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Capitolo 3
©Spencer Grant/agefotostock/Newscom
La sociologia come scienza empirica: la ricerca sociale
Obiettivi di apprendimento ▮ Come fanno i sociologi a produrre il sapere sociologico? ▮ Quali sono le sfide conoscitive che un ricercatore sociale si trova ad affrontare? ▮ Come si può diventare un fruitore più informato dei risultati delle scienze sociali?
Che genere di persona ha una maggiore probabilità di essere uccisa da un estraneo? Quella che vive in città o in campagna? Secondo il senso comune – sostenuto dalle notizie televisive, dai thriller e dai romanzi gialli – la risposta sembrerebbe abbastanza scontata: quella che vive in città, un contesto spesso percepito come anonimo e minaccioso. Tuttavia, nell’esaminare i dati disponibili, i ricercatori si sono resi conto che, negli Stati Uniti, sono le persone che vivono in un contesto suburbano ad avere le maggiori probabilità di essere uccise da un estraneo (Lucy, 2003; Lucy e Rabalais, 2002). Questa scoperta non solo può sembrare talmente illogica da risultare difficile da credere, ma dà anche il via a molti dubbi interpretativi e metodologici. Il primo passo nella valutazione di quanto affermato in una ricerca sociologica e, in generale, scientifica, è chiedersi come il ricercatore abbia raccolto e analizzato i dati. Nello studio in questione, una lettura attenta della metodologia utilizzata rivela due fattori chiave nel determinare tale inaspettata conclusione. In primo luogo, i ricercatori hanno usato non solo i dati relativi agli omicidi ma anche quelli relativi agli incidenti stradali, che coinvolgono quasi sempre persone estranee; in effetti, questi ultimi causano un numero di morti doppio rispetto agli omicidi e ricorrono con maggiore frequenza nelle aree rurali, laddove il traffico è quasi assente, le strade sono dritte e strette e le persone che le percorrono tendono a superare di molto i limiti di velocità, costituendo un pericolo costante per i residenti. In secondo luogo, i ricercatori hanno approfondito la relazione tra le vittime di un omicidio e i loro assassini. Da questa analisi emerge un dato che costituisce quasi una costante “criminologica” e che ritroviamo in molti Paesi del mondo, compresa l’Italia: la stragrande maggioranza degli omicidi non è
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compiuta da “estranei” ma da familiari, parenti o colleghi di lavoro. Di conseguenza, la probabilità di essere intenzionalmente assassinati da un estraneo è molto più bassa sia rispetto a quella di morire in un incidente stradale (specie se, negli Stati Uniti, si abita in un contesto rurale) sia rispetto a quella di essere ucciso da una persona conosciuta. In base a questi dati, i ricercatori sopra citati sono giunti a quelle conclusioni che, a un primo sguardo, apparivano tanto sorprendenti. Così come avviene in ogni altra scienza, è solo la trasparenza e la divulgazione dei metodi di ricerca a garantire una corretta comprensione dei dati sociologici. Allo stesso modo, il sapere che forma il patrimonio conoscitivo della sociologia nasce attraverso l’impiego di tecniche di indagine specifiche – quelle ritenute legittime in una data comunità scientifica – combinate secondo varie strategie, ad approcci teorici giudicati plausibili e rilevanti, non solo alla luce di quanto ritengono i cultori di una certa disciplina ma anche in base alla loro rispondenza alla moderna idea di scienza. L’astrologia, per esempio, non è un sapere scientifico non solo perché le osservazioni su cui si basa sono corrette solo in apparenza (la posizione dei pianeti così come appare a occhio nudo) ma soprattutto alla luce dei suoi presupposti teorici circa il collegamento tra ciò che accade nella vita di ciascuno e il funzionamento di un universo colto secondo una concezione mitica e magica – cioè non scientifica in senso moderno, quel senso cui ci riferiamo quando oggi parliamo di “scienza”. ▮
In questo capitolo cercheremo, in primo luogo, di comprendere quali sono le fasi della ricerca sociale, per poi soffermarci sui problemi specifici della sociologia in quanto scienza empirica. Da questa analisi risulterà chiaro che la sociologia, oltre a essere caratterizzata dal pluralismo teorico che abbiamo esaminato nel Capitolo 2, presenta un elevato pluralismo anche nel modo di declinare la questione del metodo e l’idea di scienza moderna. Prenderemo poi in considerazione le due grandi tradizioni o, più precisamente, programmi di ricerca che mettono in pratica tale pluralismo: l’asse positivismoneopositivismo e il campo dell’ermeneutica. Infine, forniremo alcuni cenni introduttivi alle principali tecniche di ricerca (le così dette tecniche “quantitative” e “qualitative”), per poi passare a un rapido esame dei mixed methods e dell’influenza delle coordinate spazio-temporali sull’impostazione di una ricerca.
3.1
Il processo della ricerca sociale
Per comprendere la complessità insita nel fare ricerca sociale partiamo dal confronto tra due famose indagini sociologiche: Il contadino polacco in Europa e negli Stati Uniti di William I. Thomas e Florian Znaniecki (1918-1920/1968) e La personalità autoritaria di Theodor Adorno e colleghi (1950/1973). Il primo di questi due studi fu effettuato nel secondo decennio del secolo scorso; esso sorse dalla diffusa esigenza di comprendere meglio la condizione degli emigranti che, a milioni, si erano trasferiti negli Stati Uniti sin
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dalla fine del XIX secolo, ridisegnandone completamente l’identità e contribuendo in mondo decisivo sia allo sviluppo economico sia al sorgere di nuovi problemi sociali all’interno delle sempre più grandi città statunitensi (in particolare Chicago e New York). Tra questi migranti, un gruppo particolarmente numeroso era rappresentato dai polacchi, connazionali di uno dei due autori dello studio, Florian Znaniecki. In breve, la ricerca dei due studiosi dimostrò che i contadini polacchi, sia quelli rimasti in Polonia sia quelli emigrati, erano soggetti a profondi processi di disorganizzazione sociale (oggi diremmo di disintegrazione), dovuti nel primo caso ai processi di modernizzazione dell’economia polacca e, nell’altro, al difficile processo di riadattamento alla nuova vita in America; la conseguenza di ciò fu uno spaesamento e una frantumazione della solidarietà di gruppo. Per sostenere tali affermazioni, i due studiosi analizzarono un vasto materiale documentario, in particolar modo una collezione di 754 lettere, per la maggior parte indirizzate a o scritte da immigrati polacchi negli Stati Uniti. Le lettere erano state acquisite dagli autori attraverso un’inserzione sul giornale allora più letto da tali migranti, il Dzienmik Zwiazkowy. Dopo averle selezionate e raggruppate in diverse categorie, Thomas e Znaniecki le analizzarono sistematicamente ritenendo che, partendo da un quadro teorico generale, tale “osserFocus sulla teoria sociale vazione indiretta” permettesse l’emergere di riflessioLe ricerche di Thomas e Znaniecki si inseriscono nella tradizione della ni teoriche più vaste. scuola di Chicago – la prima La personalità autoritaria nacque alla fine della scuola sociologica americana, da Seconda Guerra Mondiale su commissione dell’Amecui derivò anche l'interazionismo rican Jewish Committee, preoccupato del diffondersi simbolico. Secondo voi, nella loro delle idee fasciste e dell’anti-semitismo anche negli esperienza quotidiana, i migranti residenti in Italia vivono una Stati Uniti. Affidata alla direzione di Theodor Adorno condizione di disorganizzazione (che incontreremo ancora nel corso di questo capisimile a quella descritta nella tolo), uno dei principali esponenti dell’immigrazione ricerca sul "contadino polacco"? intellettuale tedesca negli Stati Uniti, tale ricerca annovera tra i suoi risultati più importanti il riscontro dello stretto legame tra l’autoritarismo sociale e lo sviluppo di atteggiamenti favorevoli al fascismo e al razzismo. Per giungere a queste conclusioni, gli studiosi del gruppo coordinato da Adorno intervistarono 2000 soggetti utilizzando sia tecniche psicanalitiche (come i test proiettivi, volti a esplorare a fondo la personalità degli intervistati) sia questionari, continuamente perfezionati nel corso dell’indagine, che proponevano una serie di domande preformulate. I dati raccolti furono sottoposti a rigorose analisi statistiche, i cui risultati furono espressi in forma matematica e poi commentati. Entrambe queste ricerche, come molte altre simili, appartengono legittimamente al campo della sociologia, poiché si propongono di chiarire come funziona il mondo sociale e le azioni delle persone al suo interno. Tuttavia, com’è facile capire, esse utilizzano un’impostazione molto diversa: più attenta all’interpretazione qualitativa dei dati l’una, più orientata all’analisi statistica l’altra. Il primo punto di partenza che dobbiamo tenere a mente nella nostra discussione è dunque questo: vi sono molti modi diversi di impostare e realizzare una ricerca sociale. Nonostante questa differenza,
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entrambe le indagini presentano alcuni punti in comune, quelle fasi della ricerca – cioè i passaggi che un ricercatore deve compiere per studiare un fenomeno sociale – che Kenneth D. Bailey (1995) riassume nel modo seguente.
Fasi della ricerca. I passaggi che un ricercatore deve compiere per studiare un fenomeno sociale.
1. Scelta del problema di ricerca. Ogni ricerca sociale nasce da un particolare problema conoscitivo che la studiosa, lo studioso e/o i gruppi sociali si pongono in un dato momento storico. È dalla curiosità e dall’opacità di ciò che avviene nel mondo che nasce il processo della ricerca sociale empirica. 2. Elaborazione del disegno della ricerca. Come posso studiare il problema che mi sono posto? L’espressione “disegno della ricerca” risponde essenzialmente a questa domanda, e indica i concreti passaggi che lo studioso deve compiere per interrogare la realtà e produrre nuova conoscenza su di essa. 3. Raccolta dei dati. Una volta scelto il disegno della ricerca, è necessario andare sul campo e collezionare in modo sistematico le informazioni di cui abbiamo bisogno, cioè osservare metodicamente la realtà e “registrarla” in un determinato modo. 4. Codifica e analisi dei dati. Una volta raccolti, i dati devono essere analizzati secondo quei determinati protocolli che, nell’ambito della propria comunità scientifica e delle sue regole, lo studioso giudica corretti. 5. Interpretazione dei risultati. In base ai risultati prodotti dalla fase precedente, si formulano delle conclusioni che dovrebbero rispondere alle domande che ci siamo posti all’inizio. A loro volta, queste interpretazioni pongono nuovi problemi conoscitivi: il processo della ricerca ricomincia, seguendo una logica concentrica. Come si vede e come risultava in contro-luce dai brevi esempi sopra riportati, la concreta declinazione di queste fasi comporta una continua serie di scelte e decisioni da parte del ricercatore, sia a monte sia a valle del processo di ricerca (Figura 3.1). Le decisioni non sono arbitrarie: esse si fondano su criteri che le giustificano. Dalla diversità dei criteri e dunque delle decisioni, nasce la diversità delle strategie di ricerca in sociologia. Per comprendere a fondo questi temi occorre quindi prendere in considerazione: ▮ che cos’è una teoria scientifica e cosa si intende per metodo; ▮ i diversi approcci teorico-metodologici; ▮ le tecniche di ricerca utilizzate per analizzare la realtà. In definitiva, quindi, il processo della ricerca sociale presenta una parte più “teoretica”, che possiamo definire epistemologico-metodologica, su cui si basano in ultima analisi le scelte del ricercatore, e una maggiormente “tecnico-pratica”, relativa cioè al modo concreto in cui si fa ricerca sociale.
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Figura 3.1 Il processo della ricerca. Il processo della ricerca può essere considerato un ciclo perché ha inizio quando uno studioso sceglie di indagare su uno specifico problema conoscitivo di particolare interesse per un dato momento storico; le interpretazioni elaborate alla fine della ricerca, poi, possono porre nuovi problemi conoscitivi che saranno oggetto di nuovi studi.
5
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Interpretazione dei risultati
3.2
1 Scelta del problema di ricerca
2
Codifica e analisi dei dati
3
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Elaborazione del disegno della ricerca
Raccolta dei dati
Teoria scientifica e metodo: cenni introduttivi
Da un punto di vista generale, si definisce teoria scientifica un insieme circoscritto di concetti legati tra loro da specifiche relazioni, che punta a offrire una spiegazione possibile di uno o più fenomeni. Possiamo invece concepire il metodo come un percorso sistematico attraverso il quale una teoria è messa alla prova, mediante procedure codificate. Da Metodo. Un percorso questo punto di vista, il metodo è una sorta di ponte sistematico attraverso il quale una tra le nostre idee sul mondo e il mondo stesso, tale teoria è messa alla prova, da fornirci un affidabile strumento per controllare mediante procedure codificate. quanto esse corrispondano ai fenomeni che si intendono analizzare e spiegare. Nella dimensione introduttiva in cui ci stiamo muovendo, possiamo distinguere due grandi approcci alla questione dell’utilizzo del metodo nella ricerca scientifica: quello deApproccio deduttivo. duttivo e quello induttivo. Secondo l’approccio deApproccio, che va dal generale al duttivo (che va dal livello generale al particolare), particolare, in cui la teorizzazione la teorizzazione precede la prova empirica, indirizprecede la prova empirica, indirizzando l’intera attività di zando l’intera attività di ricerca attraverso le definiricerca attraverso le definizioni dei zioni dei fenomeni che fornisce e il quadro generale fenomeni che fornisce e il quadro che ne deriva. Chi utilizza tale metodo ritiene che generale che ne deriva. solo in questo modo è possibile giungere alla formulazione di generalizzazioni o addirittura di leggi scientifiche, ovvero di proposizioni analitiche in grado di descrivere e spiegare una determinata classe di fenomeni. Tale posizione è stata propria di quelle scuole filosofiche ed Teoria scientifica. Un insieme di concetti legati tra loro da specifiche relazioni, che punta a offrire una spiegazione razionale di uno o più fenomeni e che può essere sottoposta a controllo empirico.
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epistemologiche che possiamo definire razionaliste. Secondo l’approccio induttivo (che va dal particolare al generale), invece, l’osservazione precede la teorizzazione e quest’ultima deriva direttamente dalla valutazione dei risultati emersi dalla ricerca. Secondo questa posizione solo in tal modo è possibile costruire un sapere davvero aderente alla realtà: si tratta della posizione fatta propria dall’empirismo.
Approccio induttivo. Approccio, che va dal particolare al generale, in cui l’osservazione precede la teorizzazione e quest’ultima deriva direttamente dalla valutazione dei risultati emersi dalla ricerca.
3.3
I principali approcci metodologici
L’appello all’ideale delle scienze naturali, senza essere acriticamente assunto, e l’orientamento a mettere in campo una logica della ricerca sociale alternativa a questo ideale e più vicina a una sensibilità umanistica centrata sull’attenzione per la storia, la cultura e la comprensione delle scelte umane e della soggettività delle persone hanno dato vita a due grandi programmi di ricerca della sociologia: quello positivistico – cui, per estensione, vengono affiancati anche il neo-positivismo e il post-positivismo – e quello ermeneutico. Nel primo caso, l’unità del programma è data dalla centralità dell’ideale della scienza moderna. Perciò, esso non è esclusivo delle scienze sociali, ma è l’unico attualmente condiviso da quello delle scienze naturali, rappresentando così un ponte tra i due ambiti culturali e disciplinari. L’approccio ermeneutico è invece una categoria “ominibus” che presenta una minore coerenza interna: esso comprende orientamenti molto diversi, come lo storicismo tedesco del XIX secolo, la fenomenologia sociale o gli approcci materialistico-dialettici, che non accettano l’idea di metodo delle scienze sociali propugnato dal positivismo e dalle sue successive trasformazioni. Per queste ragioni, l’approccio ermeneutico è proprio delle sole scienze sociali mentre non ritroviamo nulla di simile nel campo di quelle naturali. A complicare ulteriormente le cose e a rendere davvero pluralistico e, al limite, quasi frammentato il campo delle scienze sociali, vi è il fatto che i due grandi programmi di ricerca tagliano, a volte, trasversalmente le stesse scuole teoriche in cui si organizza la sociologia e si mette in pratica la ricerca sociale: facendo riferimento alle teorie sviluppatesi a partire dal XX secolo, viste nel Capitolo 2, possiamo dire che mentre lo struttural-funzionalismo rientra quasi integralmente nel programma di ricerca positivismoneopositivismo, e l’interazionismo simbolico in quello ermeneutico, la teoria del conflitto è una tradizione teorica dove troviamo studiosi che fanno appello all’uno o all’altro programma. Se gli studi di genere, fino a un ventennio fa, ricadevano quasi per intero nell’ambito dell’ermeneutica, oggi sempre più studiose e studiosi che utilizzano questo approccio si rifanno al postpositivismo. Infine, se Bauman o Beck adottano, spesso in modo impressionistico, un approccio ermeneutico, Touraine e Bourdieu hanno utilizzato nei loro studi tecniche di ricerca sia qualitatative sia quantitative.
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Rifacendoci alla proposta di Piergiorgio Corbetta (2013), analizzeremo i principi fondamentali dei due grandi programmi di ricerca alla luce di tre dimensioni: ontologica, epistemologica, metodologica. La prima risponde alla domanda “Qual è la natura della realtà?”. La seconda si chiede “Entro quali limiti sono in grado di conoscere questa realtà?”. La terza, quella metodologica, si basa sulla seguente domanda: “Quali procedimenti pratici posso legittimamente utilizzare per interrogare la realtà e produrre intorno a essa un sapere valido?”.
3.3.1
Positivismo e neo-positivismo
Il positivismo sociologico Come abbiamo visto nei Capitoli 1 e 2, il positivismo è alla base della nascita stessa della sociologia come disciplina a sé stante, ed era la tradizione filosofica di riferimento sia di Comte sia, sebbene assunta con maggior consapevolezza teorico-metodologica, di Émile Durkheim e della sua scuola. L’olismo metodologico, come vedremo tra poco, è stato probabilmente il lasciato più duraturo della metodologia positivistica di Durkheim, un atteggiamento che essendo condiviso implicitamente o esplicitamente anche da altre influenti teorie sociali (come il marxismo e lo strutturalismo novecentesco) ha fondato per molti decenni lo statuto epistemologico egemone della sociologia stessa. Come programma di ricerca tipicamente ottocentesco, centrato sulla fiducia incondizionata nella scienza e nel metodo scientifico come “mezzo e fine” del progresso umano, il positivismo aveva le seguenti caratteristiche generali. 1. Dimensione ontologica. Realismo ingenuo, vale a dire la credenza per cui la realtà esiste ed è quella che appare immediatamente ai nostri sensi; per questo motivo, un altro modo di chiamare questa posizione ontologica è realismo del senso comune poiché è proprio di quest’ultimo pensare che gli oggetti del mondo posseggono e sono definiti esattamente da quelle proprietà (calore, forma, colore ecc.) che sono percepibili con i sensi. Tale posizione è quella con cui è nata la scienza modernamente intesa, segnando una netta cesura con il mondo aristotelico-tomistico medievale: invece di chiedersi quale sia il fine delle cose (come faceva Aristotele e, con lui, la filosofia e la scienza medievali) giungendo al piano metafisico, il realismo del senso comune, da Galileo in poi, punta a descrivere come base dello sviluppo conoscitivo i fenomeni come sono, cioè come appaiono immediatamente, nella loro materialità, al soggetto conoscitore. Il positivismo condivideva esattamente questa posizione, rappresentando così la particolare manifestazione ottocentesca di un più antico scientismo. 2. Dimensione epistemologica. Partendo da tali presupposti, i positivisti ritengono che la realtà sia conoscibile pienamente dall’uomo, rendendo propria una concezione dualistica del processo conoscitivo: l’“oggetto” conosciuto – cioè il fenomeno – esiste indipendente dal “soggetto” conoscitore – cioè dalla mente. Mentre nella filosofia antica veniva teorizzata la stretta unità tra og-
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getto e soggetto e nel Medioevo questa stretta unità era ricondotta al primato di Dio sull’uomo – da cui derivava per quest’ultimo la possibilità di giungere alla verità solo per intercessione del divino – nella filosofia e nella scienza moderne il mondo e la mente che lo conosce sono elementi separati. A differenza del soggettivismo, che da Cartesio in poi decreta il primato del soggetto sull’oggetto, il positivismo accoglie una posizione per cui l’uno e l’altro sono sullo stesso piano: il soggetto che osserva non influenza l’oggetto osservato e, dunque, può coglierlo nella sua verità oggettiva, che è quella di un grande meccanismo che funziona mediante leggi generali e universali. 3. Dimensione metodologica. Per il positivismo, l’unico vero metodo scientifico è quello basato sull’osservazione e sull’esperimento (approccio induttivista), attraverso i quali è possibile individuare quelle leggi della natura, preferibilmente esprimibili in forma matematica, che governano il mondo. Per questo motivo, il positivismo assume una visione nomotetica, per cui la conoscenza scientifica è sempre in grado di individuare queste leggi, che non sono il prodotto della mente umana ma il modo stesso in cui i fenomeni osservabili funzionano e possono essere spiegati con un principio di causa-effetto. Auguste Comte e la sociologia come scienza Dal punto di vista metodologico, Auguste Comte considera la sociologia come la scienza sintetica per eccellenza, in quanto disciplina che ha fatto proprio il metodo scientifico tipico delle scienze analitiche (chimica, fisica), applicandolo alla comprensione della politica e dei fenomeni sociali, che sono l’ambito più generale che esista. Attraverso quest’opera, anche nel campo della società sarà possibile giungere alla comprensione di quelle leggi generali e universali che la governano, cioè raggiungere traguardi conoscitivi e di efficacia pratica simili a quelli già raggiunti dalle scienze naturali e caratterizzati da certezza e verità. I punti di riferimento metodologici della sociologia positiva di Comte sono dunque: il principio di causa-effetto che lega e spiega tutti i fenomeni collettivi; l’applicazione del metodo sperimentale e induttivista. La ricerca sociale dovrà procedere attraverso la formulazione di ipotesi basate sull’osservazione, la loro verifica sperimentale e la formulazione di leggi e teorie generali basate sulla generalizzazione dei risultati così ottenuti. Émile Durkheim e l’olismo sociologico Émile Durkheim, uno dei primi e consapevoli ricercatori sociali empirici della disciplina, aderì ad alcune posizioni di Comte – in particolare al suo intento di costruire una scienza positiva della società – pur distanziandosene notevolmente proprio dal punto di vista metodologico. A questo proposito, le sue due opere più significative sono Le regole del metodo sociologico (1895/2008) e Il suicidio (1897/2008). Per Durkheim, innanzitutto, la società e i suoi fenomeni sono una realtà sui generis che non può essere ridotta né a fatti psicologici (come sosteneva uno dei grandi avversari intellettuali di Durkheim, Gabriel Tarde) né biologici: la società (come i gruppi) è un “oggetto” che esiste al di là degli individui che la compongono e che li trascende pur riguardando ciascuno di loro (teorema sociologistico). La società è dunque un “meccanismo” a sé stante, che
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determina il comportamento dei singoli individui: se si vuol comprendere perché gli individui si comportano come fanno (effetto), si deve rivolgere la propria attenzione alle “strutture” della società (cause). Partendo da questo tipo specifico di sensibilità, per Durkheim il mondo sociale è composto innanzitutto da “fatti sociali”, vale a dire da modi di pensare (o rappresentazioni collettive) e di agire indipendenti dalla volontà del singolo individuo perché cristallizzate nel corso del tempo; anzi, questi fatti sociali gli si impongono, esercitano su di lui, e sulla generalità dei membri di quella determinata collettività (come può essere accertato con l’uso delle statistiche oggettive, come dice Durkheim stesso), una coercizione esterna. In altre parole, essi non possono essere modificati (di solito, e comunque non senza forti resistenze) dall’opera dei singoli; al contrario, il comportamento degli individui è determinato da essi attraverso vari meccanismi di controllo interni (come l’educazione, uno dei meccanismi considerati a questo proposito più importanti) ed esterni (come le sanzioni emesse dalle autorità). Per esempio, le regole che i genitori insegnano ai propri figli attraverso quello che oggi definiamo “processo di socializzazione” (si veda il Capitolo 6), si impongono letteralmente al bambino e alla bambina e sono per essi (e per ciascuno di noi) fatti sociali nel senso che sono esterni e “coercitivi” del loro comportamento. La prima regola del metodo sociologico è dunque questa: considerare i fatti sociali come cose, un’analogia che Durkheim riconnette direttamente alla scienza moderna e alla sua visione della natura, una natura fatta per definizione di cose, ovvero elementi studiabili “oggettivamente”. La sociologia, infatti, deve applicare il metodo scientifico per giungere alla rivelazione di quelle leggi generali e universali che governano la società, una realtà che funziona allo stesso modo della natura, indipendentemente cioè da ciò che vorrebbero i singoli esseri umani. Questo è un punto molto importante: esso formalizOlismo sociologico o za in modo chiaro il così detto olismo sociologico collettivismo metodologico. o collettivismo metodologico, vale a dire quelAtteggiamento intellettuale per l’atteggiamento intellettuale per cui un fenomeno cui un fenomeno sociale non può sociale (per esempio, la disoccupazione) non può esessere spiegato facendo sere spiegato facendo riferimento alle azioni dei sinriferimento alle azioni dei singoli individui ma alle strutture, ai goli individui, come fosse una semplice somma di meccanismi e alle istituzioni tanti micro-comportamenti guidati da valori e idee collettive che i singoli individui, individuali, ma alle strutture, ai meccanismi e alle come tali, “subiscono”. istituzioni collettive (sempre seguendo il nostro esempio, le regole di funzionamento del mercato del lavoro) che i singoli individui, come tali, “subiscono”. Un’altra regola fondamentale del metodo sociologico di Durkheim è che la causa di un fatto sociale va sempre ricercata in un fatto sociale antecedente. In più, nel mondo sociale l’effetto di un fenomeno sociale retroagisce sulla propria causa assumendo la funzione di rafforzala. Infine, occorre sempre sapere se quel determinato fatto sociale è normale o patologico: nel primo caso esso si presenta sempre come norma in quelle società che appartengono a un determinato tipo; nel secondo ciò non accade. La differenza tra normale
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e patologico è quindi relativa: per esempio, nelle società di tipo post-industriale, la violenza nelle attività ricreative (tipicamente nello sport) è considerato un fatto patologico lì dove, nelle società antiche, essa era del tutto normale (pensiamo ai giochi gladiatori nella Roma imperiale). Avendo definito i fatti sociali e come essi debbano essere considerati dal sociologo, è possibile comprendere meglio il modo specifico con il quale Durkheim intende il processo della ricerca sociale. Esso prevede diverse fasi. ▮ Osservazione-definizione dei fenomeni sociali. Tali fenomeni devono essere trattati come fatti sociali, pertanto per osservarli e dunque studiarli al meglio occorre tracciarne chiaramente i contorni. Mentre il linguaggio comune è vago e impreciso, la sociologia deve elaborare un proprio specifico linguaggio in grado di definire in modo chiaro e preciso ciò che si analizza. Ne deriva che tutto ciò che ricade nell’ambito di questa definizione appartiene alla classe di fenomeni studiati, indipendentemente dalle apparenze o dal senso comune. ▮ Confutazione delle interpretazioni precedenti. Tale fase consiste nell’esercizio della critica sistematica degli studi che si sono interessati di quel determinato fenomeno, mostrandone insufficienze ed errori. ▮ Spiegazione sociologica del fenomeno. Può essere messa in atto solo seguendo lo sviluppo di quel fatto sociale che si intende spiegare attraverso tutti i tipi sociali in cui si presenta, ricorrendo in particolare all’analisi comparata e al metodo delle variazioni concomitanti, cioè osservando, anche con l’ausilio di apposite tecniche statistiche, come un determinato fatto si modifichi al variare di un altro e cercando di comprendere la relazione tra di essi. Accanto a questa impostazione di massima – che in parte Durkheim mette in pratica nel suo studio sul suicidio (si veda il Capitolo 2), egli utilizza altri due espedienti metodologici nella concreta pratica di ricerca: l’experimentum crucis – a suo tempo indicato da Francis Bacon come una delle principali strade per verificare empiricamente una teoria e decidere della sua maggior validità rispetto a un’altra – e lo studio del semplice per risalire al complesso. Il primo tipo di strategia consiste nel sottoporre la propria teoria alla prova empirica considerata più ardua, per dimostrarne in modo definitivo la giustezza: questo è ciò che Durkheim in un certo senso fa con il suo studio del suicidio poiché questo comportamento nella cultura dell’epoca – anche come risultato dell’influenza del Romanticismo – era ritenuto l’atto più individualistico che si potesse compiere. Il secondo espediente metodologico viene utilizzato da Durkheim ne Le forme elementari della vita religiosa (1912/2013): in questo testo, che costituisce la sua ultima grande opera, egli indica nello studio delle forme più arcaiche e primitive di religiosità (si veda il Capitolo 4) un espediente metodologico per cogliere quella conditio sine qua non dell’esistenza del fenomeno religioso. Infatti, se ciò che consideriamo religione si riferisce tanto all’animismo primitivo quanto alla religione cattolica, che appaiono così distanti tra loro, il modo più economico
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per cogliere l’“essenza” empirica del religioso è risalire alla sua più semplice manifestazione, così come si farebbe per analizzare un individuo adulto, i cui tratti fondamentali sono già fissati durante il periodo di gestazione e nell’infanzia. Infine, Durkheim riteneva che tra filosofia e sociologia vi sia una netta separazione poiché mentre la prima è metafisica e astratta e si muove nel campo del “dover essere”, la sociologia non partecipa alle grandi controversie speculative ma, più modestamente, si accontenta di descrivere, analizzare e spiegare i fenomeni sociali così come sono (campo dell’“essere”). In altre parole, per Durkheim, il sociologo è in grado di produrre una conoscenza non partigiana bensì obiettiva della realtà. Tuttavia la sociologia non è estranea alle sorti della società: al contrario, – da radicale e democratico – Durkheim riteneva che la sociologia non sarebbe valsa un’ora di fatica se non avesse contribuito a migliorare la società. Egli pensava che le conoscenze scientificamente provenienti da questa disciplina avrebbero dovuto fornire la base per le riforme di cui abbisognava la società moderna – e, in particolare, quella francese della travagliata Terza Repubblica – costantemente minacciata dalla disgregazione. Il neo-positivismo Nato dalle riflessione del Circolo di Vienna che, tra il 1922 e l’avvento di Hitler al potere, riuniva scienziati e filosofi uniti dalla comune esaltazione dell’ideale della scienza empirica, il neo-positivismo o positivismo logico guardava al metodo delle scienze naturali e ai suoi principi come gli unici in grado di produrre un sapere certo sia nel campo proprio delle scienze empiriche sia in quello della filosofia. Senza avere la pretesa palingenetica contenuta nel primo positivismo di Comte, per gli esponenti del Circolo – tra i cui Rudolf Carnap, Otto Neurah e Carl Menger – un linguaggio ha senso solo se i contenuti da esso veicolati possono essere verificati empiricamente, mentre tutto ciò che appartiene al campo della metafisica va respinto. Diffusosi in particolare in area anglosassone, questo atteggiamento così empirista, scientista e induttivista fu l’oggetto delle serrate critiche di Karl Popper (1902-1994) che, pur facendo salvo l’ideale della scienza moderna e l’importanza dell’unicità del metodo per fare ricerca, smontò definitivamente il mito verificazionista sostituendolo con il suo approccio falsificazionista: l’elaborazione teorica precede sempre l’osservazione (deduttivismo) mentre il compito della ricerca sul campo è quello di mettere alla prova le ipotesi precedentemente formulate. Da un punto di vista logico, infatti, quando i dati empirici sono in accordo con le ipotesi tutto quello che possiamo affermare è che esse non sono per il momento falsificate poiché possono sempre essere scoperti nuovi dati che le metteranno in discussione (falsificazionismo). Questa filosofia della scienza di Popper divenne la base del programma di ricerca neo-positivista e post-positivista, nonostante egli abbia più volte rifiutato queste etichette. 1. Dimensione ontologica. Il neo-positivismo assume un atteggiamento nei confronti della realtà che potremmo definire realismo critico, per cui la realtà esiste ed è oggettivamente conoscibile ma non facendo riferimento ai dati provenienti
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direttamente dai sensi umani. Se il positivismo ottocentesco faceva propria una posizione per la quale il senso comune era una valida base per accedere alla verità, per i neo-positivisti essa è mediata dall’azione della mente e delle sue categorie, una posizione che recuperava le riflessioni di Immanuel Kant. 2. Dimensione epistemologica. Per i neo-positivisti la realtà conosciuta esiste indipendentemente dal soggetto conoscitore ed è oggettivamente conoscibile, a patto che il raggiungimento della verità venga inteso come un criterio limite. In altre parole, il processo scientifico, l’unico in grado di produrre conoscenze valide sul reale in quanto espressione della mente umana e della logica, può condurre solo per approssimazioni successive alla verità, cioè alla completa conoscenza del mondo e del suo funzionamento. Di conseguenza, le leggi scientifiche trovate dalla scienza non sono più da intendersi in modo universale ma probabilistico e condizionale: esse funzionano a determinate condizioni e in un intervallo di probabilità, come accade alla meccanica classica di Newton che, per effetto delle scoperte di Einstein, risulta solo un caso particolare di funzionamento dell’universo, date determinate coordinate spazio-temporali. 3. Dimensione metodologica. Il metodo scientifico sperimentale è indicato ancora come l’ideale metodologico di riferimento, un ideale che unifica sia le scienze naturali sia quelle sociali e che individua nella matematica e nella statistica i suoi linguaggi per eccellenza. Tuttavia, a partire dalla riflessione di Popper, esso non si basa più su una logica induttiva, per cui la teoria emergerebbe direttamente da dati in grado di verificarla ma, al contrario, su un approccio deduttivo. Ripetendo ancora una volta questo punto fondamentale, la teoria viene elaborata dagli scienziati, essendo l’alfa e l’omega del processo conoscitivo di tipo scientifico, mentre la prova sperimentale è in grado solo di mostrare che, allo stato attuale, non esistono ragioni per ritenere quella teoria falsa. In questo contesto, si rafforza il ruolo della comunità scientifica come ambito di validazione e discussione critica delle teorie e dei risultati della ricerca empirica. Il neo-positivismo così inteso è stato il programma di ricerca egemone nella sociologia e nelle altre scienze sociali almeno fino agli anni Sessanta e continua ancora oggi, sebbene assunto in modo più critico, a esercitare un’influenza decisiva. Il centro di irradiazione del neo-positivismo sono stati gli Stati Uniti, Paese in cui, a partire dagli anni Venti, in seguito alle persecuzioni politiche e razziali messe in campo dai fascismi, si trasferirono alcune delle più illustri menti europee. Questo processo, nel campo delle scienze sociali, comportò l’incontro e il confronto tra la tradizione più orientata alla teoria e alla ricerca storica della sociologia europea dell’epoca, e il tradizionale pragmatismo americano dal quale erano nate diverse scuole sociologiche caratterizzate da un forte orientamento alla ricerca empirica – in particolare la Scuola di Chicago (si veda il Capitolo 2). Il contatto con l’intellighènzia europea portò in molti casi a un affinamento sia della consapevolezza metodologica sia delle tecniche impiegate nelle ricerche sociali – tra l’altro ampiamente finanziate da varie fondazioni private oltre che dal sistema accademico americano –; un processo che ebbe particolare impulso con la Seconda Guerra
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Mondiale e l’avvio del programma denominato American Soldier. Attraverso di esso, gli psicologi e i sociologi più autorevoli presenti negli Stati Uniti ebbero l’incarico di studiare gli aspetti sociopsicologici legati alla situazione del combattimento e, in generale, della vita dei soldati americani nel mondo, cosa che li condusse ad approfondire ulteriormente i propri metodi e tecniche (Madge, 2003). Centri di irradiazione di questo approccio neo-positivista alla ricerca sociale furono la Harvard University e la Columbia University, la cui produzione teorica portò alla nascita e l’ascesa del funzionalismo (si veda il Capitolo 2). Mentre Talcott Parsons, che insegnava ad Harvard, fu il più autorevole esponente della versione generale della teoria funzionalistica, la sua versione più moderata e direttamente utilizzabile nella ricerca empirica fu elaborata alla Columbia da Paul Felix Lazarsfeld (1901-1976), matematico e sociologo austriaco aderente al Partito Socialdemocratico e trasferitosi con una borsa di studio della Rockefeller Foundation negli Stati Uniti nel 1933, e Robert K. Merton. Mentre parleremo nello specifico del contributo di Lazarsfeld quando affronteremo l’esame delle tecniche d’indagine quantitative, presenteremo ora la posizione metodologica di Merton e, in particolare, la sua proposta di analisi funzionale. Merton e il funzionalismo come metodo Come abbiamo già accennato, secondo Merton esiste certamente un metodo scientifico valido sia nel campo delle scienze naturali sia in quello delle scienze sociali; tuttavia, egli individua nella teoria e nel suo rapporto di circolarità con i dati ottenuti tramite la ricerca empirica ciò che distingue in ultima istanza la scienza dalla “non-scienza”. Nel quadro di questo approccio deduttivista, Merton richiama la necessità per la sociologia di elaborare teorie a medio raggio, Teoria a medio raggio. in grado cioè di essere utilizzate ed empiricamente Teoria controllabile empiricamente che descrive e spiega il controllate nella ricerca sociale, pur avendo un’aspicomportamento di un’intera classe razione alla generalità. Di conseguenza, in particolare di fenomeni. nella sua opera in tre volumi Teoria e struttura sociale (1968/2000), egli prende le distanze dalla teoria generale elaborata da Parsons non per quanto riguarda la centralità del concetto di funzione – cioè degli effetti che un processo sociale organizzato ha sul resto della collettività, concetto ponte rispetto alla biologia e all’antropologia, che ne facevano ugualmente uso – ma su quei postulati non dimostrabili e non utilizzabili nella ricerca empirica che essa portava con sé. In particolare: 1. Postulato dell’unità funzionale. Tutti gli elementi di una cultura e tutte le attività sociali sono funzionali all’intero sistema sociale o culturale. In questo caso, Merton sottolinea che tutte le società hanno un certo grado di integrazione. Tuttavia, ciò non significa che ogni attività e ogni convinzione sono funzionali per la società intesa come unità, nonché per le persone che vivono in essa. 2. Postulato del funzionalismo universale. Ogni aspetto di un sistema sociale o culturale svolge una funzione positiva nei confronti dell’integrazione sociale. La critica di Merton, questa volta, si accentra sul fatto che non è
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possibile affermare che tutto ciò che esiste abbia, per il solo fatto di esistere, una funzione positiva nei confronti dell’integrazione sociale. 3. Postulato dell’indispensabilità. Ogni elemento esistente in una società o cultura è indispensabile per lo svolgimento di una specifica funzione, così come vi sono specifiche funzioni indispensabili al sistema. Al contrario, per Merton non è detto che vi siano in ogni società elementi indispensabili per svolgere determinati compiti né che gli stessi elementi svolgano sempre le stesse funzioni. Partendo da questi presupposti, il sociologo della Columbia introduce il fondamentale concetto di ambivalenza sociologica nella ricerca sociale: come riconosceva Marx e come sosteneva Adorno, la realtà sociale è intrinsecamente contraddittoria, lacerata da conflitti e tensioni sia all’interno delle strutture sociali sia tra di esse e tra queste e i soggetti agenti. Pertanto, accanto alle funzioni manifeste – cioè agli effetti dichiarati, riconosciuti e ufficiali di un dato processo sociale istituzionalizzato (per esempio, il fatto che la burocrazia amministra beni e risorse per gli interessi di una data comunità) – vi sono anche le funzioni latenti – cioè effetti emergenti, non dichiarati e spesso non direttamente riconosciuti, di quegli stessi processi (per esempio, il fatto che la burocrazia ha interesse a perpetuare e rafforzare il potere di chi ne fa parte, anche contro gli interessi della collettività). L’olismo metodologico di Durkheim, contenuto anche nella teoria di Parsons, risulta così notevolmente stemperato: l’approccio di Merton, e in generale dei neo-positivisti, tende a includere la soggettività degli attori sociali, pur continuando a vederla come fortemente condizionata dalle strutture sociali.
Approfondimento La spiegazione causale nelle scienze sociali Nel 1948, Carl Gustav Hempel e Paul Oppenheim presentarono quello che viene considerato il modello standard di spiegazione scientifica, detto anche modello delle leggi di copertura. Esso definisce la spiegazione come un argomento che permette di dedurre un evento o una regolarità da una o più leggi generali. Tale modello comprende due principali elementi: l’explanandum e l’explanans. L’explanandum è la proposizione che descrive il fenomeno che deve essere spiegato; l’explanans è l’insieme delle proposizioni che vengono utilizzate per rendere conto del fenomeno. A sua volta, l’explanans comprende gli enunciati che specificano le condizioni antecedenti l’evento e gli enunciati che descrivono le leggi generali. Karl Popper ha contribuito in modo determinante a diffondere tale modello nel dibattito epistemologico, indicandolo come l’unico in grado di costruire spiegazioni causali dei fenomeni. Un altro modo per definire questo schema è nomologico-deduttivo.
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3.3.2
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Il campo dell’ermeneutica nelle scienze sociali
Ermeneutica è una parola che deriva dal greco antico ρμηνευτικ (τεχνη), in alfabeto latino hermeneutiké (téchne), traducibile come “(l’arte della) interpretazione, traduzione, chiarimento e spiegazione”. Essa nasce originariamente in ambito religioso, con lo scopo di spiegare la corretta interpretazione dei testi sacri. Trasposto nel campo delle scienze sociali e assunto in modo generale, tale termine designa l’opera di decodifica delle motivazioni e dei significati posti alla base delle azioni sociali degli individui, per scoprire le origini e il funzionamento stesso di un determinato fenomeno sociale: al testo letteralmente inteso si sostituisce il “testo del mondo sociale”, che va interpretato per essere correttamente compreso. Tale approccio avvicina nettamente il campo della sociologia a quello della cultura umanistica che tradizionalmente ha seguito tale programma. Partendo da questo presupposto comune, che include come base di qualunque analisi della società proprio l’azione e la soggettività, ne deriva che il metodo delle scienze naturali non può essere applicato sic et simpliciter all’analisi della società perché tratta le persone come cose quando cose non sono. Come abbiamo detto, nonostante gli appartenenti al programma ermeneutico si dividano in una molteplicità di scuole di pensiero molto diverse tra loro, tali da non configurare questo campo con la stessa coerenza di quello del positivismo-neopositivismo, possiamo comunque rintracciare alcuni presupposti comuni nei livelli ontologico, epistemologico e metodologico. ▮ Dimensione ontologica. Per gli “ermeneutici” la realtà sociale è intrinsecamente costruita attraverso l’azione e il pensiero delle donne e degli uomini, e non esiste indipendentemente da loro. Di conseguenza, la storicità di questo mondo rende relativa e contestualizzata la verità mentre la presenza di leggi universali è una possibilità remota. ▮ Dimensione epistemologica. Alla stretta unità ontologica del mondo sociale corrisponde una stretta unità tra soggetto conoscitore e soggetto conosciuto. I due termini si influenzano reciprocamente e non è possibile produrre una conoscenza obiettiva, cioè libera sia dal condizionamento del contesto storico-sociale sia dai valori di chi osserva e di chi è osservato. La sociologia non può e non deve cercare di rintracciare leggi universali. ▮ Dimensione metodologica. Occorre mettere in campo una sorta di empatia metodologica cioè cercare di comprendere e ricostruire in modo corretto le motivazioni alla base delle azioni degli attori sociali e come queste si combinano, ricorrendo anche a categorie teoriche, assunte come strumenti in una “cassetta degli attrezzi”. Di questo vasto e differenziato programma di ricerca prenderemo in considerazione due sottocorrenti particolarmente influenti: la prima è riconducibile alla proposta della sociologia comprendente di Max Weber, sviluppata
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all’inizio del Novecento nell’ambito del dibattito storicista sul metodo; la seconda fa riferimento all’interazionismo simbolico. Lo storicismo tedesco Nell’ambito del dibattito svoltosi in Germania tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX intorno alle novità apportate dall’emergente economia neo-classica (tra i cui protagonisti ritroviamo il positivista logico Carl Menger del Circolo di Vienna) e, in generale, sullo statuto scientifico delle nuove scienze sociali, erano già posti i termini di quella controversia sul metodo che abbiamo vista nuovamente espressa dalle opposte posizioni di Popper e Adorno negli anni Sessanta. Secondo Wilhelm Windelband (1848-1915), uno dei più influenti esponenti di quel dibattito, una volta ammessa l’innegabile diversità tra “natura” e “spirito”, non è lecito codificare due vie diverse di conoscenza a seconda che si cerchi di spiegare la natura o di “comprendere”, anche su basi psicologiche, lo “spirito” umano – cioè la coscienza. Questa posizione venne ripresa e ribaltata da Wilhelm Dilthey (1833-1911), secondo il quale esisterebbe una netta separazione tra “scienze dello spirito” e “scienze della natura”: le prime devono tener conto della soggettività e della storicità della cultura mentre le seconde operano in un mondo di oggetti inanimati e, perciò, senza storia. Ne deriva che, mentre le scienze della natura possono costruire un sapere a sua volta obiettivo e basato sulla cumulabilità delle scoperte, le scienze dello spirito producono un sapere sempre relativo e i loro risultati via via acquisiti possono essere riutilizzati nel seguito della ricerca, qualora si siano dimostrati utili alla comprensione dei nuovi fatti. Quest’ultima posizione, che coincide con l’avvio dello storicismo tedesco propriamente detto e che, in ultima analisi, rende difficile lo stesso concetto di una scienza sociale empirica e scientifica, fu oggetto di riflessione e critica da parte di Max Weber. Max Weber e la sociologia comprendente I principali studi di metodologia che Max Weber ha compiuto tra il 1904 e il 1918 sono contenuti in una raccolta intitolata Il metodo delle scienze storico-sociali (1922/2003). Gli oggetti fondamentali della sociologia weberiana sono le azioni sociali, quelle il cui senso si riferisce agli altri. Tra queste rivestono particolare importanza due tipi di azione: quella razionale rispetto allo scopo e quella razionale rispetto al valore (per la tipologia completa dell’azione sociale elaborata da Weber, si veda il Capitolo 5). Nell’analisi weberiana, la scienza rappresenta parte integrante del processo di modernizzazione e di razionalizzazione e ha un ruolo essenziale nel determinare il significato e la portata della verità scientifica. I due caratteri essenziali della scienza moderna sono l’incompiutezza e l’oggettività, cioè il fatto che la scienza è un’opera aperta che non avrà mai fine (a differenza di ciò che pensavano i positivisti suoi contemporanei), fondata sull’osservazione delle cose “come appaiono” (rifiuto delle questioni metafisiche). Le scienze dello spirito, cioè le scienze sociali, sono caratterizzate in modo ancor più decisivo dall’“essere in dive-
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nire” rispetto alle scienze naturali: di fronte a ciò che di nuovo accade nella storia dell’umanità, esse rinnovano continuamente le proprie domande e reinterrogano la società; una scienza sociale che raggiunga un traguardo definitivo di accumulazione di leggi universali e generali sulla società e la storia è concepibile, quindi, solo se per assurdo terminasse il cammino stesso dell’umanità. Così, scienze naturali e scienze sociali condividono per Weber lo stesso principio ispiratore ma differiscono, innanzitutto, per il diverso rapporto che hanno con la questione dei valori stessi del ricercatore che compie l’indagine scientifica: i giudizi di valore del sociologo lo aiutano a selezionare il particolare problema – cioè l’angolo visuale che sceglie – come base della sua ricerca; una volta posto questo, l’utilizzo di un metodo serio e rigoroso assicura l’obiettività dell’analisi, similmente a ciò che accade nel campo delle scienze naturali. Questo diverso ruolo dei valori nelle varie fasi della ricerca (selezione del problema – effettuazione Avalutatività. La capacità dell’indagine) è ciò che Weber intende per avaludello scienziato sociale di tenere tatività, ovverosia la capacità dello scienziato sociain considerazione i propri valori le di tenere in considerazione i propri valori nello nello scegliere cosa osservare e da scegliere cosa osservare e da che punto di vista, per che punto di vista, per poi poi effettuare in modo rigoroso il percorso di ricerca. effettuare in modo rigoroso il percorso di ricerca. In altre parole, il tema dell’avalutatività weberiana è anche un richiamo etico all’onestà intellettuale dello studioso, che deve accettare la possibilità che le sue idee, attraverso il confronto empirico, risultino errate. In più, questo atteggiamento richiama immediatamente l’attenzione dello studioso su un elemento decisivo: qualunque ricerca sociale e qualunque sapere che derivi da essa sono sempre il risultato di una scelta parziale – di un certo “rapporto ai valori”, come diceva Weber stesso – perché guidata dalle particolari sensibilità di chi fa ricerca. La sociologia, al pari delle altre scienze sociali, non può quindi contribuire a stabilire quali fini individuali e collettivi siano migliori di altri, ma solo indicare i mezzi più efficaci per raggiungerli, una volta che la politica li abbia individuati. Detto questo, Weber ritiene che le caratteristiche metodologiche delle scienze sociali siano essenzialmente tre. 1. Le scienze sociali si riferiscono alla cultura. La cultura – intesa come insieme di valori, idee e norme (si veda il Capitolo 4) – comprende ciò che gli individui producono con le proprie azioni sociali, costruendo così l’ambiente in cui vivono. Weber ci ricorda continuamente che anche entità che consideriamo “quasi come oggetti”, come lo Stato, sono in realtà idee condivise e cristallizzate, rese “effettive” da persone concrete. 2. Le scienze sociali sono storiche. La produzione culturale e le azioni sociali degli individui si svolgono sempre all’interno di un divenire storico, sono cioè mutevoli perché mutevoli sono le loro condizioni. Weber non aderisce a una filosofia finalistica, per cui il procedere della storia dovrà necessariamente approdare a un qualche risultato particolare in termini di emancipazione (come nel caso di Marx) o di realizzazione di valori superiori
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(come in Hegel). Egli, al contrario, riteneva che la storia è un processo aperto, costruito dagli attori sociali. Ciò non significa che Weber non avesse una concezione della storia: proprio per il suo carattere “aperto”, il sociologo tedesco considerava il procedere storico come il centro delle lotte e dei conflitti per affermare poteri e valori diversi; in Occidente ciò coincideva con la stretta unione che si era andata a determinare tra l’affermazione di una mentalità “razionalista” e le nuove forme di dominio (come la burocrazia). Da questa postura intellettuale – profondamente segnata dal senso del tragico – deriva sia l’impossibilità e l’inutilità di costruire e rintracciare leggi di comportamento generali e universali, sia la parziale differenziazione tra sociologia e storiografia: “Storia e sociologia indicano due diverse direzioni della curiosità, non due discipline che devono ignorarsi a vicenda [come pretendeva il positivismo – N.d.C.]. La comprensione storica esige l’utilizzazione di proposizioni generali e queste non possono essere dimostrate soltanto prendendo le mosse da analisi e da confronti storici” (Aron, 1989, p. 472). In altre parole, mentre la storiografia seleziona i propri problemi e compie le proprie indagini con l’obiettivo ideografico di ricostruire un certo evento, per definizione unico e irripetibile, la sociologia si colloca a un livello di astrazione superiore, puntando alla costruzione di modelli teorici utilizzabili e applicabili per l’analisi di diversi fenomeni. 3. Le scienze sociali utilizzano la comprensione dell’azione sociale per costruire spiegazioni. La sociologia cerca di comprendere, attraverso l’empatia metodologica, i significati, i valori e le motivazioni che gli attori sociali pongono alla base del loro agire. Essa deve cercare di rendere trasparente e intellegibile ciò che è opaco alla coscienza stessa degli attori sociali studiati. Solo una volta che ha compiuto questa opera interpretativa giungendo a una ricostruzione plausibile di ciò che è accaduto e delle motivazioni che ne erano alla base, la sociologia può cercare di spiegare causalmente il fenomeno che sta osservando. Secondo Weber, l’applicazione del principio di causalità alla sociologia consente l’individuazione delle uniformità di comportamento tramite la costruzione di modelli di spiegazione (dato A, allora B) che sono però non generali ma condizionali. Modelli del tipo: dato il fenomeno A, è probabile che, a determinate condizioni, si verifichi B. Al mutare del termine medio, cioè delle particolari condizioni storicosociali, può mutare la relazione tra A e B. I modelli causali per Weber sono poi tanto più efficaci quanto più sono multi-fattoriali – volendoci esprimere con terminologia moderna – ovvero quando tengono conto del complesso intreccio tra i vari piani: economico, religioso, politico, etico ecc. L’“alfa e omega” del processo scientifico di ricerca come teorizzato da Max Weber sono gli ideal-tipi, che rendono possibile a un Ideal-tipi. Concetti tipici tempo la comprensione e la spiegazione sociologiche, delle scienze sociali attraverso i essendo continuamente perfezionati attraverso i risulquali i fenomeni empirici vengono tati stessi della ricerca sociale. Gli ideal-tipi, o tipidefiniti analiticamente nelle loro ideali, non sono modelli che esprimono come “docaratteristiche ricorrenti ed essenziali. vrebbe essere” la realtà, ma concetti tipologici attra-
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verso i quali i fenomeni empirici vengono definiti, analiticamente, nelle loro caratteristiche ricorrenti ed essenziali. Seguendo Aron (1989), possiamo distinguere tre grandi categorie di ideal-tipi weberiani. ▮ Individualità storiche, fenomeni quali il capitalismo occidentale o la città nella società industriale. Esse puntano a individuare le caratteristiche essenziali di grandi fenomeni situati nel tempo e nello spazio. ▮ Elementi della realtà storica che si ritrovano in un gran numero di casi concreti, come, per esempio, il potere o la burocrazia. ▮ Ricostruzioni razionalizzate di insiemi di comportamenti, per esempio, tutte quelle modalità d’azione che ricadono nel campo dell’economia. Gli ideal-tipi designano un uso della teoria sociale e dei concetti nella ricerca sociale completamente diverso da quello concepito da positivisti e neo-positivisti: essi sono come attrezzi nella cassetta del sociologo, che egli utilizza e migliora continuamente per studiare la realtà sociale. Infine, va segnalato che Max Weber introduce nei suoi studi empirici – come L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905/1991) – un ulteriore elemento analitico: quello che potremmo definire, con terminologia moderna, effetto emergente. Al pari delle funzioni latenti di Merton (che riprende questa idea proprio da Weber), gli effetti emergenti sono conseguenze non volute né prevedibili di una serie di comportamenti, all’interno di un processo storico. L’ascetismo intra-mondano dei primi calvinisti e dei puritani, per esempio, li ha condotti a sviluppare un tipo di etica del lavoro e dell’economia (basata sulla parsimonia, la laboriosità e l’orientamento al successo economico) che sarebbe stata funzionale allo sviluppo del capitalismo anche se questo non era nelle loro intenzioni. Interazionismo simbolico e ground theory Benché in gran parte elaborato nei primi decenni del Novecento, l’interazionismo simbolico, sia come teoria sociale sostantiva sia come strategia metodologica, divenne un approccio particolarmente influente solo a partire dagli anni Sessanta, in concomitanza con la crescente crisi del funzionalismo. In questo periodo cominciarono a svilupparsi altri approcci centrati sulla descrizione e l’analisi della vita quotidiana e dei microcontesti, in particolare l’entometodologia di Harold Garfinkel e l’approccio drammaturgico di Goffman. A differenza dell’approccio weberiano, che partendo dall’azione sociale e dall’interazione punta a spiegare anche e soprattutto i macrofenomeni (per esempio, la formazione e le trasformazioni della politica e dello Stato moderno), questi approcci mantengono tali processi sullo sfondo, concentrandosi essenzialmente su ciò che avviene nei piccoli contesti di vita quotidiana. Questo atteggiamento si fonda, dal punto di vista filosofico, sia sul pragmatismo americano – per cui tra azione e pensiero non può esserci un rapporto di divisione e di separazione – sia sulla fenomenologia sociale di Alfred Schutz (1899-1959), che portò questa concezione filosofica negli Stati Uniti. Concentrandoci sulla proposta metodologica di Herbert Blumer (2009), uno dei più influenti esponenti dell’interazionismo simbolico, possiamo rias-
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sumere come segue i principi metodologici di questo approccio, delineati in buona parte in opposizione al neo-positivismo. 1. “Oggetto” della conoscenza sociologica sono le interazioni sociali reali, tramite le quali gli attori sociali costruiscono culturalmente e simbolicamente il proprio mondo sociale, agendo poi di conseguenza. 2. La realtà sociale va studiata nei suoi contesti naturali. Ciò significa che il ricercatore deve cercare di avvicinarsi e persino di entrare il più possibile negli ambiti sociali che sta studiando, provando a ridurre la distanza tra sé e i soggetti “studiati” e restituendo all’analisi e alla comunità scientifica, in una forma “più trasparente”, proprio questa “naturalità”. 3. I concetti devono essere utilizzati in funzione sensibilizzante, cioè come elementi che: “fungono da guida, in grado cioè di orientare il lavoro di analisi scientifica ma senza condizionarlo in termini di necessità di verifica o falsifica di precise ipotesi” (Cipriani, 2008, p. 9). L’approccio di Blumer alla ricerca sociale è dunque basato su presupposti induttivisti, un percorso che ha portato all’elaborazione e poi alla sempre più ampia diffusione dell’approccio della ground Ground theory. Strategia theory, ovverossia di quella strategia metodologica metodologica secondo la quale la teoria deve emergere direttamente secondo la quale la teoria deve emergere direttamendai dati, attraverso un lavoro di te dai dati, attraverso un lavoro di codificazione e codificazione e riaccorpamento riaccorpamento delle informazioni (Glass e Strauss, delle informazioni. 1967). Questo approccio presenta due versioni: una che possiamo definire “naturalista”, per cui il ricercatore sociale è un osservatore attento ed esterno che, attraverso un percorso di risistemazione di ciò che ha osservato e delle informazioni raccolte, costruisce una teoria che riproduce in maniera semplificata ma precisa ciò che avviene effettivamente nella realtà studiata; l’altra versione è quella “costruttivista”, per cui il ricercatore deve cercare di stabilire un percorso di ricerca collaborativo e condiviso con i soggetti studiati, essendo la stessa ricerca sociale il risultato di un processo interattivo, carico di soggettività, tra attori sociali diversi (Montesperelli, 2008). La Tabella 3.1 riassume i tre approcci alla ricerca sociale sin qui discussi.
3.4
La ricerca sociale in pratica
Le informazioni sono gli elementi del reale che noi raccogliamo, attraverso l’osservazione, per farci un’idea di un determinato fenomeno. Quando questa raccolta avviene Tecniche della ricerca sociale. L’insieme delle procedure su basi sistematiche e seguendo alcune procedure, pratiche e sistematiche attraverso le informazioni vengono riorganizzate nei dati emcui si raccolgono informazioni sui pirici. Questi dati sono quelli su cui ragioniamo fenomeni sotto osservazione e si per trarre le conclusioni del nostro studio. Le tecelaborano i dati che ne niche della ricerca sociale sono quell’insieme conseguono.
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Tabella 3.1 Tre approcci alla ricerca sociologica Positivismo
Neo-positivismo
Ermeneutica
Ontologia Realismo ingenuo Epistemologia Dualista e oggettivista; nomotetica
Metodologia
Realismo critico Costruttivismo e relativismo Dualismo Non-dualismo e e oggettività non-oggettività limitato limitato (criterio (criterio limite); limite); leggi leggi provvisorie provvisorie e probabilistiche e probabilistiche Sperimentale Sperimentale Interazione “empatica” e manipolativa e manipolativa tra studioso e soggetto (“quantofrenismo”) (“quantofrenismo”) studiato con una maggior importanza per il ruolo critico e di validazione della comunità scientifica
Fonte: Autori italiani.
di procedure pratiche e sistematiche attraverso le quali raccogliamo informazioni sui fenomeni sotto osservazione ed elaboriamo i dati che ne conseguono. Una volta collocati in un programma di ricerca specifico e scelta l’impostazione generale della ricerca (rapporto tra teoria e metodo), si tratta di disegnare il nostro studio in modo da raccogliere ed elaborare coerentemente i dati. Indipendentemente dall’approccio adottato, vi sono due grandi tipi di indagini: quelle esplorativo-descrittive, volte ad aumentare le nostre conoscenze su un dato fenomeno e quelle esplicative, che mirano a fornire una spiegazione del perché un dato accadimento si “verifichi” in un certo modo. Inoltre, per l’ottenimento dei dati da elaborare, la ricerca sociale può avvalersi di fonti informative primarie e secondarie. Le prime sono direttamente costruite dal ricercatore, che le progetta appositamente per i propri particolari scopi (come quando si redige un questionario). Questa prima categoria di ricerche è definita on field, cioè sul campo, con riferimento all’atto del raccogliere i dati in maniera diretta. Le fonti informative secondarie, invece, vengono costruite da altri e non sono elaborate per gli scopi specifici della ricerca (come accade quando si utilizzano le statistiche fornite dai governi o i risultati degli studi condotti da altri ecc.). In questo caso si parla di ricerche on desk, poiché il ricercatore effettua lo studio con un lavoro “da scrivania”, risistematizzando le informazioni raccolte da altri per ottenere il dato di cui abbisogna (Biolcati-Rinaldi e Vezzoni, 2012). Ritorniamo ora al processo della ricerca sociale da cui siamo partiti all’inizio del capitolo. Abbiamo detto che le fasi della ricerca sono: 1. scelta del problema di ricerca; 2. elaborazione del disegno della ricerca;
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3. raccolta dei dati; 4. codifica e analisi dei dati; 5. interpretazione dei risultati. La scelta di un determinato programma di ricerca e di un sotto-programma al suo interno consente al ricercatore di impostare la metodologia d’indagine e, dunque, di articolare nello specifico ciascuna di queste fasi e il rapporto tra di esse, così come tra l’ambito teorico sostanziale da cui si parte (funzionalismo, teoria del conflitto, interazionismo simbolico ecc.) e i risultati empirici. Tuttavia, ciascuna di queste fasi richiede anche l’adozione di soluzioni tecnico-pratiche specifiche: dato un approccio metodologico, come raccolgo i miei dati nel concreto? Come li analizzo in pratica? Che passaggi reali mi consentono di riportarli alla teoria sociale in cui mi muovo? Così come i programmi di ricerca risolvono questioni di fondo di tipo ontologico, epistemologico e metodologico, la scelta delle tecniche di ricerca serve a risolvere le questioni pratiche dell’indagine. Le due famiglie di tecniche della ricerca sociale sono quella quantitativa e quella qualitativa. In alcune indagini, e oggi sempre più spesso, si giunge anche a un uso congiunto delle due (mixed method). Tecniche di ricerca quantitative. Tecniche basate su In breve, le tecniche quantitative si basano una matematizzazione delle su una matematizzazione delle informazioni e forniinformazioni, che forniscono dati scono dati espressi in un linguaggio statistico. Esse espressi in un linguaggio statistico. trattano l’attore sociale in modo “anatomico” cioè riconducendolo ad alcuni elementi analitici che vengono sottoposti al processo di ricerca: il suo “essere sociale” viene scomposto, concettualizzato, matematizzato e poi ricomposto teoricamente. Le tecniche quantitative seguono l’ideale dell’esperimento: produrre il dato scientifico in modo “artificiale”, in una situazione e in un ambito costruito ad hoc da un ricercatore che rimane lontano e distaccato dalla situazione studiata. Esse puntano alla generalizzazione e alla controllabilità dei passaggi utilizzati, ispirandosi a una logica geometrica. Le tecniche qualitative, al contrario, si basano Tecniche di ricerca sull’utilizzo del linguaggio naturale e del linguaggio qualitative. Tecniche basate oggettivo per analizzare e descrivere il mondo sosull’utilizzo del linguaggio naturale e del linguaggio oggettivo per ciale, rinunciando all’uso della matematica. In questo analizzare e descrivere il mondo caso, l’attore sociale è colto nella sua soggettività, sociale, rinunciando all’uso della mentre l’analisi si orienta ad analizzare come questa matematica. entri direttamente sia nel processo di ricerca sia nella costruzione dei fenomeni sociali. Inoltre, le tecniche qualitative puntano a effettuare lo studio aderendo il più possibile alla situazione “naturale” in cui si svolge il fenomeno analizzato, spesso prevedendo una minor distanza tra ricercatore e soggetti studiati. Le tecniche di ricerca qualitative non forniscono dati generalizzabili, ma mirano alla significatività e alla profondità di ciò che viene restituito mediante l’indagine stessa: il loro ideale è quello dell’etnologo.
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Approfondimento L’ISTAT e le indagini multiscopo Uno dei principali problemi della ricerca su fonti secondarie riguarda il reperimento e l’utilizzo corretto di basi-dati diverse, costruite da altri. Queste fonti, per semplicità, possono essere divise in istituzionali (quando derivano da enti statali) e non-istituzionali (quando arrivano da altri soggetti). In Italia, tra i principali enti che forniscono dati – sia pre-elaborati sia in forma di micro-dati, cioè semplicemente raccolti perché un ricercatore possa utilizzarli direttamente per i suoi particolari scopi – troviamo l’ISTAT, l’Istituto Italiano di Statistica. Al suo sito web possiamo trovare molti micro-dati e rapporti interessanti (tutti scaricabili gratuitamente) sulla maggior parte degli aspetti relativi alla realtà sociale italiana. Tra le più importanti indagini sociali effettuate dall’ISTAT troviamo le indagini multiscopo. Come leggiamo sul sito: “Dopo le prime esperienze degli anni Ottanta, l’ISTAT ha avviato nel 1993 un vero e proprio Sistema di indagini multiscopo, progettato per la produzione di informazioni sugli individui e sulle famiglie che, integrabili con quelle desumibili da fonte amministrativa e dalle imprese, contribuiscono a determinare la base informativa del quadro sociale del Paese. Il sistema si articola su sette indagini che coprono i più importanti temi di rilevanza sociale: un’indagine a cadenza annuale sugli aspetti della vita quotidiana, una trimestrale sul turismo e cinque indagini tematiche (“Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”, “I cittadini e il tempo libero”, “Sicurezza dei cittadini”, “Famiglie e soggetti sociali”, “Uso del tempo”), che vengono effettuate a rotazione in un arco di tempo di cinque anni. A queste vanno aggiunte altre indagini di approfondimento che non hanno una pianificazione programmata ma che vengono realizzate nell’ambito delle suddette aree tematiche”.
Generalmente, chi si muove in un programma di ricerca neo-positivista tende a utilizzare maggiormente tecniche di ricerca quantitative (che sembrano avvicinarsi di più all’ideale della scienza moderna), anche se numerosi sono i casi di utilizzo di tecniche qualitative. Chi adotta programmi di ricerca che rientrano in una delle tradizioni dell’ermeneutica, invece, utilizza quasi prevalentemente – se non esclusivamente – le tecniche d’indagine qualitative. Un altro fattore che porta alla scelta dell’una o dell’altra tecnica dipende anche dalla “natura” peculiare dell’oggetto di analisi. Per esempio, vi sono dimensioni della realtà sociale che difficilmente possono essere comprese mediante le procedure standardizzate dell’approccio quantitativo e pertanto è necessario utilizzare un processo d’indagine più aperto e interattivo, che possa riconoscere un ruolo di primo piano all’esperienza diretta del ricercatore con l’ambiente sociale oggetto della ricerca, così si ricorre alle tecniche qualitative.
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3.4.1
Tecniche di ricerca quantitative
Il disegno in cui si articola, canonicamente, una ricerca quantitativa, prevede: 1. la ricognizione preliminare della letteratura disponibile sul problema trattato, nonché la sua discussione critica; 2. la scelta di una teoria di riferimento su cui basare le ipotesi e i concetti utilizzati nella ricerca, anche alla luce della fase precedente; 3. l’operazionalizzazione, cioè il processo tramite il quale si scelgono dimensioni, indicatori, indici e variabili; 4. la scelta dello strumento di rilevazione e la sua costruzione; 5. la scelta della popolazione da studiare e la selezione del campione; 6. la rilevazione tramite interviste strutturate; 7. l’analisi statistica dei dati; 8. l’interpretazione dei risultati e il ritorno alla teoria e alle ipotesi da cui si è partiti. Come si vede, nell’ideale delle tecniche d’indagine quantitative, ogni fase deve essere logicamente collegata alle altre e l’intero processo di ricerca assume circolarità. Sono due le scommesse principali su cui si basa la ricerca quantitativa: ▮ la validità e l’attendibilità di ciò che si rileva e misura; ▮ la rappresentatività del campione che si è selezionato. Solo se entrambi i problemi vengono risolti in modo soddisfacente la ricerca può produrre risultati generalizzabili, cioè raggiungere la sua mission. Dall’operazionalizzazione alla rilevazione: validità e attendibilità Nella ricerca quantitativa, lo strumento di rilevazione Questionario a risposte canonicamente utilizzato è il questionario a rispochiuse. Un formulario contenente ste chiuse, cioè un formulario contenente domande domande pre-confezionate dal pre-confezionate dal team di ricerca che prevedono team di ricerca che prevedono alternative di risposta date (o item). alternative di risposta date (o item). Il questionario viene proposto nel corso di un’intervista che può essere vis-a-vis, ovvero in compresenza di intervistato e intervistatore (magari con l’ausilio del computer e allora si parlerà di metodo CAPI, Computer Aided – or assisted – Personal Interview) oppure per telefono (il cosiddetto metodo CATI, Computer Aided – or assisted – Telephone Interview) o tramite internet. Nei primi due casi il questionario è compilato da un intervistatore, nel terzo è auto-compilato dall’intervistato. Una buona ricerca quantitativa è quella in cui il Operazionalizzazione. questionario utilizzato riesce a collegare in modo efProcesso della ricerca quantitativa ficace le ipotesi teoriche del ricercatore ai fenomeni tramite il quale i concetti teorici reali che vengono rilevati attraverso di esso. Tale funsono trasformati in indicatori, indici e variabili. zione è assolta dall’operazionalizzazione, la fase a
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monte della formulazione vera e propria delle domande: seguendo Lazarsfeld, si può dire che, le ipotesi formulate contengono generalmente concetti complessi, cioè non immediatamente né univocamente misurabili. Facciamo l’esempio del concetto di “livello culturale del soggetto”. Questo concetto presenta dimensioni diverse, come il grado d’istruzione formale e i consumi culturali, che non è possibile rilevare direttamente ma solo indirettamente, facendo cioè riferimento a “eventi” che ne indichino la presenza determinandone anche il grado. Gli indicatori (o proxy) svolgono proprio questa funzione: il grado d’istruzione formale può essere determinato in base al più avanzato titolo di studio conseguito, fermo restando che si tratta comunque di una misura indiretta dell’istruzione formale, dato che l’aver conseguito il medesimo titolo di studio non comporta il possesso di uno stesso livello di conoscenze. Una volta stabiliti, gli indicatori composti tra di loro formano gli indici, cioè l’insieme delle sotto-misure collegate al macro-concetto da analizzare empiricamente: nel nostro esempio, il livello culturale dell’intervistato. Infine, le variabili sono lo spazio entro cui un indice può variare: per esempio, il titolo d’istruzione può essere articolato in “illiterato”, “licenza elementare”, “licenza media”, “diploma”, “laurea”. Ogni variabile presente nel questionario, a seconda delle sue caratteristiche formali e dello spazio di variazione connesso, può essere ricondotta a una delle seguenti quattro categorie di misurazione, ciascuna delle quali presenta anche le proprietà di quella che la precede. ▮ Nominale. Quando le sue modalità sono qualitative, mutuamente escludenti ed è possibile solo conteggiarle. Per esempio, è nominale la variabile (o, come dicono gli statistici, la mutabile) “genere dell’intervistato” se prevede “uomo” e “donna” come modalità di risposta. ▮ Ordinale. Quando le sue modalità sono qualitative, mutuamente escludenti, ed è possibile sia conteggiarle sia ordinarle secondo una data graduatoria. Per esempio, la variabile “titolo di studio” rientra in questa categoria poiché, oltre ad avere le caratteristiche delle variabili nominali, possiamo anche ordinare le sue categorie (e le persone che rispondono) in base a una graduatoria che va dal titolo di studio più alto a quello più basso e viceversa. ▮ A intervalli. Quando le sue modalità sono quantitative, mutuamente escludenti, ed è possibile sia conteggiarle sia ordinarle e, in più, possiamo svolgere le operazioni della sottrazione e dell’addizione. Ciò è reso possibile dall’adozione di un’unità di misura e di un punto di origine, o punto zero. In altre parole, con le variabili misurate al livello d’intervalli, non solo possiamo ordinare risposte e rispondenti in una graduatoria ma anche dire di quanto distano l’una dall’altra: questo accade, per esempio, nel caso della temperatura esterna misurata con la scala centigrada. ▮ Di rapporti. Oltre a tutte le proprietà delle variabili misurate a intervalli, con quelle misurate al livello di rapporti possiamo anche compiere la moltiplicazione e la divisione, che richiedono la presenza di un punto zero, assoluto, fisso e non arbitrario. Il peso è un simile tipo di variabile.
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Sapere a che livello di misurazione è collocata la nostra variabile consente di sapere quali operazioni matematiche e statistiche possiamo legittimamente compiere su di esse. A questo punto risulterà chiaro perché la validità e l’attendibilità delle misurazioni costituiscono il punto più delicato della strategia quantitativa. Uno strumento, una variabile, che cosa misura realmente? I dati che vengono così forniti sono rilevanti per le caratteristiche a cui si è interessati? Sino a che punto le differenze numeriche rappresentano differenze reali delle caratteristiche del fenomeno studiato? Così la Validità di uno validità di uno strumento di misurazione può strumento di misurazione. Il essere definita come: “il grado in cui le differenze grado in cui le differenze di di punteggio riflettono autentiche differenze tra gli punteggio riflettono autentiche differenze tra gli individui individui relativamente alle caratteristiche che cerrelativamente alle caratteristiche chiamo di misurare, non errori costanti o casuali” che cerchiamo di misurare, non (Selltiz, 1976, p. 168). Il problema della validità errori costanti o casuali. comporta due sotto-problemi: che lo strumento di misurazione stia effettivamente misurando il concetto in questione e non qualcos’altro; e che il concetto venga misurato accuratamente. Esistono tre procedure per effettuare la convalida di uno strumento (Bailey, 1995). ▮ Validità apparente. È lo studioso che studia un dato fenomeno e applica determinati concetti a decidere se lo strumento utilizzato è effettivamente valido. ▮ Validità mediante criterio. I dati provenienti da un nuovo strumento di misurazione vengono confrontati con quelli provenienti da uno precedente, ritenuto valido, che misuri il medesimo concetto. ▮ Validità per costruzione. Rispetto a una data teoria costruiamo due indici. Se il risultato del secondo porta agli stessi risultati raccolti con il primo, allora si dice che quest’ultimo strumento è valido per costruzione. L’attendibilità fa riferimento a un problema diverso, vale a dire al collegamento effettivo tra variazione della misurazione e variazione del fenomeno. Per esempio, una bilancia è attendibile se le variazioni del peso che registra non sono dovute a malfunzionamento ma a una variazione reale del peso dell’individuo. Nella ricerca sociale, l’attendibilità è molto difficile da stabilire: in pratica, ben pochi sono gli accorgimenti che il ricercatore può mettere in campo per stabilirla a priori e, inoltre, la realtà sociale è in continuo divenire. Così, è difficile sapere se la variazione registrata dipende da un errore di misurazione oppure da un cambiamento reale. Ripetere la ricerca nel tempo e compiere più ricerche sullo stesso fenomeno può comunque ridurre questo problema.
Attendibilità della misurazione. La proprietà per cui vi è un collegamento effettivo tra variazione della misurazione e variazione del fenomeno osservato.
Cenni sul campionamento Generalmente, chi sceglie un disegno della ricerca di tipo quantitativo punta a studiare fenomeni estensivi, che riguardano cioè l’intero collettivo che sta analizzando: questo orientamento
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alla generalizzabilità dei risultati è, per esempio, evidente nei sondaggi politici, un tipo di ricerca quantitativa oramai divenuta familiare. Tanto i politici committenti quanto i ricercatori che li realizzano puntano a cogliere le opinioni politiche, le intenzioni di voto o il gradimento che un leader ha presso un’intera popolazione. Per raggiungere questo risultato, tuttavia, i ricercatori non intervistano tutti gli italiani (cosa che sarebbe troppo lunga, costosa e complessa) ma solo una parte, selezionata secondo alcune procedure. Pertanto, il disegno della ricerca di tipo quanPopolazione (o universo). titativo pone immediatamente due problemi: deterIl collettivo che, in un’indagine minare il collettivo che si vuole studiare (detto poquantitativa, si intende studiare e polazione o universo) e a cui si riferiranno le cona cui si riferiranno le conclusioni dello studio stesso. clusioni dello studio, e selezionare un insieme di soggetti che sia rappresentativo di questa stessa poCampione. Insieme di polazione, ossia che in esso si verifichino gli stessi soggetti appartenenti alla fenomeni che hanno luogo nel collettivo di cui sono popolazione oggetto di studio parte. Quest’ultimo insieme è detto campione. Si rappresentativo della popolazione stessa. definisce, invece, unità d’analisi l’“oggetto” vero e proprio dello studio, quello che compone la poUnità d’analisi. polazione: nella maggior parte dei casi si tratta del L’individuo, il gruppo o il collettivo singolo individuo ma se le relative popolazioni di che appartiene alla popolazione riferimento sono, appunto, il mondo delle imprese oggetto di studio. italiane o quello del sistema politico-partitico. Unità di rilevazione. L’unità di rilevazione è invece il tipo di individuo L’individuo su cui vengono rispetto al quale vengono raccolte le informazioni: effettuate le rilevazioni. per esempio, se stiamo effettuando un’indagine sullo stile di vita degli italiani, unità di rilevazione e unità d’analisi coincidono. Al contrario, se stiamo effettuando un’indagine sul funzionamento dei partiti, chiaramente intervisteremo delle persone concrete, per esempio i segretari delle sezioni, che costituiscono, per le loro caratteristiche, l’unità di rilevazione; essi, tuttavia, non coincidono con l’unità d’analisi, che si riferisce al partito politico. Le procedure attraverso le quali si costruisce un campione da utilizzare in una ricerca non possono essere prese approfonditamente in considerazione in questa sede introduttiva. Per i nostri scopi, basti sapere che il modello di campionamento ritenuto più efficiente è quello che segue le regole prescritte dalla teoria probabilistica dei campioni e dall’inferenza statistica. Entro certi limiti, esse consentono non solo di risolvere i problemi relativi alla costruzione di un campione davvero efficiente, ma permettono anche di mettere in atto delle procedure volte a ipotizzare, con sufficiente attendibilità, quanto la misura rilevata nel campione possa corrispondere a quella effettivamente presente nella popolazione – elementi fondamentali per fare generalizzazioni valide. I campioni costruiti in base alle regole della Campioni probabilistici. teoria statistica sono detti campioni probabilistiCampioni composti da soggetti ci, poiché gli individui della popolazione hanno una della popolazione la cui probabilità di estrazione è nota. probabilità nota e uguale di essere estratti per entrare
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a far parte del campione. I campioni non probabilistici sono invece quelli la cui probabilità di estrazione dei membri della popolazione non è nota. Nel primo caso, dunque, i risultati dell’indagine possono essere generalizzati al collettivo di riferimento attraverso determinate procedure statistiche, nel secondo la cosa è più problematica. L’uso dei campioni non probabilistici, tuttavia, è piuttosto frequente nella ricerca sociale – in particolare per ragioni di effettiva fattibilità dello studio – ed essi sono particolarmente utili, se adeguatamente e consapevolmente utilizzati, per cogliere i trend che possono caratterizzare il collettivo studiato.
Campioni non probabilistici. Campioni composti da soggetti della popolazione la cui probabilità di estrazione non è nota.
3.4.2
Tecniche di ricerca qualitative
A differenza delle tecniche di ricerca quantitative, i disegni della ricerca basati su una logica qualitativa sono molti diversificati e mancano di una codifica in un “canone” prevalente. In generale, si può dire che il ricercatore qualitativo seleziona le dimensioni che vuole indagare prima di effettuare lo studio; successivamente scende sul campo per raccogliere i dati in base alla tecnica prescelta e poi utilizza la teoria, come fosse una “cassetta degli attrezzi”, per decodificare a posteriori i suoi dati. Nel disegno della ricerca di tipo qualitativo sono quindi fondamentali le tecniche concrete con cui vengono raccolti i dati, poiché la loro scelta comporta una serie di conseguenze a catena anche sulla successiva fase di analisi. Di fronte alla vastità delle tecniche di raccolta dei dati di tipo qualitativo, concentreremo la nostra attenzione su tre di quelle principali: l’osservazione partecipante, l’intervista qualitativa e il focus group. L’osservazione partecipante L’osservazione partecipante è una tecnica di rilevazione dei dati che si basa sul coinvolgimento diretto dell’osservatore. “Il ricercatore osserva la vita e parteOsservazione cipa della vita dei soggetti studiati” (Corbetta, 2003, partecipante. Tecnica d’indagine qualitativa tramite la quale il p. 14) immergendosi, per un periodo di tempo rericercatore acquisisce i propri dati lativamente lungo, in un contesto diverso dal proosservando la situazione, prio, entrando in rapporto diretto con il gruppo ogdivenendo parte integrante di essa getto della sua ricerca, condividendone gli atteggiae del gruppo. menti, le convinzioni e i comportamenti, e riuscendo in questo modo a registrarne le complesse dinamiche “dal di dentro”. Per le sue specificità, l’osservazione partecipante è particolarmente utilizzata nelle ricerche sui gruppi marginali e devianti, nonché per studiare particolari tipologie di subculture. Una delle ricerche più note basate sull’osservazione partecipante fu quella di Nels Anderson, allievo atipico della Scuola di Chicago (Rauty, 1997), che studiò la vita dei vagabondi che popolavano la Chicago degli anni Venti. Tale ricerca culminò con la pubblicazione di un testo, ormai considerato un classico della sociologia americana, dal titolo The Hobo (Anderson, 1923). Il volume di Anderson ebbe
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per oggetto quell’insieme di lavoratori senza fissa dimora che nei primi anni del XX secolo erano costretti a spostarsi da una città all’altra alla continua ricerca di nuove occasioni di lavoro, i cosiddetti “hobo”. In questo studio, egli riuscì a unire alla propria esperienza personale (anch’egli insieme a suo padre era stato un “hobo”) un classico approccio di osservazione partecipante. Anderson infatti, al fine di studiare la vita degli hobo, decise di trasferirsi in quelle zone più povere della città di Chicago laddove si concentrava il maggior numero di lavoratori senza fissa dimora; qui visse come vagabondo tra i vagabondi, frequentando i dormitori e gli ospizi di diverse zone della città, riuscendo così a descrivere dall’interno il loro stile di vita. Come tutte le tecniche di ricerca, oltre a evidenti vantaggi soprattutto nello studio di fenomeni poco conosciuti, anche l’osservazione partecipante presenta ostacoli e limitazioni che possono essere così sintetizzati (Mongardini, 1992, p. 729): 1. difficoltà da parte del ricercatore a entrare nel gruppo oggetto di ricerca ed essere accettato come parte di esso; 2. difficoltà per il ricercatore nel mantenere contemporaneamente il “doppio” ruolo di osservatore esterno e membro del gruppo a tutti gli effetti; 3. impossibilità di annotare nell’immediato quanto è stato osservato, il che comporta che il processo di registrazione avvenga solo in un secondo momento attraverso il ricordo, causando inevitabili forme di distorsione. L’intervista qualitativa L’intervista è una situazione “speciale” di interazione tra due persone, intervistato e intervistatore, attraverso la quale è possibile acquisire dati circa l’oggetto di un determinato studio. L’intervista qualitativa può essere definita come una conversazione prodotta e guidata dall’intervistatore, attraverso la quale egli costruisce una particolare “dinamica comunicativa” volta a ottenere determinate informazioni da soggetti “scelti sulla base di un piano di rilevazione e in numero consistente” (Corbetta, 2003, p. 70); questi ultimi, sottoposti a determinati stimoli (domande) forniscono, in maniera più o meno strutturata, le informazioni da cui il ricercatore trarrà i dati necessari per la sua ipotesi di ricerca. L’intervista qualitativa si caratterizza per la capacità di essere uno strumento aperto, flessibile e adattabile ai diversi contesti empirici. Proprio in relazione al diverso grado di flessibilità è possibile distinguere tre tipi di interviste: interviste strutturate, semi-strutturate e non strutturate. 1. Intervista aperta strutturata. È un tipo di intervista che viene condotta dall’intervistatore sulla base di un preciso ordine di argomenti e di impostazione delle domande, le quali sono poste a tutti gli intervistati allo stesso modo e nella stessa identica successione. Si tratta dunque di un’intervista altamente standardizzata, poiché se l’intervistatore non può modificare la disposizione e la formulazione delle domande precedentemente preparate, agli intervistati è invece concessa la massima libertà nell’esprimere le loro risposte. Secondo Corbetta, in virtù delle sue caratteristiche l’intervista aperta strutturata rappresenta “il più genuino – e probabilmente
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unico – caso di tecnica che in effetti cerca di mediare fra i due approcci” (p. 78), ovvero quello quantitativo e quello qualitativo, spesso con scarso successo. Si tratta, quindi, di una tecnica piuttosto ibrida, che cerca di assicurare la standardizzazione delle informazioni raccolte e nello stesso tempo “quell’apertura verso l’ignoto e l’imprevisto che appartiene al contesto della scoperta” (p. 79). 2. Intervista aperta semi-strutturata. Nell’intervista aperta semi-strutturata l’intervistatore possiede una maggiore autonomia. Egli ha a disposizione una traccia in cui sono riportati gli argomenti che dovrà affrontare nel corso dell’intervista, ma non è vincolato a un ordine specifico di domande e temi, godendo della massima libertà nel modo di organizzare la situazione sociale dell’intervista. In altri termini “egli è libero di impostare a suo piacimento la conversazione all’interno di un argomento, di porre le domande che crede e con le parole che reputa migliori, spiegarne il significato, chiedere chiarimenti quando non capisce, approfondimenti quando gli pare che ciò sia necessario, stabilire un suo personale stile di conversazione” (Corbetta, 2003, p. 82). Rispetto a quella strutturata, l’intervista aperta semi-strutturata offre una maggiore libertà sia all’intervistato sia all’intervistatore. 3. Intervista non strutturata. A differenza dei primi due tipi di intervista, in quella non strutturata (conosciuta anche come intervista libera o in profondità) persino il contenuto delle domande non è predefinito, nel senso che l’intervistatore conduce un’intervista in forma libera, elaborando le domande nel corso della conversazione. La funzione principale dell’intervistatore è quella di sollecitare una risposta ai temi che decide di trattare e di evitare possibili divagazioni da parte dell’intervistato. Di fondamentale importanza per il successo di questo tipo di intervista è la natura dell’interazione che si viene a creare tra l’intervistato e l’intervistatore. Il focus group L’intervista di gruppo (o focus group) fu introdotta in maniera organica nelle scienze sociali da Robert K. Merton, soprattutto con lo scopo di studiare le conseguenze della propaganda Focus group. Intervista e gli effetti dei mezzi di comunicazione di massa. Si qualitativa di gruppo che si basa tratta di una tecnica di ricerca che ha visto crescere su uno schema di discussione e la sua popolarità nei primi anni Ottanta per raggiunsulla presenza di un moderatore. gere la piena maturità nel decennio successivo, quando ha riscontrato molto successo nelle ricerche di mercato volte a esplorare le tendenze e i gusti dei consumatori su determinati prodotti già collocati in commercio o da lanciare sul mercato (Bailey, 1995, p. 232). Mentre l’intervista tradizionale coinvolge due soli attori, l’intervistato e l’intervistatore, il focus group implica la partecipazione di un gruppo intero di intervistati che si esprimono su un determinato argomento. Ovviamente i membri del gruppo “devono essere stati coinvolti in una situazione particolare: hanno visto un film, ascoltato un programma radiofonico, letto un volantino, un articolo o un libro, preso parte a un esperimento psicologico oppure a una situazione sociale che è stata osservata dal ricercatore, anche se non l’ha prodotta sperimentalmente” (Merton, Fiske e Kendall, 1956, pp.
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3-4). Partendo da questa esperienza comune, i membri del gruppo vengono intervistati dal ricercatore, che conosce il tema in questione e il cui compito principale è quello di organizzare delle vere e proprie “discussioni di gruppo guidate”. “Il gruppo mirato – scrivono Ward e colleghi – è condotto da un moderatore esperto, da cui ci si aspetta che introduca una serie di temi sulla base di una traccia prestabilita di discussione. Comunque, il carattere della discussione è informale e i partecipanti sono incoraggiati a esprimere liberamente le proprie opinioni e sensazioni sia sull’argomento principale sia su altri” (Ward et al., 1991, p. 267). Generalmente, un focus group coinvolge una decina di persone, un numero considerato congruo a rappresentare le diverse posizioni e a permettere l’interazione tra tutti i partecipanti (Corbetta, 2003, p. 92).
3.4.3
Mixed Methods
Mentre in passato la contrapposizione tra i sostenitori delle tecniche di ricerca quantitative e qualitative è stata a tratti radicale, poiché i primi accusavano i secondi di scarsa scientificità e quest’ultimi rimproveravano ai sociologi quantitativi di essere superficiali e astratti, da oltre un ventennio il clima è diventato più disteso. In particolare, anche attraverso il recupero delle pratiche di ricerca dei classici della disciplina, degli studi di comunità e di alcune felici intuizioni di scuole metodologiche importanti come la Columbia School di Merton e Lazarsfeld (Mauceri, 2013; 2016), si è affermato un movimento che, incontrando un successo Mixed Method. Disegni crescente, promuove l’adozione di disegni di ricerca della ricerca basati sull’uso di “misti” (mixed method), basati cioè sull’uso di dati tecniche di ricerca sia quantitative quantitativi e qualitativi all’interno della medesima sia qualitative. indagine. Secondo studiosi come Heyvaert, Maes e Onghena (2013), le tecniche di ricerca quantitative e qualitative sono di per sé incomplete poiché quello che si guadagna in generalità lo si perde in profondità e viceversa. In più, tecniche diverse consentono di studiare aspetti diversi di un medesimo fenomeno. Per esempio, se volessimo studiare il lavoro domestico (colf e badanti) in Italia, oggi svolto in gran parte da donne e uomini immigrati, potremmo chiederci quali sono le loro condizioni reali di lavoro: se siamo interessati ad avere un quadro complessivo della situazione nel nostro Paese e a cercare di ricostruire i fattori che condizionano un certo percorso lavorativo, allora dovremmo optare per un approccio quantitativo – per esempio, una survey su un campione rappresentativo. Se invece volessimo conoscere ciò che accade nella quotidianità della situazione lavorativa, sarebbe preferibile un approccio qualitativo. Per altro, la scelta per l’una o per l’altra strategia non è definitivo e incontrovertibile: l’ISTAT realizza da anni indagini sulla “vita quotidiana” (si veda il box di approfondimento sulle indagini multiscopo) utilizzando un disegno della ricerca quantitativo. In ogni caso, entrambi gli approcci restituiscono una visione molto parziale del fenomeno
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studiato che poco si adegua all’elaborazione di modelli complessi di analisi e spiegazione che chiamano in causa diversi livelli analitici (micro, meso e macro). Al contrario, se utilizzate pragmaticamente insieme, come è accaduto nel caso di indagini ormai classiche come Middletown. A Study in Modern American Culture (1929) – un vasto studio sulle strutture sociali di una “città media” americana in un periodo di profondi mutamenti, realizzata da Helen e Robert Lynd – o I disoccupati di Marienthal (1933) – una delle prime ricerche sulle conseguenze sociali della disoccupazione e della grande crisi in Europa, portata avanti in Austria da Jahoda, Lazarsfeld e Zeisel – le tecniche quantitative e qualitative, nella loro intrinseca complementarietà, consentono di rispondere a domande di ricerca complesse. In una società globale investita da profondi cambiamenti e caratterizzata da crescente dinamismo questo elemento può diventare decisivo poiché consente di tener conto sia della concreta soggettività delle persone sia degli aspetti più generali dei vari fenomeni sociali. Inoltre, un approccio mixed appare adeguato all’utilizzo di modelli analitici ed esplicativi che tengono conto della multidimensionalità dei fenomeni sociali: sempre tornando all’esempio del lavoro domestico, un approccio mixed consentirebbe di comprendere meglio come determinati percorsi di vita (livello micro) si legano con fattori meso-sociali – come le reti amicali o le catene migratorie o l’azione delle organizzazioni sindacali – e macro-sociali – le dinamiche del mercato del lavoro. All’interno di questo approccio metodologico complessivo, possiamo in concreto distinguere tre diversi disegni integrati della ricerca. 1. Quanti-qualitativo dove il disegno della ricerca è prevalentemente quantitativo e i dati qualitativi sono utilizzati in via ausiliare. 2. Quali-quantitativo dove il disegno della ricerca è qualitativo e i dati statistici di contesto o ricavati da questionario strutturato sono utilizzati in via subordinata. 3. Bilanciato o fully mixed nel quale il disegno della ricerca viene concepito in modo tale da utilizzare le tecniche di ricerca quantitative e qualitative per studiare aspetti diversi dello stesso fenomeno, in modo che i dati così ricavati consentano di rintracciare meglio il legame tra diversi piani del sociale. In tutti e tre i disegni della ricerca due dimensioni sono prioritarie: la funzione dell’integrazione tra le diverse tecniche e l’ordine cronologico di utilizzo. Rispetto alla prima possiamo distinguere una funzione strumentale e una costitutiva: nelle Ordine cronologico. strategie dove domina una delle due tecniche, di soL’ordine temporale nel quale, in un’indagine mixed method, sono lito l’altra tipologia è utilizzata per ampliare la base utilizzate le tecniche di ricerca dati oppure controllare/validare la qualità dei dati. quantitative e qualitative. Per esempio, per comprendere meglio la condizione generale dei lavoratori domestici in Italia rilevata tramite survey, potrebbe essere utile usare anche dati storici – cioè qualitativi – per contestualizzare Funzione di integrazione. Il modo in cui vengono integrate in uno stesso disegno della ricerca tecniche quantitative e qualitative.
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meglio il campo d’indagine. Invece, negli approcci fully mixed le varie tecniche sono utilizzate con la stessa funzione costitutiva di formazione della base dati e, quindi, di costruzione/controllo di un certo modello teorico. Se vogliamo studiare il ruolo delle reti amicali per il collocamento dei lavoratori domestici, potremmo parallelamente raccogliere delle storie di vita e somministrare un questionario che punta a ricostruire sulla base di tecniche quantitative di network analysis, il numero dei legami, la forma delle reti sociali e così via. Relativamente alla seconda dimensione, quella cronologica, le tecniche qualitative e quantitative possono essere utilizzate in modo parallelo – specie se si indagano aspetti diversi ma interconnessi di uno stesso fenomeno, per esempio i rapporti di lavoro tra colf e datori nella quotidianità (tecniche qualitative) e caratteristiche strutturali del mercato del lavoro dove si svolgono i rapporti (tecniche quantitative); oppure in sequenza – se si punta a utilizzarle in successione per approfondire aspetti emersi o emergenti di un certo fenomeno, per esempio se si intende approfondire le esperienze biografiche di una determinata categoria di lavoratrici domestiche, selezionate in base ai risultati emersi da una precedente survey.
3.5
Coordinate spazio-temporali della ricerca sociale
Ogni disegno di ricerca implica, il problema di decidere l’ambito spaziale e temporale in cui svolgere l’indagine.
3.5.1
Ambito spaziale
Le ricerche sociali possono svolgersi in un ambito territoriale ben definito (e allora i risultati si riferiranno ai gruppi o alle collettività che si trovano in esso) oppure possono mettere a confronto individui, gruppi e collettivi appartenenti a più ambiti territoriali. In quest’ultimo caAnalisi comparativa. so ci troviamo di fronte all’analisi comparativa, che Analisi che si basa sul confronto tra due o più collettivi spazialmente diventa tanto più importante in un’epoca di globalizdiversificati, in particolare tra più zazione come la nostra, dove i fenomeni sociali hanno società nazionali. una dimensione che va oltre il semplice ambito nazionale e locale. Questo tipo di analisi può essere utilizzata per due scopi: come mezzo per controllare un’ipotesi oppure come strategia per spiegare le cause di un fenomeno di più vasta portata. Un’indagine comparativa, generalmente, si articola nelle seguenti fasi: 1. formulazione del quesito della ricerca; 2. scelta dell’approccio generale (cioè se si sceglie una strategia di rilevazione qualitativa o quantitativa); 3. individuazione dei casi comparabili (tramite classificazione adeguata dei collettivi da raffrontare) e delle dimensioni di analisi; 4. controllo delle ipotesi o individuazione dei fattori esplicativi.
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3.5.2
Ambito temporale
Indagini sincroniche (o trasversali). Indagini che si svolgono in un lasso di tempo definito e attraverso un’unica rilevazione.
Le ricerche che si svolgono in un lasso di tempo definito e attraverso un’unica rilevazione, come se “congelassero” la situazione studiata e poi l’analizzassero, sono definite sincroniche o trasversali;
Approfondimento Due modi di fare ricerca sull’influenza della pubblicità politica Noi tutti siamo esposti all’invadenza della pubblicità politica nei luoghi pubblici e sui mass media durante le campagne elettorali. Di fronte a un tale dispiegamento di mezzi, in molti si chiedono quale possa essere effettivamente la capacità di influenza che queste campagne hanno sulle scelte dell’elettore. Se dovessimo realizzare una ricerca sociale su questo tema, come abbiamo visto, dovremmo necessariamente scegliere un programma di ricerca specifico e un disegno particolare, al variare dei quali variano sia i nostri interrogativi sia i modi in cui studiamo il fenomeno. Cerchiamo di mettere a confronto l’approccio neo-positivistico con disegno della ricerca quantitativo con quello ermeneutico con disegno qualitativo. Neo-positivismo/disegno quantitativo. Se si sta utilizzando questo approccio, ci si potrebbe porre come obiettivo quello di studiare le cause e gli effetti della propaganda politica, in modo da giungere alla formulazione di un modello esprimibile in termini statistici. A partire da un tale obiettivo, potremmo chiederci, a livello pre-operativo: “Chi utilizza più pubblicità politica risulta poi più votato?”. Per rispondere a questa domanda, potremmo raccogliere dati da un campione composto da più elezioni, misurando sia il numero di messaggi pubblicitari messi in campo da ciascun candidato (numero di manifesti elettorali, di messaggi radiofonici a pagamento ecc.) sia la percentuale dei voti totali che ogni candidato ottiene. A questo punto dovremmo essere in grado di valutare se, in effetti, i candidati che spendono più soldi nelle campagne pubblicitarie elettorali hanno più successo dei loro competitor che ne hanno spesi meno. Ermeneutico/disegno qualitativo. Se si sceglie un tale approccio per indagare il medesimo tema, il nostro interesse si rivolge immediatamente al concreto comportamento di voto e al modo in cui esso viene costruito. A partire da ciò, la nostra domanda pre-operativa potrebbe essere: “I votanti quanto utilizzano i messaggi pubblicitari per decidere a quale candidato dare il loro voto?”. Piuttosto che analizzare i risultati delle elezioni (come nel primo caso) questo studio potrebbe concentrarsi sui significati che gli elettori attribuiscono ai vari messaggi pubblicitari. Per raggiungere un tale obiettivo, potremmo immaginare di organizzare più focus group nei quali gli intervistati siano sollecitati a far emergere tali significati e i processi sociocognitivi che li conducono alla scelta di voto.
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quelle che comportano ripetute rilevazioni nel tempo o che abbracciano un determinato arco storico diacroniche o longitudinali. Le prime mirano a studiare le caratteristiche di un fenomeno così come si presentano nell’istante t e mettono in secondo piano (nella rilevazione) il fattore mutamento, mentre le seconde puntano a includerlo e anzi si concentrano su di esso. Per esempio, una ricerca sui consumi degli italiani nel 2021 è un’indagine sincronica, mentre un’indagine sui consumi ripetuta nel tempo (nel 2018, 2019 e 2020) avvalendosi degli stessi strumenti e tecniche di rilevazione, è diacronica e fa emergere il cambiamento. Se le fonti cui si attinge per ottenere i dati sono storiche, si parla di approccio diacronico di sociologia storica, mentre se i dati derivano da ripetute indagini on field (sia qualitative sia, più spesso, quantitative) allora possiamo avere due tipi di indagine.
Indagini diacroniche (o longitudinali). Indagini che comportano ripetute rilevazioni nel tempo o che abbracciano un determinato arco storico.
▮ Indagine di trend, quando il gruppo o campione osservato nei diversi momenti, pur appartenendo alla medesima popolazione, non è composto dagli stessi individui e le rilevazioni si svolgono sempre sulle stesse dimensioni. Questa strategia è utile quando si voglia individuare il mutamento di un fenomeno in quanto tale all’interno di una collettività – per esempio, l’atteggiamento degli studenti universitari iscritti al primo anno di fronte al loro ingresso nell’università. ▮ Indagine di panel, quando il gruppo o campione esaminato nei diversi momenti appartiene alla medesima popolazione ed è composto dagli stessi individui; questa strategia, ci permette di cogliere come cambiano gli attori sociali rispetto a un determinato tema o fenomeno nel corso del tempo – per esempio, analizzando il mutamento degli atteggiamenti verso l’università di un gruppo di studenti osservati dal primo anno al conseguimento della laurea. Chiaramente, sia l’indagine diacronica sia quella sincronica possono essere effettuate in un singolo ambito territoriale o con riferimento a più ambiti, tra loro posti a confronto.
Approfondimento La controversia sul metodo delle scienze sociali Le principali controversie sul metodo nelle scienze sociali possono essere ricondotte a tre dilemmi principali. •
Applicabilità del metodo delle scienze naturali, sic et simpliciter, al campo delle scienze sociali, nonostante nel primo caso si abbiano di fronte oggetti inanimati e nel secondo esseri umani immersi nella storia e nella cultura.
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Differenza e possibile conciliazione tra spiegazione e comprensione: le azioni degli esseri umani che danno vita ai fenomeni sociali possono essere spiegate attraverso un principio di causa-effetto, per cui esse sono spinte da fattori oggettivi “strutturali” (il funzionamento del mercato, la morale, le leggi ecc.) piuttosto che dalla loro volontà dichiarata (principio della spiegazione causale oggettiva) oppure occorre tenere conto e prendere sul serio le motivazioni da essi addotte per giustificarle, come base di decodifica dei fenomeni sociali (principio della comprensione delle soggettività)? Modo in cui la contraddizione sociale e storica viene recepita dalla ricerca sociale: di fronte alla contraddittorietà del mondo sociale e storico, la conoscenza scientifica deve cercare in qualche modo di restituirla nelle sue teorizzazioni oppure deve cercare di produrre teorie in grado di fornire orientamenti univoci, in grado di rischiarare le “tenebre del reale” con la luce della logica?
Questi tre elementi, incentrati sul “posto della soggettività” nelle scienze sociali – cioè sul rapporto tra la libertà esistenziale e sociopolitica delle donne e degli uomini in quanto tali e le pressioni esercitate dai fenomeni storici e collettivi – problematizzano l’assunto che il metodo scientifico possa essere uno e uno soltanto a partire da un comune ideale di scienza moderna. Nel contesto delle numerose controversie tra grandi studiosi che si ebbero su questi temi tra gli anni Sessanta e Settanta – come per esempio quella tra l’antropologo Claude Lévi-Strauss e il filosofo JeanPaul Sartre o tra Noam Chomsky e i comportamentisti americani – nel 1961 si svolse il Congresso indetto dalla Società Tedesca di Sociologia a Tubinga, dedicato proprio al tema della “Logica delle scienze sociali”. In questo Congresso, si confrontarono sul problema del metodo nelle scienze sociali due dei più influenti e autorevoli studiosi del Novecento: Karl Popper, che abbiamo già incontrato varie volte, e Theodor Adorno (1903-1969), principale esponente della cosiddetta Scuola di Francoforte o Teoria Critica. Come possiamo leggere negli atti del Convegno raccolti nel volume Positivismo e dialettica in sociologia (1972), curato da Martin Furstenberg e Lagh Mausch, Popper e Adorno diedero al problema della logica delle scienze sociali risposte per molti versi opposte e, al contempo, rappresentative dei due diversi modi in cui, ancor oggi, si affronta in sociologia la questione del metodo scientifico e del suo rapporto con la teoria. Entrambi gli studiosi partivano dalla critica dell’empirismo, cioè di quella posizione sostenuta allora dai positivisti logici del Circolo di Vienna, secondo cui i dati scientifici emergono direttamente dalla ricerca e questa può fare a meno di complesse teorie a priori, poiché la teoria deve sorgere direttamente e solo dall’osservazione. Di fronte a questa posizione scientista, Popper opponeva la sua visione fondata sul principio di falsificazione e sul razionalismo critico: la teoria è necessaria alla ricerca e la precede; una teoria può solo essere “non-falsificata” e mai verificata; ciò a cui deve puntare la scienza è a produrre controlli empirici (cioè esperimenti) sempre più severi attraverso i quali selezionare le teorie (confutazione versus corroborazione); la scienza procede per via cumulativa e il metodo scientifico è sempre e solo uno, se inteso in questa chiave deduttivista. Secondo Popper, questa impostazione metodologica è applicabile anche nel campo delle scienze sociali, in cui uno dei compiti della teoria (controllata e controllabile empiricamente) è eliminare le contraddizioni apparenti del mondo reale che l’osservatore
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si trova a rilevare. In particolar modo, secondo Popper le scienze sociali dovevano essere analitiche – cioè rinunciare alla pretesa di spiegare la società e la storia nella loro interezza – e avere come unità d’analisi l’individuo, nonché il modo in cui individui diversi si rapportano tra loro, nel tentativo di ricostruire la situazione e i connessi significati che li hanno spinti ad agire in un determinato modo. Comprensione e spiegazione si fondono in questa visione che viene comunemente definita “individualismo metodologico” per cui il collegamento tra motivazioni ed effetti delle azioni sono il principale “oggetto” delle scienze sociali. In altri scritti, Karl Popper aveva denunciato l’irrazionalismo e la non-scientificità sia della psicoanalisi sia del marxismo – a cui egli aveva aderito in gioventù – per via della loro pretesa di spiegare la totalità (esistenziale la prima, storico-sociale la seconda) e, dunque, per la loro non controllabilità scientifica (Popper, 1954; 1972; 1974). A questo proposito, come sul piano politico-ideologico, il suo bersaglio polemico è soprattutto il marxismo, visto come portatore intrinseco di una mentalità totalitaria anche per via del modo in cui tratta la questione fondamentale, sia politica sia scientifica, della contraddizione sociale: aderendo alla posizione di Hegel, il marxismo afferma – sempre secondo Popper – che ogni verità sarebbe relativa all’epoca storica che la produce, ragion per cui si avrebbero anche più verità in contrasto tra loro che convivrebbero in forma “dialettica”. Sul piano strettamente scientifico, ciò vorrebbe dire sottrarsi alla possibilità stessa della confutazione, poiché lo studioso o l’intellettuale marxista possono sempre invocare l’intrinseca e ineliminabile contraddittorietà della realtà per giustificare la smentita empirica delle proprie teorie o la loro non-logicità interna. Per Popper, quindi, il criterio di falsificabilità e la sua stessa posizione epistemologica si legano a una visione politico-ideologica ben determinata: quella liberal-democratica. Come possiamo leggere in Rivoluzione o riforme (1977), in cui viene intervistato assieme al filosofo radicale Herbert Marcuse (1898-1979) – uno dei punti di riferimento intellettuali della Nuova Sinistra dell’epoca – sui problemi delle società avanzate, quest’ultime vengono giudicate da Popper come quelle a minor tasso di ingiustizia nell’intera storia dell’uomo; esse sono tuttavia perfettibili e non perfette poiché presentano molti gravi problemi al proprio interno: sono le politiche riformiste e non le spinte rivoluzionarie quelle in grado di affrontare al meglio queste sfide, magari supportate dai risultati conseguiti dalle scienze sociali “scientifiche” – cioè guidate dai criteri di scientificità indicati da Popper stesso. La posizione di Theodor Adorno si pone esattamente sul versante opposto a quello di Popper anche dal punto di vista della biografia intellettuale: la sua opera filosofica e sociologica si era costruita – a Francoforte prima e, in seguito all’avvento del Nazismo, negli Stati Uniti poi, da cui farà ritorno nei primi anni Cinquanta – sulla base di una critica serrata alla società borghese, attraverso gli strumenti dell’hegelismo, del marxismo e della psicoanalisi. Pur non disdegnando il ricorso alla ricerca empirica ispirata ai canoni classici della scienza moderna – adottati nel già citato studio La personalità autoritaria (1950/1973) – la sua posizione epistemologica e metodologica, ribadita a Tubinga, era stata sempre contraria a un certo feticismo dei dati e dei fatti in quanto tali, cioè assunti come “oggetti” al pari dei fenomeni naturali. Adorno aprì la propria relazione affermando che era d’accordo con molte delle cose dette da Popper, anche se voleva in particolare concentrarsi sulle sfide proprie alla ricerca sociologica: quest’ultima ha infatti delle peculiarità che la distinguono nettamente dalle scienze naturali e che consistono essenzialmente nel-
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l’intrinseca storicità dei “fatti” sociali. Ne deriva che, a suo parere, non è corretto – come fa Popper – affermare una distinzione tra metodo (unico e valido per tutte le discipline, sociali e naturali) e “oggetto” di studio, poiché le caratteristiche storiche, politiche e culturali dei fenomeni sociali conducono a una metodologia delle scienze sociali completamente diversa da quella della fisica o della biologia. Più in generale, egli affermò che “i metodi non dipendono dall’ideale metodologico ma dalla cosa” (Adorno, 1972, p. 130). Per lo studioso tedesco, oggetto ultimo della conoscenza sociologica non sono i singoli individui e le loro azioni, ma la società intesa come totalità, ovvero come insieme di fenomeni sociali legati tra loro, immersi in un continuo processo di cambiamento storico. È a questa idea che ci si deve riferire quando si fa sociologia, un’idea per cui la società è costituita da singoli fenomeni e, a sua volta, li condiziona come “insieme generale” in cui si svolgono. Da tutto questo deriva il modo in cui Adorno concepisce la posizione dell’intrinseca contradditorietà della società e di tutti i suoi elementi, così come del ruolo della teoria per la ricerca sociale. Dal primo punto di vista, poiché la società e le sue parti sono immerse nella storia, esse non sono mai coerenti, neutrali e semplici: “La società è razionale e irrazionale insieme, è sistematica e irregolare, è cieca natura ed è mediata dalla coscienza” (Adorno, 1972, p. 126). La conoscenza sociologica deve restituire questa contraddittorietà e non annullarla per amore di un criterio astratto di logica formale. Per esempio, per Adorno l’Illuminismo era partito dalla promessa di emancipare l’umanità attraverso l’uso della ragione; tuttavia, ciò ha condotto, nel corso della storia, a considerare il mondo e l’umanità alla stregua di puri “oggetti”, manipolabili, al pari dei fenomeni naturali, dalla scienza e dalla tecnologia. In altre parole, l’Illuminismo alla base della cultura delle società moderne fu un processo intrinsecamente contraddittorio, portatore sia di emancipazione sia di nuove forme di dominio. Da questo ragionamento deriva il modo in cui Adorno considera il ruolo della teoria nella ricerca sociale: egli pensa, come Popper, che ogni teoria sia criticabile. Tuttavia, la teoria e ogni problema scientifico non nascono, come per il filosofo austriaco, dal tentativo di risolvere la contraddizione tra teoria e fatti ma dal riconoscimento di questa contraddittorietà. La vera teoria sociologica, pertanto, è sempre critica, poiché costituisce la coscienza e la conoscenza delle lacerazioni della storia e della società al fine di trasformarle in un’ottica emancipativa (cioè in base a valori ritenuti a priori desiderabili). Come nel caso di Popper, quindi, anche le posizioni metodologiche ed epistemologiche di Adorno si legano a una precisa opzione politico-ideologica, in questo caso di tipo radicale. Al di là del valore e dell’indubbia rappresentatività che queste due posizioni rivestono anche all’interno della comunità sociologica contemporanea, proprio la loro copresenza ci dimostra come la sociologia e le scienze sociali in generale, se osservate per come sono e non sulla base di criteri astratti, si caratterizzano per un ineliminabile pluralismo non solo teorico ma anche di declinazione dell’idea di scienza. In altre parole, gli orientamenti teorici che abbiamo visto nel Capitolo 2 si legano e riorganizzano in una pluralità di programmi di ricerca legati a diverse metodologie e tecniche di ricerca. Alcuni di questi programmi risultano egemoni o più diffusi in un determinato momento storico ma, se si osserva la storia delle scienze sociali, in nessun periodo viene annullato il pluralismo teorico-metodologico. A questo proposito, tra teoria e metodo non vi è né un rapporto di separazione né
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di dipendenza gerarchica ma di reciprocità: all’interno di un medesimo programma di ricerca pur nel riferimento a principi metodologici comuni, i vari indirizzi teorici contribuiscono a costruire a priori – cioè sulla base delle sensibilità, dei valori e dell’immagine della realtà sociale – le caratteristiche dell’“oggetto di ricerca indagato”. Una volta stabiliti i suoi contorni, il metodo e le connesse tecniche d’indagine vengono scelte di conseguenza. Tutto ciò ha due effetti importanti: il primo è che, pur nel comune riferimento all’importanza dello studio empirico – cioè della realtà – per controllare, costruire e criticare una teoria sociale, il pluralismo delle scienze sociali porta a includere nel suo campo prospettive teorico-metodologiche che si pongono al limite dell’ideale stesso della scienza moderna, pur distinguendosi dalla filosofia sociale. In un certo senso, questo è il caso della prospettiva di Adorno. Il secondo è che le scienze sociali, intese come campo disciplinare, sembrano voler tenere insieme sia un ideale di critica e interpretazione particolare e generale della società – proprio della cultura umanista – sia un orientamento più analitico alla comprensione e alla spiegazione causale di singoli fenomeni (come la povertà, la disoccupazione ecc.) – proprio della cultura scientifica – senza che l’uno e l’altro vengano considerati inconciliabili (li possiamo ritrovare insieme anche in un medesimo studio) oppure privi di legittimità “scientifica”. La copresenza di queste due linee di tendenza e il loro legarsi al pluralismo teorico-metodologico, hanno condotto studiosi come lo psicologo Jerome Kagan (2012/2013) a definire le scienze sociali (psicologia, antropologia, sociologia, economia, politologia) come portatrici di una terza cultura, oltre la classica dicotomia tra scienze naturali e discipline umanistiche.
Riepilogo 1. La sociologia è una scienza empirica che si basa sulle ricerche sociali e sulla costruzione di teorie sociali. La sociologia è una disciplina che punta ad analizzare, descrivere, comprendere e spiegare i fenomeni sociali reali. 2. Le principali fasi della ricerca sociale sono: scelta del problema di ricerca, formulazione del disegno della ricerca, raccolta dei dati, codifica e analisi dei dati, interpretazione dei risultati. Questo processo è circolare perché ha nella teoria il proprio “alfa e omega”, il punto di partenza e di arrivo. Tuttavia, in sociologia vi sono diverse posizioni su come articolare nel concreto ciascuna fase e come legarla alle altre. 3. Mentre le questioni ontologiche, epistemologiche e metodologiche sono relative all’impostazione generale dell’indagine, le questioni tecniche sono relative alla concreta realizzazione dell’indagine e al modo in cui essa raccoglie e analizza i dati. 4. Il positivismo-neopositivismo e la tradizione ermeneutica sono i due principali programmi di ricerca in sociologia. Il primo si basa sull’accoglimento del modello delle scienze naturali, il secondo sulla proposta di un metodo scientifico peculiare delle scienze sociali e fondato sulla comprensione storico-culturale delle azioni sociali. 5. Nella pratica di ricerca vi sono due insiemi principali di tecniche d'indagine: quello quantitativo e quello qualitativo. Di recente sono stati sviluppati molti approcci metodologici basata sull’utilizzo di entrambi in una stessa indagine
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(mixed method). La ricerca sociale si svolge nello spazio e nel tempo e per questo comporta l'adozione di disegni di ricerca che tengano conto di questo.
Domande di riepilogo 1. Quali sono le fasi della ricerca sociale? 2. Fornite una definizione di epistemologia e metodologia. In che cosa si differenziano? 3. Quali sono le caratteristiche del positivisimo sociologico e del neopositivismo? In cosa si differenziano dalla scuola ermeneutica? 4. Quali sono le principali tecniche di ricerca quantitativa e quali quelle di ricerca qualitativa? 5. Cosa si intende per mixed method? Quali sono i principali disegni della ricerca basati su questo approccio? 6. Le coordinate spazio-temporali come incidono sul disegno della ricerca?