versi ancora un artigiano. Il suo modello di bici è lontano da quello industriale delle grandi case americane che investono milioni di dollari in pubblicità e in marketing, che hanno show-room che sembrano boutique di alta moda più che negozi di bici. Forse è vero. Ma sul prodotto non c’è partita. Gli americani lo sanno e impazziscono per Colnago e per il made in Italy di alta gamma. Gli americani fanno la fila pur di incontrare il signor Ernesto Colnago, per farsi firmare una maglia, un cappellino da ciclismo, un vecchio telaio. È andata così una volta negli Stati Uniti. Colnago a un appassionato americano che gli chiedeva di firmare con un pennarello una sua vecchia bici degli anni Settanta, aveva risposto scherzando:
“Te la firmo, te la firmo . . . ma dovresti comprarne anche una nuova, e non solo conservare queste di un tempo, sennò io chiudo”. E lui, l’americano ciclista, che di mestiere nella vita di tutti i giorni faceva il professore universitario al Mit di Boston, il tempio della ricerca tecnologica, precisò: “Signor Colnago, io ho un piccolo museo di bici, ne ho una quarantina, tutte Colnago, anche quelle nuove. Questa è quella più antica e ci tenevo a farla firmare da lei in persona”. Detto fatto. Una firma di Ernesto Colnago su un suo telaio artigianale in acciaio. È come una vecchia Ferrari degli anni Cinquanta. Dal valore inestimabile per gli appassionati veri di biciclette e per i collezionisti. È il mistero di queste biciclette nate tra la casa e la campagna padana, la nebbia e le zanzare. Una straordinaria quanto normale storia di impresa made in Italy. Non ci credete ancora? Provate a chiedere a sir Bradley Wiggins, detentore del record dell’ora, campione olimpico e vincitore del Tour de France, qual è secondo lui la migliore bici di sempre? Vi risponderà senza esitazione: “Una Colnago C40”. Fonti: adattamento da R. Barlaam, “Ernesto Colnago, la straordinaria storia normale di un simbolo del made in Italy”, Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2016; A. Michetti, “Un compendio di esclusività: la V1R by Colnago e Ferrari”, gpmciclismo.it. Per vederne di più: http://stream24.ilsole24ore.com/ video/24ore-tv/quando-il-made-in-italy-va-infuga-cos-nasce-una-bici-da-corsa/052f637e-ade311e3-aa56-86ac3a6178f9
Un terzo vantaggio delle strategie di collaborazione risiede nelle opportunità di apprendimento. Lo stretto contatto con altre imprese può favorire sia il trasferimento della conoscenza tra i partner, sia la creazione di nuova conoscenza che la singola impresa, da sola, non avrebbe potuto generare (Mowery et al., 1998; Baum et al., 2000; Liebeskind et al., 1996; Rosenkopf e Almeida, 2003). La condivisione delle capacità e delle risorse tecnologiche consente alle imprese che collaborano di ampliare la propria base di conoscenze in direzioni nuove e in tempi molto più brevi in confronto a ciò che ciascun partner avrebbe potuto raggiungere operando in completa autonomia. Yoox, per esempio, una delle imprese leader nell’e-commerce per l’abbigliamento di moda ha scelto di collaborare con IBM per lo sviluppo di una
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piattaforma innovativa. A sua volta, IBM ha chiesto a Yoox di partecipare al suo panel di partner formato per suggerire utilizzi innovativi per le sue tecnologie. Ancora più interessante è il ruolo svolge Yoox per molti dei principali brand dell’abbigliamento, collaborando nella creazione di “negozi virtuali” con competenze di regola non possedute dalle case di moda. Con alcuni partner, come Armani, la relazione si prolunga nel tempo; altri, dopo un percorso condiviso di collaborazione e di apprendimento, nella convinzione di aver ormai acquisito il know-how per gestire da soli le vendite on line, hanno trasferito al proprio interno il controllo delle attività di e-retailing. Il prossimo box illustra la storia di Yoox ponendo un’enfasi sulle strategie di collaborazione tecnologica.
Innovazione nei servizi Yoox e la sua rete partner Alle 9.00 del 5 ottobre 2015 la campanella di Piazza Affari aveva suonato il trionfo di un pezzo di digital economy italiana. In elegante abito scuro e volto visibilmente emozionato, Federico Marchetti, founder di Yoox, aveva fatto debuttare in Borsa la newco nata dopo la fusione con NetA-Porter. Un colosso dell’e-commerce che generava un volume d’affari da 1,3 miliardi l’anno. Aveva suonato lui stesso la campanella che aveva dato il via alle contrattazioni. Fuori, l’intero palazzo della Borsa era stato addobbato con un fiocco nero, come un gigantesco pacco regalo nel cuore di Milano. Era il regalo che Yoox faceva all’intero settore della moda italiana. Portandola online. Facendole capire l’importanza di Internet prima che Internet diventasse un’esigenza. Quando era ancora un’opportunità, e che ora regalava all’azienda miliardi di ricavi. “Quando ho fondato la mia start-up ho ragionato sul fatto che l’Italia è il primo produttore di prodotti di alta moda, e il terzo consumatore al mondo. Io ho cercato di portarla online”. E c’era riuscito, perché, con un valore di 3,8 miliardi, Yoox era diventato il primo unicorno italiano. Se con unicorno si intendeva una tech company che avesse raggiunto (e superato) una valutazione pari a un miliardo di euro,
e fosse nata e cresciuta col fundraising (secondo la definizione di Fortune/CB Insight), Yoox ci rientrava a pieno titolo. Per storia e modello di business, Yoox vantava tutti i classici elementi della storia di una start-up. Le origini nel garage di Casalecchio di Reno Si potrebbe partire da un’icona, la più classica di tutte: il garage. Era davvero il posto da cui tutto era partito per Yoox. Un garage a Casalecchio di Reno, Bologna, dove Marchetti aveva lanciato Yoox, diventato un colosso dell’ecommerce della moda vendendo il meglio del made in Italy (e non solo) nel mondo. Gli elementi dell’unicità li aveva davvero tutti, fin dal suo inizio, nel gennaio del 2000, da quando Federico Marchetti, allora trentenne, aveva deciso di lasciare il suo lavoro per creare un’azienda. Una laurea in Bocconi, un master alla Columbia University, e poi la scelta di diventare imprenditore proprio mentre collassava la net economy con lo scoppio della bolla finanziaria che l’aveva gonfiata. Proprio mentre i venture di allora, così propensi a finanziare qualsiasi tipo di start-up che si occupasse di Internet, chiudevano i
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(continua) rubinetti. Marchetti per partire cercò i primi contatti sulle pagine gialle. “Allora Google non era ancora così usato per cercare numeri e contatti di persone”. Gli capitò sotto gli occhi il nome di Elserino Piol, l’uomo d’affari “geniale e ruvido” che aveva finanziato imprese come Vitaminic, Click.it, Tiscali con i due fondi di Kiwi. Il padre del venture italiano, per alcuni il “vero padre dell’Internet in Italia”. Piol diede a Marchetti 3 miliardi di lire per cominciare. Un round di investimento unico, una cifra enorme, quasi impossibile da racimolare. Nemmeno allora era così frequente, però a Marchetti era riuscito il colpaccio. “3 miliardi sono tanti”, aveva ammesso in un’intervista a La Repubblica nel 2014, “ma nemmeno troppi. Nel Regno Unito o in Germania i finanziamenti sfondano il tetto dei 10 milioni, è così che si fa crescere una start-up. Non si fa un matrimonio coi fichi secchi”. Quei 3 miliardi erano serviti a partire alla grande. La società nasceva a marzo 2000. Il nome era stato voluto da Marchetti. “La Y e la X sono i simboli che rappresentano l’uomo e la donna. In mezzo due ‘o’ che sono la lettera più simile allo ‘0’ scelto a indicare il Dna. Yoox nel nome voleva collegarsi al mondo maschile e femminile della moda, con un Dna che li legasse a Internet”. Complicato, ma efficace. Yoox apriva i battenti il 21 marzo, il primo giorno di primavera. “La prima commessa? In Olanda, perché Yoox nasce già con un respiro internazionale. La ricordo ancora: è arrivata il 21 di giugno dello stesso anno”, tre mesi dopo: il ciclo era cominciato. Era il primo giorno d’estate e ogni anno Yoox festeggia il compleanno con una mega festa con tutti i dipendenti, “la vera forza di Yoox”. Scalare il mercato Da allora Yoox era cresciuta. Aveva conquistato i giornali di mezzo mondo, era tra le più forti digital company europee. Il fatturato aumentava di anno in anno,
con una progressione che una start-up dovrebbe avere. Nove anni dopo era sbarcata in Borsa. La società all’inizio era di Marchetti per il 9,8%, mentre il 70% era in mano ai fondi Kiwi, con un 20% in possesso di altri investitori. Negli anni successivi, come di norma accade, i fondi di venture avevano ridotto gradualmente la presenza nell’azionariato. Wired Uk nel settembre del 2014 dedicava la sua storia copertina a Yoox. “Fashion goes Tech” titolava il magazine con un’immagine di Marchetti in giacca e cravatta con un cipiglio da uomo d’affari, ma con l’aria ancora scanzonata dello startupper. Allora, Marchetti aveva una società presente in 100 Paesi, con 456 milioni di fatturato, e con oltre 800 dipendenti, la maggior parte in Italia. “All’Italia? Devo tutto. La formazione, ma anche gli affari. Io vendo made in Italy nel mondo, vendo l’eccellenza e il genio italiano”. Nel 2015 un’altra primavera. A fine marzo nasceva la Yoox Net-a-Porter dalla fusione tra la società del “ragazzo” di Ravenna con un altro colosso dell’ecommerce, Net-a-Porter. Più che una fusione, con il 50% delle quote ancora in mano a Yoox e Marchetti sempre alla guida, si era trattato di fatto di un’acquisizione da parte dell’impresa italiana. Ultimo step la quotazione in Borsa della newco, entrata con l’acronimo YNAP a Piazza Affari. Le ragioni del successo “Da qualsiasi punto di vista la si guardi, Yoox fa storia a sé”, spiegava in un’intervista a Linkiesta Stefania Saviolo, direttore del Knowledge Center Luxury & Fashion Master presso la Sda Bocconi. “Si occupa di distribuzione, un settore che negli ultimi di decenni ha visto gli italiani ai margini a vantaggio di francesi e britannici. Si occupa di e-commerce in un Paese che, pur avendo disponibilità di tecnologia, è negli ultimi posti nelle classifiche delle vendite online. Si occupa di outlet, altra formula i cui operatori sono per lo più anglosassoni. Ha fatto un’acquisizione di
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(continua) una grande società internazionale in un momento storico in cui le nostre principali aziende vengono vendute a gruppi stranieri”. Come raccontava Armando Branchini, vicepresidente della Fondazione Altagamma, che rappresenta le aziende del lusso, le fasi strategiche di Yoox erano state quattro. La prima: l’avvio come società di outlet online, a cui le imprese della moda davano i vestiti delle collezioni precedenti, come avevano sempre fatto con gli stocchisti. La seconda: la messa in piedi di un servizio di vendita non più a prezzo scontato ma pieno, attraverso il sito TheCorner. com. La terza: una volta sistemata una piattaforma logistica articolata, la messa a disposizione del proprio know-how per i marchi di moda che ancora non si erano organizzati per costruire una supply chain adeguata per la vendita online. Uno dopo l’altro, tutti i grandi nomi della moda e del design (da Dolce & Gabbana a Valentino, fino a Kartell) si erano lasciati sviluppare un sito “powered by Yoox” e avevano affidato alla società di Marchetti tutti gli aspetti logistici legati all’e-commerce. La fase era stata coronata dalla collaborazione con l’ultimo dei grandi gruppi fino ad allora tenutosi fuori, il francese Bering (che aveva tra i suoi marchi Yves Saint Laurent, Puma, Balenciaga, Bottega Veneta, Brioni e Pomellato) e con cui era stata creata una joint-venture chiamata Elite. La quarta e ultima fase era stata la fusione tra Yoox e Net-a-Porter. Dal punto di vista strategico, la fusione aveva dato a Yoox la possibilità di internazionalizzarsi in aree prima meno coperte; di affermarsi di più nel mondo del lusso venduto online a prezzo pieno; e soprattutto di aggiungere “contenuto editoriale” alla propria offerta, distinguendosi in questo dai concorrenti, che si concentravano più sull’offerta di prodotto. La fase più critica era stata quella iniziale. Si trattava di convincere il mondo della moda a
mettersi nelle mani di uno sconosciuto, fino ad allora estraneo al mondo delle sfilate, per un modello di business ancora più sconosciuto. Un fallimento poteva sporcare la loro immagine, in fin dei conti il loro bene maggiore. “Se ce l’ha fatta i motivi sono stati due”, spiegava Stefania Saviolo. “Il primo è stata la circostanza di partire dalla formula outlet. Nel 2000 le case di moda non davano molta importanza a queste attività e hanno ritenuto poco rischioso dare l’invenduto a Yoox piuttosto che agli stocchisti; inoltre non avevano controllo su Internet e la formula “chiavi in mano” di Yoox era molto comoda. Il secondo è che Marchetti è stato molto bravo a creare relazioni forti con gli stilisti. È riuscito a portare dalla sua parte nomi come quelli di Armani e di Diesel (il cui fondatore, Renzo Rosso, ha da allora una quota importante delle azioni di Yoox). In questo modo si è creato una sua reputazione e si è distaccato dall’immagine di stocchista”. L’altra chiave, fin dall’inizio, era stata la tecnologia: i centri logistici di Bentivoglio (Bologna) si erano sempre distinti per l’alto grado di automazione, caratteristica replicata nei magazzini satelliti sparsi tra Occidente e Oriente. Una descrizione in dettaglio si trovava nella ricordata cover story pubblicata da Wired (si veda il sito web per l’articolo di Greg Williams, “How Yoox turned the luxury-goods industry onto digital”). Yoox e le partnership Proprio la tecnologia era uno dei punti cruciali su cui si sarebbe basato il successo futuro di Yoox. I fronti da tenere d’occhio erano due: l’evoluzione della logistica, con la crescita dell’Internet delle cose (Internet of Things, IOT) applicato all’industria e l’analisi dei dati in chiave strategica. Per Stefania Saviolo “la velocità di evoluzione della tecnologia è talmente elevata che probabilmente sarà necessario attivare delle partnership” e la sua previsione si sarebbe presto
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(continua) avverata, in ragione di un accordo strategico siglato fra Yoox e IBM (si veda il box Yoox e l’accordo con IBM). Yoox e l’accordo con IBM La tecnologia è sempre stata un elemento cardine per Yoox Net-a-Porter. Nel marzo del 2016, aveva annunciato una partnership strategica con IBM con l’obiettivo di sviluppare una piattaforma tecnologica unica e comune a tutti gli online store multimarca e monomarca del gruppo. Un accordo che non prevedeva un outsourcing della componente tecnologica che anzi sarebbe stata rafforzata. “L’accordo con IBM è una tessera importante del mosaico che stiamo costruendo”, commentava Marchetti. “Entro il 2018 avremo un’unica piattaforma tecnologica che si avvarrà da un lato delle competenze di IBM e dall’altro dei nostri validissimi ingegneri che lavorano internamente tra Londra e Bologna”. L’accordo con IBM avrebbe consentito a YNAP di focalizzarsi sull’innovazione orientata al cliente e di imprimere una svolta radicale nelle proprie capacità omni-channel a beneficio dei propri clienti-partner, i brand del lusso. L’accordo avrebbe invece permesso a IBM di far leva sulle competenze di YNAP nel settore ad alta crescita del luxury fashion online. Le ragioni strategiche alla base della partnership, come era scritto in un comunicato ufficiale diffuso in occasione dell’annuncio dell’accordo, erano almeno tre: • porre le basi per lo sviluppo di una piattaforma tecnologica unica e comune a tutti gli online store multimarca e monomarca di YNAP, che sia solida, affidabile e scalabile, in grado di supportare la crescita a doppia cifra del business futuro del Gruppo, a beneficio di tutti i propri clienti e brand; • velocizzare e facilitare il processo di integrazione dei sistemi a seguito della fusione, minimizzando i costi e il rischio di esecuzione;
• indirizzare gli sforzi tecnologici interni verso l’ultima frontiera dell’innovazione del settore in aree quali l’esperienza personalizzata per i clienti e su misura per i brand, sviluppi dedicati a smartphone e tablet e di applicazioni native, customer insights e analytics, social media marketing e funzionalità “cognitive”. In considerazione di questi obiettivi, i team di YNAP in Italia e nel Regno Unito avrebbero sviluppato e quindi adottato un’architettura tecnologica proprietaria e distintiva che avrebbe combinato il software di IBM con soluzioni progettate internamente da YNAP in base alle esigenze dei suoi clienti-partner. A conferma dell’impegno congiunto nello sviluppo di soluzioni innovative per il settore retail del luxury fashion online, YNAP e IBM avevano istituito un Fashion & Luxury Innovation Committee, un think-tank in cui YNAP e i propri brand partner potevano contribuire con idee e suggerimenti che IBM avrebbe utilizzato per lo sviluppo continuo di soluzioni di e-commerce su misura. Allo stesso tempo, YNAP entrava a far parte dell’IBM Customer Advisory Council, un forum per selezionati clienti di IBM, le cui indicazioni potevano influenzare lo sviluppo futuro dei prodotti dell’azienda di servizi informatici. “Questa partnership rivoluzionaria porterà vantaggi ai nostri clienti e brand partner, permettendoci di puntare sempre più in alto nel creare il futuro della moda online. La partnership con IBM consentirà al nostro eccezionale team di talenti tecnologici di concentrarsi su ciò per cui è riconosciuto: innovazione nel proprio settore, tecnologia all’avanguardia e soluzioni orientate al cliente”, aveva dichiaratoAlex Alexander, Chief information officer di YNAP, mentre John Mesberg, a capo della divisione Commerce di IBM, aveva aggiunto: “L’industria della moda reinventa costantemente se stessa e crea nuovi modi di interagire con clienti sempre
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(continua) più digitali. Scegliendo le competenze di IBM Commerce, YNAP è perfettamente posizionato per entrare in contatto con il cliente attraverso esperienze personalizzate basate sulle loro preferenze di stile e di shopping e accessibili attraverso qualsiasi dispositivo o canale”. Per Armando Branchini il tema della tecnologia in sé non era un problema, “perché la società ha sempre investito moltissimo su questo fronte”. Il vero punto critico avrebbe riguardato l’evoluzione delle forme di collaborazione con i brand clienti. “I marchi di moda, nell’ottica omnichannel (ovvero il trattare l’esperienza di acquisto dei consumatori come un unico processo che comprende sia la parte offline che online), sceglieranno di cedere ancora i dati relativi ai propri processi o preferiranno controllarli, internalizzando l’e-commerce?”. Sarebbe dipeso dai costi e dal valore attribuito ai dati. Per esempio, mentre Armani aveva allungato fino al 2025 l’accordo di partnership globale con Yoox per la gestione del suo online flagship store, Cucinelli aveva stabilito di riportare all’interno dell’impresa il coordinamento della sua boutique sul web, pur lasciando i suoi prodotti sui siti multimarca di Net-a-Porter (donna) e Mr Porter (uomo). Cucinelli si sentiva ora in grado di amministrare business complessi quali il commercio elettronico. La mossa appariva come una soluzione di continuità rispetto al passato. Sebbene avesse da tempo la sua boutique online, l’azienda famosa per i suoi capi in cashmere non aveva mai voluto spingere quel canale di vendita. Anche perché l’utilizzo del web avrebbe
potuto ridurre l’allure di esclusività che da sempre caratterizzava i suoi prodotti di lusso. Ma ora per Cucinelli era diventato inevitabile presidiare anche la frontiera di Internet, mantenendo però un approccio conforme alla filosofia del gruppo: non invasivo della sfera personale del cliente e in grado di permettere al consumatore di cogliere lo spirito dell’azienda: il lusso quale prodotto esclusivo di alta artigianalità e manualità. L’azienda del cashmere avrebbe però dovuto completare la piattaforma informatica per gestire il sistema proprietario di e-commerce. Altri brand stavano sperimentando delle formule di condivisione dei dati, con una parte di informazioni date gratuitamente e altre a pagamento. “Se conosco Marchetti”, concludeva Branchini, “troverà il modo di parlare con i marchi di moda e di mettere a punto un pacchetto di offerta adeguato”. Fonti: adattamento da A. Rociola, “Storia del primo unicorno italiano: così Yoox è passata dal garage alle stelle”, EconomyUp, 8 ottobre 2015; F. Patti, “Yoox, storia di un pioniere che non riesce a fare scuola”, Linkiesta, 7 novembre 2015; “Yoox Net-A-Porter Group, partnership con IBM per il luxury fashion online”, La Stampa, 7 marzo 2016; V. Carlini, “Cucinelli amplia il perimetro: l’obiettivo è aumentare i ricavi da commercio elettronico”, Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2016. Per saperne di più: G. Williams, “How Yoox turned the luxury-goods industry onto digital”, Wired, 24 settembre 2014. Per vederne di più: https://www.youtube.com/ watch?v=m29kyD79Hdk; http://video.repubblica .it/next/rnext-ravenna-federico-marchetti-e-limportanza-di-vincere/179895/178667; https://www. youtube.com/watch?v=0VvFREja1-o; https://www. youtube.com/watch?v=SxkxLTMIhYw; https://www. youtube.com/watch?v=SEDWQTzWJeU.
Il quarto fattore che incide fortemente sulla scelta di collaborare con un partner in progetti di sviluppo è la possibilità di condividerne costi e rischi. Questo aspetto può rivestire una grande importanza nel caso di progetti che richiedano investimenti elevati o presentino un esito incerto (Hagerdoorn et al., 2000), come è stato ricordato nel box precedente dedicato all’accordo di collaborazione fra Google e Fca. Sul sito web un caso illustra le ragioni che
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invece hanno suggerito a due concorrenti di Fiat, come Peugeot e General Motors, di formare una partnership per la condivisione di piattaforme produttive per nuove auto. Da ultimo, le imprese possono decidere di collaborare a un progetto di sviluppo se ritengono che la cooperazione possa agevolare la creazione di uno standard condiviso o esercitare una maggiore pressione sul regolatore, come mostra il prossimo box Una lobby per le auto driverless.
Innovazione nel mondo La lobby delle driverless Le automobili senza conducente negli Stati Uniti avevano una lobby: Ford Motor e Google si erano messe alla guida della Self-driving coalition for safer streets, che includeva anche il produttore d’auto svedese Volvo (controllato dalla cinese Geely) e le start-up Uber e Lyft, note per aver lanciato un (controverso) servizio alternativo ai taxi. La coalizione era stata presentata nel maggio del 2016 a un’audizione sul tema delle auto senza conducente organizzata dalla National Highway Traffic Safety Administration, l’agenzia federale Usa che stava mettendo a punto le linee guida per l’utilizzo dei veicoli autonomi sulle strade americane. La lobby di Google e Ford era nata per cercare di ottenere l’autorizzazione all’utilizzo delle self-driving car in un futuro vicino, con una regolamentazione che, oltre a stabilire standard e a garantire la sicurezza, fosse anche capace di promuovere lo sviluppo del settore delle auto autonome. Le questioni da risolvere in termini di sicurezza e normativa erano molteplici. Chi era responsabile, per esempio, se un’auto driverless rimaneva coinvolta in un incidente? Al tempo stesso l’amministrazione Obama guardava con interesse allo sviluppo del nuovo settore industriale, sia per le ricadute economiche sia per il potenziale di ridurre incidenti, traffico e inquinamento, e aveva promesso che avrebbe cercato di rendere spedito il
processo di definizione delle linee guida nazionali e sbloccato nuovi investimenti in ricerca. Per la National Highway Traffic Safety Administration, la tecnologia driverless era un investimento in sicurezza: le auto autonome avrebbero potuto ridurre le morti su strada, spesso legate a errori del conducente (o alla guida in stato di ebbrezza). All’audizione presso l’agenzia federale avevano parlato anche rappresentanti di General Motors e Toyota, che non partecipavano alla coalizione. Toyota aveva chiesto ai regolatori di non fissare requisiti specifici per la tecnologia self-driving finché non sarebbe stata effettivamente introdotta sul mercato. Le associazioni dei consumatori, come Consumer Watchdog, si erano mostrate invece più caute, sostenendo che la tecnologia delle auto senza conducente non era stata perfezionata nemmeno negli ambienti di test e che una futura normativa avrebbe dovuto prevedere la presenza di un operatore all’interno del veicolo nel caso di un default della tecnologia autonoma. Nel mese di gennaio del 2016, il segretario ai trasporti Usa Anthony Foxx aveva annunciato che si sarebbe occupato di studiare una normativa per l’autonomous driving tale da alleviare i timori di produttori d’auto e fornitori di componentistica e tecnologia che regole troppo restrittive potessero ostacolare lo sviluppo del settore. Uno degli obiettivi
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(continua) fondamentali del governo era di creare un set di regole unico per gli Stati Uniti, valido a livello federale, poiché i produttori o le tech companies come Google dovevano ancora seguire differenti regole locali con la conseguenza che un sistema testato e certificato in uno Stato potesse non essere approvato in un altro. La California, per esempio (dove Google testava le sue auto driverless), aveva proposto le regole più severe esigendo (come sollecitato dalle associazioni dei consumatori) che le self-driving car avessero volante e pedali per permettere a una persona di prendere i comandi nel caso di problemi tecnici; le auto autonome di Google invece erano realizzate per essere in prospettiva libere dall’intervento umano. Google sperimentava da anni la tecnologia per auto autonome: dozzine di Lexus self-driving e di prototipi già circolavano in tre città americane. Ford a sua volta sperimentava una sua tecnologia nel campus di Dearborn; Uber aveva realizzato una sua struttura a Pittsburgh dedicata alle self-driving car. Lyft si era alleata con General Motors per mettere a punto una flotta di veicoli autonomi; Volvo infine aveva annunciato che avrebbe testato 100 veicoli autonomi in Cina. Sotto la spinta della lobby, la normativa non tardava ad arrivare. Nel mese di ottobre del 2016, lo United States Department of Transportation emanava il primo set di linee guida per il settore (sul sito web il documento del dipartimento del governo statunitense). Da un lato, rappresentava un deciso avallo alle driverless cars, considerate una svolta per la sicurezza sulle strade, dall’altro tentava di dare delle regole, per quanto morbide, all’industria perché seguisse degli standard in fatto di sicurezza e privacy. “Nel futuro vediamo automobili senza conducente: i vostri tragitti in macchina si trasformeranno in un momento di relax o in cui potrete proficuamente dedicarvi ad altro. I veicoli a guida autonoma salveranno vite e ci faranno risparmiare tempo e
denaro”, aveva dichiarato Jeffrey Zients, direttore del National Economic Council, che con Anthony Foxx aveva presentato le linee guida. Gli Stati Uniti avevano un triste primato sugli incidenti d’auto: 40 000 morti nel 2015, la cifra più alta dal 2008 e l’aumento più cospicuo anno su anno da 50 anni, secondo i dati del National Safety Council. Il motivo dell’endorsement all’automazione nei veicoli da parte dell’amministrazione Obama era dunque dettato dalla ricerca di una tecnologia sicura per ridurre i gravi costi umani e sociali, ma anche dalla volontà di garantire il successo delle tante aziende, di settori trasversali, che lavoravano su questa tecnologia. Le linee guida presentate rispettavano la filosofia statunitense del regolare con mano leggera, in modo da evitare la frammentazione senza soffocare però innovazione e concorrenza. La normativa indicava gli standard di sicurezza da rispettare nella progettazione e sviluppo delle auto a guida autonoma. Inoltre, alle aziende del settore era chiesto di indicare come avrebbero testato e convalidato la loro tecnologia e come avrebbero condiviso i dati raccolti dai veicoli nella fase di sperimentazione. Le specifiche di sicurezza dovevano essere inserite dai produttori di auto autonome in una auto-valutazione da mandare alle autorità. Al tempo stesso, le norme erano sufficientemente blande (le specifiche non erano così puntuali come nella costruzione di auto tradizionali) da lasciare spazio all’innovazione, aveva spiegato Bryan Thomas, portavoce della National Highway Traffic Safety Administration. Secondo un osservatore, le nuove regole federali erano efficaci perché avrebbero garantito una maggiore sicurezza senza bloccare lo sviluppo della tecnologia o ritardare il suo arrivo sul mercato di massa. Soprattutto, era da apprezzare l’armonizzazione delle regole su scala federale: i singoli Stati avrebbero dovuto seguire un modello nel regolare il settore, pur conservando spazi di
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(continua) autonomia. Il dipartimento dei Trasporti avrebbe vigilato invece sulla tecnologia e il software delle driverless car fino a poter ritirare dal mercato veicoli che non avesse ritenuto sicuri. Restava un interrogativo: i costruttori d’auto avrebbero condiviso con il dipartimento dei Trasporti tutte le informazioni raccolte? Forse in futuro, per garantire la desiderata trasparenza, la regolazione “morbida” del governo sarebbe diventata più “pesante”. Tuttavia per ora l’industria automobilistica appariva soddisfatta delle linee guida federali. E soddisfazione era stata espressa dalla Self-Driving Coalition for Safer Streets, che aveva salutato con favore la nuova normativa: “la nuova strategia prevede la standardizzazione delle politiche sulle vetture autonome nei 50 stati americani, incentiva l’innovazione, sostiene una rapida sperimentazione e l’introduzione nel mondo reale”. Senza dubbio, come osservava Bryant Walker Smith, professore alla University of South Carolina, l’appoggio del governo permetteva di premere l’acceleratore sul lancio nel mercato delle auto autonome. I consumatori temevano invece che le regole federali potessero costringere ad archiviare alcune normative statali molto valide, come notava John Simpson di Consumer Watchdog; tuttavia, la stessa associazione si era detta molto soddisfatta della risposta del governo perché la sicurezza e la trasparenza erano state messe in cima all’agenda: “Troppe volte i produttori d’auto hanno testato i loro prodotti in segreto nascondendo gravi falle”. L’alleanza del governo con l’industria delle driverless cars era molto preziosa. All’inizio del 2016, il presidente Obama aveva
proposto di inserire 4 miliardi di dollari nel prossimo budget federale per la ricerca tecnologica e lo sviluppo delle auto autonome per i successivi dieci anni. Il presidente aveva anche firmato un editoriale sul Pittsburgh Post-Gazette (si veda l’articolo sul sito) dedicato alle self-driving car, scrivendo che avrebbero salvato decine di migliaia di vite ogni anno e assicurando che le nuove regole sarebbero state. “Flessibili e pensate per evolvere di pari passo con il progresso della tecnologia. Una guida più sicura, più accessibile. Strade meno congestionate e inquinate. Ecco che cosa significa usare la tecnologia per il bene comune. Ma non dobbiamo commettere errori: gli americani meritano di sapere che la loro sicurezza è garantita mentre sviluppiamo e implementiamo le tecnologie di domani. A volte i governi non riescono a tenere il passo con le rapide evoluzioni tecnologiche. Per questo le regole che proponiamo sono flessibili”. Fonti: P. Licata, “Google, Ford e Volvo fanno lobby con Uber e Lyft”, Formiche.net, 2 maggio 2016; P. Licata, “Ford, Volvo, Google, Uber e Lyft. Ecco le prime regole Usa per le auto senza guidatore”, Formiche.net, 2 maggio 2016; “Usa, ecco le linee guida per la sicurezza delle vetture autonome”, La Repubblica, 20 settembre 2016.
Cooperare nella fase di sviluppo potrebbe preludere a una relazione collaborativa anche nello stadio di commercializzazione della tecnologia: una relazione a sua volta fondamentale per le tecnologie in cui la compatibilità e i beni complementari giocano un ruolo decisivo per il successo nel mercato. Nel mondo, le strategie di collaborazione tecnologica (accordi di ricerca, joint-venture, accordi per il trasferimento tecnologico, contratti di cross-licensing) hanno raggiunto il picco a metà degli anni Novanta del secolo scorso, come
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Nuove alleanze per la ricerca e l’innovazione tecnologica
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Figura 8.4 Formazione di nuove alleanze per la ricerca e l’innovazione tecnologica nel mondo, 1990-2008. Fonte: Thomson’s SDC Platinum Database.
mostra la Figura 8.4, trascinate soprattutto dalla diffusione di intese e partnership nel settore delle tecnologie informatiche. L’attività è in seguito scesa a livelli molto bassi nei primi anni del secolo per poi riprendere a salire. Instaurando rapporti di collaborazione, le imprese generano una rete di contatti che consente di aprire canali per lo scambio di informazioni e di altre risorse significative. Offrendo ai partecipanti l’accesso a un più ampio bacino di informazioni (e di altre risorse) rispetto alle fonti interne alla singola impresa, le reti interaziendali permettono di raggiungere risultati molto più ambiziosi (Rosenkopf e Almeida, 2003; Liebeskind et al., 1996). Ecco perché i network interaziendali sono diventati un motore fondamentale per l’innovazione (Ahuja, 2000).
8.4 Forme di collaborazione Le imprese possono stabilire relazioni di collaborazione con un’ampia varietà di partner: fornitori, clienti, concorrenti, produttori di beni complementari, o ancora con organizzazioni non profit, istituzioni pubbliche, università o associazioni. Le strategie di collaborazione possono essere adottate per molte e differenti finalità: nella produzione, nei servizi al cliente, nel marketing o per raggiungere obiettivi di natura tecnologica. Gli accordi di collaborazione possono assumere differenti forme, dalle relazioni informali alle joint-venture strutturate con rigore o agli accordi di
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scambio tecnologico (licensing). Le forme di collaborazione più diffuse per lo sviluppo dell’innovazione tecnologica sono le alleanze strategiche, le jointventure, il licensing, l’outsourcing e i consorzi di ricerca.
Alleanze strategiche Le imprese possono adoperare le alleanze strategiche come strumento per accedere a competenze critiche di cui non dispongono al proprio interno oppure per valorizzare le proprie capacità facendo leva sui processi di sviluppo di un’altra impresa. Organizzazioni con differenti capacità e competenze necessarie allo sviluppo di una nuova tecnologia o alla penetrazione di un nuovo mercato possono formare delle alleanze per condividere le proprie risorse al fine di realizzare insieme un prodotto o di accedere a un mercato in tempi più brevi o con costi più contenuti. Persino imprese che possiedono capacità o competenze simili possono decidere di collaborare in attività di sviluppo allo scopo di condividere i rischi dell’iniziativa o accelerare lo sviluppo e la penetrazione del mercato. Grandi imprese possono stringere delle alleanze con imprese più piccole acquisendone una quota del capitale azionario per partecipare con rischi limitati ai progetti di sviluppo; per contro, piccole imprese possono costruire rapporti di collaborazione per conseguire vantaggi in termini di risorse finanziarie, capacità di marketing e distribuzione, nonché per accrescere la propria credibilità nei mercati (Teece, 1986). Molte delle maggiori case farmaceutiche, per esempio, si alleano con piccole imprese di biotecnologie, determinando così un mutuo beneficio: le aziende farmaceutiche accedono alle scoperte delle piccole biotech, che a loro volta ottengono l’accesso alle risorse finanziarie e alle capacità di produzione e di distribuzione delle big pharma. Le alleanze possono estendere anche il grado di flessibilità complessiva dell’impresa, in quanto le consentono di partecipare in misura limitata a un’iniziativa con alto coefficiente di rischio, senza peraltro pregiudicare le possibilità future di incrementare il proprio coinvolgimento oppure di destinare le proprie risorse verso altre opportunità di sviluppo (McGrath, 1997). Attraverso un’alleanza, le imprese possono assicurarsi una “finestra” privilegiata aperta su opportunità di mercato appena emergenti o ancora a uno stadio embrionale, riservandosi l’opzione di un maggiore impegno per il futuro. Un’alleanza permette inoltre all’impresa di variare o adattare in modo tempestivo la natura e la dimensione delle capacità a cui può accedere secondo le esigenze della domanda, un fattore critico nei mercati soggetti a rapidi cambiamenti. Le alleanze strategiche sono utilizzate anche per favorire i processi di apprendimento reciproco tra i partner, nonché per sviluppare nuove competenze. I partner di un’alleanza possono auspicare un trasferimento di conoscenze o una combinazione delle abilità e delle risorse di ciascuno al fine di creare nuova conoscenza in modo congiunto. Spesso, però, nel rapporto con i partner vengono a mancare un linguaggio comune, delle routine condivise e meccanismi di coordinamento tali da facilitare il trasferimento della conoscenza, soprattutto della conoscenza complessa e tacita, che più di ogni altra tende a generare un vantaggio competitivo sostenibile (Ghoshal e Moran, 1996). Le imprese che intendono stringere delle alleanze con finalità di apprendimento,
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ovvero per incrementare il proprio patrimonio di conoscenze, devono affrontare un notevole impegno in termini di risorse, per esempio dedicando alla relazione con il partner un’ampia dotazione di proprio personale disposto a spostarsi fra l’impresa e il partner, oppure strutture e laboratori per sperimentare i progetti innovativi e sistemi efficaci per interiorizzare le conoscenze apprese (Prahalad e Hamel, 1990; Hamel et al., 1989). Doz e Hamel (1997) hanno proposto una classificazione delle alleanze strategiche secondo due dimensioni. La prima dimensione considera la capacità di un’alleanza di realizzare un’integrazione o un trasferimento efficace di competenze fra i partner; la seconda guarda alle modalità di gestione delle alleanze, distinguendo fra alleanze diadiche (due soli partner) e network (Figura 8.5). Nel quadrante A della Figura 8.5 si posizionano le imprese che stabiliscono un’unica alleanza al fine di combinare abilità o tecnologie complementari necessarie allo sviluppo di un progetto. Verso la metà degli anni Settanta, per esempio, General Electric (GE) e Snecma (un produttore francese di motori jet) hanno formato una joint-venture denominata CFM International per la produzione di un nuovo motore jet. L’iniziativa prevedeva la combinazione del turbojet F101 di GE e dell’esperienza di Snecma nella ventilazione a bassa pressione, ed era finalizzata alla creazione di un motore potente e a bassi consumi. Poiché il progetto F101 interessava una tecnologia “sensibile” per l’aviazione militare statunitense, i partner prestarono particolare attenzione a evitare lo scambio di tecnologie proprietarie. GE avrebbe costruito 1’F101 come una “scatola nera” sigillata, che sarebbe stata spedita altrove per l’assemblaggio. Il risultato finale di questa alleanza, il CFM-56, fu il motore jet di maggior successo di tutta la storia dell’aviazione. Nel quadrante B si collocano le imprese che si servono di un network di alleanze per la combinazione di risorse e abilità complementari. Corning, per esempio, nota soprattutto per i suoi prodotti in vetro, ha creato una rete di alleanze con partner che dispongono di abilità complementari per estendere le proprie competenze tecnologiche nel vetro in una ampia varietà di campi differenti, dai prodotti medicali all’informatica, alle fibre ottiche. Piuttosto che cercare di assorbire le tecnologie dei partner, Corning riconosce nella sua Alleanza diadica (a due) Integrazione di competenze Trasferimento di competenze
Network di alleanze
A
B
GE-Snecma
Corning Glass
C
D
Thomson-JVC
ASPLA
Figura 8.5 Strategie di alleanza tecnologica. Fonte: adattamento da Y. Doz e G. Hamel, “The Use of Alliances in Implementing Technology Strategies”, in: M. L. Tushman, P. Anderson, (a cura di) Managing Strategic Innovation and Change, Oxford University Press, Oxford 1997.
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strategia di relazione con i partner il tentativo di creare un modello di impresa allargata che forma un network flessibile e “democratico” di attori indipendenti. Per Ferrari, che acquista all’esterno circa il 70% dei componenti di una vettura, è indispensabile poter contare su una rete di partner tecnologicamente avanzati in grado di affiancarla nel processo di sviluppo dell’innovazione. Con Alenia e Agusta, sperimenta l’applicazione di materiali innovativi e simula nuove soluzioni aerodinamiche; un team Ferrari coopera con Bridgestone nella progettazione di pneumatici ad alte prestazioni; Brembo è partner di Ferrari fin dal 1975 per lo sviluppo di sistemi frenanti a disco ad alta tecnologia; con Fluent e i suoi software di dinamica computazionale, simula i flussi dei fluidi e progetta prototipi virtuali. Nel quadrante C sono posizionate, invece, le imprese che si avvalgono di alleanze singole per l’acquisizione e il trasferimento di nuove capacità. Doz e Hamel ricordano il caso dell’alleanza tra JVC e Thomson. Entrambe le imprese producevano videoregistratori, ma Thomson era interessata ad acquisire la tecnologia e l’esperienza di produzione di JVC, che a sua volta intendeva apprendere da Thomson le modalità di ingresso nel mercato europeo. In questo caso, entrambe le parti riconobbero una condizione di reciprocità nello scambio delle competenze e delle conoscenze possedute da ciascun partner. Nel quadrante D, infine, si collocano le imprese che si avvalgono di un network di alleanze per scambiarsi le proprie competenze e per sviluppare in modo congiunto nuove capacità. Le organizzazioni di ricerca che saranno descritte nel corso di questo capitolo sono esempi di network di collaborazione nei quali è stato creato un organo centrale per il governo e il coordinamento della rete. I consorzi di ricerca sono reti, a volte solo temporanee, costituite su iniziativa di imprese private per lo sviluppo collaborativo di progetti di innovazione. Queste organizzazioni sono concepite per consentire a ciascuno dei propri membri di creare, condividere e utilizzare le conoscenze messe in comune. Nel costruire un portafoglio di alleanze, il management di un’impresa dovrebbe considerare con molta attenzione (i) gli effetti competitivi, (ii) gli effetti complementari e infine (iii) gli effetti sulla struttura del network collaborativo. In primo luogo, se i partner di un’alleanza “multipla” servono i medesimi mercati o hanno un medesimo posizionamento strategico vi è il rischio di investire in risorse ridondanti o di sollevare un conflitto competitivo. I costi e i benefici di un accordo quindi dovrebbero essere ben ponderati poiché i partner dell’alleanza potrebbero diventare avversari. In secondo luogo, le alleanze complementari possono invece generare vantaggi supplementari qualora siano ben gestite. Per esempio, un’impresa farmaceutica potrebbe adoperare una prima alleanza con un partner per sviluppare un nuovo farmaco e una seconda con un differente partner per sperimentare un meccanismo di delivery per il medesimo farmaco, accelerando così l’introduzione del prodotto nel mercato (Kale e Singh, 2009). In tale situazione, i benefici di ciascuna alleanza sono amplificati dai benefici dell’altra. Infine, i manager dovrebbero considerare come il portafoglio di alleanze dell’impresa si posizioni nella rete di relazioni che connette l’azienda, i suoi partner e, a loro volta, i partner dei
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partner (Schilling e Phelps, 2007). Tali network esercitano un’influenza determinante nella diffusione dell’informazione così come di altre risorse critiche: essere ben posizionati in un network collaborativo può conferire significativi vantaggi competitivi (si veda sul web il box Le posizioni strategiche nei network collaborativi). I vantaggi che l’impresa può ottenere attraverso una strategia di collaborazione, come le maggiori opportunità di sviluppo e un superiore grado di flessibilità, naturalmente hanno il loro prezzo. Poiché tutte le parti assumono impegni reciproci limitati, le alleanze presentano sempre il rischio potenziale di comportamenti opportunistici o “egoistici” da parte degli altri membri (Harrigan, 1987). La ricerca empirica suggerisce che fra il 30 e il 70% delle alleanze fallisce o perché non si riescono a raggiungere gli obiettivi dei partner oppure perché non generano i benefici strategici e operativi per i quali sono state formate (Kale e Singh, 2009; Bamford et al., 2003). L’impresa, quindi, dovrà stare in guardia per assicurarsi che attraverso l’alleanza non capiti di concedere troppo a un suo potenziale concorrente. Secondo Doz e Hamel, se è vero che lo spirito di gruppo può facilitare la comunicazione e la costruzione di una fiducia reciproca, al contempo la presenza di un eccessivo “consociativismo” può rappresentare un segnale di allarme che si accende, indicando che i gatekeeper dell’informazione all’interno dell’organizzazione (ovvero i responsabili aziendali delle informazioni) potrebbero vigilare in modo inadeguato sui rischi di dispersione delle conoscenze critiche. Pertanto, l’impresa dovrebbe comunicare con regolarità ai propri dipendenti (di qualunque livello) quali informazioni e quali risorse debbano rimanere precluse ai partner, operando allo stesso tempo un costante monitoraggio delle informazioni che i partner richiedono e ricevono (Hamel, 1991; Hamel et al., 1989).
Joint venture Le joint-venture sono un particolare tipo di alleanza strategica, che richiede ai partecipanti di adottare una struttura formale nonché di dedicare al progetto di collaborazione un impegno considerevole. Mentre un’alleanza strategica può consistere in qualunque genere di relazione formale o informale tra due o più imprese, una joint-venture impone a ciascun partner notevoli investimenti di capitale e quasi sempre determina la creazione di un’entità nuova e distinta dalle imprese che l’hanno costituita. Di norma, il capitale e le altre risorse da investire, come anche la distribuzione di qualunque profitto generato dall’iniziativa, sono stabiliti in modo specifico da accordi contrattuali sottoscritti prima che il rapporto di collaborazione cominci. Licensing Il licensing è una formula di accordo contrattuale attraverso cui un’organizzazione o un individuo (il licenziatario o licensee) ottiene i diritti d’uso di una tecnologia proprietaria (o di un marchio, un copyright ecc.) di un’altra organizzazione o individuo (il concedente la licenza o licensor). Il licensing consente all’impresa di acquisire in tempi brevi una tecnologia (o un’altra risorsa o competenza) di cui non dispone.
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Nella prospettiva del licensor, questa forma di collaborazione consente di diffondere la propria tecnologia in più mercati e in tempi più rapidi di quanto sarebbe possibile confidando solo sulle proprie capacità di sviluppo, come per esempio dimostra il caso Vibram (nel prossimo box Vibram, con la licenza di crescere). Per le università e le istituzioni di ricerca, disporre di un ufficio di trasferimento tecnologico è fondamentale per valorizzare e diffondere attraverso il licensing la conoscenza generata nei laboratori. A volte, come accade per IEO e IFOM, due fra le principali organizzazioni di ricerca italiane nel campo delle scienze della vita, tale compito è affidato a una società autonoma, come illustra sul sito web il box Il licensing e i talent scout della ricerca italiana.
Innovazione in Italia Vibram, licenza di crescere La strategia di licensing adottata da Vibram è stata determinante nel raggiungimento di una posizione di leadership nei mercati internazionali. L’azienda di Albizzate, in provincia di Varese, è il marchio più noto al mondo nella produzione di suole per scarpe sportive. La fortuna delle suole Vibram nasce dalla creatività di Vitale Bramani, un milanese con la passione della montagna, sopravvissuto a una tragedia in alta quota. Nel 1935, un gruppo di amici appassionati di alpinismo, decide di scalare il monte Rasica. L’equipaggiamento all’epoca era semplice: scarponi chiodati per arrivare alla parete, poi scarpe più leggere, anche in canapa, per la scalata sulla roccia. I 19 alpinisti, a metà parete, vengono sorpresi da una bufera. Restano ore e ore aggrappati alle corde, con le scarpe che non tengono la presa non riescono né a salire né a scendere. Cinque di loro muoiono per il freddo. La tragedia sconvolge la vita di Bramani che da quel momento inizia a perseguire un unico obiettivo: sviluppare una suola adatta alla montagna, in grado di esercitare una trazione sulle superfici miste: una suola che se fosse esistita avrebbe salvato la vita ai suoi amici. Avvalendosi della collaborazione di Pirelli, da cui si
fa preparare una “gomma tecnica” utilizzando la tecnologia Vulcanized Rubber, sviluppa il design definito “a carrarmato”, destinato a diventare famoso nel mondo. Stacca le suole dagli scarponi prodotti da altre aziende e mette le proprie; le fa collaudare dagli amici che vanno in montagna: nel 1937, nasce il marchio Vibram, un bollino giallo in un campo ottagonale e un nome che da allora è entrato nel linguaggio comune. La prima occasione di notorietà mondiale risale al 1954, quando un team di alpinisti italiani, equipaggiati con scarponi Dolomite dotati di suole Vibram, conquista il K2. Da allora, il marchio Vibram diventa il compagno delle spedizioni estreme, degli alpini italiani e dei pompieri americani, affiancandosi alle maggiori imprese mondiali di scarpe. La strategia di espansione nei mercati internazionali deve molto alla decisione del 1968 di concedere a una storica impresa statunitense di calzature, Quabaug, la licenza esclusiva per la produzione delle suole progettate e sperimentate nei laboratori di Albizzate. Negli Stati Uniti – dove in molti ritengono Vibram un marchio americano (pronunciandolo Vàibram) – l’impresa italiana gode di una condizione di quasi monopolio nei segmenti dello
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(continua) sport, degli scarponi tecnici per militari, dell’antinfortunistica. Dagli Stati Uniti, agli inizi degli anni Ottanta, si recò ad Albizzate una delegazione di una piccola azienda americana, allora quasi sconosciuta, interessata a una mescola particolare, marrone ma quasi trasparente, antiscivolo e resistente all’abrasione, robusta, adatta al tempo libero e alla vela: Timberland. Da tempo, le suole con il marchio Vibram sono utilizzate non solo per tutti gli sport di montagna, dal trekking al free-climbing, allo sci alpinismo, ma anche per il motociclismo e per le scarpe lifestyle. Fra i grandi marchi che adottano o hanno adottato le Vibram si ricordano Ferragamo, Cucinelli, Pollini, Camper, Henderson. Mentre nel settore sportivo spiccano Scarpa, LaSportiva, Tecnica, Lowa, Merrell, TheNorthface. In una competizione internazionale sempre più feroce l’innovazione è fondamentale: una strategia perseguita anche rovesciando l’approccio tradizionale dell’impresa, attraverso il licensing-in. “L’innovazione è l’arma segreta che ci consente di stare sempre un passo avanti agli altri. Da sempre siamo visionari: immaginiamo nuovi prodotti e li testiamo nelle condizioni più estreme, lavoriamo insieme ai nostri clienti e offriamo loro un brand di elevatissime prestazioni”, ha spiegato in un’intervista Paolo Manuzzi, global general manager dell’azienda, citando le ultime “mescole” sfornate dalla ricerca aziendale. Come Vibram Mega Grip, studiata per il trail-running, la disciplina che coinvolge decine di migliaia di appassionati in tutto il mondo in durissime corse ad alta quota. O come Arctic Grip, concepita per risolvere il problema dello scivolamento sul ghiaccio bagnato. Guai a immaginare le suole come un prodotto “povero”: è solo un pregiudizio. Lo dimostra, per esempio, il progetto Hero (Harvesting of Energy in Rubber Outsole, ovvero “raccolta di energia attraverso una suola di gomma”), sviluppato da Vibram con l’IIT (Istituto Italiano di
Tecnologia) e il Centro per MicroRobotica di Pontedera, dopo aver acquisito la licenza dalla società statunitense InStep NanoPower, specializzata nello sviluppo di soluzioni basate sulle nanotecnologie nei settori delle energie rinnovabili e proprietaria del brevetto. Il prototipo di suola è in grado di utilizzare l’energia prodotta durante la camminata per ricaricare lo smartphone o altri device elettronici. In particolare, all’interno della suola, sigillato per resistere alle infiltrazioni di polvere e liquidi, si trova un sistema integrato di accumulo e trasformazione dell’energia generata dal movimento. InStep lavorava al progetto da molti anni ma solo di recente, grazie proprio alla collaborazione con Vibram, era riuscita ad approntarne una versione commercializzabile. Come l’azienda ha spiegato in un comunicato stampa ufficiale: “Questo sistema, inserito perfettamente nell’intersuola della calzatura, permette di generare fino ad un massimo di 3 Watt di potenza, con il solo effetto della normale camminata. Il dispositivo consente un accumulo di 8 Wh per una camminata di circa 8 ore. Energia sufficiente a evitare l’esaurimento di carica dello smartphone, ad esempio”. L’applicativo integrato nell’intersuola di una normale scarpa può produrre una quantità variabile di energia, a seconda del peso dell’utilizzatore, della velocità di marcia e del carico trasportato. Il sistema permette di sfruttare la carica accumulata anche per dispositivi esterni, attraverso una porta micro Usb posizionata sulla calzatura. Inoltre, Hero include un chip elettronico auto-alimentato in grado di comunicare via Bluetooth, consentendo di ottenere in tempo reale informazioni come il livello della batteria del dispositivo, il numero di passi registrati, la geolocalizzazione e la temperatura del piede. Hero si presta a tantissimi usi, non solo per il mercato consumer. Potrebbe essere impiegata per fornire una fonte di energia a persone che si trovano in aree remote e in via di sviluppo del mondo, dove non
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(continua) si dispone di adeguate reti elettriche. Un sistema continuo di geolocalizzazione e riserva di carica può agevolare le operazioni di squadre d’intervento come vigili del fuoco. Per il futuro, gli studi non escludono la possibilità di sfruttare l’energia prodotta e accumulata anche per produrre calore, intervenendo quindi in quelle situazioni climatiche dove le temperature sono rigide e problematiche. Infine, considerata la presenza del GPS e del conta passi, è ipotizzabile un impiego sportivo di Hero, per generare statistiche
sull’attività fisica svolta, anche perché i sensori integrati nelle scarpe sono più efficienti in termini di precisione rispetto a quelli utilizzati nelle attuali fitness band. Fonti: adattamento da: “Alla suola serviva grip: il ’carro armato’ lo consigliò Pirelli”, La Repubblica, 21 marzo 2016; A. Crea, “La suola delle scarpe ricarica lo smartphone: ecco Vibram Hero”, La Repubblica, 4 marzo 2016; “Lo smartphone si ricarica camminando: arriva la suola che produce energia”, Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2016; L. Fabietti, “Vibram, la scarpa che ricarica lo smartphone”, La Stampa, 3 maggio 2016.
Acquistare la licenza per l’utilizzo di una tecnologia è di solito meno costoso per un licensee rispetto allo sviluppo tecnologico in-house. Come abbiamo osservato nei capitoli precedenti, lo sviluppo di un nuovo prodotto presenta sia dei costi sia dei rischi; con il licensing, invece, l’impresa può acquisire una tecnologia già tecnicamente o commercialmente collaudata. Per contro, una tecnologia offerta in licenza, in genere, è anche a disposizione di molti altri operatori e dunque è improbabile che possa costituire la fonte di un vantaggio competitivo sostenibile per il licensee, benché l’esperienza di successo di Procter & Gamble dimostra che non sempre accade così. Attraverso il programma Connect and Develop, l’impresa si è focalizzata sulla ricerca di idee e tecnologie non concepite al proprio interno, da sviluppare in seguito nei suoi laboratori. In questo modo, il nuovo prodotto, pur se è basato su una tecnologia acquisita in licenza, per arrivare al mercato attinge al ricco patrimonio di competenze e risorse (difficili da imitare) che P&G possiede (Huston e Sakkab, 2006). La strategia dell’azienda statunitense è un caso esemplare dell’approccio di Open Innovation teorizzato da Henry Chesbrough (2003) e andato diffondendosi rapidamente negli ultimi anni (si veda il box Open Innovation in Italia).
I risultati della ricerca Open innovation: l’impresa è un’opera aperta “Open Innovation” è il mantra strategico ormai adottato a livello globale nei processi di ricerca e sviluppo di grandi e piccole imprese. Un cambiamento sul “come e dove si fa innovazione” con una portata mondiale. L’abbattimento dei costi di collaborazione e di networking, la capillare diffusione delle Ict e del web 2.0, la crescente mobilità di scienziati e lavoratori della conoscenza hanno drasticamente ridotto la distanza tra gli attori
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(continua) dell’innovazione (utenti, clienti, fornitori, aziende partner, università e centri di ricerca, grandi e piccole imprese), incentivando l’uso di idee e conoscenza scientifica e tecnologica generate all’esterno delle impresa. La nascita della Silicon Valley nei primi anni Ottanta, il moltiplicarsi di cluster hightech in Europa nei decenni successivi, fino all’affermarsi oggi di nuovi e complessi ecosistemi di innovazione sono fenomeni connessi alla progressiva separazione dei mercati di R&S. Negli ultimi anni grandi aziende multinazionali hanno aperto i propri laboratori e messo i propri brevetti a disposizione di partner scientifici e tecnologici per sfruttare il forte potenziale di idee presente nell’ambiente esterno ed assorbire, ricombinare ed integrare efficacemente know-how esterno nei propri processi di R&S. Joint ventures, alleanze strategiche e progetti di R&S condivisi con università e centri di ricerca hanno poi consentito di sviluppare prodotti innovativi da idee inutilizzate. Crescenti fenomeni di spin-out (la creazione di nuovi business da tecnologie “non core”) ne hanno favorito flessibilità di ingresso su nuovi mercati e incrementato le capacità di inserirsi su nuove traiettorie tecnologiche. Innovazioni radicali sono emerse grazie allo sviluppo di collaborazioni tecnologiche e acquisizioni di start-up nate dalla ricerca scientifica. Allo stesso tempo, abbiamo assistito a una accelerazione nei ritmi di creazione di piccole imprese e start-up ad alto contenuto tecnologico nate da progetti di R&S collaborativa. L’affermarsi del ruolo delle Università come knowledge hub e la crescente disponibilità di venture capital hanno impresso un forte impulso alla diffusione della conoscenza scientifica e tecnologica, spingendola sempre più verso il mercato, come comincia a mostrare anche l’esperienza italiana. Open innovation Italia “Dr. Chesbrough lei ha trovato le parole giuste per descrivere quello che ho fatto in tutti questi anni di azienda!”. È il 2005, l’Ingegnere Giancarlo Michellone, amministratore delegato del centro ricerca Fiat, commenta così la spiegazione del concetto di Open innovation che Henry Chesbrough, professore della Berkeley Haas School of Business gli ha appena proposto. Il termine “Open Innovation" era stato coniato due anni prima, nel 2003, proprio da Chesbrough. La definizione era apparsa così chiara da essere considerata da molti superata. “Not all the smartest people work for you”, amava per esempio dire, in Silicon Valley, Bill Joy, co-fondatore di Sun Microsystems. Mentre di collaborazione tra aziende e flussi di conoscenza scriveva, già nel 1890, Alfred Marshall. Come spiegare allora il successo di Chesbrough, le 44 mila citazioni ricevute, gli oltre 100 mila articoli scientifici sul tema pubblicati in un decennio? Come giustificare il propagarsi di questo messaggio in conferenze, workshop e nelle riorganizzazioni aziendali di ogni dimensione? Un modello semplifica e spiega. Il modello dell’Open innovation rende estremamente chiaro come, partendo dall’idea che “non tutte le persone più in gamba lavorino nei propri centri di ricerca”, le aziende debbano rivedere i principi organizzativi su cui si fondano, a cominciare dalla funzione innovazione. L’obiettivo diventa quello di strutturarsi per assorbire conoscenze e tecnologie rilevanti dall’esterno (in-bound open innovation), e valorizzare in forme diverse e nuove il proprio portafoglio tecnologico (out-bound open innovation). Anche in Italia il concetto si è diffuso, è entrato a far parte dei corsi universitari e delle prassi aziendali. Si può considerare esaurita la fase di “evangelizzazione”: chi dovrebbe conoscere l’idea di Open innovation oggi la conosce. Siamo ora immersi nella fase di “sperimentazione” dell’idea. L’Open innovation si sta sviluppando nelle prassi di centinaia di aziende italiane che si cimentano nell’implementazione, scontrandosi con le
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(continua) difficoltà per passare dalla teoria alla pratica. Nei prossimi tempi sentiremo sempre di più parlare di Open innovation, anche perché in Italia le barriere che ne frenavano lo sviluppo si sono significativamente abbassate. I giganti del digitale Usa – Cisco, Google, IBM, Intel, Microsoft – hanno affiancato o promosso iniziative di sistema. Confindustria, la Fondazione ricerca e imprenditorialità, il Forum Ambrosetti organizzano occasioni di incontro tra start-up, Pmi e grandi imprese. Università e centri di ricerca sono oggi ambienti più aperti e pronti a interagire con il territorio; c’è maggiore conoscenza da parte delle aziende di quelli che sono gli intermediari dell’innovazione; nella politica industriale nazionale ha assunto rilevanza il concetto di cluster, in cui c’è esplicito riferimento allo scambio di tecnologie per lo sviluppo di nuova competitività; molte regioni hanno seguito l’esempio della Commissione europea tratteggiando una loro strategia di Open science & Open innovation. Ci prepariamo ad affrontare una terza fase di vita del concetto, quella che si potrebbe definire di “exploitation”. Sarà questa la resa dei conti, allorché la pazienza dei Ceo andrà a esaurirsi e l’effetto moda lascerà il posto a una più approfondita analisi dell’Ebitda. Poiché l’Open innovation propone una revisione a 360 gradi della strategia aziendale e non riguarda solo l’apertura dei laboratori di ricerca, è possibile individuare tre leve fondamentali da azionare per poter realizzare un significativo ritorno sugli investimenti. i) La prima idea è che l’Open innovation si realizza appieno solo quando si rivisitano i processi aziendali. Molte routine che funzionavano in un contesto di innovazione chiusa cessano di essere adatte: nella gestione di acquisizioni, alleanze, finanza e contabilità, nel marketing e nello sviluppo di nuovi prodotti. Chi è convinto che Open innovation voglia semplicemente dire fare outsourcing del proprio investimento in ricerca non farà molta strada. ii) La seconda leva riguarda l’appropriazione dei risultati dell’innovazione. Open but controlled è un richiamo fondamentale! Gli strumenti di controllo sono rappresentati principalmente da modelli di business e proprietà intellettuale, elementi fondamentali da padroneggiare e su cui innovare per operare sapientemente sui mercati della tecnologia. iii) Il terzo punto verte sul fattore umano. L’Open innovation sostiene che i soggetti portatori di conoscenza rilevante siano sempre più diffusi. Diventa quindi centrale capire come motivare i collaboratori, guidare percorsi di intrapreneurship, comunicare e innovare con gli individui, siano essi interni all’azienda, siano essi parte di comunità di pratica, utenti e clienti. Sarà questa la prossima frontiera dell’Open innovation. Fonte: A. Di Minin, “L’impresa è un’opera aperta”, Il Sole 24 Ore Nòva, 4 settembre 2016.
Alla luce di queste evoluzioni e delle pressioni che la gestione dei processi di R&S ha subìto negli ultimi decenni, la Commissione europea si è mossa per chiedersi: qual è oggi il potenziale dell’Open Innovation in Europa? Nell’ambito del progetto di ricerca EURIPIDIS (European Innovation Policies for the Digital Shift), l’Istituto di Management della Scuola Sant’Anna ha condotto uno studio su 13 aziende europee che hanno sviluppato e implementato strategie di Open Innovation nei loro processi di R&S e su come tali strategie abbiano o meno influito sul loro successo e su quello dei partner. Proponiamo qui tre aspetti che hanno caratterizzato i risultati di tale ricerca, che possono fornire un’idea dell’impatto che questo cambiamento strategico esercita nella gestione dei processi di R&S.
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(continua) Grandi e piccole imprese L’implementazione di strategie di innovazione “aperta” presenta delle opportunità diverse se si tratta di aziende di grandi dimensioni o di piccole imprese high-tech. Molte grandi aziende europee, soprattutto le più competitive, hanno da tempo incluso nella loro agenda strategica le sfide dell’Open Innovation. Grazie a forti capacità contrattuali, disponibilità di risorse manageriali e finanziarie e alta reputazione sui mercati, le grandi imprese che fanno Open Innovation in Europa si dimostrano capaci di orchestrare ampie reti di R&S collaborativa. Attraverso partnership o in consorzi di ricerca, le grandi imprese partecipano a progetti di R&S congiunti con un numero spesso ampio di soggetti, sia pubblici che privati. In questo modo, creano un proprio ecosistema di innovazione che offre loro la possibilità di integrare conoscenze scientifiche, tecnologiche e di mercato nei propri processi, di incrementarne l’efficacia e la capacità di adattamento ai nuovi mercati tecnologici. Tuttavia, implementare tali strategie richiede alle grandi imprese un knowledge management sempre più incentrato sulle risorse umane ed attento a obiettivi di lungo periodo. Quando invece si parla di imprese di piccole e medie dimensioni, fare Open Innovation vuol dire dischiudere il potenziale di mercato di tecnologie nate da piccoli team di ricerca. Si tratta spesso di singoli progetti tecnologici di rottura, vicini alla frontiera scientifica e per questo poco commercializzabili. Le piccole e medie imprese in Europa spesso soffrono di carenza nelle risorse manageriali e finanziarie e di asset rilevanti per trasformare le invenzioni in innovazioni e prodotti di successo. Essendo la R&S tecnologica alla base dell’impresa, queste spesso hanno limitate informazioni di mercato per lo sviluppo di un business model di successo. Anche per sopperire a queste mancanze, le piccole imprese europee nascono o si sviluppano intorno a principi di Open Innovation: molte di loro si caratterizzano come ecosystem joiners cioè attori imprenditoriali che si sviluppano all’interno di ampie reti di R&S o ecosistemi di innovazione. Partecipare a consorzi di R&S facilita per le piccole imprese la ricerca di partner e lo scambio di conoscenza tecnologica rilevante, ne favorisce i processi di apprendimento, le aiuta a costruire reputazione e consente loro di entrare su mercati caratterizzati da alte barriere all’ingresso. I rischi dell’Open Innovation Di particolare importanza per il successo delle strategie di Open Innovation è la capacità di selezionare e coltivare competenze rilevanti all’interno dei propri laboratori di R&S e di integrare e bilanciare nei propri processi know-how e asset complementari. Le aziende europee dimostrano un forte orientamento all’Open Innovation, ma rimane ancora limitata la capacità di appropriazione dei risultati dei processi di R&S collaborativa. Se, da un lato, è importante trasferire e integrare nei processi di R&S nuova conoscenza tecnologica esterna, favorendo la creazione di asset condivisi, da un altro occorre minimizzare il rischio di perdita della conoscenza strategica critica per lo sviluppo del business. Tale rischio risulta molto più elevato per le piccole imprese in cui, spesso, la tecnologia è l’unico asset di potenziale valore finanziario. Gestire accuratamente la proprietà intellettuale e allineare gli interessi e gli obiettivi dei partner sono capacità fondamentali per mantenere contemporaneamente flessibilità dei processi di R&S e controllo della conoscenza strategica. Le sfide manageriali La superiorità tecnologica non è l’unico elemento per garantire il successo sul mercato. Di fondamentale importanza èun’evoluzione costante del modello di business lungo il processo di implementazione di una strategia di Open Innovation. La capacità di adattare il modello di business all’evoluzione della strategia di innovazione (integrando aziende
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(continua) partner, tecnologie e competenze chiave) rappresenta un vantaggio competitivo rilevante, soprattutto per le imprese che gestiscono un limitato numero di progetti ad alto rischio. Durante il processo di sviluppo della tecnologia e del business model, inoltre, occorre una forte attenzione alla gestione strategica delle risorse umane, che preservi il know-how interno e lo bilanci con quello esterno all’impresa, assegnando “le persone giuste ai progetti giusti”. Il capitale umano di un’azienda, inteso come staff tecnico e operativo ma anche manageriale, deve vedere incentivi, regolamenti e procedure allineati alle proprie aspettative e capacità, in modo da perseguire con entusiasmo le strategie di innovazione adottate dall’azienda in cui lavorano. La transizione da un modello “chiuso” a una configurazione aperta dei processi di R&S e innovazione implica anche un continuo processo di trial and error: resilienza, esperienza del management e forte consenso interno sono caratteristiche fondamentali. Questi elementi devono inquadrarsi nel più generale sviluppo di una solida cultura organizzativa interna, permeata da valori condivisi, forte motivazione e da un linguaggio comune. I manager devono essere orientati a una gestione imprenditoriale delle iniziative e fortemente motivati a deviare dal business as usual. Infine, elementi chiave per il successo di una strategia di Open Innovation sono la focalizzazione delle attività di ricerca e sviluppo e un forte orientamento al mercato nella definizione di un modello di business “aperto”. Un momento fondamentale nel ciclo di vita dell’innovazione, infatti, è l’identificazione di una possibile applicazione commerciale della tecnologia che porta a concentrare l’utilizzo delle risorse, mettere a fuoco gli specifici obiettivi della R&S e definire un modello di business orientato verso questi obiettivi. La dispersione delle energie su troppe iniziative rimane una delle principali cause di fallimento di una strategia di Open Innovation. Fonte: adattamento da C. E. De Marco e C. Marullo, “Manager ai tempi dell’ecosistema”, Il Sole 24 Ore Nòva, 4 settembre 2016.
Gli accordi di licensing, di regola, impongono molte restrizioni al licenziatario, consentendo al licensor di mantenere il controllo sulle modalità di impiego della tecnologia. Con il passare del tempo, tuttavia, l’utilizzo della tecnologia può conferire al licensee un valore in termini di conoscenza che in futuro potrà permettere lo sviluppo di nuove tecnologie proprietarie. Nel lungo termine, quindi, il controllo del licensor sulla tecnologia tende ad attenuarsi. A volte, le imprese concedono le proprie tecnologie in licenza per anticipare la decisione di concorrenti di sviluppare tecnologie alternative. Questa strategia può rivelarsi molto valida nel caso in cui è probabile che i concorrenti siano in grado di imitare le caratteristiche essenziali della tecnologia o qualora il settore presenti forti pressioni per l’adozione di un unico standard dominante (per una trattazione più diffusa di questo problema, si rimanda al box Alleanze strategiche e licensing per stabilire uno standard e al Capitolo 4). Concedendo la tecnologia in licenza ai potenziali concorrenti, il licensor rinuncia alla possibilità di ricavarne delle rendite da monopolio, ma al contempo previene lo sviluppo di tecnologie proprietarie analoghe da parte dei concorrenti. Pertanto, attraverso il licensing, l’impresa sceglie di assicurarsi un flusso costante di royalty invece di puntare a raggiungere la posizione dominante del mercato, sottraendosi così a una scommessa con una posta in gioco molto elevata.
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Outsourcing Le imprese che sviluppano innovazioni tecnologiche non sempre possiedono le competenze, le strutture o le dimensioni adatte a svolgere in modo efficace ed efficiente tutte le attività della catena del valore. Ecco perché alcune imprese possono scegliere di trasferire al proprio esterno (outsource) determinati processi affidandoli ad altre organizzazioni. Una formula di outsourcing molto diffusa consiste nel contratto di produzione (o contract manufacturing). Questa modalità di collaborazione consente all’impresa di soddisfare il mercato, rispondendo alle variazioni della domanda, senza dover sostenere investimenti di capitale a lungo termine o aumentare la propria forza lavoro, garantendo quindi una maggiore flessibilità all’organizzazione (Teece, 1986). Il contratto di produzione permette all’impresa di specializzarsi nelle attività fondamentali per la costruzione del proprio vantaggio competitivo, acquisendo invece dall’esterno le risorse specializzate e di supporto delle quali non dispone. Il ricorso al contract manufacturing consente inoltre all’impresa di beneficiare delle maggiori economie di scala e dei tempi di risposta più rapidi di un produttore specializzato, riducendo i costi e incrementando la capacità di reazione ai cambiamenti dell’ambiente di mercato (Schilling e Steensma, 2001).
I risultati della ricerca Alleanze strategiche e licensing per stabilire uno standard In un articolo del 1997, Charles Hill ha descritto come un’impresa possa adoperare il licensing o un’alleanza strategica allo scopo di guadagnare slancio nella corsa fra differenti tecnologie per conquistare la posizione di standard in un mercato winner-takes-all. Hill ha identificato una gamma di opzioni strategiche indicate per favorire il processo di adozione e diffusione nel mercato della propria tecnologia, dalla “strategia individuale aggressiva” alla “strategia di licensing multiplo aggressivo”, e i fattori che condizionano la scelta di ciascuna come opzione da preferire (Tabella 8.2). Hill ha sostenuto che i fattori determinanti che suggeriscono la strategia ottimale dell’impresa comprendono le barriere all’imitazione, la presenza di concorrenti dotati di competenze di-stintive, la disponibilità di pro-dotti complementari, nonché il possesso dell’impresa delle capacità necessarie a realizzare la tecnologia e i prodotti complementari al proprio interno. Strategia individuale aggressiva di offerta (aggressive sole provider) In base a questa scelta strategica, l’impresa tenta di proporsi come unico fornitore in grado di realizzare una tecnologia che stabilisca lo standard di mercato. L’impresa evita di cercare alleanze o di concedere in licenza il proprio know-how, scegliendo per il proprio prodotto o servizio un posizionamento di mercato aggressivo, attraverso strategie di distribuzione estensiva e di pricing di penetrazione, e producendo da sé i beni complementari necessari. Se la strategia avrà successo, l’impresa potrà trattenere per sé tutti i profitti generati dall’aver imposto lo standard tecnologico. Tale strategia di going-it-alone è rischiosa e dispendiosa sotto il profilo dell’impegno finanziario. Ha senso solo quando le barriere all’imitazione sono efficaci nell’impedire ai concorrenti di riprodurre i vantaggi
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(continua) Tabella 8.2 Strategie di collaborazione per stabilire uno standard. Caratteristiche principali
Fattori che favoriscono la scelta
Individuale aggressiva
• Evita il licensing • Evita accordi di collaborazione • Persegue strategie aggressive di posizionamento • Diversifica nella produzione di beni complementari, se necessario
• Elevate barriere all’imitazione • L’impresa possiede le risorse complementari richieste • Esistono fornitori di beni complementari (oppure la diversificazione è praticabile) • Assenza di concorrenti competitivi
Collaborazione selettiva
• Stabilisce un’alleanza per promuovere uno standard in maniera congiunta
• L’impresa non possiede le risorse complementari critiche di cui invece dispongono i partner • Elevate barriere all’imitazione • Il partner è anche un potenziale concorrente
Licensing multiplo passivo
• Concede la licenza a tutti gli operatori interessati • I licensee sviluppano il mercato
• Basse barriere all’imitazione • L’impresa non possiede le risorse complementari • Molti potenziali concorrenti
Licensing multiplo aggressivo
• Concede la licenza a molte imprese • Persegue strategie aggressive di posizionamento
• L’impresa possiede le risorse complementari • Le barriere all’imitazione sono basse • Molti potenziali concorrenti
Strategia competitiva
tecnologici dell’impresa, la quale possiede al proprio interno le capacità e le competenze necessarie. In modo analogo, i beni complementari dovranno essere disponibili prontamente nel mercato, oppure l’impresa dovrà essere in grado di realizzarli da sola. Si
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334 Capitolo 8
(continua) tratta di una strategia che funziona solo quando non sono presenti concorrenti in grado di sviluppare una tecnologia superiore, anche se talvolta è accaduto ad alcune imprese di aver avuto successo adottando questo comportamento pur in presenza di concorrenti con elevate competenze. Per esempio, Intel ha perseguito con successo una strategia di aggressive sole provider per i suoi microprocessori, nonostante le costanti pressioni operate da concorrenti solidi e competenti come IBM e Motorola. Strategia di collaborazione selettiva (selective partnering) Se le barriere all’entrata sono elevate, ma all’impresa manca una competenza critica o una risorsa chiave per realizzare e promuovere la tecnologia operando da sola, essa potrebbe cercare di formare un’alleanza strategica con una o poche altre organizzazioni allo scopo di diffondere in modo congiunto, e aggressivo, la tecnologia come standard. Il selective partnering si rivela una strategia utile soprattutto quando compare in scena un particolare concorrente in grado di avanzare una seria minaccia competitiva. Sony e Philips hanno adoperato tale strategia nel processo di sviluppo e di diffusione del formato “compact disc”. Strategia di licensing multiplo passivo (passive multiple licensing) Se le barriere all’ingresso sono basse e perciò i concorrenti competitivi numerosi, mentre l’impresa non possiede tutte le competenze e le risorse inhouse per realizzare la tecnologia (e i beni complementari) e promuoverne la diffusione da sola, potrebbe essere una scelta valida concedere in licenza la tecnologia proprietaria a tutte le imprese interessate, lasciando che siano i licensee a “costruire” il mercato. Il licensing passivo è un modo non dispendioso per fondare la base installata di una tecnologia e incoraggiare la disponibilità di beni complementari, con la possibilità di cooptare e scegliere come alleati dei potenziali concorrenti. Dolby, per esempio, ha concesso in passive licensing la sua tecnologia del suono ad alta fedeltà a qualunque operatore dietro il pagamento di una fee (il prezzo d’ingresso) ragionevole. Agendo co-sì, rende improbabile che i suoi potenziali concorrenti si impegnino nel tentativo di sviluppare una tecnologia superiore. Sebbene Dolby guadagni solo pochi centesimi da ogni audio player che venga venduto con la tecnologia Dolby incorporata, i volumi di vendita sono immensi, mentre l’azienda in pratica non sostiene alcuna spesa. Strategia di licensing multiplo aggressivo (aggressive multiple licensing) Questa strategia è analoga alla precedente, ma implica anche un posizionamento aggressivo di mercato da parte dell’impresa che promuove la tecnologia innovativa. In tal caso, l’impresa concede in licenza quasi con entusiasmo, per favorirne il processo di diffusione e l’adozione da parte dei suoi concorrenti, la sua tecnologia, benché continui a produrla e a commercializzarla con energia e vigore. L’obiettivo strategico è duplice: difendere la posizione della tecnologia come standard e assicurare all’impresa il ruolo di fornitore dominante della tecnologia. In tale scenario, l’impresa possiede tutte le competenze necessarie per realizzare e promuovere la tecnologia da sola; tuttavia, le esigue barriere all’entrata e la presenza di molti concorrenti in grado di proporsi come fornitori segnalano la probabilità che altri competitor possano sfidare la posizione di leadership dell’impresa. Concedere in licensing l’uso della tecnologia a questi potenziali concorrenti coglie in anticipo la decisione di costoro di sviluppare tecnologie alternative, facendoli desistere dall’entrare in gioco e guadagnando tempo e spazio nella corsa allo standard. Fonte: C. W. L. Hill, “Establishing a Standard: Competitive Strategy and Technological Standards in Winner-Take-All Markets”, Academy of Management Executive 11, 2, 1997, pp. 7-25.
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Anche altre attività, quali il design di prodotto o di processo, il marketing, l’information technology o la distribuzione, possono essere esternalizzate. L’outsourcing può presentare, però, anche una serie di svantaggi. Il ricorso a imprese esterne implica una rinuncia a importanti opportunità d’apprendimento, determinando un potenziale svantaggio per l’impresa nel lungo termine (Lei e Hitt, 1995). Rinunciare a investire nella creazione, nello sviluppo e nel rinnovo di capacità interne e di competenze organizzative potrebbe impedire o rendere difficile la formazione di abilità e di risorse collegate al prodotto che consentano, a loro volta, il futuro sviluppo di nuove piattaforme di prodotto. Il rischio che l’impresa corre, dunque, è quello di “svuotarsi”, di trasformarsi in un’organizzazione “cava” (hollow corporation) che tende a perdere il proprio valore intrinseco. L’outsourcing può comportare anche notevoli costi di transazione (Pisano, 1990). I contract manufacturer, per esempio, richiedono di norma un accordo contrattuale ben definito che indichi con chiarezza e fin dal principio le richieste dell’impresa committente in termini di design del prodotto, costi e quantità. L’impresa committente deve impegnarsi a fondo per proteggersi dai rischi di espropriazione delle tecnologie proprietarie da parte del produttore, il quale, a sua volta, può sostenere costi notevoli per incrementare la propria capacità di produzione a favore dell’impresa committente, e quindi è interessato a specificare con precisione i termini contrattuali relativi all’entità del proprio impegno per evitare di subire il “ricatto” del committente una volta che ha realizzato investimenti “dedicati” al progetto e difficilmente convertibili.
Organizzazioni di ricerca In molti settori sono state istituite organizzazioni per lo svolgimento di attività collaborative di ricerca e sviluppo. Queste organizzazioni possono presentare modelli differenti di configurazione, dalle associazioni di imprenditori ai consorzi di ricerca universitari. Per esempio, nel 2002 sei grandi produttori giapponesi che operavano nell’industria dell’elettronica (Fujitsu, Hitachi, Matsushita Electric Industrial, Mitsubishi Electric, NEC e Toshiba) costituirono un’organizzazione di ricerca in comune, chiamata Aspla, per lo sviluppo di progetti volti alla costruzione di microprocessori più avanzati. La competizione globale aveva compresso in modo significativo i margini sul mercato dei chip, determinando forti perdite per la maggior parte delle imprese giapponesi. Inoltre, la ricerca tecnologica nel campo dei chip era diventata estremamente dispendiosa. Nelle intenzioni dei promotori, Asla avrebbe consentito alle imprese di condividere i costi di sviluppo e all’industria giapponesi dei semiconduttori nel suo complesso di rafforzare il vantaggio competitivo. Ciascun partner investì nella fase iniziale 150 milioni di yen (circa 1 milione di euro dell’epoca) con l’impegno di versare annualmente 85 milioni di dollari per progetti di ricerca in collaborazione. Il governo di Tokio ha partecipato al finanziamento del network di ricerca con un contributo di 268 milioni di dollari. Come mostra sul sito web il box I consorzi per la ricerca: i progetti Heat4u e Home Lab, i consorzi di ricerca possono essere uno strumento di accelerazione dei processi di sviluppo, anche per imprese di piccole dimensioni, come
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Robur, in possesso di competenze distintive, e per aziende con risorse complementari che attraverso architetture collaborative possono realizzare progetti condivisi, come nel caso di Home Lab.
8.5 Scelta della modalità di collaborazione La Tabella 8.3 mette a confronto i vantaggi dello sviluppo autonomo con una varietà di strategie alternative di collaborazione. Lo sviluppo indipendente dall’interno è, in linea di massima, una strategia di innovazione tecnologica relativamente lenta e costosa. L’impresa deve sostenere da sola tutti i costi e tutti i rischi e, prima di realizzare la nuova tecnologia, potrebbe essere costretta a dedicare molto tempo all’apprendimento, a perfezionare i progetti e a sviluppare attività di produzione o servizi di assistenza. Questa strategia consente, però, di mantenere un controllo totale sul processo di sviluppo e sull’impiego della tecnologia, oltre a garantire un alto potenziale per lo sfruttamento e la valorizzazione delle competenze esistenti e per svilupparne di nuove; non offre tuttavia che poche o alcuna opportunità di accesso alle competenze di altre imprese. La scelta di intraprendere uno sviluppo autonomo può dimostrarsi valida, perciò, soltanto per le imprese che dispongano di un ricco patrimonio di competenze collegate alla nuova tecnologia, di un accesso a fonti di capitale e di poche pressioni in termini di tempi. Poiché le alleanze strategiche possono assumere molte forme, la rapidità di sviluppo tecnologico, i costi e il grado di controllo che ciascuna offre variano in modo significativo. Alcune alleanze strategiche consentono di acquisire l’accesso alle tecnologie dei partner in tempi relativamente brevi e a costi contenuti ma, per contro, potrebbero concedere all’impresa un controllo limitato sulla tecnologia. Altre forme di alleanza, invece, potrebbero essere finalizzate all’applicazione delle tecnologie proprietarie dell’impresa in nuovi mercati, garantendo tempi brevi, un buon rapporto costi-risultato e un adeguato grado di controllo. La maggior parte delle alleanze offre all’impresa l’opportunità di sfruttare e valorizzare le proprie competenze o di svilupparne di nuove e, secondo le finalità e le strutture prescelte, può consentire un accesso potenziale alle competenze di altre imprese. Ponendo a confronto le differenti forme di alleanza, si osserva come la joint-venture sia l’opzione di strategia collaborativa più strutturata; di solito, essa prevede lo sviluppo di una nuova tecnologia con tempi pressoché analoghi a quanto richiesto da una strategia in-house o, a volte, quando riesce la combinazione delle capacità dei partner, i tempi potrebbero accorciarsi lievemente. Attraverso una joint-venture, i partner, oltre a poter condividere il costo degli investimenti nel processo di sviluppo, al contempo dovranno condividere anche il controllo delle attività. Poiché (di regola) implicano una relazione di lungo termine fra due o più imprese con l’obiettivo di sviluppare un nuovo prodotto o una nuova attività di business, le joint-venture offrono ampi margini per la valorizzazione delle competenze esistenti, per lo sviluppo di nuove competenze e per l’accesso a quelle dei partner. Rispetto a
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Variabile
Bassa
Elevata
Elevata
Media/elevata
Alleanza strategica
Joint venture
Acquisizione di licenza (licensing-in)
Concessione di licenza (licensing-out)
Outsourcing
Bassa
Bassa
Sviluppo interno autonomo
Organizzazione di ricerca
Velocità
Variabili
Medi
Bassi
Medi
Condivisi
Variabili
Elevati
Costi
Tabella 8.3 Rischi e benefici delle differenti modalità di sviluppo.
Variabile
Medio
Medio
Basso
Condiviso
Basso
Elevato
Controllo
Sì
A volte
Sì
A volte
Sì
Sì
Sì
Valorizzazione di competenze esistenti
Sì
No
No
A volte
Sì
Sì
Sì
Sviluppo di nuove competenze
Sì
Sì
A volte
A volte
Sì
A volte
No
Accesso a competenze di altre imprese
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338 Capitolo 8
un’alleanza strategica o allo sviluppo autonomo, questa modalità di collaborazione è da privilegiare quando l’impresa attribuisce grande importanza all’accesso alle competenze dei partner. L’acquisizione di licenze (licensing-in) offre una corsia preferenziale per accedere a nuove tecnologie con costi di norma inferiori a quelli dello sviluppo interno. Di solito, però, in tal caso l’impresa dispone di un potere decisionale – e dunque un grado di controllo – limitato sulle modalità di impiego della tecnologia. La combinazione che si crea fra le capacità dell’impresa licenziataria e la natura della tecnologia o del know-how concesso in licenza determina il grado potenziale che il licensing può offrire per lo sfruttamento delle competenze già possedute dall’azienda, per lo sviluppo di nuove competenze e per l’accesso a quelle di altre organizzazioni. Molti farmaci o trattamenti terapeutici, per esempio, sono dapprima sperimentati e sviluppati presso centri di ricerca universitari; in seguito, le case farmaceutiche o le società di biotecnologie acquistano, attraverso il licensing, il diritto di esplorare le opportunità di mercato del nuovo prodotto o della terapia innovativa servendosi delle proprie capacità di sviluppo, testing e produzione. Il licensing di composti o di terapie promettenti consente alle case farmaceutiche e alle imprese di biotecnologie, in primo luogo, di raggiungere in tempi rapidi gli obiettivi prefissati in termini di realizzazione di nuovi farmaci, contribuendo a mantenere sempre “piena” la propria pipeline di prodotti in fasi differenti dello stadio di sviluppo; in secondo luogo, di concentrare i propri sforzi di sviluppo su progetti che hanno già dimostrato di avere un potenziale terapeutico. Il licensing può rivelarsi una strategia adatta anche nel caso di acquisizione delle tecnologie abilitanti che, pur necessarie alla realizzazione dei prodotti dell’impresa, non risultano determinanti per il vantaggio competitivo. I produttori di macchine fotografiche digitali, per esempio, anche se per i propri modelli hanno l’esigenza di disporre di batterie di lunga durata, leggere e poco costose, di solito non ritengono la durata della batteria un elemento fondamentale per il proprio vantaggio competitivo, affidandosi quindi a tecnologie sviluppate all’esterno. Per le imprese con poche abilità tecnologiche, il licensing è anche un metodo efficace per guadagnare il primo accesso al mercato e acquisire un’esperienza iniziale, sulla quale in futuro potranno basarsi per sviluppare capacità tecnologiche proprietarie. La concessione di licenze (licensing-out) consente di estendere rapidamente il raggio di diffusione delle proprie tecnologie a costi bassi e con buone opportunità di ricavare royalty. Sebbene il licensing costringa l’impresa a rinunciare al controllo esclusivo sulla tecnologia proprietaria, le garantisce però di conservare un certo grado di sorveglianza sul suo impiego attraverso le restrizioni previste nell’accordo di licenza. Questa forma di collaborazione permette, inoltre, di valorizzare le competenze possedute facendo in modo che la tecnologia venga utilizzata in una più ampia gamma di prodotti e di mercati, impossibili da raggiungere operando da soli. Per contro, il licensing non offre grandi opportunità per lo sviluppo di nuove competenze. Talvolta, la concessione di licenze è una strada per accedere alle competenze di altre
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imprese, come nel caso in cui la licenza sia adoperata per estendere l’impiego della propria tecnologia verso prodotti o mercati nei quali l’impresa possiede un’esperienza ancora limitata e capacità inadeguate. La strategia di outsourcing delle attività di design o di progettazione, di produzione o di distribuzione delle proprie tecnologie consiste in una rinuncia consapevole al controllo esclusivo al fine di guadagnare con rapidità l’accesso all’esperienza o alle capacità di un’altra impresa, di solito con una struttura dei costi più competitiva. Benché le attività esternalizzate non siano prive di costi per l’impresa, comportano comunque costi di norma inferiori a quelli da sostenere per sviluppare la capacità di svolgere tali attività in-house, consentendo inoltre di accedervi in tempi molto più brevi. L’outsourcing offre poche opportunità per la creazione di nuove competenze, ma permette all’impresa di valorizzare le competenze già possedute e di concentrarsi sulle attività in cui ottiene i migliori risultati in termini di redditività o di valore creato. La strategia di outsourcing di Nike, per esempio, che consiste nell’esternalizzazione della produzione di quasi tutte le calzature sportive a contract manufacturer asiatici, le consente di rafforzare il vantaggio competitivo che detiene nel design e nel marketing, attingendo invece alle strutture dei partner che presentano costi di investimento e del lavoro assai più contenuti. Di norma, l’outsourcing potrebbe rappresentare una soluzione adatta per (a) attività non essenziali ai fini della costruzione o del rafforzamento del vantaggio competitivo dell’impresa; (b) attività il cui svolgimento in-house comporterebbe una grave perdita di flessibilità; (c) attività nelle quali l’impresa è in condizioni di svantaggio in termini di costi o di qualità, ovvero di competenze critiche per poterle svolgere. La partecipazione a organizzazioni o consorzi di ricerca comporta, in genere, un impegno a lungo termine, senza esaurirsi in uno sforzo destinato solo ad accedere in tempi rapidi a nuove capacità o tecnologie innovative. Come avviene per le alleanze strategiche, anche la natura della partecipazione di un’impresa a organizzazioni di ricerca può assumere differenti configurazioni, con un’ampia varietà nella struttura dei costi o nelle forme di controllo. Le organizzazioni di ricerca possono rappresentare per l’impresa un percorso valido per valorizzare e rafforzare il patrimonio di competenze possedute, ma anche uno strumento di apprendimento delle conoscenze e delle competenze detenute dagli altri membri. Sebbene la partecipazione alle organizzazioni di ricerca spesso potrebbe non determinare rendimenti immediati in termini di nuovi prodotti o servizi, tale forma di collaborazione si rivela particolarmente utile in settori caratterizzati da tecnologie complesse, che richiedono cospicui investimenti nella ricerca di base. Attraverso la condivisione delle proprie conoscenze e degli investimenti da realizzare, le imprese partecipanti a consorzi di ricerca possono ripartirsi anche i costi e i rischi della ricerca di base, accelerando i tempi di sviluppo necessari per l’individuazione di soluzioni valide e innovative. Talvolta, come è accaduto nel caso del polipropilene (illustrato sul sito web nel box Quando la collaborazione fra università e impresa regalò un Nobel), la collaborazione fra l’università e l’industria si è rivelata fondamentale per dar vita a un’innovazione radicale.
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8.6 Scelta e controllo dei partner Guadagnare l’accesso alle abilità, alle risorse e alle competenze di un’altra impresa attraverso la collaborazione non è una strategia priva di rischi (Hill, 1992; Shan, 1990; Teece, 1986). A volte, è difficile stabilire se le risorse fornite dal partner siano adeguate alla propria impresa, in particolare qualora si tratti di risorse difficili da valutare come l’esperienza o la conoscenza. Può anche accadere che qualcuno dei partner sfrutti il rapporto di collaborazione per appropriarsi di conoscenze delle altre parti dell’alleanza senza offrire alcunché in cambio. Inoltre, poiché il management può governare e mantenere sotto controllo in modo efficace solo un numero limitato di collaborazioni, l’efficacia di gestione diminuisce all’aumentare del numero di collaborazioni nelle quali l’impresa è coinvolta. Tale condizione, oltre a determinare con maggiori probabilità una diminuzione dei rendimenti per ciascuna collaborazione, rischia di generare delle perdite qualora il numero di collaborazioni attivate si riveli eccessivo a causa dei costi di controllo che l’impresa dovrebbe sostenere. Per minimizzare questi rischi, l’impresa dovrebbe limitare il numero di collaborazioni in cui è simultaneamente impegnata, dedicare particolare attenzione alla scelta dei partner e definire meccanismi appropriati di monitoraggio e di governo della relazione con lo scopo di attenuare il pericolo di comportamenti opportunistici da parte dei suoi alleati (Williamson, 1985).
Selezione dei partner Il successo di una strategia di collaborazione dipende, in larga misura, dai partner che sono stati scelti. La compatibilità fra i partner può essere influenzata da una serie di fattori, tra cui le dimensioni e il potere di mercato dell’impresa, la complementarità delle risorse, la coerenza e la convergenza fra gli obiettivi dei partner, la somiglianza dei valori e delle culture aziendali (Bleeke e Ernst, 1995; Das e Teng, 1998; Kanter, 1994; Uzzi, 1997). Questi fattori possono essere ricondotti a due dimensioni fondamentali: la compatibilità delle risorse e la compatibilità strategica (Das e Teng, 1999). La compatibilità delle risorse fa riferimento alla potenziale disponibilità nei partner di risorse che si prestano a essere integrate e combinate in modo efficace nell’ambito di una strategia per la creazione di valore. Le risorse dei partner possono essere complementari o supplementari. Le ragioni di fondo e le motivazioni che spiegano la maggior parte delle collaborazioni sono collegabili al bisogno di accedere a risorse delle quali non si dispone; pertanto, la strategia di cooperazione si basa sulla combinazione di risorse complementari. Quasi tutti gli esempi riportati in questo capitolo hanno riguardato casi di partnership con risorse complementari, come è avvenuto nel caso di Sangamo, dove le tecnologie proprietarie di gene editing si sono combinate con l’esperienza e le competenze nella sperimentazione clinica e nella produzione di imprese farmaceutiche e biotecnologiche di maggiori dimensioni. In altre collaborazioni, invece, le imprese ricercano stock di risorse supplementari simili alle proprie. La condivisione di risorse supplementari, infatti, consente ai partner di rafforzare il proprio potere di mercato o di conseguire economie
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di scala. STMicroelectronics e Intel, per esempio, hanno consolidato molti dei propri processi produttivi al fine di acquisire economie di scala e abbassare i costi di struttura. La compatibilità strategica fa riferimento, invece, al grado di allineamento degli obiettivi e degli stili imprenditoriali dei partner. Tali obiettivi non devono necessariamente coincidere, purché possano essere perseguiti e raggiunti senza recare danno all’alleanza o agli altri partner. Per un’impresa, stabilire un’alleanza con un partner di cui non si conoscono i reali obiettivi oppure i cui obiettivi sono incompatibili con i propri, significa rischiare di dover affrontare l’ipotesi di un conflitto, di sprecare risorse e di perdere opportunità di mercato. A tale proposito, Das e Teng (1999) ricordano il caso dell’alleanza tra General Motors e l’impresa sudcoreana Daewoo. Mentre GM, attraverso l’alleanza, sperava di abbattere i costi di produzione dei propri modelli di automobili, l’obiettivo di Daewoo concerneva lo sviluppo di tecnologie innovative e la progettazione di nuovi modelli. Alla fine, l’alleanza fallì proprio a causa dell’incompatibilità fra gli obiettivi di GM (orientamento ai costi) e quelli di Daewoo (orientamento alla R&S). Divergenze di interessi e un differente grado di commitment, per esempio, hanno determinato il fallimento degli accordi di Fiat con Nanjing Automobile Corporation per la produzione di automobili destinate al mercato cinese o della casa tedesca Volkswagen con la giapponese Suzuki per lo sviluppo condiviso di nuove tecnologie (sul sito web il caso). Per la valutazione dei potenziali partner, le imprese possono utilizzare strumenti analoghi a quelli presentati nel Capitolo 6 e adoperati per stimare la posizione competitiva e l’orientamento strategico dell’impresa. L’analisi comprende anche un esame del probabile impatto della strategia di collaborazione sullo scenario competitivo (opportunità e minacce per l’impresa presenti nell’ambiente e sterno, così come punti di forza e di debolezza dell’organizzazione), nonché sulla sostenibilità del vantaggio competitivo e sulla capacità dell’impresa di raggiungere il proprio intento strategico.
Impatto sulle opportunità e sulle minacce dell’ambiente competitivo Nel valutare l’impatto di una strategia di collaborazione con un determinato partner sulle opportunità e sulle minacce per l’impresa, potrebbe essere utile per il management porsi domande quali le seguenti.
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La collaborazione con il partner potrebbe modificare il potere contrattuale dei clienti o dei fornitori? Se sì, in che modo? Quale impatto esercita la collaborazione sui rischi di ingresso nel mercato di nuovi concorrenti? Per esempio, il partner rischia di diventare un nuovo concorrente? Oppure, al contrario, la partnership pone ulteriori barriere all’entrata per i nuovi potenziali concorrenti? La collaborazione potrebbe condizionare il comportamento e la posizione dell’impresa rispetto ai propri concorrenti diretti? Questa collaborazione potrebbe influire sulla disponibilità di beni complementari o sulla minaccia di prodotti sostituitivi?
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Impatto sui punti di forza e di debolezza dell’organizzazione Nel valutare l’influenza di una determinata relazione di collaborazione sui punti di forza e di debolezza dell’impresa, il management potrebbe invece porsi domande quali le seguenti.
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La collaborazione consente all’impresa di valorizzare o potenziare i propri punti di forza? O piuttosto li mette a rischio? La collaborazione sostiene l’impresa nel fronteggiare le proprie debolezze? La collaborazione genera una posizione di vantaggio competitivo difficile da imitare per i concorrenti? Tale vantaggio competitivo potrebbe essere conseguito anche senza strategie di collaborazione? La collaborazione permette all’impresa di sfruttare o potenziare le sue capacità chiave? La collaborazione potrebbe avere delle ripercussioni sulla struttura finanziaria dell’impresa?
Impatto sull’orientamento strategico Nel valutare l’influenza di una collaborazione sull’orientamento strategico dell’impresa, occorre infine porsi domande quali le seguenti.
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La collaborazione è compatibile con l’intento strategico dell’impresa? La collaborazione potrebbe consentire all’impresa di colmare il gap di risorse o di tecnologie che la separa dal raggiungimento del suo intento strategico? È probabile che gli obiettivi della strategia di collaborazione cambino nel tempo? E tali cambiamenti sarebbero ancora compatibili con l’orientamento strategico dell’impresa?
Governance e monitoraggio dei partner Gli accordi di collaborazione di maggior successo, in genere, mostrano meccanismi di governance e di monitoraggio dei partner ben definiti, anche se flessibili. Non sorprende, dunque, che quanto maggiori sono le risorse messe a rischio dalla collaborazione (per esempio, al crescere degli investimenti iniziali o del valore della proprietà intellettuale), tanto più complessa sarà la struttura di governance imposta dai partner al proprio rapporto di collaborazione (Gulati e Singh, 1998). In molti casi, le parti stipulano accordi contrattuali con norme vincolanti allo scopo di assicurarsi che ciascun partner (a) sia pienamente consapevole dei propri diritti e doveri e (b) possa ricorrere alle vie legali in caso di violazione dell’accordo. Nei contratti, di regola, si definiscono i seguenti punti:
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il contributo che ciascun partner si obbliga a fornire e a mettere a disposizione della collaborazione in termini di risorse finanziarie, servizi, impianti e attrezzature, proprietà intellettuale e così via; il grado di controllo che spetta a ciascun partner; per esempio, il contratto può stabilire se le parti abbiano il diritto di ammettere alla collaborazione anche altri partner o di modificare i termini dell’accordo, oppure può sancire i diritti delle parti su qualunque processo o prodotto proprietario sviluppato nel corso della collaborazione;
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i tempi e i modi della distribuzione di quanto viene generato nel rapporto di collaborazione; per esempio, l’accordo può indicare tempi e modalità della ripartizione dei flussi finanziari o relativi all’attribuzione dei diritti di proprietà intellettuale.
Tali contratti spesso includono anche meccanismi orientati al monitoraggio del comportamento di ciascun partner, inerenti in particolare alla valutazione del rispetto dei termini contrattuali, per esempio, richiedendo report obbligatori o revisioni periodiche di quanto stabilito dall’accordo (Segil, 1998). Alcuni accordi di collaborazione prevedono un auditing delle attività a scadenze predefinite, a volte a cura di un revisore esterno. Molti accordi contemplano anche forme e modalità di scioglimento del rapporto qualora le ragioni e le motivazioni che avevano ispirato l’alleanza dovessero venir meno (per esempio, nel caso in cui la missione dell’alleanza sia stata raggiunta o gli obiettivi dei partner siano cambiati) oppure allorché i partner dovessero imbattersi in controversie irrisolvibili. Nel corso del tempo, mercati e strategie cambiano, e quindi anche gli accordi di collaborazione, per restare efficaci, sono chiamati a prevedere e mantenere un adeguato grado di flessibilità così da adattarsi ai processi di evoluzione dell’ambiente competitivo, oltre ad assicurare una strategia di uscita percorribile ai membri che desiderino sospendere o ritirarsi dall’accordo di collaborazione. Molte alleanze evolvono nel tempo in società partecipate (equity ownership), con quote azionarie distribuite fra i differenti partner, che vi contribuiscono ciascuno con il proprio capitale. Le equity ownership favoriscono l’allineamento degli incentivi dei partner, poiché i ritorni dell’investimento sono funzione del successo dell’alleanza, oltre a suscitare un senso di appartenenza e di commitment nei confronti del progetto, così da facilitare la supervisione e il monitoraggio dell’accordo. È da ricordare infine come molte alleanze si affidino a meccanismi “invisibili” di governance relazionale, basati sulla fiducia e sulla reputazione dei partner, alimentati nel tempo dalle esperienze condivise di lavoro comune. La ricerca suggerisce che la relational governance tende a ridurre i costi di negoziazione e di monitoraggio nella gestione di un’alleanza, incoraggiando processi diffusi di collaborazione, condivisione di conoscenza, apprendimento fra i partner dell’alleanza.
Volare leggeri: il caso Tecnam Gli aerei ultraleggeri di Tecnam nascono nella campagna alle porte di Capua, circondati da frutteti e allevamenti di bufale, accanto alla pista polverosa di un vecchio aeroporto militare, l’Oreste Salomone, e non lontano dal Cira, il Centro italiano per la ricerca aerospaziale. A fondarla, nel 1986, sono stati due fratelli, Luigi e Giovanni Pascale Langer, i quali quasi quarant’anni prima, nel 1948, avevano già costruito il loro primo aereo.
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Luigi “Gino” Pascale è un ingegnere meccanico che nell’arco della sua vita non ha mai separato l’esperienza accademica – assistente di Umberto Nobile nell’Istituto di Costruzioni aeronautiche, fondatore e a lungo direttore dell’Istituto di Progetto velivoli nella Facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli, dove ha insegnato per quasi cinquant’anni – dal percorso imprenditoriale, in un intreccio fra ricerca e industria che in Italia raramente si incontra. Il primo aereo ideato da Luigi e Giovanni “Nino” Pascale è stato concepito e realizzato nel garage dell’abitazione di famiglia, a Parco Matarazzo, in via Tasso, a Napoli. Fu allora che i due fratelli di origine beneventana, appassionati di aeromodellismo, decisero di trasformare un hobby in un’impresa industriale. Il primo aereo – il P48 Astore – fu costruito assemblando rottami di altri motori e residui bellici acquistati a peso. Il volo di collaudo fu effettuato da Mario de Bernardi, asso dell’aviazione italiana, nel 1951, decollando dall’aeroporto di Capodichino. Nel 1954, fondarono la loro prima società di produzione, Partenavia; i primi velivoli – il P52 Tigrotto e il P55 Tornado – furono destinati all’aviazione sportiva. Il primo velivolo di serie, un quadriposto battezzato P57 Fachiro, sollecitò l’apertura di un nuovo stabilimento, ad Arzano. Nel 1970, l’azienda inaugurò una nuova struttura produttiva a Casoria, dove si progettarono e realizzarono il P66 Charlie e il P68 Victor. Nel 1981, nel capitale sociale entrò l’Aeritalia (Iri), ma pochi anni dopo, quando ormai Partenavia era riuscita a conquistare una posizione di rilievo nel ricco mercato statunitense con un bimotore a sei posti, i Pascale decisero di abbandonare la compagine azionaria per dar vita a Tecnam. A trent’anni di distanza, sono 5 mila gli aerei Tecnam che volano nel mondo, in oltre 65 Paesi, destinati all’addestramento così come agli spostamenti di corto raggio. Ormai le esportazioni hanno superato la soglia dell’85% del fatturato; in media, si realizzano duecento velivoli all’anno. L’assortimento di gamma è ampio: si contano 33 tipi differenti di aerei, dai modelli-base, da 50 mila euro, ai velivoli più sofisticati, in listino a due milioni di euro. La struttura produttiva, caratterizzata da un altissimo grado di flessibilità operativa, consente di operare con prezzi molto competitivi in un mercato di fatto globale, dove le posizioni di leadership storica sono detenute da aziende molto note, quali Piper e Cessna. I segmenti di mercato privilegiati sono le scuole di volo, gli enti governativi – in particolare per gli aerei con funzioni di monitoraggio ambientale e di osservazione – i privati appassionati di volo sportivo (sport aviation). Tecnam è l’unica impresa aeronautica al mondo a produrre velivoli sia in lega leggera sia in fibra di carbonio. “Realizziamo stampi, tutto viene prodotto da noi, tranne il motore. Un lavoro molto artigianale. Più che a una fabbrica assomiglia all’officina di un appassionato di volo”, ha osservato con orgoglio in un’intervista Giovanni junior, giovane chief operating officer dell’azienda e terza generazione di Pascale Langer. Uno dei punti di forza dell’azienda è la rete commerciale e di servizi di assistenza post-sales, con oltre 60 dealer, dalla Francia al Portogallo, dagli Stati Uniti all’Argentina, dall’Africa all’Asia, fino all’Australia e alla Nuova Zelanda. Un asset indispensabile per operare in un mercato che, benché globale per caratteristiche della domanda e natura della competizione, è chiamato a tener conto delle normative di certificazione regionale (per esempio, l’Easa in Europa e il Faa negli
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Stati Uniti). Nel 2015, ha costituito una consociata in Florida, Tecnam US, per seguire da vicino uno dei principali mercati di sbocco, svolgendo attività promozionali e di vendita, di assistenza e manutenzione, di addestramento. Nel 2008 ha realizzato il suo primo investimento produttivo all’estero, acquisendo un impianto a Saragozza, in Spagna. L’operazione è stata motivata dalla decisione di produrre un monomotore a tecnologia mista, con la fusoliera costruita in materiale composito – una tecnologia di norma applicata a velivoli di dimensioni maggiori – e l’ala nelle tradizionali leghe metalliche. Il velivolo, progettato in Italia, viene realizzato ora in Spagna sia perché l’azienda acquisita dispone di competenze e di un set di fornitori adatti alla nuova produzione, sia perché la sua posizione geografica consente di rivolgersi più agevolmente ai mercati del Nord Europa. Tecnam è cresciuta negli anni, passo dopo passo, senza interruzioni e senza strappi, beneficiando delle fasi di espansione del mercato e “tenendo” nei momenti di contrazione. Il salto in avanti è avvenuto solo pochi anni fa, nel 2012, sotto la spinta di una compagnia aerea regionale statunitense, la Cape Air, che ha ordinato all’azienda, in occasione del rinnovo della sua flotta, 100 aerei ultraleggeri da trasporto da undici posti. Il P2012T (T come Traveller), costruito in alluminio e materiale composito, andrà a sostituire i ben più famosi Cessna 402 in dotazione alla compagnia americana e sarà destinato soprattutto ai collegamenti fra gli aeroporti costieri e le isole. Del modello, Tecnam ha progettato e sviluppato differenti fusoliere, perché il velivolo sarà realizzato anche in versione cargo e aeroambulanza. Per finanziare il suo programma di sviluppo, Tecnam non avrebbe esitato ad aprire il suo capitale al Fondo Italiano di Investimento (FII) che nel 2012 aveva annunciato il suo interesse ad acquisire una quota di minoranza della società ma, nonostante l’esito positivo della due diligence e la sottoscrizione di un pre-accordo di investimento, l’operazione non è andata in porto perché la proprietà non ha ritenuto congrua l’offerta ricevuta dal fondo. Per far fronte ai programma di crescita, l’azienda ha varato, nel 2013, un cospicuo aumento del capitale sociale, da 156 mila a poco meno di 4 milioni di euro. Inoltre, ha cominciato a ipotizzare strade alternative per lo sviluppo del mercato, per esempio attraverso strategie di licensing. L’episodio di maggior interesse è l’accordo con la Lusy, Liaoning United Aviation, azienda aeronautica cinese che, siglando un contratto di licenza decennale, potrà produrre e vendere in esclusiva per il mercato cinese cinque modelli (P2006T, P2002 JF, P92 JS, P2008 JC e P2010). Per il consolidamento della reputazione di Tecnam nei mercati internazionali conta ancor più la commessa dell’ente spaziale statunitense, la Nasa, che nel 2015 ha selezionato il modello P2006T, un ultraleggero da turismo in alluminio (in commercio dal 2009), come benchmark per realizzare il suo primo velivolo alimentato da motori elettrici, cui l’ente spaziale statunitense attribuisce un alto valore strategico (il box fornisce altri dettagli sul progetto Nasa). È un progetto sperimentale, battezzato Leap Tech (Leading Edge Asynchronous Propeller Technology), basato su un concetto innovativo di ala, dotata di 18 motori elettrici indipendenti. In base agli accordi con l’ente statunitense, Tecnam fornirà per i test sia il P2006T completo, sia una sua fusoliera, su cui sarà installata la nuova ala, realizzata da due aziende americane, Joby e Es Aero. Nel luglio del 2016, una prima fusoliera è stata inviata
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in California per essere impiegata come base per il prototipo a propulsione elettrica X-57 Maxwell.
LEAPTech to Demonstrate Electric Propulsion Technologies The arrival of a unique experimental demonstrator at NASA Armstrong Flight Research Center on February 26 may herald a future in which many aircraft are powered by electric motors. The Leading Edge Asynchronous Propeller Technology (LEAPTech) project will test the premise that tighter propulsion-airframe integration, made possible with electric power, will deliver improved efficiency and safety, as well as environmental and economic benefits. Over the next several months, NASA researchers will perform ground testing of a 31-foot-span, carbon composite wing section with 18 electric motors powered by lithium iron phosphate batteries. The experimental wing, called the Hybrid-Electric Integrated Systems Testbed (HEIST), is mounted on a specially modified truck. Testing on the mobile ground rig assembly will provide valuable data and risk reduction applicable to future flight research. Instead of being installed in a wind tunnel, the HEIST wing section will remain attached to load cells on a supporting truss while the vehicle is driven at speeds up to 70 miles per hour across a dry lakebed at Edwards Air Force Base. Preliminary testing, up to 40 mph, took place in January at Oceano County Airport on California’s Central Coast. The LEAPTech project began in 2014 when researchers from NASA Langley Research Center and Armstrong partnered with two California companies, Empirical Systems Aerospace (ESAero) in Pismo Beach and Joby Aviation in Santa Cruz. ESAero is the prime contractor for HEIST responsible for system integration and instrumentation, while Joby is responsible for design and manufacture of the electric motors, propellers, and carbon fiber wing section. The truck experiment is a precursor to a development of a small X-plane demonstrator proposed under NASA’s Transformative Aeronautics Concepts program. Researchers hope to fly a piloted X-plane within the next couple years after removing the wings and engines from an Italian-built Tecnam P2006T and replacing them with an improved version of the LEAPTech wing and motors. Using an existing airframe will allow engineers to easily compare the performance of the X-plane with the original P2006T. Each motor can be operated independently at different speeds for optimized performance. Key potential benefits of LEAPTech include decreased reliance on fossil fuels, improved aircraft performance and ride quality, and aircraft noise reduction. LEAPTech is a key element of NASA’s plan to help a significant portion of the aircraft industry transition to electrical propulsion within the next decade. According to Mark Moore, an aerodynamicist at Langley, “LEAPTech has the potential to achieve transformational capabilities in the near-term for general aviation aircraft, as well as for transport aircraft in the longer-term”. Fonte: Peter Merlin, NASA Armstrong Flight Research Center.
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Tecnam è riuscita ad acquisire la commessa, vincendo la concorrenza di un’azienda austriaca – la Diamond – e della stessa Joby. Il primo volo del velivolo è previsto per i primi mesi del 2017 e per molti analisti potrebbe rappresentare il primo passo significativo verso “una rivoluzione in chiave ecologica ed economica del trasporto aereo. I benefici per Tecnam non sono soltanto di mercato ma reputazionali”. Come ha spiegato in un’intervista al Sole 24 Ore il responsabile R&S dell’azienda, Fabio Russo, “lavorare con la Nasa comporta ricadute in termini di immagine eccezionali per chi fa il nostro mestiere. Inoltre, l’agenzia spaziale americana metterà a nostra disposizione i risultati dei test che verranno effettuati sul nuovo aereo. Se, insomma, in un futuro prossimo Tecnam deciderà di immettere sul mercato un velivolo di queste caratteristiche potrà agevolmente partire dal know-how acquisito in questa sperimentazione”. La Nasa valuterà la performance del suo prototipo confrontandolo con il modello Tecnam e, soprattutto, condividerà con l’azienda i risultati delle sperimentazioni. Il P2006T è intanto diventato uno degli aerei più versatili nella storia di Tecnam: è fra i preferiti dalle scuole di addestramento militare e, grazie alla certificazione ottenuta per il volo notturno (Ifr), si è rivelato particolarmente adatto alle missioni di sorveglianza. Negli ultimi tempi, Tecnam ha cominciato a guardare con maggior interesse al Medio Oriente. All’inizio del 2016, con la revoca delle misure restrittive nei confronti dell’Iran, si è dischiuso un nuovo promettente mercato. Il contratto di vendita è stato firmato a Roma, in occasione di un vertice bilaterale, alla presenza del presidente iraniano Hassan Rouhani. Fra l’azienda e il Paese arabo già c’erano state trattative commerciali per la fornitura di velivoli, interrotte però dall’embargo imposto al governo di Teheran. La commessa per l’impresa campana – per un valore del contratto di 26 milioni di euro – prevede l’acquisto sia di apparecchi pronti a volare sia di velivoli da assemblare o costruire in Iran. La prima consegna riguarda la fornitura di aerei monomotori a due posti destinati all’addestramento di piloti nelle scuole di volo; in seguito, Tecnam consegnerà kit e componenti per la costruzione di bimotori P2006T, nella versione adottata anche dall’aeronautica militare italiana. Il contratto, però, non si limita alla fornitura di aerei, perché è stato anche predisposto un accordo di technology transfer, con un percorso formativo e di training a Capua e a Casoria di tecnici iraniani, e il trasferimento di tecnologie e know-how indispensabili per la costruzione e il collaudo dei velivoli. Tecnam rappresenta senza dubbio un caso di successo fra le medie imprese manifatturiere del Mezzogiorno in un settore industriale che conserva una posizione di rilievo nel panorama nazionale. In Campania opera un centinaio di aziende, concentrate per il 70% nell’area metropolitana di Napoli, con un fatturato stimato in 2 miliardi di euro (800 milioni destinati alle esportazioni) e un numero di addetti che oscilla fra le 8500 e le 10 000 unità. Anche in Puglia si conta un numero consistente di aziende nella filiera aeronautica, con casi di successo perfino nelle start-up (Blackshape). Alle due regioni è da ascrivere almeno il 30% del fatturato nazionale del settore, il 70% delle esportazioni, il 50% dell’occupazione. All’ombra di grandi imprese come Alenia Aermacchi (Finmeccanica) e Avio Aeroindustries (ora General
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Electric, prima Fiat), è cresciuta una prima e una seconda generazione di imprese di piccole e medie dimensioni di fornitura, in grado di svincolarsi dalla dipendenza da un unico cliente per acquisire commesse all’estero e stabilire relazioni dirette con i grandi player (Boeing, Airbus, Bombardier, Embraer), a volte con posizione di leadership assoluta, come per esempio Geven nella produzione di interior per aerei. Tecnam incarna i caratteri-chiave di un processo di crescita esemplare, difficile ma non impossibile da replicare. In primo luogo, l’ambizione di crescere. La volontà della proprietà e del management di guardare lontano, di correre – in modo consapevole – dei rischi per cogliere opportunità di mercato appare come un elemento irrinunciabile. Quando la Cape Air ha chiesto all’azienda campana di realizzare un aereo con undici posti, Tecnam non aveva in listino un prodotto compatibile; ha forzato le sue competenze sapendo che in quel modo non solo avrebbe acquisito una commessa cospicua (un ordine di 100 aerei per un’azienda che ne produce duecento in media all’anno), ma si sarebbe affacciata a un segmento di mercato ancora inesplorato quale il trasporto pubblico di passeggeri su rotte corte. Motivazione, perseveranza, forte leadership si rivelano determinanti soprattutto per la capacità di ispirare i comportamenti dei collaboratori dell’azienda, di far convergere energie e risorse verso una missione dichiarata e condivisa. Altro carattere essenziale nella costruzione della strategia di crescita è la focalizzazione. Quando si hanno dimensioni ancora contenute, è indispensabile concentrarsi in mercati di nicchia, provando a scalare posizioni, mirando alla leadership di quel segmento. Focalizzarsi significa anche selezionare le competenzechiave su cui basare il proprio processo di crescita, eventualmente rinunciando a intraprendere sentieri alternativi qualora dovessero allontanare troppo l’impresa dalla strategia originaria. Tecnam, pur affacciandosi su altri mercati, mostra di preferire di essere percepita dai suoi clienti come una specialista di nicchia. Solo tale orientamento consente di co-evolvere con il proprio cliente, di avere una conoscenza profonda delle sue esigenze, determinanti fin dalla progettazione e stabilendo relazioni di lungo periodo. L’utilizzatore finale, proprio perché è altamente sofisticato e conosce in profondità il prodotto, si trasforma in una delle più preziose fonti di innovazione. È in tale prospettiva che si comprende il concetto di “artigianato industriale” che l’azienda intende trasmettere al suo mercato. La prossimità al cliente finale, la customer intimacy, appare come una delle chiavi delle strategie di marketing dell’innovazione, senza che venga modificata dalla varietà dei mercati nazionali serviti. Uno dei casi più interessanti di collaborazione con i clienti è rappresentato dal progetto realizzato insieme con la charity britannica Aerobility, un’associazione nata per consentire a persone disabili appassionate di volo di pilotare un aeroplano. Tecnam ha modificato un modello P2002JF, adeguando i comandi di volo all’uso di disabili e ne ha ottenuto la certificazione. I progettisti dell’azienda hanno sviluppato un sistema di comando dell’aereo in grado di consentire il controllo del velivolo da parte del pilota disabile. La fase di test in volo è stata sviluppata in collaborazione con piloti dell’associazione. L’aereo, il primo certificato in Europa con tali caratteristiche, è stato presentato nel 2014 al Salone Internazionale di Friedrichshafen.
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Focalizzarsi su una nicchia del mercato non significa rinunciare ad avere un orizzonte globale. Tecnam ha una quota del suo fatturato generato dalle esportazioni che oscilla già da molti anni fra l’85 e il 90%; dispone di una rete di consociate e agenti nei principali mercati internazionali, esplora la strada del licensing internazionale per accelerare la crescita, stabilisce basi produttive e centri di servizio all’estero con un modello leggero di espansione geografica. Una strategia di focalizzazione globale è sostenibile però solo se un’impresa mantiene una tensione costante nei confronti dell’innovazione; l’innovazione per Tecnam è continua, nel prodotto come nel processo. È stata l’innovazione a ispirare la nascita dell’impresa, alimentata nel tempo dalla relazione simbiotica fra accademia e industria, ed è l’innovazione a guidare la sua strategia di crescita, come per esempio mostra la scelta di acquisire in Spagna l’impianto di un concorrente - la Toxo – per accedere a competenze non possedute – know-how e tecnologie di processo sui materiali compositi. Solo l’innovazione consente – con un processo di accumulazione graduale, ma costante – di conservare un vantaggio competitivo nel lungo periodo. Una condizione di superiorità che, proprio perché attinge a una repository di competenze organizzative interne, difficili da emulare o replicare a distanza, permette all’impresa di godere di un innegabile vantaggio di costo a parità di performance di prodotto. Nel 2013, il P2010 è stato premiato dalla rivista Flieger magazin come aereo dell’anno, per l’aerodinamica, per i materiali innovativi utilizzati, per l’avionica. Benché possa apparire come “l’officina di un appassionato di volo”, con una struttura produttiva fortemente integrata – “tutto viene prodotto da noi, tranne il motore” – l’impresa poggia su una rete di relazioni estremamente fitta, sia a carattere informale – e alimentate da rapporti costruiti dai fondatori e dai loro familiari nel corso di quasi settant’anni – sia formalizzate. Ha scelto imprese vicine, quali Geven e Dallair, come partner per collaborare allo studio e alla progettazione di nuove configurazioni del P2012, le versioni cargo e idro, sostenuta da un finanziamento dell’Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo dell’impresa con la formula del contratto di sviluppo. Né va dimenticato il ruolo significativo degli enti di ricerca – dal Cnr alle Università napoletane, al Politecnico di Bari e all’Università del Salento, oltre alla presenza a Capua del Cira – coordinati da qualche anno dai due distretti tecnologici che sono stati costituiti, non senza difficoltà, nelle due regioni: il Dat (Distretto tecnologico dell’aerospazio), in Puglia, e il Dac (Distretto aerospaziale della Campania). Nuove sfide per il futuro attendono ora Tecnam, in un mercato globale dove l’innovazione si coniuga con il marketing, i clienti diventano sempre più sofisticati e la concorrenza più intensa. L’azienda sa bene che la ricerca di partner adatti sarà fondamentale per non interrompere il percorso di crescita, consapevole però che, nella lunga strada che dalla campagna beneventana dove giocavano due ragazzi appassionati di aeromodellismo ha condotto fino alla Nasa, non ha camminato mai da sola.
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