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LA PLASTICA E I CAMBIAMENTI DEL CLIMA
from Pentascienze_21_22
by mctpalazzo
Il premio Nobel Giulio Natta affermava:
“Il futuro appartiene ai tecnopolimeri e polimeri speciali che saranno prodotti forse in quantità più ridotte, ma saranno essenziali per il progresso dell'umanità" Si sbagliava…
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Foto di Brunella Ranaldo
La plastica è un materiale che si trova ovunque attorno a noi. Da un punto di vista chimico si tratta di polimeri, cioè lunghe molecole lineari composte principalmente da carbonio e idrogeno, ai quali possono essere aggiunte altre sostanze chimiche che fungono da “additivi”. Questi additivi permettono alla plastica di avere caratteristiche particolari, come il colore, l’elasticità o la resistenza. Il primo antenato della plastica nacque nel 1863, quando l’inventore americano John Wesley Hayatt inventò la celluloide. Questo materiale, per quanto rivoluzionario, aveva un problema: era estremamente infiammabile e quindi la sua produzione era molto rischiosa. Nel 1907 venne quindi inventata la bakelite, un nuovo tipo di plastica che era molto meno infiammabile e divenne quindi molto popolare. In seguito, vennero il nylon, il vinile, il poliestere e tantissime altre tipologie di materiali che ancora oggi sono ampiamente utilizzati. Queste semplici, lunghe e bellissime molecole hanno segnato la nostra epoca come poche altre sostanze. La plastica, infatti, è un materiale leggero, modellabile e la sua nascita ha segnato una svolta nella vita di tutti e nei più disparati campi delle scienze e non solo. Dobbiamo infatti dire grazie alla plastica per tantissime cose: protesi mediche, macchinari all’avanguardia, contenitori per il trasporto di sostanze e viveri.
Isola di plastica
Purtroppo, però, come tutte le cose, anche la plastica ha i suoi lati negativi, che sono stati messi in evidenza quando l’uomo ha iniziato ad abusarne, come una droga. Infatti, a causa dei rifiuti plastici smaltiti in maniera errata stanno morendo moltissimi animali, sulla terraferma tanto quanto nei mari. Inoltre, le correnti marine “raccolgono” la plastica e ciò determina la formazione di vere e proprie “isole di plastica”. La più grande è 8 volte l’Italia ed è più estesa del Messico. Si tratta della South Pacific Garbage Patch, con una superficie che si aggira intorno ai 2,6 milioni di chilometri quadrati. Purtroppo, non è l’unica e le dimensioni di queste isole di spazzatura sono ormai sempre più preoccupanti. La sovrapproduzione di plastica comporta anche l’elevata emissione di gas serra nell’atmosfera. Infatti, la maggior parte delle materie prime impiegate nella produzione dei polimeri deriva dal petrolio, che va estratto, trasportato e distillato; segue la lavorazione, e i prodotti finali vanno trasportati e distribuiti. Ognuna di queste fasi comporta l’impiego di mezzi di trasporto che utilizzano combustibili, con le conse-
guenti emissioni di grandi quantità di gas serra… e siamo solo a metà strada: alla fine della sua vita utile, la plastica va impilata, trasportata ai siti di riciclaggio, smaltita, talvolta in inceneritori dai quali si liberano fumi non proprio benefici. Nel 2015, le emissioni di CO2 dovute alla plastica sono state di 1,8 miliardi di tonnellate, un numero destinato a salire, vista la costante e crescente domanda di plastica. Inoltre, per aumentare la disponibilità di materie prime, negli anni si sono messe a punto tecniche sperimentali che si sono dimostrate anche molto dannose per l’ambiente, come il “fracking”. Questo metodo, utilizzato soprattutto negli Stati Uniti, sfrutta la pressione di particolari fluidi per provocare delle fratture negli strati rocciosi più profondi del terreno, in modo da aumentare le rese di estrazione degli idrocarburi dal sottosuolo. Durante il fracking, per permettere al gas di fuoriuscire, vengono pompati nel terreno fino a 16.000 litri di liquidi sotto pressione al minuto, addizionati ad agenti chimici e sabbia. Tra i principali: naftalene, benzene, toluene, xylene, etilbenzene, piombo, diesel, formaldeide, acido solforico, tiourea, cloruro di benzile. Ma non mancano le sostanze radioattive come i vari isotopi di antimonio, cromo, cobalto, iodio, zirconio, potassio e tanto altro. Tutti agenti cancerogeni e altamente tossici. Durante tale processo si liberano nell’atmosfera grandi quantità di idrocarburi leggeri, pericolosissimi gas serra. Potete trarre le facili conclusioni… Le domande che ci poniamo e che si pone il Parlamento Europeo sono: Esistono dei materiali più “green” che possano sostituire la plastica? È possibile smaltire in modo efficace la plastica prodotta?
Locandina NO-fracking All’interno di questo dossier, proviamo a fornire alcune risposte…
Un salto nel futuro: le bioplastiche
Quando si parla di bioplastica si intende un materiale prodotto, in parte o totalmente, a partire da materie prime di origine biologica, come zuccheri, scarti di legno (truciolato), fecola di patate, cellulosa, emicellulosa e lignina (polimeri presenti nei vegetali). In base al tipo di smaltimento esistono tre tipi di bioplastica: Bioplastica biodegradabile: si decompone in maniera naturale per azione degli agenti atmosferici, batteri e funghi; Bioplastica compostabile: deve essere separata dai rifiuti comuni per poter essere poi compostata in un apposito impianto industriale, così da trasformarla in compost per mezzo di batteri, enzimi e funghi “selezionati” per svolgere tale lavoro. Bioplastica non biodegradabile: si ottiene a partire da materie prime biologiche, mescolate a polimeri plastici tradizionali. Un esempio è l’acido polilattico, PLA. Si comprende, dunque, che quando parliamo di bioplastica non ci riferiamo ad un materiale a impatto ambientale nullo (un’utopia). Il prefisso “BIO” potrebbe identificare anche solo sostanze prodotte da materie prime di origine biologica, mentre la loro biodegradabilità e l’impatto sull’ambiente variano a seconda della tipologia di materiale costituente. Tuttavia, le bioplastiche rappresentano l’alternativa green alle plastiche tradizionali, perché ne condividono le stesse caratteristiche fisiche, quali robustezza ed elasticità, mentre risultano meno inquinanti per diversi motivi: innanzitutto la loro biodegradabilità, la provenienza da materie prime rinnovabili e, cosa non meno importante, l’assenza di sostanze quali ftalati e bisfenolo, comunemente presenti nelle plastiche tradizionale. Dunque, le bioplastiche potrebbero essere la tanto attesa svolta ambientale, sebbene la “malattia della plastica tradizionale” alloggi ancora nei cuori di molti. Questo anche perché la ricerca e la produzione di questi nuovi materiali è nettamente più costosa rispetto alla lavorazione
degli idrocarburi per la produzione delle plastiche tradizionali e questo incide molto sul prezzo finale; inoltre, anche le proprietà tecnologiche dei nuovi materiali non hanno ancora raggiunto i livelli delle vecchie materie plastiche. Nonostante tutto, però, gran parte della ricerca è rivolta alla messa a punto di questi nuovi materiali e le esperienze al riguardo sono numerosissime e originali. Particolarmente interessante è l’impiego di rifiuti o scarti di alcune lavorazioni che vengono convertiti in sostanze plastiche: un metodo vantaggioso per tutti! Un esempio è quello della S.E.C.I., holding del Gruppo Industriale Meccaferri, che, con Bioon hanno annunciato la firma di un accordo che prevede l’acquisto di una licenza per la produzione di bioplastiche a base PHA da glicerolo, che si ottiene come sottoprodotto della produzione di biodiesel.
Un’altra esperienza interessante ci è stata riferita dal Dr. Gabriele Greco, ricercatore dell’Università di Trento, che, nel corso di un incontro con la nostra redazione, ci ha parlato del lavoro di ricerca che diverse industrie e università in America e in Svezia stanno svolgendo sulla produzione di “seta di ragno artificiale”. Quando si parla di seta solitamente si fa riferimento alla costosa, abbastanza pregiata e sempre meno comune seta prodotta dal baco appartenente alla specie Bombyx mori. È, invece, abbastanza difficile credere che anche i ragni, acerrimi nemici di molti esseri umani, e considerati da tanti utili solo per cacciare mosche e zanzare, possano venirci incontro nella lotta al cambiamento climatico e alla diminuzione del consumo di plastiche. Entriamo un po’ nello specifico… È stato prodotto in laboratorio un nuovo materiale ad opera di un batterio, l’Escherichia Coli, che, grazie a modifiche genetiche, è in grado di sintetizzare proteine simili a quelle che compongono la seta dei ragni, le spidroine. Le proteine così ottenute sono molto più piccole di quelle prodotte dai ragni ed è per questo che vengono chiamate minispidroine. Al contrario della seta naturale, questa nuova seta artificiale è più spessa ed elastica e, quindi, deformabile. Come quella naturale, invece, è biocompatibile e 100% ecofriendly. Grazie a queste e altre caratteristiche, la minispidroina è un materiale perfetto per prodotti biomedicali, ma non si esclude che possa essere utilizzata anche per la realizzazione di tute sportive e altri capi di abbigliamento, in sostituzione di molti materiali plastici comunemente usati. Il costo, al contrario di quello che si potrebbe pensare non è affatto elevato, anzi... grazie all’elevata resa del processo di produzione che vede coinvolti essenzialmente Escherichia coli in una soluzione di acqua e nutrienti, e che avviene in un bioreattore che simula le condizioni dell’opistosoma (parte del corpo dell’aracnide in cui avviene la produzione di seta), la seta prodotta risulta essere relativamente economica.
Latrodectus tredecimguttatus Foto di Gian Domenico Manfredi