Modelli organizzativi in ambito ospedaliero di: Annalisa pennini

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capitolo

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Le organizzazioni: modelli teorici e meccanismi di funzionamento Filippo Ferrari

Questo capitolo presenta differenti modelli teorici, utili per comprendere il funzionamento delle organizzazioni. Dal momento che un’organizzazione è un fenomeno di grande complessità, e rischia di essere percepito come qualcosa di astratto, è utile ricorrere a concetti presi dalla vita quotidiana (la macchina, l’organismo, il cervello, la cultura) che aiutino nella comprensione dei meccanismi organizzativi e dei relativi principi di funzionamento.

1.1 I modelli di funzionamento Come già esposto altrove (Ferrari, 2003), Benedetto Croce affermava che i nostri affetti si esprimono con le metafore: a una persona cara diciamo ‘Sei un tesoro’, intendendo ovviamente ‘sei importante (prezioso) come un tesoro’. La metafora, dunque, utilizza un vocabolo in senso figurato, traslato, è una similitudine espressa in forma abbreviata, senza il come. Gareth Morgan (2002) utilizza le metafore per descrivere il funzionamento delle organizzazioni, ricorrendo a immagini che rendano immediatamente l’idea del modello di funzionamento alla base dello svolgimento delle attività organizzative. * Una precedente versione di questo contributo è apparsa nel volume F. Ferrari, Trovare il lavoro su misura, Franco Angeli, 2003.


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All’interno di un’organizzazione, tale modello di funzionamento rappresenta l’idea generale, condivisa dal management, sul come dovrebbe funzionare l’organizzazione o parte di essa. È possibile utilizzare un modello in maniera descrittiva, rappresentando il modo effettivo in cui un’organizzazione si comporta, oppure in maniera prescrittiva, rappresentando il modo in cui un’azienda dovrebbe comportarsi, oppure secondo quali principi deve essere progettata. In altre parole, un modello usato per descrivere è uno schema per interpretare la realtà, quando tale modello è usato per prescrivere invece è utilizzato per progettare una realtà che ancora non esiste, oppure che esiste ma è diversa da quella desiderata. Morgan utilizza diversi modelli per descrivere il funzionamento delle organizzazioni, e in particolare tre modelli e metafore (in questo senso sono concetti strettamente legati): modello meccanicistico (metafora della macchina), modello organicistico (metafora dell’organismo), modello olografico (metafora del cervello) e infine una metafora, quella della cultura. Il modello meccanicistico si fonda sulla metafora della macchina: le organizzazioni che funzionano in tale maniera sono paragonabili a delle macchine. Questo modello si riferisce in particolare a strutture organizzative di tipo burocratico, e quindi basate su principi improntati alla razionalità assoluta. Il modello organicistico si fonda sulla metafora dell’organismo: secondo Morgan, è possibile studiare le organizzazioni considerandole alla stregua di organismi, quindi caratterizzate da un sistema di parti interdipendenti. È un approccio schiettamente funzionalista, e quindi caratterizzato dalla ricerca dell’equilibrio tra le parti dell’organizzazione e, verso l’esterno, tra organizzazione e ambiente. Il modello olografico si fonda sulla metafora del cervello: le organizzazioni possono essere descritte o progettate quali sistemi complessi di parti integrate tra loro ad alta specializzazione ma contemporaneamente intercambiabili. È il modello di funzionamento che si fonda su principi quali la capacità di apprendimento e un rapporto con l’ambiente che non è di semplice adattamento ma preventivo del cambiamento (cfr. Fig. 1.1). La metafora della cultura indica i valori e i modelli di comportamento che, in quella organizzazione, sono implicitamente condivisi. L’idea è che per poter lavorare in un qualsiasi gruppo umano (e quindi anche all’interno di un’organizzazione) non bastano competenze strettamente professionali, bisogna avere familiarità con la sua cultura, sapere come comportarsi nelle diverse situazioni, spesso seguendo codici di comportamento che non sono ufficiali, espliciti.

1.2 Metafora organizzativa: la macchina Nella storia del pensiero organizzativo (per una visione complessiva, si rimanda all’intera opera di Giuseppe Bonazzi; per una introduzione allo studio delle organizzazioni, assai utile è il suo recente Come studiare le organizzazioni) la metafora della macchina rimanda alle burocrazie, agli eserciti, alle grandi fabbriche


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GARETH MORGAN La metafora MACCHINA si collega alle organizzazioni di tipo BUROCRATICO La metafora ORGANISMO concentra la sua attenzione sul fatto che le organizzazioni nascono, crescono, si sviluppano, declinano e sono in grado di adattarsi all’ambiente La metafora CERVELLO concentra la sua attenzione sull’importanza dei processi di informazione, di apprendimento e sull’importanza dell’intelligenza Fig. 1.1 Metafore organizzative. Tratto da: F. Ferrari, 2003

dell’inizio del ’900. Non a caso, perché i principali studiosi di questo tipo di organizzazioni sono stati: Taylor, che gettò le basi per la produzione in serie di automobili, poi realizzata a Chicago da Henry Ford. Inoltre, qualche anno prima, nella seconda metà dell’800, Max Weber teorizzò il modello perfetto di pubblica amministrazione, quella dello Stato prussiano. L’idea di Weber era che ogni cittadino prussiano dovesse ricevere i servizi dallo Stato in virtù di meccanismi efficienti per forza di legge, non sulla base di conoscenze personali. Un terzo studioso, pioniere dell’attuale management, fu Henry Fayol, che lavorò anch’esso all’inizio del ’900. Fayol, per primo stabilì alcuni dei principi gestionali che si sono tramandati fino ad oggi, quali il principio dell’unità di comando (un lavoratore riceve ordini solo da un superiore), o dell’ampiezza del controllo (c’è un limite al numero di persone che è possibile coordinare!). In sintesi, tutte le volte che pensiamo a una organizzazione come a qualcosa di routinizzato, prevedibile, affidabile ed efficiente allora stiamo pensando a un’organizzazione che si comporta come una macchina (per i capisaldi del modello macchina, cfr. Fig. 1.2). La scuola classica concepisce l’organizzazione come un sistema razionale di parti funzionali pensate in modo da completarsi a incastro, in un modo che vorrebbe essere perfetto secondo criteri di efficienza. Il funzionamento del meccanismo è garantito dalla struttura gerarchica: gestire un’organizzazione macchina vuol dire pianificare, coordinare, comandare e controllare. Una definizione di organizzazione basata su tale modello può essere la seguente: “Un’organizzazione è una collettività orientata al raggiungimento di

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fini specifici e che presenta una struttura sociale formalizzata” (adattamento da Scott, 1994, 43). Le macchine sono caratterizzate da unità di comando: ogni lavoratore risponde a uno e uno solo superiore gerarchico, in modo da sviluppare la linea di comando (line) in maniera rigidamente verticale, dal vertice alla base. Si viene in tal modo a realizzare una distinzione rigida tra staff e line: le funzioni gerarchicamente superiori, i cosiddetti colletti bianchi, svolgono mansioni e occupano posizioni rigidamente separate dalle mansioni operative (le cosiddette tute blu). La divisione del lavoro, quindi il sistema di compiti e ruoli, è rigidamente definita, precisa e univoca: ogni persona svolge una e una sola mansione (si pensi alla catena di montaggio), e l’iniziativa individuale è rigidamente disciplinata. Il principio alla base del modello meccanicistico, insomma, è l’estrema prevedibilità dell’azione e l’indipendenza del risultato rispetto a chi l’azione la porta avanti. In altre parole, il modello meccanico, razionale e burocratico, nasce nel tentativo di tutelare l’organizzazione dall’iniziativa dei singoli, e poter quindi garantire il risultato indipendentemente dalle persone che agiscono nell’organizzazione. In teoria, un’organizzazione che funziona secondo il modello meccanicistico è un esempio di efficienza e di assenza di sprechi. Tutti sanno cosa ci si aspetta esattamente da loro, e la loro azione professionale è improntata alla precisione e assoluta replicabilità. In un’organizzazione - macchina, il risultato non dipende da chi è di turno in quel momento, ma dalla corretta applicazione di procedure (mansionari, protocolli) note e validate. L’intento

Capisaldi dell’organizzazione MACCHINA • Unità del comando • Ambito del controllo • Catena del comando • Staff e line • Divisione del lavoro • Autorità e resposabilità • Centralizzazione dell’autorità • Disciplina e giustizia • Subordinazione degli interessi • Individuali ai generali • Spirito di corpo

Fig. 1.2 Capisaldi dell’organizzazione MACCHINA. Tratto da: F. Ferrari, 2003


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è quindi meritevole, ma storicamente il risultato pratico è stato ampiamente criticato, soprattutto per il rischio di disumanizzazione e per fatto che spesso seguire la procedura diventa più importante del raggiungimento del risultato (il vecchio adagio che recita ‘l’operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è morto...’). Inoltre, la necessità di seguire procedure definite da altri spesso ha un impatto negativo sul livello di impegno del lavoratore, che è deresponsabilizzato nei confronti del risultato. L’organizzazione macchina funziona bene nelle condizioni in cui funziona bene qualsisasi macchina, cioè quando: • Il compito è molto chiaro, cioè quando il fine specifico della mansione operativa è stato ben identificato e compreso chiaramente da chi deve concretamente raggiungerlo, svolgendo i propri compiti. • L’ambiente circostante è stabile e garantisce l’appropriatezza dei risultati: se l’ambiente esterno non è turbolento, non richiede capacità di adattamento dell’organizzazione. • Quando si deve ripetere più volte la stessa operazione, cioè quando devono essere effettuati interventi di routine ed è quindi possibile standardizzare la realizzazione del prodotto o l’erogazione del servizio. • Quando le componenti umane rispettano ragionevolmente i compiti. D’altro canto, l’organizzazione macchina è limitata perché: • Resiste all’ambiente anziché adeguarvisi. L’estrema burocratizzazione e l’unicità della catena di comando costringono le informazioni provenienti dall’ambiente a risalire tutta la catena gerarchica prima di giungere al management, perché spesso tali informazioni sono colte dalle persone ai livelli più bassi gerarchicamente ma che lavorano a contatto con il pubblico (street-level burocracy). Le organizzazioni macchina sono lente nell’interscambio con l’ambiente, e questo fattore crea ovvi problemi di adattamento. • Limita la visibilità di individui e gruppi da parte del management, in quanto spesso sono numerosi i livelli gerarchici che li dividono. In questo caso, il rischio è di non valorizzare competenze e abilità di individui che si trovano a basso livello gerarchico. • Limita o inibisce l’innovazione, dal momento che l’iniziativa individuale è fortemente disciplinata o addirittura proibita. • Si verifica spesso un effetto scaricabarile, che porta a liberarsi delle incombenze e/o dei problemi attribuendone la responsabilità a qualcun altro. La conclusione di Morgan è che l’approccio macchina è indispensabile dove serve precisione e chiara divisione delle responsabilità ad esempio negli eserciti, nelle compagnie aeree, o nelle grandi burocrazie della pubblica amministrazione. Una macchina funziona bene quando il suo ambiente di riferimento è stabile; se gli imprevisti sono frequenti la standardizzazione è molto difficile, e si rischia di andare incontro ad errori, tanto più gravi quanto è in gioco la salute o la vita delle persone.

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1.3 Metafora organizzativa: l’organismo Come tutti gli organismi viventi complessi, ad esempio il corpo umano, le organizzazioni che si comportano secondo questo modello sono composte da parti interdipendenti che reagiscono ad un’ampia gamma di stimoli e hanno una rilevante interazione con l’ambiente esterno (Fig. 1.3). La metafora dell’organismo permette di sottolineare il fatto che le organizzazioni non sono isolate dal contesto, e quindi sono costrette ad adattarsi a esso. Per esempio, un’organizzazione che eroga servizi sanitari in un dato territorio, non può ignorare le caratteristiche demografiche (età, genere, livello socio-economico) di quel territorio, pena l’impossibilità di erogare servizi adeguati. Le organizzazioni in quanto organismi sono quindi dei sistemi aperti, e diventa vitale la capacità di adattamento agli stimoli esterni. Un organismo è dotato di capacità di retroazione, è in grado cioè di reagire a stimoli esterni per recuperare la condizione di equilibrio nei rapporti con l’ambiente. Diverse “specie” di organizzazioni sopravvivono, perché più adatte, in differenti condizioni ambientali. Nella teoria classica (quella weberiana, ad esempio) l’organizzazione veniva trattata come un sistema chiuso, non adattivo nei confronti dell’ambiente che, quindi, aveva una scarsa rilevanza per le scelte organizzative.

Metafora dell’ORGANISMO

Esistono fattori rilevanti per il benessere e lo sviluppo delle organizzazioni che sono collegati al benessere e allo sviluppo degli INDIVIDUI nelle organizzazioni Le aziende in quanto organizzazioni sono dei SISTEMI APERTI È importantissimo il rapporto con l’AMBIENTE per la sopravvivenza dell’azienda. Diverse “specie” di aziende sopravvivono, perchè più adatte, in differenti condizioni ambientali

Fig. 1.3 Principi del modello organicistico. Tratto da: Ferrari, 2003


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Con l’approccio sistemico, l’ambiente assume una rilevanza altissima perché connesso allo sviluppo o al declino dell’organizzazione: le scelte strategiche che l’azienda compie in risposta alle condizioni ambientali determinano il successo dell’organizzazione stessa. Con il modello organicistico, inoltre, si comincia ad abbandonare l’idea della razionalità assoluta, ed emergono gli aspetti per così dire più umani delle organizzazioni, che il modello meccanicistico cercava di disciplinare e annullare (una massima famosa attribuita a Ford era ‘voi siete pagati per eseguire, non per pensare’). Ma un’altra caratteristica dell’organismo è che esso è costituito da parti strettamente collegate tra loro, in cui il funzionamento di una parte condiziona il funzionamento delle altre parti, o addirittura dell’intero organismo. E quando si parla di parti di un’organizzazione, si intendono i vari uffici, reparti ecc., ma anche le singole persone che la compongono. Una definizione di organizzazione in omaggio a questo modello potrebbe essere “Un collettivo i cui partecipanti condividono un interesse alla sopravvivenza del sistema, e si impegnano in attività, strutturate informalmente, per garantire tale sopravvivenza” (Scott, 1994, 45). Esistono infatti fattori rilevanti per il benessere e lo sviluppo delle organizzazioni che sono collegati al benessere e allo sviluppo degli individui nelle organizzazioni: non c’è più la subordinazione dell’interesse individuale al collettivo, anzi è proprio il contrario, o almeno c’è la ricerca del benessere a tutti i livelli organizzativi. Negli anni ’20 del secolo scorso, una serie di famosi esperiementi condotti da Elton Mayo ad Hawthorne, all’interno di uno stabilimento della General Electric, portò alla nascita della cosiddetta Scuola delle relazioni umane. Secondo tradizione, tali esperimenti portarono ad individuare, sul posto di lavoro, una struttura sociale non formale basata su gruppi di amici e su una fitta rete di rapporti non istituzionalizzati, che avrebbero grandissima rilevanza sullo svolgimento delle attività e sul conseguimento dei risultati. Infatti, gli individui sono portatori di bisogni complessi che influenzano pesantemente la motivazione al lavoro e quindi il rendimento professionale. Dal punto di vista metodologico e dei risultati l’esperimento di Mayo ormai non gode più di alcun credito, però ha avuto l’indubbio merito storico di aver spostato l’attenzione dei ricercatori sugli aspetti socio-psicologici del comportamento, e non solamente su quelli economici. Dal punto di vista pratico, questo approccio porta a tre conseguenze: • i bisogni degli individui devono essere compatibili e integrati con quelli dell’organizzazione; • le mansioni vengono arricchite e gli stili di direzione diventano più partecipativi, ossia coinvolgono maggiormente i lavoratori nella presa di decisione; • si comincia a preoccuparsi della job satisfaction, ossia del benessere derivante dal lavoro che si è chiamati a svolgere. In particolare, si studia la possibilità di aumentare produttività e contemporaneamente la soddisfazione al lavoro attraverso il miglioramento della qualità del lavoro stesso.

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Naturalmente, anche un’organizzazione che si ispiri a un modello di funzionamento organicistico presenta dei possibili limiti, e sono limiti direttamente imputabili al funzionamento sistemico: • le interdipendenze fra parti di un sistema sono complesse e difficili da descrivere, ostacolando quindi la conoscenza organizzativa d’insieme; • una conseguenza di quanto appena detto è che non è sempre possibile identificare le cause del malfunzionamento dell’organizzazione, fatto che rende difficoltoso l’intervento di chi è chiamato ad analizzare il funzionamento organizzativo al fine di successivi interventi (quali, ad esempio, riorganizzazioni delle strutture); • la situazione precedente è aggravata dal fatto che, sistemicamente, il malfunzionamento di una parte provoca il malfunzionamento dell’intera struttura.

1.4 Metafora organizzativa: il cervello Gli approcci meccanicistico e organicistico guardano all’organizzazione come a un insieme di parti specializzate, collegate tra loro da linee di comando, controllo, comunicazione e motivazione in modo meccanico (assemblate) o organico (integrate). Invece, l’approccio che vede l’organizzazione come un cervello pensa all’azienda come ad un processore di informazioni, cioè a un sistema che raccoglie, elabora e tratta informazioni e dati provenienti dall’esterno e dall’interno, appunto in analogia a quanto succede al cervello umano. Dal punto di vista storico, questo è il più recente dei modelli organizzativi, e data a partire dagli anni ’50, con lo sviluppo della scienza dei calcolatori elettronici (allora chiamati ‘cervelloni’), la cibernetica. Dal punto di vista della teoria dell’organizzazione, alcuni studiosi sono da citare. Mintzberg nella sua opera (1979) sottolinea la necessità di progettare i sistemi organizzativi in maniera appropriata alle specifiche e contingenti situazioni ambientali, e l’organizzazione ideale è un’organizzazione pensata ‘ad hoc’ per le circostanze (infatti questo studioso conia un nuovo temine, adhocrazia). Galbraight (1973), da par suo, enfatizza la necessità di rispondere alla complessità con procedure di volta in volta diverse, contingenti. Secondo questo autore, non c’è una via migliore in assoluto per raggiungere un obiettivo desiderato, ma la via dipende dallo specifico ambiente in cui l’organizzazione agisce. Per ogni processo di lavoro (sia esso un processo di cura, oppure amministrativo, o ancora di gestione del personale) il funzionamento non è semplicemente adattivo, ma cibernetico: le informazioni e le altre risorse, materiali e immateriali, subiscono una trasformazione, e vengono restituite all’ambiente, secondo il flusso fondamentale input, trattamento, output, feedback. Gli elementi che compongono l’organizzazione (un reparto, un ufficio, le persone stesse) sono relativamente autonomi tra loro (tanto che si parla di legami deboli, intesi come laschi), e tali elementi possono auto-mantenersi scambiando informazioni direttamente con l’ambiente (si pensi alla presa in


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carico di un paziente, o alle cure domiciliari, svolte in relativa autonomia da un operatore in condizioni ambientali sempre diverse). La metafora del cervello vuole riferirsi anche a un funzionamento organizzativo di tipo olografico, cioè a un sistema in cui ogni singola cellula conserva le caratteristiche dell’intero sistema. In questo senso, entro certi limiti ogni parte può sostituire ed essere sostituita da altre parti: è il caso della perfetta (almeno in teoria) intercambiabilità degli operatori che agiscono nel medesimo reparto con la medesima funzione. Ma la caratteristica forse più importante di un cervello, direttamente riconducibile alle due appena viste, è quella che lo porta non solo ad imparare, ma anche ad imparare ad imparare. Si veda a tal proposito la figura 1.4. Una macchina, come visto, più che adattarsi all’ambiente (soprattutto esterno, ma anche nel rapporto tra le parti dell’organizzazione, che sono assemblate e non integrate tra loro) gli resiste, è lenta nel cambiamento, a causa delle rigide routine che ne regolano il funzionamento e che rendono problematica ogni innovazione. Il risultato è che, spesso, il management si accorge di un errore strategico quando è troppo tardi, oppure se ne accorge in tempo ma la struttura nel suo insieme impedisce il cambiamento. Un organismo è molto più reattivo nei rapporti con l’ambiente ed è caratterizzato da una migliore integrazione tra le parti: è in grado quindi di realizzare un’efficace retroazione sull’ambiente, cioè di rispondere a cambiamenti ambientali adattando i propri comportamenti prima che il danno sia irrepa-

L’organizzazione che apprende Esistono tre tipi di organizzazioni: • Quelle che non imparano dai propri errori. • Quelle che imparano dai propri errori: sanno correggersi in relazione ad un obiettivo (c.d. subroutine unica). • Quelle che imparano ad imparare: più che definire un obiettivo definiscono cosa vogliono evitare. Sono in grado, quindi, di prevenire l’errore (c.d. subroutine doppia). Fig. 1.4 L’apprendimento organizzativo. Tratto da: F. Ferrari, 2003

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rabile. Si può dire che, dal punto di vista organizzativo, impari (apprendimento a subroutine unica, cfr. Fig. 1.5). Quello a subroutine unica è un apprendimento per così dire di risposta: in seguito a ripetuti stimoli uguali il sistema organizzativo, cioè le persone che in esso lavorano, impara come comportarsi in determinate situazioni. È un apprendimento più simile a un addestramento che a un apprendimento vero e proprio: l’organizzazione semplicemente sviluppa routine per rispondere a problematiche provenienti dall’esterno. È un apprendimento che alla fine garantisce buona adattabilità, ma non la capacità di prevenire i problemi. Un cervello infatti va ben oltre, e altrettanto ci si aspetterebbe da un’organizzazione evoluta, inserita in un ambiente turbolento e scarsamente prevedibile (quale per definizione è l’ambiente in cui agiscono le organizzazioni sanitarie e socio-sanitarie). Non si limita a rispondere all’ambiente in maniera automatica (feedback negativo o subroutime unica), ma a prevenirlo (feedback positivo o subroutine doppia), mettendo in discussione dopo ogni risposta all’ambiente le proprie routine al fine di prevenire future situazioni di rischio (Fig. 1.6). Organizzazioni di tale natura fondano gran parte del proprio successo (e della propria sopravvivenza) sul cosiddetto apprendimento organizzativo. Tale è il frutto della subroutine doppia: i membri dell’organizzazione creano e condividono conoscenza, cioè programmi di azione in risposta e prevenzione delle eventuali problematiche.

Apprendimento a subroutine unica Avviene tramite il FEEDBACK NEGATIVO

Nelle aziende esistono meccanismo a subroutine unica molto precisi: ad esempio il budget preventivo il controllo e recupero degli scostamenti in itinere

Vengono in genere individuate e recuperate le DEVIAZIONI CRITICHE per mantenere l’azienda “sui binari” Fig. 1.5 Apprendimento a subroutine unica. Tratto da: Ferrari, 2003


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Apprendimento a subroutine doppia Gli errori sono FATTORI DI CONOSCENZA

Consiste nel criticare e cambiare normative, strategie e procedure operative a seguito di cambiamenti ambientali

INQUADRARE e REINQUADRARE il problema definendo quello che si vuole EVITARE Fig. 1.6 Apprendimento a subroutine doppia. Tratto da: Ferrari, 2003

In un’organizzazione che ambisca a comportarsi come un cervello, almeno in alcuni suoi reparti, assume un valore estremo la formazione del personale, il lavoro in èquipe multidisciplinari, la co-costruzione di buone prassi che andranno poi conservate e strasmesse affinché non si disperdano. In altre parole, l’apprendimento organizzativo è possibile quando tutto ciò che è appreso dal singolo professionista diventa patrimonio comune. I limiti dell’organizzazione a cervello sono riconducibili a caratteristiche tipicamente ‘umane’ di razionalità limitata. Taylor e Weber vedevano nell’organizzazione l’incarnazione della razionalità assoluta, il prototipo (cioè l’esemplare perfetto) dell’agire logico, efficiente, senza imprevisti e indecisioni. Un altro celebre studioso, Herbert Simon, considerava invece questa visione della realtà come utopica, e affermava che gli esseri umani hanno limiti cognitivi, cioè presentano limiti naturali nella comprensione e soluzione di problemi (cioè sono esseri razionali, ma limitati nella loro razionalità): in caso contrario non ci sarebbe bisogno di organizzazioni, che sono strumenti collettivi per risolvere problemi. Infatti, alla base della nascita delle organizzazioni c’è sempre un problema (in senso sia positivo o negativo, inteso quindi come risultato da ottenere), che si presenta come troppo complesso per essere risolto da una persona sola (Ferrari, 2013). Le organizzazioni nascono perché gli individui hanno limiti, non sono quindi in grado di affrontare da soli problemi oltre un certo grado di complessità. L’indipendenza e la capacità di apprendimento dei singoli devono quindi fare i conti con i limiti individuali nella comprensione e lettura della realtà,

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spesso influenzati dagli elementi personali di affettività, emotività, valori personali e motivazione alla partecipazione all’organizzazione. L’ordine delle cose e la certezza riguardo la loro conoscenza sarebbero le condizioni per permettere al cervello di funzionare in maniera perfetta. Ma ordine e certezza davvero non fanno parte del nostro mondo, e di conseguenza le persone (e le organizzazioni da loro formate) devono accontentarsi di raggiungere risultati soddisfacenti, rinunciando ai risultati ottimali.

1.5 Conclusioni: l’importanza della cultura organizzativa In un’epoca caratterizzata da un’estrema complessità ambientale, a cui le organizzazioni tentano di rispondere attivando meccanismi di apprendimento a sub-routine doppia, il singolo operatore sostanzialmente è solo davanti all’infinito delle proprie attività (passate, presenti, future) e delle informazioni che tali attività gli trasmettono. Affinché possa sopravvivere, deve dotarsi di strumenti per gestire questa infinità, altrimenti sarebbe schiacciato dall’incertezza e dall’impossibilità di scegliere la condotta adeguata in un contesto che di volta in volta gli pone problemi da risolvere. La possibilità di disporre di linee guida, protocolli, procedure dettagliate purtroppo non è sufficiente a garantire il risultato atteso. Il possesso di tali strumenti è condizione necessaria ma non sufficiente. Ecco allora la nascita di culture, riti, credenze, pregiudizi, sistemi di valore, che altro non sono che mappe per agire nell’incertezza della complessità. Le organizzazioni, in qualità di strumenti collettivi per risolvere problemi, devono essere considerate strutture per ridurre la complessità, e in tal senso sono fatte anche (o, forse, soprattutto) di culture, riti, credenze, sistemi di valori organizzativi che vengono utilizzati come filtri tra la persona e l’ambiente. Quale modello per l’intensità di cura/complessità assistenziale? Le organizzazioni sanitarie, al pari di tutte le organizzazioni pubbliche di grandi dimensioni, nascono riferendosi ad un modello meccanicistico. La necessità di erogare servizi standardizzati (secondo la logica dell’universalità del servizio) in grande quantità rendeva tale scelta obbligata. Ma, col tempo, tale modello si è rivelato costoso e scarsamente efficace. L’emergente necessità di una sempre maggiore personalizzazione del servizio, di cui il modello per intensità di cura/complessità assistenziale è la versione ultima, ha imposto un cambio di paradigma, verso modelli più flessibili. Il modello per intensità di cura/complessità assistenziale presenta senz’altro elementi di tipo organicistico, vista l’enfasi sulle relazioni con l’ambiente e il territorio, ma presenta anche caratteristiche di tipo olografico, dovute al lavoro in èquipe multidisciplinari, composte ad hoc. Ma, soprattutto, il modello per intensità di cura/complessità assistenziale funziona laddove è presente una cultura diffusa della personalizzazione del servizio all’utenza, della presa in carico attenta alla persona, della policompetenza degli operatori coinvolti. In altre parole, si giunge a un modello compiuto per intensità


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di cura/complessità assistenziale non in virtù di un obbligo di legge o di un adempimento, bensì della intima condivisione di un modello e dei suoi vantaggi da parte degli operatori, a tutti i livelli. Un modello organizzativo, in conclusione, non può funzionare se non si poggia su di una cultura condivisa dagli operatori che sono chiamati ad applicare tale modello. Una cultura che è l’intima convinzione riguardo all’efficacia ed efficienza del modello che si è chiamati ad applicare, non un mero adempimento in quanto richiesto dal dirigente di turno. Questo vale per le norme relative alla sicurezza sul lavoro, vale per l’orientamento al cliente, vale per le politiche di Qualità, vale per la centralità del paziente nel processo di assistenza, vale infine per un modello organizzativo per intensità di cura/complessità assistenziale, di cui si avrà modo di parlare nel corso di questo testo.

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Riferimenti bibliografici Bonazzi G. (2002), Come studiare le organizzazioni, Il Mulino, Bologna. Fayol H. (1917), Administration industrielle et générale; prévoyance, organisation, commandement, coordination, controle, H. Dunod et E. Pinat, Paris. Ferrari F. (2013), Gli indicatori di performance dell’organizzazione, Franco Angeli, Milano. Ferrari F. (2003), Trovare il lavoro su misura, Franco Angeli, Milano. Galbraith J. R. (1977), Organization Design, Addison-Wesley, Reading, MA. Mayo E. (1933), The human problems of an industrialized civilization, Scott, Foresman. Mintzberg H. (1996), La progettazione dell’organizzazione aziendale, Il Mulino, Bologna. Morgan G. (2002), Images, Franco Angeli, Milano. Scott W.R. (1994), Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna. Simon H. A. (1955), “A behavioral model of rational choice”, Quarterly Journal of Economics, 69 99–118. Taylor F. W. (1911), Principles of scientific management, Harper, New York. Weber M. (1980), Economia e società , Edizioni di Comunità, Milano.


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RIEPILOGO In questo capitolo sono stati presentati alcuni modelli utili alla comprensione dei fenomeni organizzativi. Il modello meccanicistico, che enfatizza la razionalità dell’organizzazione, le regole, le procedure, l’efficienza. Il modello organicistico, che invece enfatizza la capacità di adattamento e risposta all’ambiente, nonché l’importanza delle relazioni umane all’interno dell’organizzazione. Il modello olografico, che enfatizza l’importanza del rapporto con l’ambiente esterno, e la capacità dell’organizzazione di imparare e prevenire le turbolenze ambientali. Infine, si è sottolineato il ruolo della cultura organizzativa come sostrato condiviso ma implicito alla base di tutti i fenomeni organizzativi. Di ciascun modello sono stati presentati pregi e difetti, e la conclusione è che non esiste una via unica e migliore all’organizzazione, bensì ogni organizzazione è specifica e sopravvive grazie all’interazione con l’ambiente ma anche in virtù dei propri processi interni.

glossario Modelli organizzativi Rappresentazioni o immagini del funzionamento dell’organizzazione. Management La funzione svolta da chi dirige un’organizzazione. Specificità del fine La precisione con la quale sono stati definiti gli obiettivi, e permette di individuare i compiti da svolgere, il tipo di persona da utilizzare, le risorse necessarie e come devono essere distribuite. Retroazione Chiamata anche feedback, cioè informazione di ritorno, è la capacità di un sistema di ripristinare l’equilibrio tra le sue parti e nei rapporti con l’ambiente esterno. Approccio sistemico Metodo di studio che considera l’oggetto studiato come un insieme di parti, naturali o artificiali, in cui il funzionamento di una singola parte influenza il funzionamento dell’intero insieme, anche in relazione a ciò che è esterno al sistema.

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TEST DI AUTOVALUTAZIONE

1. Cosa si intende per modello organizzativo? a) Le rappresentazioni o immagini del funzionamento dell’organizzazione b) L’obiettivo ideale verso cui tendere c) Lo standard per descrivere un’organizzazione d) Lo standard per prescrivere un’organizzazione 2. A che tipo di organizzazione si riferiva Max Weber? a) Al neonato Stato Italiano b) Alla pubblica amministrazione prussiana c) Alla grande industria automobilistica tedesca d) All’esercito prussiano 3. Cosa si intende per ‘principio dell’unità di comando’? a) Ogni organizzazione deve avere uno e un solo capo b) Ciascun lavoratore deve avere uno e un solo capo c) Ciascun capo deve avere uno e un solo subordinato d) Nessuna delle precedenti 4. Cosa si intende per retroazione? a) La capacità di un sistema di ripristinare l’equilibrio tra le sue parti b) La risposta del mercato a un nuovo prodotto c) La risposta degli utenti a un nuovo servizio d) La ridefinizione degli obiettivi 5. A chi si attribuisce la frase ‘voi siete pagati per eseguire, non per pensare’? a) Max Weber b) Annalisa Pennini c) Henry Ford d) Henry Fayol 6. L’apprendimento organizzativo è conseguenza di: a) Una contingenza b) Una retroazione c) Una subroutine unica d) Una subroutine doppia 7. Cosa si intende per razionalità limitata? a) Gli esseri umani sono preda delle loro emozioni b) Gli esseri umani non sanno applicare modelli statistici c) Accontentarsi della soddisfazione, rinunciando all’ottimizzazione d) La razionalità esercitata entro i limiti dell’organizzazione


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8. La cultura organizzativa si manifesta: a) Nel livello di istruzione dei membri dell’organizzazione b) Nel contenuto culturale dei servizi dell’organizzazione c) Nel livello culturale dei servizi erogati all’utenza d) Nella condivisione implicita di norme e valori

Per le risposte vedi a pagina 193

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