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NUOVE STRATEGIE PER LO SMALTIMENTO DELLA PLASTICA

La differenza sostanziale tra le sostanze naturali e la plastica (che non lo è) sta nel loro ciclo di vita: mentre per le prime esso è limitato nel tempo, le materie plastiche non sono biodegradabili; a causa della loro persistenza nell’ambiente, se da un lato si accumulano creando le enormi isole di plastica, dall’altro si riducono di dimensioni talmente tanto da diventare pervasive ed entrare nel ciclo alimentare che, partendo dalla fauna marina, arriva fino all’uomo, sotto forma di microplastiche. La gestione del rifiuto “plastica” è davvero la sfida delle sfide in campo ambientale… ma l’uomo è destinata a perderla? Alcune soluzioni si intravedono e sono fornite dalla ricerca che, grazie alle nuove biotecnologie e a quel modello di sviluppo che è l’economia circolare, sembrano prospettare soluzioni a una problematica tuttora ritenuta insormontabile.

Economia circolare

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L’economia circolare è un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile.

In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto vengono infatti reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico. I principi dell’economia “circolare” contrastano con il tradizionale modello economico “lineare”, fondato invece sul tipico schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare”, che dipende dalla disponibilità di grandi quantità di materiali ed energia facilmente reperibili e a basso costo. Il modello virtuoso dell’economia circolare si sta diffondendo a tutti i livelli e in molti ambiti e anche la ricerca scientifica si muove in questa direzione. In un nostro recente incontro con i docenti dell’Unibas, prof. Francesco Ripullone e prof. Luigi Todaro, abbiamo appreso che, ad esempio, anziché bruciare gli scarti della lavorazione del legno, con conseguente aumento della CO2 in atmosfera, i loro gruppi di ricerca stanno lavorando alla produzione di tavole di compensato che possano sostituire i normali materiali edili.

Ritornando alla plastica, l'università statunitense di Stanford ha sviluppato un tessuto prodotto con la plastica riciclata che è più fresco del cotone. Le sue fibre, infatti, consentono al sudore di abbandonare rapidamente il corpo regalando una sensazione di freschezza. Questo tessuto è costituito da un materiale che rappresenta una nuova forma di polietilene (la più comune tra le materie plastiche) e che, grazie alle nanotecnologie, ha una struttura tale da poter essere utilizzata nella confezione di indumenti. Questa scoperta, nel lungo periodo, potrà avere riscontri positivi non solo nel campo dell’abbigliamento, ma anche nel campo energetico: garantendo un miglior raffreddamento della pelle nella stagione estiva, si potranno abbattere i consumi legati agli impianti di condizionamento degli edifici.

Batteri e funghi mangia plastica

Un’altra risposta all’inquinamento da plastiche è costituita dalla scoperta di alcuni microrganismi in grado di mangiare la plastica.

Ideonella sakaiensis: è questo il nome del batterio affamato di plastica isolato dall'équipe di scienziati del Kyoto Institute of Technology. Il suo ruolo l’avrete già intuito, ma lo chiariremo meglio in questo articolo. Il batterio dapprima secerne enzimi che innescano la reazione di demolizione della plastica, e, successivamente, digerisce parte dei prodotti. La reazione che porta alla demolizione della plastica è detta di idrolisi, perché la rottura dei legami avviene tramite l’effetto dell’acqua; la reazione avviene in due stadi: il primo stadio consiste nell’attacco da parte del batterio di una superficie plastica con conseguente formazione dell’enzima PETase, che provoca la rottura dei legami presenti nel PET, il polietilentereftalato, una delle plastiche più diffuse al mondo, formando molecole più piccole, il BHET e il MHET; queste ultime vengono scisse nel secondo stadio in molecole di base i cui atomi di carbonio possono essere digeriti dal batterio e assimilati come nutrienti. Il processo, purtroppo, è abbastanza lento; questo però potrebbe essere l’inizio di un’evoluzione che, grazie a ulteriori ricerche, porterà a batteri insaziabili in grado di smaltire rapidamente le plastiche.

Più promettente appare uno studio americano che ha recentemente riportato le proprietà del fungo endofita (che vive all’interno di altri organismi) Aspergillus tubingensis: esso secerne enzimi in grado di degradare i polimeri che costituiscono la plastica nel giro di poche settimane. Questa specie è stata isolata nella spazzatura di una discarica di Islamabad, in Pakistan, e poi studiata in laboratorio. Da questi studi, ancora in via di definizione, è emerso che il micelio del fungo, cioè il suo apparato vegetativo formato da un intreccio di filamenti, è in grado di colonizzare un foglio di materiale plastico in poliuretano o poliestere, causando la degradazione della sua superficie.

Abbiamo dunque visto che la ricerca può offrire ampie prospettive per ovviare al problema dell’inquinamento e che un migliore sfruttamento dei rifiuti, oltre a ridurre l’impatto ambientale, limita lo spreco di risorse e materie prime. La chimica e le tecnologie in genere, dopo essere state additate per molto tempo come la causa principale dei problemi ambientali, ora sono in prima linea nell’adoperarsi per porne rimedio.

Nicola D’Ambrosio 4AC Federica Dambrosio 4AC Valeria Di Tinco 4AC Renato Pavia 4AC Federica Pellegrino 3AC Carlo Raguso 4AC

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