1 I principi di distribuzione del carico tributario
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Dr aft
Premesse Per una più agevole e piena comprensione del capitolo lo studente deve ricordare, dal corso di microeconomia o dalla prima parte del corso di Scienza delle finanze, i concetti di:
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• esternalità; • bene pubblico.
Contenuti Dopo lo studio del capitolo lo studente dovrebbe conoscere: • i principi:
1. della controprestazione 2. del beneficio 3. della capacità contributiva
• le nozioni di equità orizzontale e verticale • le definizioni di aliquota media e marginale • la definizione di progressività, proporzionalità, regressività.
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Per finanziare la fornitura di servizi, l’ente pubblico ha due possibilità: far pagare il costo al gruppo di coloro che beneficiano del servizio oppure porlo a carico dell’intera collettività. Nel primo caso l’operatore pubblico utilizza un meccanismo di razionamento simile a quello praticato da un privato quando chiede la corresponsione di un prezzo a fronte della cessione di un bene o di un servizio. Nel secondo caso, invece, l’ente si avvale, nei modi e nei limiti definiti dall’ordinamento giuridico, del potere di prelevare coattivamente risorse dall’economia privata tramite le imposte. L’ente pubblico può anche usare una combinazione
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Capitolo 1
dei due sistemi: far pagare agli utenti una parte del costo del servizio, ripartendo la quota residua su tutta la collettività. Quando, e nella misura in cui, l’ente fa pagare all’utenza, diremo che applica il principio della controprestazione. Per distribuire l’onere del finanziamento del servizio sulla collettività può fare riferimento al principio del beneficio oppure al principio della capacità contributiva. Consideriamo più da vicino questi tre criteri per finanziare la spesa pubblica.1
1.1 Il principio della controprestazione Definizione 1.1 (Principio della controprestazione). L’onere della copertura del costo della spesa pubblica è posto, in tutto o in parte, a carico dei beneficiari.
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Condizione necessaria per l’applicazione del principio della controprestazione è che sia tecnicamente possibile escludere dal servizio chi non paga. Si ha escludibilità quando è necessario un atto individuale di domanda da parte dell’utente. Esempi sono l’istruzione, la sanità, la viabilità ecc. Tali servizi possono dunque essere finanziati subordinando l’accesso al pagamento di una qualche forma di corrispettivo: tasse di iscrizione scolastica, tickets sanitari, pedaggi stradali ecc. Tale corrispettivo ha, per un importante aspetto, la stessa natura del prezzo che si paga per acquistare un bene o un servizio fornito da un operatore privato: l’individuo rimane libero di scegliere se pagare, e beneficiare del servizio, oppure no. La differenza con il prezzo privato sta nel fatto che il corrispettivo dovuto per accedere a un servizio pubblico può, come si è accennato, essere inferiore al costo, perché l’operatore pubblico può rinunciare a finanziare per intero il costo del servizio con i pagamenti richiesti agli utenti, coprendo la parte residua con prelievi a carico dell’intera collettività. Come si vedrà alla fine del capitolo in relazione al caso italiano, nei moderni sistemi di finanza pubblica la parte di spesa pubblica caratterizzata da escludibilità è molto consistente, mentre risulta piuttosto limitato il ricorso al principio della controprestazione: in molti casi dunque si rinuncia ad applicarlo anche quando sarebbe tecnicamente possibile. I motivi possono essere raggruppati in tre tipi. 1. Un motivo di tipo tecnico-amministrativo, consistente nell’elevato costo dell’esazione dei corrispettivi in relazione alle entrate che questi possono generare. Si tratta di un fattore ampiamente variabile in ragione degli sviluppi tecnologici: si pensi a quanto si è ridotto nel tempo il costo di esazione dei pedaggi autostradali con l’introduzione di forme di pagamento automatico (viacard, telepass), oppure ai sistemi di detectors che consentono ora di far pagare l’accesso ai centri urbani. 2. Motivi di efficienza. Sono di due tipi: 1 Si trascurano altre possibili forme di finanziamento della spesa pubblica, che ricadono al di fuori del campo di studio del presente volume, come il ricorso al debito.
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✻
D2
P
0
Cmg
D1
✲ Q1
Q2
Q3
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Figura 1.1 Il caso di una strada. Con la curva di domanda D1 il prezzo dovrebbe essere pari a zero. Con la domanda D2 , che produce congestione, il prezzo dovrebbe essere pari a OP.
(a) Assenza di rivalità nel consumo. In questo caso, il livello ottimo di quantità prodotta si ha in corrispondenza di un prezzo pari a zero.2 Si può notare che, per molti servizi pubblici, l’esistenza o meno di rivalità, e l’intensità della stessa, spesso dipende dal livello della domanda rispetto alla capacità installata. Pensiamo a una strada carrozzabile: la rivalità potrà essere molto modesta quando la strada è percorsa da pochi automobilisti, ma oltre certi livelli di traffico certamente si farà sentire. Una situazione del genere è rappresentata nella Figura 1.1: fino alla quantità OQ2 il costo marginale di un automobilista addizionale è nullo, oltre quel livello esso cresce molto rapidamente. Il prezzo efficiente dipenderà dunque dal livello della domanda. Con una curva di domanda come la D1 , che si satura per un utilizzo della capacità inferiore al punto di congestione, il prezzo dovrebbe essere pari a zero, al quale la quantità domandata risulterebbe OQ1 . La domanda D2 taglia invece la curva del costo marginale nel tratto crescente: il prezzo efficiente è positivo e pari a OP, in corrispondenza del quale la quantità domandata è OQ3 . (b) Esternalità positive. In presenza di esternalità positive parte dei benefici 2 Lo
studente noti come i casi di non escludibilità e di assenza di rivalità richiamino, insieme, il concetto di bene pubblico: un bene il cui razionamento mediante il meccanismo dei prezzi non è possibile e, quando anche lo fosse, non sarebbe desiderabile.
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✻ F Bmgs E
Bmg p
C
G
D B
H Es ✲
0
Q1
Q2
A
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Figura 1.2 Il caso di un servizio pubblico che produce esternalità positive. Se si pone per intero il costo a carico degli utenti, la quantità (OQ1 ) risulta inferiore alla quantità ottimale (OQ2 ). Una parte del costo (l’area CGHD) andrebbe posta a carico della collettivtà.
è goduta da un gruppo più ampio rispetto a quello degli utenti del servizio pubblico. Se questi ultimi fossero chiamati a sopportarne l’intero costo, la quantità prodotta risulterebbe inferiore alla quantità ottima. Esempi tipici sono ancora quelli della sanità e dell’istruzione. Un caso di questo genere è rappresentato nella Figura 1.2. La curva AE rappresenta i benefici marginali privati (Bmg p ), vale a dire quelli goduti da coloro che usano il servizio. La curva AB misura invece l’esternalità positiva (Es). I benefici marginali sociali (Bmgs ) sono dati dalla somma tra i benefici marginali privati e l’esternalità: la curva AF si ottiene dunque sommando le ordinate della AE e della AB. Supponendo, per semplificare, che i costi marginali siano costanti ed eguali ai costi medi, la quantità ottimale di fornitura del servizio è la OQ2 in corrispondenza della quale il beneficio marginale sociale eguaglia il costo marginale. Nel caso si ponesse per intero il costo del servizio a carico degli utenti, fissando un corrispettivo per l’accesso al servizio pari a OC, la quantità domandata risulterebbe OQ1 inferiore alla quantità ottimale OQ2 . L’ente pubblico potrebbe invece fornire il servizio a un prezzo OD, che genera la domanda OQ2 , coprendo con un’imposta la perdita che verrebbe a generarsi (misurata dall’area CGHD). 3. Motivi di equità. La rinuncia ad applicare il principio della controprestazione può derivare dalla scelta di utilizzare la spesa pubblica e le modalità del suo finanziamento per modificare la distribuzione del benessere che sarebbe generata dal mercato, in quanto non ritenuta accettabile in base a determinati criteri
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di equità. È questa una motivazione che, lungo tutto il ventesimo secolo, fino a oggi, ha esercitato un’influenza molto forte sull’evoluzione dei sistemi tributari.
1.2 Il principio del beneficio L’applicazione di questo principio non richiede l’escludibilità. Si rinuncia infatti a porre direttamente a carico dei beneficiari il costo della spesa pubblica con un meccanismo di razionamento analogo al prezzo di mercato. Si persegue tuttavia una distribuzione del carico tributario che rifletta la distribuzione dei benefici della spesa, scegliendo basi imponibili che siano “indicatori” del beneficio. Definizione 1.2 (Principio del beneficio). L’onere della copertura del costo della spesa pubblica è posto a carico dell’intera collettività tramite tributi applicati su basi imponibili considerate una misura dei benefici della spesa pubblica.
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Il campo tradizionale di applicazione del principio del beneficio è quello della tassazione ai livelli inferiori di governo. In molti paesi, per esempio, si assegnano agli enti substatali i tributi sugli immobili (anche in Italia con l’ICI): si ritiene infatti che la proprietà immobiliare sia un buon indicatore dei benefici di una parte consistente della spesa dell’ente locale (illuminazione, viabilità, ordine pubblico ecc.). Altre forme di tassazione che, ai livelli subcentrali di governo, possono essere giustificate con il principio del beneficio sono le imposte locali sul consumo e le imposte locali sulle attività produttive. Un grande economista italiano, Antonio de Viti de Marco, costruì una teoria della distribuzione del carico tributario basata sull’idea che la misura più appropriata del beneficio della spesa pubblica sia il reddito. La differenza fondamentale tra il principio della controprestazione e il principio del beneficio è che, nel primo caso, l’individuo, come si è detto, è libero di scegliere se acquistare o meno il servizio pubblico, analogamente a quanto fa di fronte ai beni e ai servizi forniti dal mercato, mentre, nel secondo caso, è comunque tenuto al pagamento del tributo.
1.3 La capacità contributiva e i principi di equità tributaria L’applicazione dei principi della controprestazione e del beneficio è giustificata se si accetta come equa la dotazione iniziale delle risorse. In caso contrario, come si è accennato, la spesa pubblica e il suo finanziamento possono diventare uno strumento per perseguire obiettivi di redistribuzione delle risorse in ragione di determinati ideali di equità. È quanto è avvenuto in concreto nell’evoluzione storica che ha visto di fatto prevalere, nel disegno dei sistemi tributari, l’influenza del principio della capacità contributiva su quella del principio del beneficio. Lo testimonia il fatto che in
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molti paesi la capacità contributiva è un principio costituzionale. Anche in Italia la Costituzione, all’art. 53, primo comma, stabilisce che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Con il principio della capacità contributiva si taglia ogni legame tra la distribuzione dell’onere dei tributi e quella dei benefici della spesa pubblica: il carico tributario viene ripartito in ragione della capacità di ciascuno di contribuire al finanziamento della spesa, cioè, nella sostanza, in base al benessere. Definizione 1.3 (Principio della capacità contributiva). L’onere della copertura del costo della spesa pubblica è posto a carico dell’intera collettività tramite tributi applicati su basi imponibili considerate una misura del benessere. L’effettiva applicazione del principio richiede: 1. la scelta di una misura del benessere; 2. la scelta di un criterio che leghi il pagamento dei tributi a tale misura. A entrambi i livelli si intrecciano problemi di equità orizzontale e di equità verticale.
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Definizione 1.4 (Equità orizzontale). Il criterio dell’equità orizzontale richiede che si riservi lo stesso trattamento tributario a individui in condizioni economiche eguali. Definizione 1.5 (Equità verticale). Il criterio dell’equità verticale richiede che si riservi un trattamento tributario differenziato a individui in condizioni economiche diverse.
1.3.1 Scelta della base imponibile e equità orizzontale La scelta della misura del benessere ha, in primo luogo, implicazioni molto rilevanti sotto il profilo dell’equità orizzontale. Per poter adottare, come base imponibile, un unico indicatore di benessere, senza correttivi e integrazioni, sarebbe necessario che tutti i contribuenti cui risulta associato lo stesso livello dell’indicatore si trovino in condizioni economiche eguali indipendentemente da altre circostanze. È molto difficile che questo risulti vero in pratica. Consideriamo tre possibili basi imponibili: il reddito, il patrimonio, il consumo. Non è ragionevole supporre che tutti i contribuenti con lo stesso ammontare di reddito godano dello stesso benessere, indipendentemente dal livello del patrimonio e del consumo. Pensiamo, per esempio, a due contribuenti, A e B, con lo stesso livello di reddito complessivo, 1.000; l’individuo A possiede anche un patrimonio di 10.000, mentre B non possiede alcun patrimonio. Supponiamo che il tasso di interesse sia del 5% e che A tenga investito in attività fruttifere tutto il proprio patrimonio. In questo caso la metà del reddito complessivo di A sarà reddito da patrimonio, l’altra metà sarà reddito guadagnato, per esempio reddito da lavoro. Il reddito di B sarà invece per intero reddito
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guadagnato, supponiamo ancora reddito da lavoro. In circostanze siffatte, A e B, pur avendo lo stesso reddito, non sono in condizioni economiche eguali per due principali motivi: 1. perché il benessere dipende, oltre che dal livello, anche dalla natura del reddito: si suppone in genere che la disutilità (sforzo) associata alla produzione di un reddito patrimoniale sia inferiore a quella di un reddito da lavoro; 2. perché l’esistenza di un patrimonio è di per sé fonte di benessere, indipendentemente dal reddito che produce, per esempio in termini di maggiore sicurezza (possibilità di far fronte a eventi imprevisti di natura sfavorevole).
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Supponiamo ora che l’individuo A tenga il proprio patrimonio in attività che non fruttano un reddito monetario: un’abitazione tenuta a propria disposizione, una collezione di quadri conservata nel proprio salotto, una raccolta di francobolli o di armi antiche ecc. In questo caso, i due contribuenti avranno un reddito monetario identico e della stessa natura, per entrambi un reddito da lavoro. Ma, di nuovo, non potranno essere considerati in condizioni economiche eguali perché A evidentemente trae dal proprio patrimonio un flusso di benessere, che egli valuta almeno 500, dal momento che rinuncia a ricavarne un reddito di tale ammontare: gli può essere quindi attribuito un reddito figurativo di 500 e quindi un reddito totale di 1500. Considerazioni analoghe a queste, attinenti la presenza o meno di componenti patrimoniali nella ricchezza complessiva, valgono per il consumo: ci sono ragioni per sostenere che due individui, che associano allo stesso livello di reddito quote diverse di consumo, non godano dello stesso benessere, che dipenderebbe in misura maggiore, se non esclusiva, dal consumo presente rispetto al consumo futuro (risparmio). Argomentazioni di questo genere possono essere portate a spiegare la presenza di una molteplicità di imposte e di basi imponibili. Tuttavia, anche il ricorso a diverse basi imponibili non consente di risolvere compiutamente tutti i problemi di equità orizzontale, perché il benessere dipende da un gran numero di fattori e di circostanze delle quali è difficile tenere compiutamente conto con le tecnologie tributarie disponibili.
1.3.2 La progressività
La questione dell’equità verticale si risolve, in larga misura, in quella della scelta della forma della funzione che lega l’imposta alla base imponibile: T = f (B)
(1.1)
dove: T è l’imposta (gettito) e B una generica base imponibile. In particolare, si tratta di stabilire come debba variare l’imposta al crescere della base imponibile. Si parla, sotto questo profilo di progressività, proporzionalità o regressività delle imposte. Dobbiamo in primo luogo definire due fondamentali parametri dell’imposta, l’aliquota media e l’aliquota marginale.
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Capitolo 1
Definizione 1.6 (Aliquota media). L’aliquota media è data dal rapporto tra l’imposta e la base imponibile: t¯ =
T B
(1.2)
Definizione 1.7 (Aliquota marginale). L’aliquota marginale è data dal rapporto tra la variazione dell’imposta e la variazione della base imponibile: t′ =
dT dB
(1.3)
Progressività, proporzionalità, regressività dell’imposta possono essere definite in termini della relazione tra aliquota media e marginale. Definizione 1.8 (Progressività, proporzionalità, regressività/1). Un’imposta è progressiva se l’aliquota marginale è superiore all’aliquota media, proporzionale se l’aliquota marginale è eguale all’aliquota media, regressiva se l’aliquota marginale è inferiore all’aliquota media: ⇔ ⇔ ⇔
imposta progressiva imposta proporzionale imposta regressiva
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t ′ > t¯ t ′ = t¯ t ′ < t¯
La Definizione 1.8 equivale alla:
Definizione 1.9 (Progressività, proporzionalità, regressività/2). Un’imposta è progressiva se, al crescere della base imponibile, l’aliquota media cresce, proporzionale se l’aliquota media rimane costante, regressiva se l’aliquota media diminuisce: dt¯ >0 dB dt¯ =0 dB dt¯ <0 dB
⇔
imposta progressiva
⇔
imposta proporzionale
⇔
imposta regressiva
1.3.3 La progressività del sistema tributario In Italia la progressività è un principio costituzionale. L’art. 53 della Costituzione, che al primo comma, come abbiamo visto, richiama il concetto di capacità contributiva, al secondo comma precisa che questa deve tradursi nella progressività del prelievo: “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Si deve sottolineare che il principio si riferisce al sistema tributario e non ai singoli tributi.
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Per chiarire come diversi tributi possano concorrere a determinare il grado di progressività complessivo del sistema, consideriamo ancora le basi imponibili reddito, consumo e patrimonio. Supponiamo che su ciascuna gravi un’imposta proporzionale. Nonostante la proporzionalità dei tre tributi, il sistema delle tre imposte può risultare progressivo, proporzionale o regressivo. La spiegazione sta nel fatto che la progressività del prelievo complessivo va misurata rispetto a un’unica grandezza e normalmente si sceglie il reddito. L’andamento di un’imposta sul consumo rispetto al reddito dipenderà dalla relazione che lega il consumo al reddito. E così per l’imposta sul patrimonio. Si devono allora considerare le seguenti due importanti proposizioni. Proposizione 1.1. Un’imposta proporzionale sul consumo risulta regressiva rispetto al reddito, se la propensione media al consumo decresce al crescere del reddito.
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Proposizione 1.2. Un’imposta proporzionale sul patrimonio risulta progressiva rispetto al reddito, se il rapporto tra patrimonio e reddito cresce al crescere del reddito. In presenza di una propensione media al consumo decrescente al crescere del reddito e di un rapporto tra patrimonio e reddito crescente, nel caso in esame di tre imposte proporzionali, il sistema risulterebbe progressivo, proporzionale o regressivo a seconda che l’effetto di progressività impresso dall’imposta sul patrimonio risultasse, rispettivamente, maggiore, eguale o minore dell’effetto di regressività impresso dall’imposta sul consumo.
Esempio 1.1.
...Si considerino le seguenti ipotesi: ... • ... ... ... • ... ... •
A tre livelli di reddito 1.000, 2.000, 3.000 la propensione media al consumo di un individuo rappresentativo dell’intera collettività risulta rispettivamente pari a 1, 0.8 e 0.7; in corrispondenza degli stessi livelli di reddito il valore del patrimonio è pari a 0, 20.000, 60.000; il sistema tributario è composto di tre imposte di natura proporzionale:
... – un’imposta sul consumo con aliquota del 20%; ... – un’imposta sul patrimonio con aliquota del 1%; ... – un’imposta sul reddito con aliquota del 30%. ... La tabella seguente illustra il calcolo dell’aliquota media aggregata, ossia ...del rapporto tra il prelievo complessivo e il reddito. Essa risulta crescente al ...crescere del reddito: la distribuzione del prelievo è quindi progressiva.
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... Y
...
C Y
C
K
Ty
Tc
Ty + Tc + Tk Y
Tk
1.000
1,0
1.000
-
300
200
-
50%
2.000
0,8
1.600
20.000
600
320
200
56%
3.000
0,7
2.100
60.000
900
420
600
64%
Decili 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
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BOX 1.1. FINESTRA SULL’ITALIA L’andamento del consumo e del patrimonio al variare del reddito Vi sono conferme sul piano empirico che, la crescere del reddito, il rapporto consumo/reddito diminuisce e il rapporto patrimonio/reddito aumenta. Per l’Italia la tabella riporta una stima, relativa al 2014, della propensione media al consumo e dell’andamento, rispetto al reddito, delle due principali componenti dei patrimoni delle famiglie: le attività finanziarie e gli immobili. Come si vede la propensione media al consumo risulta sempre decrescente; crescente, salvo nel passaggio all’ultimo decile, il rapporto tra le attività finanziarie e il reddito; crescente, salvo nel passaggio al nono decile, il rapporto tra il valore degli immobili posseduti e il reddito. Reddito medio
Rapporto consumo/reddito
8.243,54 13.639,91 17.253,70 20.582,45 24.075,90 28.377,65 33.818,88 40.393,87 49.734,84 79.636,35
1,24 0,95 0,90 0,84 0,81 0,77 0,74 0,69 0,67 0,58
Rapporto patrimonio/reddito Attività finanz. Immobili 0,31 0,38 0,46 0,60 0,69 0,75 0,79 0,81 0,87 1,65
4,99 4,78 5,24 5,76 6,10 6,28 6,63 6,50 6,15 6,72
Fonte: elaborazioni proprie su dati Banca d’Italia [2016].
1.4 Imposte, tasse e dintorni In Italia una lunga tradizione di studi economici e giuridici - che ha esercitato una profonda influenza sulla produzione normativa e giurisprudenziale, sulle regole di contabilità pubblica e sulla prassi amministrativa - include nella categoria dei tributi sia le tasse definite come i tributi applicati in base al criterio della controprestazione, sia le imposte, definite, per opposizione, come quelli applicati rinunciando a tale criterio. Nella costruzione teorica sottostante, la circostanza
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che la tassa tragga origine da una controprestazione, e sia evitabile rinunciando al servizio, non farebbe venir meno il carattere coercitivo insito nella nozione di tributo. Aspetto questo che verrebbe invece a mancare in relazione ad altre forme di pagamento che possono essere pretese a fronte dell’erogazione di un servizio pubblico, come per esempio le tariffe, che sono pertanto considerate entrate di natura non tributaria. Le tasse si distinguerebbero “da ogni corrispettivo o prezzo pubblico, poiché non può ravvisarsi, sul piano giuridico, un vero e proprio scambio tra prestazione del singolo e prestazione dell’ente” [Micheli, 1976, p. 26], essendo “determinate autoritativamente e obbligatoriamente dall’ente pubblico, talchè la libertà del singolo si riduce in pratica a una libertà formale, di usufruire o no di certi servizi pubblici” (Ivi, p. 8). Si è tuttavia ormai affermata, a livello sovranazionale (Unione europea, OCSE ecc.), la scelta, considerata la più idonea a una corretta rappresentazione economica dei flussi che interessano i sistemi di finanza pubblica, di distinguere tra le imposte e ogni forma di corrispettivo pubblico (tasse, tariffe, ticket, pedaggi ecc.) al pagamento del quale viene subordinato l’accesso a un servizio pubblico. È quanto si fa, per esempio, in contabilità nazionale secondo le regole del SEC95: i proventi delle amministrazioni pubbliche legati all’erogazione di un servizio sono considerati sempre vendite, indipendentemente dalla natura giuridica, amministrativa e contabile dell’entrata, e sono tenuti distinti dalle entrate tributarie che sono costituite solo da imposte. Anche l’OCSE, che produce periodicamente statistiche molto importanti sui sistemi tributari dei paesi membri3 considera come prelievo tributario solo le imposte (in inglese taxes), vale a dire i pagamenti obbligatori ai quali non corrispondono benefici individuabili dal lato delle spese pubbliche [OECD, 2016a, p. 321], pur riconoscendo che la distinzione rispetto ai corrispettivi (fees, user charges) prelevati “in connessione” a uno specifico servizio può risultare, in alcuni casi, difficile, dipendendo dall’intensità del legame tra erogazione del servizio e corrispettivo richiesto, come anche dal rapporto tra quest’ultimo e il costo della fornitura (Ivi, p. 322-323). BOX 1.2. FINESTRA SULL’ ITALIA Il ruolo marginale della controprestazone
In contabilità nazionale il settore delle Amministrazioni pubbliche (Ap) comprende: 1. le unità istituzionali che producono beni e servizi non destinabili alla vendita finanziandosi, in prevalenza, con versamenti obbligatori effettuati da altri settori; continua ...
3 Sono
prese in esame nel Capitolo 5.
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Capitolo 1
... segue 2. le unità la cui funzione principale è la redistribuzione del reddito e della ricchezza.
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Si deve dunque muovere dalla distinzione fondamentale tra “produzione di beni e servizi destinabili alla vendita” (produzione market) e “produzione di beni e servizi non destinabili alla vendita” (produzione non market). Nel primo caso, i beni e servizi sono ceduti sul mercato a prezzi “economicamente significativi”, nel secondo, gratuitamente o a “prezzi economicamente non significativi”. Il prezzo è considerato economicamente significativo se copre almeno il 50% dei costi di produzione. La produzione non market viene valutata come somma dei costi sostenuti, al netto degli eventuali corrispettivi (inferiori al 50% dei costi) che vengono registrati come “vendite residuali”. La tabella riporta, in una forma assolutamente libera rispetto alla struttura dei conti economici nazionali, alcune delle principali voci della parte corrente del conto economico consolidato delle Ap in Italia per l’anno 2015. Per quanto si è detto, la somma della produzione di servizi vendibili e delle vendite residuali può essere considerata una misura delle risorse acquisite dalle Ap applicando il principio della controprestazione, tramite corrispettivi di varia natura: nel 2015 si è trattato di 37,8 miliardi di euro. Nello stesso anno le imposte sono state pari a 491,6 miliardi. Dunque per ogni euro riscosso applicando il principio del beneficio o quello della capacità contributiva, si incassano solo 7,7 centesimi con il principio della controprestazione. Quale sarebbe stato il campo di applicazione potenziale del criterio della controprestazione? La tabella riporta la spesa per consumi finali, cioè dei servizi forniti gratuitamente dalle Ap, e le tre principali categorie della spesa che consiste in trasferimenti di reddito a famiglie e imprese: le prestazioni sociali, i contributi alle imprese e gli interessi sul debito pubblico. Il costo dei trasferimenti monetari non può evidentemente essere coperto con il criterio della controprestazione. Rivolgiamoci allora alla spesa per consumi. La contabilità nazionale distingue tra i consumi individuali, che sono nella sostanza i servizi escludibili e rivali, come l’istruzione e la sanità, e i consumi collettivi, che si avvicinano invece al concetto di bene pubblico (non escludibilità e non rivalità), come la difesa, l’ordine, la sicurezza. Il campo di applicazione potenziale del criterio della controprestazione coincide con i consumi individuali, che nel 2015 sono risultati pari a 184 miliardi, quasi 5 volte l’ammontare delle entrate prodotte dall’applicazione effettiva del criterio. Le ragioni a favore della rinuncia alla controprestazione, anche quando tecnicamente applicabile, sembrano dunque esercitare un’influenza decisiva sulla struttura del sistema di finanza pubblica. continua ...
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... segue Principali voci di parte corrente del conto economico delle AP (milioni di euro)
2015
PRINCIPALI SPESE CORRENTI 1 – Spesa per consumi finali individuali 2 – Spesa per consumi finali collettivi 3 – Totale della spesa per consumi finali [1+2]
183.947 126.311 310.258
4 5 6 7
332.985 27.711 68.440 429.136
– – – –
Prestazioni sociali in denaro Contributi alla produzione Interessi passivi Totale delle principali voci di spesa per trasferimenti [4+5+6]
8 – TOTALE DELLE PRINCIPALI SPESE CORRENTI [3+7]
739.394
Dr aft
PRINCIPALI ENTRATE CORRENTI 9 – Produzione di servizi vendibili 10 – Vendite residuali 11 – Totale corrispettivi pubblici [9+10]
24.972 12.861 37.833
12 – Imposte (entrate tributarie) 13 – Contributi sociali 14 – Totale prelievo obbligatorio (parte corrente) [12+13]
491.680 218.535 710.215
15 – TOTALE DELLE PRINCIPALI ENTRATE CORRENTI [11+14]
748.048
FONTE: Elaborazione su dati Istat Conto economico consolidatodelle amministrazioni pubbliche (www.istat.it)
Per mettersi alla prova. ...
...Esercizio 1.1. In relazione alla Figura 1.1 si individui la perdita secca di benes...sere che si avrebbe fissando un prezzo di accesso al servizio pari a OP nel caso ...della domanda D1 . ...Esercizio 1.2. In relazione alla Figura 1.2 si individui la perdita secca di ...benessere che si avrebbe fissando un prezzo di accesso al servizio pari a OC. ...Esercizio 1.3. Sia data un’imposta tale che: ...• su un imponibile di 1.000, l’imposta risulta pari a 300;
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Capitolo 1
...• su un imponibile di 2.000, l’imposta risulta pari a 800. ...Calcolare: ...1. l’aliquota media sull’imponibile di 1.000; ...2. l’aliquota media sull’imponibile di 2.000; ...3. l’aliquota marginale quando l’imponibile passa da 1.000 a 2.000. ...Esercizio 1.4. In un periodo d’imposta un contribuente ha un reddito di 100, ...sul quale paga un’imposta di 10. Nel successivo periodo d’imposta il reddito ...sale a 160 e l’imposta pagata a 14. ...L’imposta risulta progressiva, proporzionale o regressiva? ...Esercizio 1.5. In relazione all’Esempio 1.1 si ricalcoli l’aliquota media ...aggregata supponendo che: ...• ai livelli di reddito considerati, la propensione media al consumo sia pari a 1, ... 0, 75, 0, 5; ...• l’aliquota dell’imposta sul patrimonio sia il 5 per mille.
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...Il sistema tributario risulta progressivo, proporzionale o regressivo? Vero o falso?. ... ...1. ...2. ... ...3. ... ...4. ... ...5. ...
Un’imposta si dice progressiva se cresce al crescere della base imponibile. La scelta del reddito come base imponibile può essere giustificata sia in base al principio del beneficio sia in base al principio della capacità contributiva. Il secondo comma dell’art. 53 della Costituzione della Repubblica italiana prescrive che l’imposta sul reddito sia progressiva. Un’imposta proporzionale sul consumo risulta regressiva rispetto al reddito se la propensione marginale al consumo decresce al crescere del reddito. A parità di reddito la capacità contributiva può risultare diversa a seconda della natura del reddito.