Voce ai giovani

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Anno 38 - 11 Ottobre 2014 - Numero 41

Settimanale indipendente di informazione

euro 0,50

di Francesco Torchiaro

Un’onda di luce che si propaga nel mondo attraverso la Giornata della Consapevolezza della perdita di un bambino TRAVOLTA DAL DESTINO

PICCOLA GRANDE STAR

Con l’amaro Un’ugola d’oro in bocca e il fango che Canta Mina sulle mani arricciando il naso di Ettore Torchiaro

La trattoria di Giuliana Andrieri travolta da un’alluvione a Imola

di Giammarco Gioia

Lucrezia Cavaliere ha solo 6 anni e si esibisce con i “Bandiera gialla”

LA DENUNCIA

Banchi avvelenati affacciano sull’amianto A Mongrassano Scalo una scuola a rischio


II

sabato 11 ottobre 2014

La denuncia A Mongrassano Scalo accade che a pochi metri da un capannone rivestito in amianto, si trovi una scuola con una popolazione scolastica di circa 200 alunni, oltre il personale scolastico

Istituto alberghiero di Soverato

Edificio nuovo e ampliato La struttura nei pressi della scuola di Mongrassano

Banchi avvelenati Nella conferenza nazionale sull'amianto promossa del governo a novembre 2012, è scaturita la redazione del piano nazionale, che prende in considerazione il piano sanitario, ambientale e previdenziale. Da allora non si è più affrontato il problema in termini concreti. E purtroppo ancora nulla è stato fatto sul fronte del risanamento ambientale e dello smaltimento dei materiali contenenti amianto, dell'avvio di un'efficace sorveglianza sanitaria ed epidemiologica per gli esposti. "Le bonifiche vanno a rilento, il censimento non viene fatto e in tutto il Paese aumentano le discariche abusive e il rischio amianto. Occorre agire subito e in modo concreto: smaltimento e bonifica devono essere le priorità per portare a zero il rischio connesso con l'esposizione alla fibra pericolosa. Sono passati 22 anni dall'entrata in vigore della legge che ha proibito l'estrazione, la lavorazione e la commercializzazione dell'amianto e siamo drammaticamente in ritardo rispetto a quello che si sarebbe potuto e dovuto fare per arginare l'emergenza sanitaria provocata dall'esposizione all'amianto". Sono oltre 4000 le vittime che ogni anno causa l'esposizione alla pericolosa fibra nel nostro Paese. Le stime parlano di oltre 34.148 siti ancora da bonificare per oltre 32 milioni di tonnellate di amianto sparso in tutto il Paese. Di questi 380 sono i casi a maggior rischio. Per Legambiente è necessario avviare le bonifiche immediatamente, tanto sui grandi siti industriali inseriti nel Programma nazionale di bonifica, quanto sulle emergenze locali riguardanti la presenza di amianto in edifici e le strutture pubbliche, a partire da scuole e ospedali, e private. Un ruolo importante si gioca anche a livello regionale e locale. È necessario che tutte le Regioni si adoperino per l'attuazione dei piani regionali sull'amianto, prevedendo le risorse economiche necessarie per uniformare e calmierare i costi di intervento in modo da facilitare la bonifica da parte dei Comuni e dei singoli cittadini. A Mongrassano Scalo accade che a pochi metri da un capannone rivestito in amianto, si trovi una scuola con una popolazione scolastica di circa 200 alunni oltre il personale scolastico. La situazione è complessa e soprattutto pericolosa. Il dirigente scolastico ha contattato il sindaco il quale ha riferito che vi sarebbe in corso una controversia in merito e che comunque ad oggi non ha sortito dopo diversi anni alcun effetto. A rischio è la salute di tanti adolescenti che dalle 8 alle 16.00 del pomeriggio rimangono a scuola. Siamo preoccupati e sosteniamo le preoccupazioni del dirigente scolastico, chiediamo al Comune ed alla Regione Calabria di intervenire prontamente per eliminare il rischio a cui i nostri giovani alunni sono sottoposti.

Un ruolo importante si gioca anche a livello regionale e locale A rischio è la salute di tanti adolescenti che dalle 8 alle 16.00 del pomeriggio rimangono a scuola

Il commissario straordinario della Provincia di Catanzaro Wanda Ferro, ha consegnato al dirigente scolastico dell’istituto alberghiero di Soverato, professor Giuseppe Fioresta, il nuovo corpo in ampliamento dell’istituto, alla presenza dei tecnici e dell’impresa che ha eseguito i lavori. «I lavori sono stati realizzati a tempi da record avendo avuto inizio a fine luglio 2013 - ha commentato il commissario Wanda Ferro - e questo traguardo è il risultato dalla sinergia tra gli uffici, i tecnici ed un’impresa determinata al rispetto dei tempi. È per me un motivo di orgoglio aver potuto consegnare alla comunità soveratese e ad un istituto in crescita, che apre prospettive importanti a tanti nostri giovani in un territorio che deve puntare sul turismo, un edificio nuovo ed ampliato proprio negli ultimi giorni della mia guida dell’amministrazione provinciale». «La nuova ala dà un grande respiro alla nostra scuola - ha detto il dirigente Fioresta - che potrà superare il problema della succursale. Ringrazio la Provincia, che sia con la parte politica che con quella tecnica, ha realizzato la nuova ala in così poco tempo, consentendoci di superare molti problemi organizzativi e funzionali, ma soprattutto di migliorare l’attività didattica». L’ampliamento consentirà di poter usufruire di otto nuove aule per didattica, oltre ai servizi (compresi quelli per i professori ed i portatori di handicap) ed i collegamenti verticali sono garantiti dalla scala interna e dall’ascensore per l’abbattimento delle barriere architettoniche. All’esterno sono stati realizzati nuovi ed ampi spazi pavimentati ed il piazzale antistante è stato asfaltato con finitura a tappetino in modo da consentirne anche un utilizzo come campo polivalente. «L’intervento - ha spiegato Wanda Ferro - è stato finalizzato a porre fine ai disagi degli studenti, del corpo docente e non docente che fino ad oggi aveva operato tra la sede centrale in ampliamento ed una succursale in locazione, per cui la fine dei lavori consentirà l’abbattimento di una ennesima voce di spesa per i fitti passivi». Il corpo in ampliamento è stato realizzato con struttura portante in calcestruzzo armato secondo la nuova normativa antisismica. Le divisioni sono state realizzate in muratura spessore 10 cm ed in parte con pannelli amovibili che consentono estrema flessibilità. La pavimentazione è in gres porcellanato ed i rivestimenti in maioliche, gli infissi in alluminio colorato ed il rivestimento esterno dello stesso colore del corpo esistente.


sabato 11 ottobre 2014

Progettare per camminare insieme Intervista a Mario Barbuto, presidente nazionale dell'Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti «La Giornata mondiale della vista costituisce un momento di riflessione, in ordine alla possibilità di sensibilizzare i cittadini sull’importanza della prevenzione delle patologie oculari, quale orizzonte attraverso cui salvaguardare la possibilità di accarezzare, con la luce dello sguardo, le bellezze che colorano la nostra vita, la poesia che si promana dallo splendore della natura, la dolcezza che ci regalano lo scintillìo negli occhi e la delizia nei sorrisi degli affetti a noi più cari».

Valicare le barriere del buio eco di Pierfrancesco Gr

da Roma

Così Annamaria Palummo, presidente per la Calabria e consigliere nazionale dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti, tratteggia il senso di cui è sotteso il giorno in cui si celebra la Giornata dedicata alla salute degli occhi e della vista. «Un bene prezioso la cui tutela costituisce una missione che l’Uici persegue attraverso un assiduo lavoro svolto nonostante le difficoltà determinate da discutibili scelte politiche che, tagliando i finanziamenti al sociale, stanno complicando non poco la nostra attività di sostegno e vicinanza alle nostre sorelle e ai nostri fratelli ciechi e ipovedenti, oltre che, ovviamente, la nostra opera di servizio nel campo della prevenzione». Quell’opera che l’Unione vuole continuare a garantire, come fa da oltre novant’anni e come emerge chiaramente dalle parole del suo nuovo presidente nazionale, Mario Barbuto, che il 9 ottobre ha rilasciato un’intervista al nostro giornale, in cui ha diffusamente dissertato in ordine a una tematica complessa e rilevantissima, quale la prevenzione delle patologie oculari, focalizzando l’attenzione su giovani e guida sicura, a cui è stata dedicata, quest’anno, in Italia, la Giornata mondiale della vista. Presidente Barbuto, qual è il ruolo dell’Uici sul tema della prevenzione, contestualmente al rapporto di collaborazione con la Iapb? L’Unione italiana ciechi e ipovedenti ha fatto della prevenzione visiva una tra le sue priorità. Scherzosamente, possiamo vantarci a buon diritto di essere l’unica associazione che lavora per eliminare se stessa. Abbiamo voluto con tutte le nostre forze le leggi di finanziamento della Iapb, l’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità con la quale lavoriamo in sintonia per gli stessi obiettivi. Il Consiglio dell’Agenzia, infatti, conta una nutrita rappresentanza dell’Unione, la quale si sente, pertanto, impegnata a favorirne le attività e le azioni di prevenzione, soprattutto sul territorio: basti pensare ai camper, o meglio, ai gabinetti oculistici mobili, attrezzati per la prevenzione visiva, che battono il territorio delle nostre province, con personale a bordo costituito da elementi delle nostre sezioni e medici oculisti dell’Agenzia, o agli sforzi messi in campo dall’Unione per determinare il varo della legge 284/97, che demanda alle Regioni specifici programmi continuativi di prevenzione tramite finanziamento ministeriale. Che cosa può dirmi in merito alla situazione italiana, stando ai dati sulla cecità? Non è semplice ricostruirla. Tra ciechi totali e ventesimisti, cioè persone con residuo visivo non superiore a un ventesimo, abbiamo oltre 137 mila unità registrate e riconosciute. Alzando a un decimo la soglia del residuo visivo, si arriva a centinaia di migliaia di persone, con dati che diventano più incerti perché non vi sono strumenti affidabili di calcolo. Non dimentichiamo, infine, le migliaia e migliaia di persone non classificate, presenti soprattutto nella fascia oltre i sessanta anni, dove i difetti visivi, sovente anche gravi, sono molto diffusi. Alla luce di questo, quali azioni reputa necessarie a una concreta ed efficace socializzazione degli strumenti e dei presidi messi a disposizione per la prevenzione primaria e secondaria? Innanzitutto l’informazione. Poi campagne di prevenzione organizzate per grandi aree geografiche, socioeconomiche o anagrafiche. Tali azioni vanno promosse prevalentemente sul territorio e ben pubblicizzate, in modo da sensibilizzare le persone, incoraggiandole ad avvicinarsi al tema e a sottoporsi a regolari controlli.

Attenzione focalizzata su giovani e guida sicura, argomento a cui è stata dedicata quest’anno in Italia la Giornata mondiale della vista celebrata il 9 ottobre

Il presidente nazionale Uici Mario Barbuto e il presidente calabrese Annamaria Palummo

Un’indagine, svolta a Bologna qualche anno fa su tutti i ragazzi della scuola elementare, ha rivelato che oltre il 17% di essi mostrava problemi visivi, in vari casi, anche gravi. Tali problemi, colti sul nascere, possono essere corretti, con soddisfazione per le persone interessate e risparmio per il servizio sanitario nazionale. Il ruolo dei nostri camper attrezzati, credo sia molto importante come strumento di prevenzione e d’informazione, ma, naturalmente, occorre fare di più. Un’altra questione cruciale, relativamente a cui sarebbe opportuna una riflessione, afferisce al tema specifico della guida sicura, tematica, questa, a cui, quest’anno è stata dedicata, in Italia, la Giornata Mondiale della Vista. A che punto siamo, al riguardo? Un’adeguata acuità visiva nella guida rappresenta una delle basi della sicurezza stradale. I controlli e il senso di responsabilità del cittadino e dell’automobilista devono essere incoraggiati ed accresciuti attraverso apposite campagne informative, ma anche tramite la diffusione di semplici strumenti di autotest, che permettano a chiunque di compiere i primissimi accertamenti sulla propria capacità visiva senza spese e senza perdita di tempo. L’altra questione, che quest’anno è stata al centro delle iniziative svoltasi in Italia il 9 ottobre, nell’ambito della Giornata mondiale della vista, riguarda i giovani e la loro sicurezza: quanto s’investe e quanto si crea per il loro futuro e, in tale contesto, come ci si rapporta, in termini di attenzione pubblica e impegno collettivo, con la disabilità sensoriale? Temo s’investa, pochissimo. I dati di Bologna, ne sono un esempio. In quel caso l’intera indagine fu condotta a spese di istituzioni private e tramite sponsorizzazioni. Progettare il futuro e tutelare il benessere delle giovani generazioni sono obiettivi che ancora non fanno parte integrante e costante del nostro vivere quotidiano e, soprattutto, delle agende politiche. Salvo poi dover sostenere la pubblica spesa per cure e trattamenti, allorquando le patologie sono già instaurate. Un solo esempio: non ho mai avuto occasione di imbattermi in un’adeguata campagna informativa circa i possibili danni causati dal sole d’estate, nel caso a esso ci si esponga in modo improprio. E che dire in merito agli effetti negativi dell’abuso dell’alcool sulla capacità visiva? Nel caso di giovani non vedenti o ipovedenti poi, l’attenzione pubblica, secondo me, è del tutto insufficiente. Poco e male s’investe sulla loro istruzione. Poco o nulla sulla loro autonomia personale, sulla loro mobilità, sulla loro capacità di fare da sé. I ragazzi e le ragazze sono spesso oggetto di attenzioni perfino eccessive, ma sempre basate su un principio diciamo “di maternità”, piuttosto che su programmi scientifici di recupero e di riabilitazione. Circondiamo i nostri bambini e i nostri ragazzi non vedenti o ipovedenti con varie figure spesso inadeguatamente preparate e prive di ruoli precisi e definiti nel quadro di un’azione programmatica. Pensiamo che sia egualitario e democratico dare a tutti le stesse cose, trascurando invece il fatto che occorrerebbe provare a dare a ciascuno secondo il suo specifico bisogno e in base alle sue capacità di fruire. È una lunga storia che riguarda e coinvolge innanzitutto il sistema scolastico ed educativo, rispetto al quale, alla fine, una qualche riflessione andrà pur sviluppata, con spirito critico e onestà intellettuale. Riflessioni, quelle a cui fa riferimento il presidente Barbuto, articolate; riflessioni impegnative, su dimensioni complesse e realtà esistenziali atipiche, rilucenti di dignità e bisogno d’amore; riflessioni, attraverso cui rendere la nostra vita più bella, libera dalla solitudine del buio, gioiosa nei colori di ogni giorno.

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sabato 11 ottobre 2014

Un commento italiano, anzi, fiorentino Presentazione a Roma del Faust di Goethe èdito a Castrovillari dall’Associazione italiana di Cultura classica

Sbirciando in casa del “Faust” Il dialogo fra il Signore e Mefistofele nel Prologo in Cielo Goethe non avrebbe potuto rileggerselo o modificarlo a Roma nella casa in via del Corso, dove soggiornò fra il 30 ottobre1786 e il 23 aprile 1788, perché del Faust aveva composto solo alcune scene, raccolte in un conglomerato conosciuto a posteriori come Urfaust. Goethe a Roma, fra l’ultima settimana di febbraio e la metà di marzo 1788, compose oltre al piano della tragedia sicuramente la scena della Cucina della strega sotto i pini nel parco di Villa Borghese e verosimilmente il frammento del Patto e la scena Bosco e spelonca. Lo spiega ancora Vittorio Santoli nella sua Introduzione al Faust che siamo qui a presentare. Ma chi era e che cosa ha rappresentato questo studioso, oggi se non dimenticato troppo poco ricordato, nella germanistica e più in generale nella cultura? Vittorio Santoli, germanista e comparatista, vissuto fra il 1901 - era nato a Pistoia - e il 1971, maestro di generazioni di studenti e di docenti futuri e del suo tempo come professore di Lingua e Letteratura tedesca dal 1937 al 1967 all’università di Firenze, si distingue per un originale percorso scientifico e culturale. Sul finire degli anni Venti, su invito del filologo e letterato Michele Barbi, collaborò alla raccolta di canti popolari toscani e italiani, avviando uno dei suoi indirizzi prediletti e più fertili di ricerca nella sua attività di filologo sulla poesia popolare intesa come corpo storico di testi, un interesse questo che si rifletterà anche sulle modalità di accostamento critico al Faust. Ma nello stesso 1929 pubblicò la prima monografia di letteratura tedesca, Wackenroder e il misticismo estetico cui segue l’edizione dei Frammenti critici e scritti di estetica di Friedrich Schlegel (Sansoni 1937). Accademico della Crusca, membro dell’Accademia nazionale dei Lincei, cofondatore della Internationale Vereinigung für germaniche Sprach - und Literaturwissenschaft e socio dello Institut für Sprache di Mannheim, Santoli fondò nel 1946 la Rivista di Letterature moderne che nel 1955 prese il titolo di Rivista di Letterature moderne e comparate. Fra i suoi molti meriti, che hanno contribuito in modo determinante a rinnovare nella metà del secolo scorso l’impianto metodologico e di prospettiva critica della germanistica italiana, e non solo, meriti che in questa sede posso riassumere solo in minima parte, ricordo la singolare e illuminante Storia della letteratura tedesca (Sansoni 1965), definita dalla germanista Maria Fancelli «un manuale di letteratura comparata applicata, tutto percorso dal desiderio di fornire sempre grandi visioni d’insieme, passaggi di territori e di confini, grandi sistemi letterari e linguistici in movimento, entro i quali isolare pochi eminenti autori». Produttiva e ricca di esiti anche inattesi risulta l’applicazione di un metodo, maturato anche con lo studio delle tradizioni popolari, del comparare, della tessitura di collegamenti e riferimenti fra opere letterarie, eventi storici, campi linguistici e culturali trasversali e interagenti. Menziono soltanto, per il carattere anche teorico, l’ampio saggio La letteratura italiana, la tedesca e le nordiche (1948). La comparazione sostanzia così l’indagine storico-filologica che si fonde con quella estetico-letteraria. Autore fin dagli anni Trenta di importanti studi goethiani (Goethe. Considerazioni per il centenario, in “Il Ponte”, 1950; Prospettive sul Faust, in “Rivista di Letterature moderne”, 1951; Die italienische Faustkritik von Mazzini bis Benedetto Croce, in “Studien zur deutschen Literatur”, 1962; la traduzione dell’importante saggio di Karl Vossler, Goethe e il mondo romanzo, in “La Cultura”, 1932), Santoli diede alle stampe la traduzione in prosa della Prima parte del Faust nel volume delle Opere di Goethe, edite da Sansoni nel 1970, che contengono anche la Seconda parte nella versione in versi di Vincenzo Errante (pubblicata nel 1941-42, ristampata nel 1951 e nel 1966, quest’ultima a cura di Claudio Magris) e considerata per molto tempo nella sua valenza esegetica di Nachdichtung la traduzione del Faust per eccellenza. L’anno 1970 è un anno di grande rilievo per le traduzioni in italiano del Faust perché esce in versi nei Meridiani Mondadori la versione, militante e di mediazione cultu-

Johann Wolfgang Goethe, Faust, testo tedesco, traduzione e commento di Vittorio Santoli Pubblichiamo la relazione del professor Fabrizio Cambi

rale, del poeta e saggista Franco Fortini. Nel novero complessivo delle 21 traduzioni in italiano del Faust (di cui 13 integrali, 7 limitate alla prima parte, 1 concernente la seconda parte, cui vanno aggiunte 3 traduzioni dello Urfaust) a partire dalla prima in prosa di Giovita Scalvini (1835), assai apprezzata da Mazzini, Gioberti, Benedetto Croce, Riccardo Bacchelli, cui seguirono quella di Andrea Maffei, Guido Manacorda, Barbara Allason, Giovanni Vittorio Amoretti, la versione di Santoli del 1970 è stata seguita dalla trasposizione poetica di Mauro Veneziani (Schena Editore 1984, ma eseguita fra il 1942 e il 1948), la versione in rime e in versi di Roberto Hausbrandt (Dedolibri 1987) e dall’ultima assai nota di Andrea Casalegno (Garzanti 1990), l’unico traduttore del Faust goethiano vivente. Sono ormai quasi 25 anni che non esce una nuova traduzione del Faust (fatta eccezione della traduzione di Michele Cometa nel 1999 dell’Urfaust). Un intervallo tanto lungo tra una traduzione e l’altra finora non si era quasi mai verificato. Sulla storia e l’inquadramento critico-comparativo rinvio comunque all’importante e vasto studio di Paola Del Zoppo: Faust in Italia. Ricezione, adattamento, traduzione del capolavoro di Goethe, (Artemide 2009). La versione prosastica di Santoli, lineare, piana, definibile di ‘servizio alto’, declinata in un registro «aristocraticamente arcaicizzante, votato a un ideale stilistico di eleganza sobria», trova ora la sua complementarità in quello che nell’edizione Sansoni mancava, cioè con il commento da lui sviluppato nelle lezioni universitarie fra il 1938 e il 1949 e rimasto per molti anni inedito. Infatti dopo la morte di Santoli la moglie Hilde Krell, riordinando le carte del marito, si trovò nell’alternativa di distruggere i materiali o di pubblicarli pur nella loro frammentarietà. Fu merito della germanista Bianca Maria Bornmann, allieva del professor Santoli, raccoglierne le parti e curarne la pubblicazione in 8 puntate, scena dopo scena, sulla rivista “Studi Germanici”, edita dall’Istituto italiano di Studi germanici, fra il 1978 e il 2005. Due anni fa, allora come direttore dell’Istituto, diedi con entusiasmo l’autorizzazione formale a comporre un’edizione unitaria, finalmente corredata dell’introduzione, perché uscisse nelle edizioni dell’Associazione italiana di Cultura classica di Castrovillari, frutto dell’impegno e della passione di Leonardo Di Vasto che voglio qui ringraziare di cuore. Grazie ancora alla cura di Bianca Maria Bormann e di un’altra valente germanista, Barbara Di Noi, è venuto alla luce questo volume. Come scrivono le curatrici nella pre-


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Un commento italiano, anzi, fiorentino weimariano e schilleriano, «nel rispetto storico dell’evoluzione del proprio ideale poetico e delle proprie tendenze stilistiche», come osservano le curatrici. Prevale secondo Santoli il principio del conglomerato, dell’assemblaggio nel tempo delle singole scene di un’opera che viene definita una “gran fabbrica” intorno ai due nuclei originari del Faust mago, insofferente del limite, che anela all’infinito, all’unione di micro e macrocosmo e del Faust sentimentale amante di Gretchen. Santoli riporta alla luce i diversi Goethe entro Goethe, sanziona la frattura irrimediabile di una «tradizione espressiva unitaria», rileva, secondo le parole del germanista Marianello Marianelli, un «poliglottismo stilistico e un grandioso eclettismo», in cui coesistono il Goethe francofortese, quello romano e quello weimariano, si affiancano e si susseguono il Settecento galante, il realismo, il neobarocco, il neoclassico, si alternano la farsa, la satira, la caricatura utilizzando le tante tastiere metriche. Si spiegano insomma le strategie di montaggio che fanno del Faust un’opera moderna. L’esposizione analitica di Santoli acquista grande respiro interculturale aprendo finestre improvvise nell’officina creativa goethiana e spazi ricostruttivi di fonti e confronti, mai scontati, con risultati a volte più incisivi rispetto a non poca germanistica contemporanea tanto iperspecialistica quanto asettica. Santoli, esaminando la stratigrafia compositiva sia nell’introduzione sia nel commento, fa affiorare le suture o per usare una parola goethiana le Verkettungen più o meno solide e credibili di parti anche cronologicamente lontane. Queste Verkettungen avrebbero dovuto assicurare nell’edizione del 1808 uno Zusammenhang, più che un’unità organica, una valida cornice esterna tale da garantire la dimensione onnicomprensiva della materia faustiana così riassunta da Goethe a Eckermann il 3 gennaio 1830: «Il Faust è qualcosa d’incommensurabile e ogni tentativo di renderlo intelligibile risulta vano. Si deve anche considerare che la prima parte è scaturita da un’oscura condizione dell’individuo. La prima parte è quasi del tutto soggettiva. Nella seconda parte invece non c’è quasi niente di soggettivo, vi compare qui un mondo più elevato, ampio, chiaro e purificato dalle passioni». Tutto questo fa sì, come scrive Gerhard Kaiser nel saggio Faust o il destino della modernità, che «l’opera non stia dietro di noi ma davanti a noi». Quello di Santoli è stato definito un commento italiano, anzi fiorentino, come rilevano Bornmann e Di Noi nella premessa, anche per impulsi e suggerimenti raccolti da studiosi e critici come Migliorini, Contini, De Robertis, Longhi, Garin, Devoto, Croce, Imbriani, De Lollis, al fine di raggiungere quell’obiettivo riassumibile nella sentenza goethiana: «Le opere d’arte non s’impara a conoscerle compiute che siano: bisogna sorprenderle nel loro divenire per dire di comprenderle in qualche modo».

messa: «Sicuramente Santoli non avrebbe mai dato alle stampe il suo commento in un tale stadio di elaborazione». Già nel 1978 Bornmann osservava che la pubblicazione avveniva senza il consenso dell’autore. A mio parere, pur rilevato il mancato placet dell’autore per la pubblicazione, i vantaggi nel mettere a disposizione dei lettori un commento perspicuo e originale, nonché una introduzione lucida e ancora attuale, legittimano la scelta operata. Ma quali sono gli elementi caratterizzanti dell’apparato critico di Santoli? Santoli è stato uno dei primi interpreti della tragedia a contestare alla critica, prevalente fino a qualche decennio fa, mirata a dimostrare a ogni costo la compattezza del carattere del protagonista Faust con l’intenzione di rendere unitaria l’azione e credibile e armonica la favola. È vero, noi siamo abituati a leggere la prima parte della tragedia nelle sue 25 scene precedute dai 3 prologhi (4.614 versi), così come era stata licenziata nella sua redazione definitiva da Goethe nel 1808 (Faust. Der Tragödie erster Teil) dopo che nel 1790 erano state date alle stampe 20 scene con il titolo Faust. Ein Fragment (l’opera si interrompe con la scena del Duomo) e dopo che, ma questo lo si apprese solo nel 1887 a seguito del ritrovamento e alla stampa da parte di Erich Schmidt di 17 scene, composte da Goethe già nel 1775, e raccolte in una redazione denominata Goethes Faust in ursprünglicher Gestalt nach der Göchhausenschen Abschrift e convenzionalmente nota come Urfaust. Santoli richiama il carattere composito dell’opera scritta in un arco di tempo tanto ampio, dal periodo stürmeriano a quello classico-

Dall’alto: il prof. Fabrizio Cambi mentre tiene la relazione; la presidente della Casa di Goethe, Maria Gazzetti, rivolge un saluto ai presenti; gli attori Giovanni Scifoni e Massimiliano Vado mentre leggono passi del Faust

Santoli, oltre ad aver sceverato «le varie mani di colore stilistico», della tragedia ricostruisce o meglio decostruisce gli elementi che compongono il tessuto connettivo dell’opera facendo riaffiorare la sua vena comparatistica. La ricchezza di riferimenti che Santoli stabilisce con la storia, il costume, l’arte, la cultura letteraria dotta e popolare europea giustifica la sua accentuazione nell’inquadramento critico delle parti più arcaiche del cosiddetto Faust francofortese. Non a caso l’introduzione si apre con un ricordo dello stesso Goethe riportato nell’autobiografia Dichtung und Wahrheit in cui Faust è associato a Götz von Berlichingen, protagonista dell’omonimo dramma concluso nel maggio 1773. Del resto i due grandi amori del Goethe di Strasburgo, da cui Santoli è fortemente attratto, dove aveva soggiornato fra l’aprile 1770 e il 14 agosto 1771 per completare gli studi di diritto, sono Shakespeare, l’arte gotico-düreriana e più in generale il Cinquecento nordico, un modo per disintossicarsi dalla razionalistica e neoclassica Lipsia. Santoli si sbilancia parecchio su questi versanti. Raccogliendo la visione weltliterarisch di Goethe vedeva così confermata e rafforzata una sua profonda e costante convinzione negatrice dell’esistenza di una letteratura nazionale come sosteneva fermamente in un passo dal Diario di un critico nel 1940 in piena epoca fascista e durante la guerra: «Letterature nazionali, a propriamente parlare, non esistono, fatta eccezione della greca, dalla quale tutta la letteratura dell’occidente deriva. (...) Nell’età moderna, dai provenzali in poi, non c’è nulla di nazionale, nella letteratura come nella filosofia o nella pittura o architettura o religione. Una storia nazionale della letteratura è un assurdo scientifico». «Una storia nazionale della letteratura è una specie di sezione di un più vasto organismo, non un organismo in sé compiuto. Effettivamente esistono soltanto opere individue, che si tratta di intendere in sé e in relazione alla storia». Santoli recepiva così in pieno il concetto di Weltliteratur elaborato da Goethe nel 1827 nella rivista “Über Kunst und Altertum”.

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Perdita di un figlio: ricominciare si può Il 15 ottobre è la Giornata della Consapevolezza della perdita di un bambino in gravidanza e nel periodo infantile

Un’onda di luce che si propaga nel mondo hiaro di Francesco Torc

Alle 7 di sera in tutto il globo si accenderà una candela per lasciarla bruciare per almeno un’ora

La morte di un figlio è la perdita più devastante che ci sia e... “fidati del tempo per curare la ferita” o... “non era ancora nato”, o... “è piccolo quindi non ci sono ricordi legati” sono i luoghi comuni più insopportabili che si sentono quando si perde un figlio. Il fatto è che i genitori non devono seppellire i figli ma l’esatto contrario. Un figlio è un figlio tuo già quando vai a ritirare il test di gravidanza. Arrivi davanti a quella preziosa consegna con il cuore in gola. “Finalmente ci sei cucciolo mio”. Questo il primo pensiero, e d’istinto con le mani si coccola il ventre quasi a protezione. Una felicità immensa da raccontare urlando al mondo intero. E poi, basta una ecografia bastarda accompagnata dalla frase del ginecologo che ti annuncia la fine del suo battito a fare crollare i tuoi sogni dentro... e a vita. Così come basta un camice bianco per annunciarti che il tuo piccolo o la tua piccolina, che hai avuto dentro per nove amorevoli mesi, non c’è più. Piangi, ti disperi, non vuoi accettare. Non hai la forza di riurlare al mondo intero la tua sventura. Quella del suo papà, quella dei suoi nonni, quella dei suoi zii. Ti chiedi. Domani cosa farò? Sì, domani. La tua esistenza cambia per sempre. Ognuno al dolore reagisce in modo diverso. Sicuramente quell’immensa sofferenza ha delle precise fasi che partono dalla negazione e arrivano all’accettazione senza completare però il processo di desolazione profonda, la nuova realtà è dura da accogliere. Come ricominciare? Meno male che oggi, grazie a CiaoLapo Onlus la reazione ultima dei genitori colpiti da questo dramma umano è quella di stare insieme rompendo quel silenzio fragoroso. Con l’aiuto di associazioni sensibili, di operatori sanitari, cittadini, parenti e amici, portano avanti eventi culturali, manifestazioni, convegni che aiutano a superare e danno la speranza che si può ricominciare. Questo è un altro modo di reagire. Questo è il modo più giusto per ricordare i nostri angeli. Questo è il modo più emozionante per declamare i loro nomi. Sì, quel nome che non chiameremo mai ad alte voce ma che sussurreremo per sempre nel nostro cuore.

Conferenza-Spettacolo Il 15 ottobre è la Giornata della Consapevolezza della Perdita di un Bambino in Gravidanza e nel Periodo Infantile. Alle 7 di sera, i partecipanti, sparsi in tutto il globo, accendono una candela e la lasciano bruciare per almeno un’ora. Siccome il sole sorge in momenti diversi, questo evento viene descritto come “un’onda di luce che si propaga nel mondo”. Il mese della consapevolezza sulla morte infantile e sulla perdita in gravidanza (Pregnancy and Infant Loss Awareness Month) ha l’obiettivo di focalizzare l’attenzione pubblica su eventi quali morte intrauterina, aborto, morte neonatale e morte improvvisa del lattante. Ogni piccolo gruppo può dire di essere parte di un grande movimento internazionale. Uno di questo è L’Associazione MammacheMamme.

MammacheMamme in Calabria rappresenta CiaoLapo onlus A Cosenza, L’Associazione MammacheMamme si è prestata ad essere sede della sezione calabrese di CiaoLapo Onlus (unica associazione in Italia scientifico - assistenziale, per la tutela della gravidanza a rischio e della salute perinatale), e centro di riferimento per le famiglie che hanno subito un lutto perinatale, offrendo supporto psicologico e promuovendo gli aspetti culturali e scientifici della psicologia perinatale. La motivazione che spinge l’associazione culturale MammacheMamme è l’accoglimento di un bisogno, spesso silente, che accompagna i genitori che vivono questa esperienza sen-

A Cosenza l’associazione Mamma cheMamme si è prestata ad essere sede della sezione calabrese di CiaoLapo onlus centro di riferimento per le famiglie che hanno subito un lutto perinatale, offrendo supporto psicologico e promuovendo gli aspetti culturali e scientifici della psicologia perinatale

za ricevere l’adeguato e necessario sostegno. L’Associazione attualmente, ha avviato un Gruppo Gratuito di AutoMutuoAiuto “Parole in ConTatto” per le famiglie che hanno subito un lutto pretermine e un servizio di psicoterapia per i genitori in lutto con una speciale convenzione. Il gruppo, aperto, accoglie genitori accomunati da questo evento seppure in diversi momenti della loro elaborazione. Ogni genitore in ogni periodo dell’anno può partecipare agli incontri, previo colloquio informativo.

Ilhasindaco di Cosenza Mario Occhiuto accolto con impegno l’iniziativa di CiaoLapo onlus. I genitori italiani hanno celebrato la prima “Giornata della Consapevolezza sulla morte infantile e sulla perdita in gravidanza” il 15 Ottobre 2007, giornata che vedrà quest’anno il coinvolgimento in rete di 12 città italiane, tra cui la città dei Bruzi, in collaborazione con le associazioni locali e gruppi di genitori. Il primo cittadino di Cosenza, attraverso la conferenza spettacolo “Una candela per te, una Luce per noi” che si tiene mercoledì 15 ottobre alle ore 17.00 Casa delle Culture desidera mettere in luce l’importanza sociale che ha assistere le famiglie colpite da un lutto perinatale, sostenerle psicologicamente, formare gli operatori, sensibilizzare le istituzioni. All’interno della tavola rotonda sarà presentato il progetto di riqualificazione del “Giardino degli angeli” con l’istallazione delle Candele del ricordo. È inoltre, nei programmi del sindaco di Palazzo dei Bruzi, la riqualificazione del “Giardino degli Angeli” all’interno del cimitero di colle Mussano, dove sono state poste a terra le tombe dei “piccoli”. È un primo restyling, presto sarà un giardino, un luogo in cui possono trovare sepoltura i bimbi sfortunati considerando importante la loro esistenza e dando così ai genitori la possibilità di piangere la loro morte o celebrarla degnamente nel decoro. L’amministrazione comunale chiederà la collaborazione di scultori, artisti e fioristi da scegliere fra le brave maestranze locali. I genitori già hanno vissuto una tragedia perdendo prematuramente i loro figli, ora l’unica cosa che gli resta dei loro ciccioli, è poterli visitare in una dimora degna. L’appuntamento Coferenza Spettacolo: Una candela per te, una Luce per noi Mercoledì 15 ottobre alle ore 17.00 Corso Telesio - Casa delle Culture I contatti Gli incontri si svolgono con cadenza quindicinale e sono facilitati dalla dott.ssa M. Cecilia Gioia tel. 3888.3670740 (cecilia.gioia@libero.it) Amigdala Studio di Psicoterapia - Via G. De Rada 58/B Cosenza CiaoLapoOnlus: info@ciaolapo.it Mammachemmamme: info@mammachemamme.org.


sabato 11 ottobre 2014

Perdita di un figlio: ricominciare si può

Il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto

Il sindaco di Cosenza Occhiuto ha accolto l’iniziativa Infatti, attraverso la conferenza spettacolo “Una candela per te, una Luce per noi” che si tiene il 15 ottobre alle 17.00 alla Casa delle Culture, metterà in luce l’importanza sociale che ha assistere le famiglie colpite da un lutto perinatale. Sarà poi presentato il progetto di riqualificazione del “Giardino degli angeli” con l’installazione delle Candele del ricordo. In programma anche la riqualificazione del “Giardino degli Angeli” all’interno del cimitero di colle Mussano, dove sono state poste a terra le tombe dei “piccoli”

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sabato 11 ottobre 2014

Ciack su bellezze mozzafiato L'ultima opera dei registi calabresi Marco Caputo e Davide Imbrogno ha appassionato e commosso il pubblico del cineteatro "Garden" di Rende dove il film è stato presentato in anteprima

Fuga nel passato con l’Imbarcadero o di Pileria Pellegrin

L’ultima opera del duo Caputo-Imbrogno, prodotto dalla famiglia Biafora, importante realtà alberghiera di San Giovanni in Fiore, si pone come obiettivo la valorizzazione del territorio calabrese, rivelandosi così una vera e propria operazione di marketing territoriale. Operazione perfettamente riuscita giacché il film è ambientato in un paesaggio di montagna, tra luoghi di una bellezza mozzafiato che si stenta a credere così vicini alle nostre case. Girato completamente in Sila e con un cast d’eccezione in cui si annovera l’attore Tony Sperandeo, il musicista e produttore discografico australiano Hugo Race, come pure Giovanni Turco e Annamaria Malipiero, volto della TV italiana e della fiction, il film è in una fusione di luci e atmosfere rarefatte, tra i colori caldi del fuoco e della brace e quelli freddi e nebbiosi di un diafano risveglio. Esso narra di un “viaggio nel viaggio”, un’impresa che è una fuga, una “rivolta”, una “metafora” della morte o dell’inquietudine personale, un mezzo per “conoscere se stessi e il mondo”. Ed in questa opera il viaggio presenta i suoi caratteri essenziali: quello simbolico, del protagonista che attraverso di esso si mette alla prova; e quello pratico: il viaggio avviene perché risponde ad una necessità, nello specifico quella di consegnare un pacco. Quindi il tema centrale è legato al bisogno di cambiamento e di avventura, ma questo nasconde anche la nostalgia per la perdita di una parte della propria vita. Potrebbe definirsi nostos esistenziale, un ritorno al passato come metafora della vita, alla ricerca di un senso, di una identità. Ed esso risponde a una costellazione di obiettivi. Non può essere altrimenti perché sua essenza è l’inconsapevolezza dell’arrivo. In un luogo di montagna l’australiano Mark sta compiendo un viaggio. Deve andare di là del Grande Lago, al centro della montagna, perché sa di dover incontrare qualcuno e consegnargli qualcosa. Ad attendere Mark, oltre le rive del lago, vi è Attilio (Tony Sperandeo), un uomo di oltre sessant’anni, che da molto tempo attende l’arrivo dell’australiano. Entrambi avvertono il bisogno di rincontrarsi dopo molti anni, e di fare i conti con il proprio passato. In questa missione Mark incontrerà altre esistenze lungo il suo cammino, e ognuna di essa sarà parte di questa storia. Il passaggio del Grande Lago: una cesura tra il reale e l’irreale, tra il mondo dei viventi e quello dei morti. Tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere, con una mitica figura a scandirne il passaggio: il traghettatore. Una cesura tra l’universo dei “presunti” vivi ed il limbo in cui si rifugiano i “presunti” morti. «La speranza non è dei rivoluzionari» asserisce Attilio (Tony Sperandeo) moderno antieroe, perciò preferisce scappare, vivere da invisibile, da fantasma attraversato da mille altre esistenze per fuggire da se stessi.

La pellicola si pone come obiettivo la valorizzazione del territorio calabrese rivelandosi così una vera e propria operazione di marketing territoriale

Mark (Hugo Race) è l’alterego, ricerca del sé, dell’appartenenza, delle radici, per trovare risposta al suo malessere, alla sua inquietudine, una spinta che lo porta verso il proprio genitore, verso gli affetti negati, verso le proprie radici e la propria storia, una spinta che gli consente di non sentirsi senza appartenenza, e costituisce una risposta al sentimento del pericolo della propria identità. Struggente l’incontro chiarificatore ed agognato con il padre, una cerniera che apre alla libertà disperdendone le ceneri al vento, quel vento del Sud che ha il sapore della tradizione e della memoria. Emozionante la colonna sonora interamente scritta e composta dallo stesso Hugo Race. Elementi che hanno rapito il pubblico della prima. Componenti che hanno altresì dimostrato come con il sostegno, la lungimiranza e la perspicacia della sana imprenditoria calabrese - nello specifico della famiglia Barbieri di Altomonte che qualche anno fa ha prodotto per gli stessi registi L’Attesa; e del gruppo Biafora impegnato nella produzione de L’Imbarcadero - e di personaggi autorevoli del panorama artistico italiano ed internazionale, i giovani talenti possano esprimersi e portare avanti un’immagine della nostra regione diversa: di accoglienza, di ospitalità, di cultura, di leggende e di trasformazioni. La serata si è poi conclusa con la degustazione delle delicate e raffinate prelibatezze opera dello chef Francesco Biafora. L’imbarcadero dunque mostra dei protagonisti la solitudine e il desiderio di fuggire, ma anche il loro anelito alla ricerca del nuovo. Vivere è transitare in un presente che sembra senza prospettive e rimane come in perenne attesa. Le dimensioni della vita sono ristrette, vanno accettate, tollerate, anche se ben altro chiede il cuore. In mancanza di segni certi, l’unica cosa da fare è ancorarsi al presente, alle minime certezze della quotidianità, esse per lo meno si oppongono al vento del passato e alle incertezze dell’avvenire. Un avvenire che, nell’immediato, ha la forma di un autobus in viaggio verso il mare, verso un faro, verso un nuovo molo. Così l’imbarcadero diventa un punto di approdo ma anche di partenza, verso un nuovo orizzonte, verso una luce nella notte.

La locandina del film Sopra, una scena con l’attore Tony Sperandeo (a sinistra)


sabato 11 ottobre 2014

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Piccola grande star Lucrezia Cavaliere ha solo 6 anni, arriccia il naso e si diverte

Un’ugola d’oro che canta Mina

a di Giammarco Gioi

Lucrezia Cavaliere è sicuramente la cantante più piccola a cui abbiamo dedicato un’intervista. Ha solo sei anni. Sì, avete letto bene, 6 anni. È una vera star, riceve premi prestigiosi battendo spesso colleghi più grandi nelle manifestazioni a cui partecipa. I suoi primi fans sono Sergio, Antonella e Letizia. Precisamente la mamma, il papà e la sorellina. Il più soddisfatto è papà Sergio mentre mamma Antonella è la sua manager, la segue dappertutto e la sostiene. Letizia di soli 3 anni la imita. Silvia come amica del cuore la osserva. Sono tanti gli amici di famiglia che l’accompagnano per sentirla cantare. E lo possono fare perché un gruppo cosentino, i “Bandiera Gialla” le permettono di esibirsi insieme a loro in un percorso itinerante fatto di musica, buon cibo, divertito karaoke. Ha una spiccata capacità di dire e fare esattamente la cosa giusta al momento giusto. La bellissima Lucrezia ha il dono della voce, il dono della comunicazione, il dono dell’allegria, il dono dell’intraprendenza. Tutto questo semplicemente…arricciando il suo nasino, poi scoppia a ridere perchè lo trova divertente. Per lei è solo un gioco ma anche un modo per attrarre l’attenzione. Quando si esibisce arriva in punta di piedi, quando va via lascia nell’anima un grande rumore. Una semplice diva.

La sua vita Lucrezia Cavaliere è un’aspirante ballerina, una desiderosa cantante. Segue i corsi di danza nella scuola di Isabella Sisca, segue i corsi di canto iniziando di fatto ad educare la sua ugola. Sale sul palco…rilassata, canta e balla come una scatenata… parla con il pubblico e si diverte. Lei si diverte molto. Sì. Credo che questo lo sappiate già. E credo che solo questo possa spiegare il suo grande successo: non tutti hanno una voce del genere ok, ma soprattutto non tutti hanno quella grinta, non tutti hanno deciso di conoscere e apprendere musicalmente la “tigre di Cremona”, la grande Mina. Avete letto bene. Lei… canta Mina e “arriccia” il naso. Noi ci sentiamo onorati di aver scritto di questa bellissima voce e felici di aver contribuito a farla conoscere ai nostri lettori.

La sua carriera È una studentessa quasi modello della prima elementare. Premiata a “The voice Calabria junior”, ha incassato la fascia e la targa di “Ambasciatrice della Pace” direttamente da Ginevra. Si è esibita per il “Tempio dell’arte” cantando Mina. Spesso si esibisce con i “Bandiera Gialla” suoi sostenitori musicali accaniti. Di recente si mostra nei borghi più belli della Calabria facendo tanti “rumors” . E ancora. Molte le competizioni importanti sostenute. Una grande artista canta soprattutto per il sociale. Lei lo ha fatto. Ha partecipato come corista a 30 ore per la vita.

IRenato suoidicavalli di battaglia Mina, Uomini soli dei Pooh, Portati via di Mina. IlLesuo look piacerebbe ispirarsi all’istrionica Loredana Bertè.

Loredana Bertè

Sono tanti gli amici di famiglia che l’accompagnano per sentirla cantare E lo possono fare perché un gruppo cosentino, i “Bandiera gialla” le permette di esibirsi insieme in un percorso itinerante fatto di musica, buon cibo, divertito karaoke


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sabato 11 ottobre 2014

A tu per tu con la storia È un anno denso di avvenimenti il 1844 non solo per la storia della città bruzia quanto per quella che crea a livello nazionale i presupposti del Risorgimento italiano

La missione di De Sanctis a Cosenza

È un anno denso di avvenimenti il 1844 non solo per la storia di Cosenza quanto per quella che crea a livello nazionale i presupposti del Risorgimento italiano. Nella prima metà di marzo i moti che si concludono con il processo e la condanna dei rivoltosi, alla fine di luglio la presenza dei fratelli Bandiera che è conclusa dal processo e dalla fucilazione al vallone di Rovito. Sul finire dell’autunno l’arrivo di Francesco De Sanctis. Che succede a Cosenza? Lo chiediamo allo scrittore Coriolano Martirano che con tutta la sua disponibilità fa il punto della situazione quando lo incontriamo nella ricca biblioteca di famiglia al secondo piano del Palazzo cinquecentesco di Piazza Spirito Santo. C’è un nesso tra l’effervescenza dei moti di marzo e quelli di luglio e l’arrivo a Cosenza del massimo esponente della cultura del tempo? Francesco De Sanctis non è un qualsiasi professore di Napoli. È il cattedratico che è punto di riferimento del mondo intellettuale non solo del regno di Napoli ed è anche il punto di riferimento di quella politica unitaria che erede dell’illuminismo affida alla cultura il comito di vivificare il vento risorgimentale. I moti del ‘44 e l’avventura dei Bandiera porgono Cosenza al centro di quella che Carducci chiamerà la primavera della patria. Ufficialmente il De Sanctis sceglie Cosenza come rifugio politico ma è nascosto nel diversivo pedagogo Barone Guzzolino. Invece? I rivoltosi del ‘44 ed i Fratelli bandiera difronte al Tribunale Militare dichiarano che il loro intento che è come dire l’obiettivo della loro azione è stata l’unità nazionale che la monarchia borbonica a loro modo di vedere può e deve realizzare. Attilio Bandiera legge ai giudici, tutti militari, una lettera scritta a sua maestà il Re di Napoli Francesco II di Borbone. Che dice la lettera? Afferma che la loro azione mirava e mira a divulgare nel popolo la necessaria utilità di offrire alla monarchia borbonica ogni obbedienza e collaborazione per varare nella concretezza operativa la realizzazione della unità nazionale sotto la Bandiera Borbonica. Nel suo recente libro, Martirano, pubblicato da Orizzonti Meridionali con il titolo mastro Francesco sostiene che il De Sanctis è arrivato a Cosenza non per fare il pedagogo quanto per convincere il movimento pro-monarchia borbonica a indirizzare tutte le sue forze verso il mirino della unità nazionale. Il pedagogo l’ha fatto. È l’ha fatto bene. Ma ha anche e ripetutamente incontrato nel retro delle farmacie e dei caffè e gli esponenti liberali vicini alla Chiesa e quelli del libero pensiero e tutti coloro del movimento unitario. Ecco la novità. Alla luce di una documentazione fino ad ora rimasta sepolta negli archivi, emerge che il motivo vero della presenza del De Sanctis a Cosenza è quello in un primo momento di indagare sulla consistenza di un movimento unitario vicino a Francesco II ed in un secondo momento di cambiare il suo percorso e di fare convogliare tutte le forze nel movimento unitario nazionale. Il compito affidato a De Sanctis trova però una situazione addirittura paradossale perché la tanto amata vicinanza del movimento cosentino alla monarchia borbonica trova il netto rifiuto di Francesco II. Il suo libro, Martirano, è molto interessante laddove sottolinea che il progetto dei moti del ‘44 e dei Bandiera non trova riscontro nella corte di Napoli.

Lo scrittore Coriolano Martirano fa il punto della situazione quando lo incontriamo nel Palazzo cinquecentesco di Piazza Spirito Santo

Mostra a Cosenza

“Ai Rivocati 63” ll Centro internazionale per la cultura e le arti visive in Calabria in Via Rivocati 63, presenta in occasione della decima giornata "Amaci" una collettiva d'arte dal titolo "ai Rivocati 63" carte, pitture e installazioni. la mostra comprende opere dei maestri: Salvatore Anelli, Bizhan Bassiri, Enzo Bersezio, Dario Carmentano, Lucilla Catania, Francesco Correggia, Luce Delhove, Teo De Palma, S. Dominelli,Bruno Ceccobelli, Franco Flaccavento, Alessandro Fonte e Shawnette Poe, Adele Lotito, Max Marra, Franco Marrocco, Albano Morandi, Tarcisio Pingitore, Leonardo Santoli, Cloti Ricciardi, Fiorella Rizzo, Giuseppe Salvatori e Gianfranco Sergio. C'è Vertigo, l'associazione per l'Arte contemporanea, nata con l'ambizione di dare alla città di Cosenza (ma anche a tutta la terra di Calabria), in un momento in cui il Museo all'aperto era di là da venire (così come le mostre a Palazzo Arnone, già persesi per strada), la possibilità di conoscere, in maniera continuativa, organica e originale, con un progetto "educativo" di lunga gittata, l'arte contemporanea più attuale e valida, in uno spazio (privato) unico in città, dove l'artista "costruisce" le sue proposte in piena libertà, prescindendo da logiche meramente mercantili. Oggi, lo spazio di via Rivocati (che ospita anche manifestazioni letterarie) si rinterroga, attraverso un'ampia esposizione dei "suoi" artisti, con la città e col quartiere scientemente scelto per la propria sede. Un quartiere, quello dei Rivocati appunto, di tradizione storica e di posizione strategica, cerniera tra vecchia e nuova Cosenza, vero punto di sutura per quel distacco che da sempre si consuma tra le due realtà. Un quartiere infelicemente lasciato a se stesso, che potrebbe diventare, proprio per le sue caratteristiche, il cuore "artistico" attivo della città. Ma, l'attenzione e le volontà politiche e istituzionali latitano colpevolmente, indirizzate evidentemente altrove. Tuttavia, per fortuna, ci sono realtà diverse che ci confortano e ci stimolano a continuare come la presenza della carta stampata, del web e di alcune riviste d'arte specializzate (ma non dell'ineffabile TG3 regionale, diabolica cassa di risonanza solo per amici "eletti", cocciutamente sordo a ogni proposta non congeniale al suo "privilegiato casellario"), l'attenzione qualificata di giovani giornalisti e critici, le relazioni interregionali costruite, l'interesse suscitato in campo nazionale, il riconoscimento e l'apprezzamento d'artisti di rilievo, nonché quella d'esperti collezionisti, la presenza costante, numerosa e attenta di visitatori alle inaugurazioni, le visite quotidiane talvolta timide e piene di curiosità (ora entusiastiche, ora perplesse) di molti giovani che spesso sembrano scoprire mondi inimmaginati e che Vertigo è fiera, al di là d'ogni istituzionale pigrizia e indifferenza, di poter continuare a proporre loro e alla sensibilità di tutte le persone interessate. La mostra rimarrà aperta tutti i giorni dalle ore 17,00 alle ore 20,00 tranne il sabato e la domenica o su appuntamento contattando il seguente numero: 3427186496.

Esattamente. Francesco II che è figlio di Maria Cristina di savoia non accetta l’offerta di questo movimento unitario soprattutto per la sua devozione e per la sua obbedienza alla Chiesa. Teme quella scomunica che poi colpirà Cavour e Vittorio Emanuele II. Quindi ai liberali cosentini, e quelli monarchici e quelli repubblicani en quelli giobertiani vicini a sua santità, non resta altro, magari a malincuore, di diventare una ala di quel movimento unitario che ha una triplice strada: a Torino Cavour e i Savoia, a Roma Gioberti e Pio IX, a Milano Mazzini e la Repubblica. Il tutto quindi finisce con la vittoria di Torino e di Vittorio Emanuele II di Savoia. Chiaro? Questo è un altro discorso. Il libro di Coriolano Martirano scritto con dovizia di particolari colti da una attenta verifica dei documenti, è arricchito con quella arte creativa che ne rende piacevole la lettura e che affida a Cosenza un compito sino ad ora sconosciuto dell’Unità Nazionale.


sabato 11 ottobre 2014

Ricordo struggente Iniziava nel Polifunzionale di Arcavacata l’anno accademico1974/75. Per l’insegnamento di Storia contemporanea aveva inoltrato domanda il professor Antonio Guarasci libero docente di Storia del Risorgimento

Sotto il profilo scientifico la richiesta di Guarasci non suscitava problemi, ma era d’ostacolo il ruolo di presidente della Giunta della Regione Calabria (primo nella storia) che esercitava

Una persona della Calabria “per bene” di Pietro De Leo

Stava per iniziare nel Polifunzionale di Arcavacata l’anno accademico1974/75: il secondo della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Si affinavano le attribuzioni degli insegnamenti vacanti da parte del comitato coordinatore composto dal professor Gianvito Resta dell’Università di Messina, da Boris Ulianich dell’Università di Napoli e da Gianfranco Folena dell’Università di Padova, particolarmente attenti nella selezione delle innumerevoli domande pervenute, che talora rasentavano il ridicolo, come le 47 richieste di una professoressa di Liceo, la quale pretendeva comunque di avere un incarico. Per l’insegnamento di Storia contemporanea aveva inoltrato domanda il professor Antonio Guarasci, libero docente di Storia del Risorgimento ( disciplina non prevista nello Statuto dell’Unical). Sotto il profilo scientifico, corredato da numerose pubblicazioni, la richiesta del Guarasci non suscitava problemi, ma era - invece - di grande ostacolo il ruolo di presidente della giunta della Regione Calabria (il primo nella storia) che egli esercitava con grande impegno a partire dal 1970, quando la Democrazia cristiana visse le elezioni e concertò una giunta di centro- sinistra nonostante il burrascoso inizio segnato dalla Rivolta di Reggio capeggiata del Msi all’insegna del “bolla chi molla”.

Come può svolgere tale compito, si domandava il rettore Beniamino Andreatta - tenace assertore dello Statuto speciale dell’Unical, che prevedeva tempo pieno e totale dedizione dei docenti nei Dipartimenti ai quali erano assegnati “de iure”? «Ritengo - affermava Andreatta - che un presidente della Giunta regionale non abbia nemmeno un quarto d’ora di tempo libero». Guarasci aveva insegnato come libero docente Storia del Risorgimento nella facoltà di Magistero dell’Università di Lecce (oggi del Salento). La libera docenza - vale la pena ricordare - era stata introdotta nell’ordinamento universitario dal R.D. 4 giugno 1938, n. 1269 e prevedeva che laureati e studiosi, i quali superavano un esame di abilitazione per titoli, conseguivano l’abilitazione all’insegnamento per una determinata disciplina, spesso “secondaria”/ “facoltativa”, in mancanza assenza o in aggiunta a quella ricoperta dal titolare di cattedra. Tale funzione non era più in vigore, in quanto abolita quattro anni prima con legge 30 novembre 1970. Data la personalità di Antonio Guarasci, il quale si era fortemente impegnato per la realizzazione dell’ateneo calabrese (sognando il “Campus” nella piana di Rogliano d’intesa con Giacomo Mancini), si tentava un nobile compromesso nel nucleo di docenti del dipartimento di Storia, consapevoli tutti - per esperienza diretta - che il Comitato ordinatore preferiva scegliere giovani affermati già in prestigiosi Atenei, desiderosi di sperimentare quel modello innovativo previsto dallo Statuto dell’Unical, invece di far trasmigrare dalle scuole superiori docenti stimati, ma privi di titoli adeguati. Basti ricordare una professoressa di liceo della Provincia di Cosenza, che presentò 27 domande per altrettante discipline! Si pensava di far assegnare al professor Guarasci un incarico a tempo definito, o a una serie di lezioni / seminario etc., tenuto conto soprattutto della disponibilità dell’interessato a svolgere tale compito a titolo gratuito. Ipotesi che dovevano essere vagliate dal Comitato ordinatore, non senza l’avvertenza - come suggeriva il collega Paolino Cavuoto, fervido democristiano vicino a Riccardo Misasi - delle enormi ricadute specialmente sul Dipartimento che la presenza del Presidente della Giunta regionale avrebbe comportato. Svolgendo le funzioni di sostituto del direttore di dipartimento, d’accordo con il professor Antonio Guarasci fissammo un incontro al Polifunzionale la mattina di mercoledì 2 ottobre 1974, alle ore 9,30. Fu così informato sulle nostre iniziative da proporre al Comitato ordinatore che si sarebbe riunito nella seconda metà del mese. Egli acconsentì, rimarcando che il suo fosse «insegnamento a titolo gratuito» e mi consegnò in dono alcune sue pubblicazioni per la Biblioteca del Dipartimento e attratto dalla pubblicazione del Codice da Vinci, mi disse che presto ce lo avrebbe portato in dono. Purtroppo non sarebbe stato così!. Ci salutammo affettuosamente. Erano quasi le 10,30. Egli si diresse sulla Salerno-Reggio Calabria, dove nei pressi di Polla si spense tragicamente nella sua auto schiacciata da un camion: lui che, prima di laurearsi in filosofia a Roma, aveva combattuto da soldato nella battaglia di El Alamein e fatto prigioniero, era stato recluso a Seattle. Non potrò mai dimenticare la telefonata di un collega che mi raggiunse a casa alle 14 dello stesso giorno. Avendoci visti assieme quel mattino, mi comunicò il tragico evento, che ovviamente annullava qualsiasi ipotesi di affidamento disciplinare. Era passato a miglior vita a soli 56 anni! Una vita nobilmente spesa per la Patria e per la Calabria. Una splendida persona della Calabria “per bene”, la quale resterà per sempre nei nostri cuori, e sarà indicata come modello alle nuove generazioni, grazie anche alla Fondazione a lui intitolata, che il 2 ottobre u. s. nel quarantennale della sua dipartita lo ha commemorato, alla presenza della moglie donna Geltrude Buffone. C’è ora da augurarsi che la Regione da lui tanto nobilmente “servita”, possa intraprendere percorsi virtuosi, e non arruotarsi su vecchi binari con personaggi ondivaghi e desueti, abili a dire e incapaci di operare, per dare speranza soprattutto ai giovani calabresi, che guardano perplessi al loro futuro.

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sabato 11 ottobre 2014

Travolta da un tragico destino L'azienda di una cosentina situata a Borgo Tossignano di Imola, travolta dall'acqua e dal fango Un ritorno forzato e speriamo momentaneo nella terra natìa dal sapore amaro

L’amaro in bocca e il fango sulle mani o di Ettore Torchiar

L’esondazione del fiume Santerno ha centrato Borgo Tossignano di Imola in pieno portandosi via anche il famoso autodromo. Un marasma provocato da una bomba d’acqua che si è spianata imprevista inondando attività economiche, abitazioni, terreni, strade. Una di queste aziende che ha subito maggiori danni è della signora Giuliana Andrieri, titolare di una trattoria che si chiama LungoFiume (già Gattonero) situata a Borgo Tossignano, che è tra i comuni colpiti più duramente. Lei è di Cosenza, è andata via all’età di 21 anni. Ora, dopo 31 anni è dovuta tornare nella città dei Bruzi non come turista, ma come ospite presso alcuni parenti. Non ha più la sua attività che per anni l’ha sfamata. Ora non ha più nulla. Questa la storia.

La storia Giuliana Andrieri, parte dalla Calabria e si stabilisce a Borgo Tossignano perché sposa un uomo del posto nel 1983. Entra a far parte della trattoria di "famiglia" avviata negli anno ‘60 dai suoi suoceri. Per 31 anni quell’attività, che ha amato fin dal primo giorno, diventa il suo lavoro e l’unica fonte di sostentamento per crescere suo figlio. Gestiva la sua attività all’insegna della più tipica "conduzione famigliare", lavorando così con uno staff collaudato in grado di instaurare con i clienti un rapporto di fiducia e di "farsi un nome". Sedersi e consumare un pasto caldo da lei era come farlo a casa propria. Giuliana non ha mai fatto mancare la saggia accoglienza. La trattoria di Giuliana Andrieri si chiama LungoFiume (già Gatto Nero) proprio per la sua vicinanza con il Santerno, una presenza familiare, che mai avrebbe immaginato potesse renderle la vita così difficile, costringendola a fare ritorno in Calabria, nella sua natia Cosenza, ospite dei suoi parenti. A Imola esonda il Santerno e non risparmia strade, case, ponti e aziende L’esondazione del fiume Santerno ha colpito all’improvviso e senza farsi annunciare come un fulmine a ciel sereno. La bomba d’acqua esagerata, tracimando ha provocato la rottura degli argini del fiume, trascinando con se tutto. Vigneti, frutteti, ristoranti e agriturismi, sono stati violentemente raggiunti dalle acque, che non hanno risparmiato neppure l’autodromo di Imola. Piccoli imprenditori, agricoltori, che rischiano di vedere fallire il lavoro di anni a causa dell’esondazione sono in ginocchio. Tra gli imprenditori che hanno subito maggiori danni c’è la signora Giuliana Andrieri, di origini cosentine, titolare della trattoria sita a Borgo Tossignano, uno dei

L’esondazione del fiume Santerno ha centrato in pieno anche il famoso autodromo Una delle aziende che ha subìto maggiori danni è quella di Giuliana Andrieri, titolare di una trattoria


sabato 11 ottobre 2014

Travolta da un tragico destino

In apertura Giuliana Andrieri durante l’intervista Alle sue spalle la trattoria completamente inondata A sinistra, tecnici della Protezione civile osservano l’esondazione del Santerno Nelle altre foto gli evidenti danni subìti all’interno e all’esterno del ristorante

È andata via dalla città dei bruzi a 21 anni Ora è dovuta tornare non come turista, ma come ospite presso alcuni parenti che con amore l’hanno accolta Non ha più la sua attività non ha più nulla Questa è la sua storia...

comuni colpiti più duramente. La sua è una storia in grado di simboleggiare le tante famiglie attualmente sconvolte a causa dell’esondazione. Nonostante la crisi, infatti, la signora Andrieri stava riuscendo a cavarsela egregiamente, lavorando duramente giorno dopo giorno, selezionando i prodotti e prendendosi cura con la medesima attenzione dell’avventore di passaggio come dei suoi amici e concittadini che da anni non perdevano occasione per consumare un pasto alla trattoria. Giuliana ha saputo combattere la crisi con la perseveranza e la volontà, scegliendo sempre la qualità e l’onestà, ben consapevole che in un ambiente come quello della ristorazione la genuinità paga. Ma se è possibile combattere la crisi con le risorse morali lo stesso non si può dire per l’acqua, che quando arriva devasta tutto quello che incontra.

Appello alle istituzioni Con la conta dei danni ancora in corso, mentre la Coldiretti valuta le conseguenze che l’esondazione avrà sull’agricoltura delle zone maggiormente colpite, la situazione sta lentamente tornando alla normalità, anche grazie all’ottimo lavoro svolto in sinergia fra le amministrazioni locali, le forze dell’ordine, i vigili del fuoco, la protezione civile e i numerosi volontari che, a poche ore dall’esondazione, si sono impegnati a ripulire le vie principali del proprio borgo. La signora Andrieri non può fare mancare i suoi ringraziamenti al vicesindaco Mauro Ghini di Borgo Tossignano per lo scrupolo, la costanza, l’attenzione con cui ha seguito il suo disastro. Mentre in prima linea e alla ricerca di rapide risposte dal governo centrale c’è stata Clorinda Mortero, sindaco di Borgo Tossignano che chiede aiuti per le famiglie e per le imprese. Per questa ragione l’appello di Giuliana Andrieri, e quello di chi ha vissuto la sua stessa sorte, è rivolto alle istituzioni tutte, affinché non abbandonino gli imprenditori in difficoltà in questa prova durissima, e sappiano farsi carico di quanto accaduto per far ripartire e velocemente la quotidiana vita. Ora Giuliana è dovuta tornare a Cosenza non da turista ma da alluvionata sfollata e senza nessuna risorsa. È vero che è stata ospitata dalla zia e dai cugini con tanto amore. È vero che è viva, è vero che vuole rialzare il capo e con fierezza, ma è vero ancora di più che Giuliana a Brorgo Tossignano ha passato 31 anni della sua vita, in quella trattoria e per quella trattoria ha "buttato l’anima". La sua unica colpa è stata quella di credere nelle opportunità offerte da un lembo di terra bagnata dal Santerno. Ha abbandonato in fretta la "lagane e ceci" della sua cultura e ha appreso, non senza fatica e impegno l’arte della preparazione dei tortellini e delle fettuccine, lasciando da parte la sua meglio gioventù. Sono passati 31 anni pensando solo a lavorare per poter crescere il suo unico figlio. Ora, si sente sola, con l’amaro in bocca e il fango sulle mani. La trattoria “Lungo Fiume” (già “Gatto Nero”) oggi è quasi completamente distrutta.

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sabato 11 ottobre 2014

La “rivelazione” di Caterina Tagliani Hanna Arendt e il mistero della sua produzione

Una tesi di laurea, diventa un saggio, su una delle donne più misteriose del secolo scorso: la filosofa, anche se lei rifiutava di essere definita tale, Hannah Arendt. Il saggio, edito da edizioni Ursini di Catanzaro, è della poetessa Caterina Tagliani, di Sellia Marina, anche se è originaria di Crema. Laureata in pedagogia, la sua tesi di laurea fu proprio sull’Arendt e, ci racconta la scrittrice, per niente facile ricostruire la donna, l’attività e il pensiero dell’Arendt, pochissima la letteratura al riguardo in Italia.

La donna che ha sfidato il pensiero La Tagliani è stata per oltre trent’anni maestra della prima infanzia fin dal 1986 nella cittadina in provincia di Catanzaro, dove ancora vive e, dove la sua famiglia è nata e cresciuta. Nel 2008 arriva il master in bioetica e sessuologia, all’università di Messina, riaffrontando nuovamente il discorso sull’Arendt con una tesi sui diritti della persona e l’esercizio delle virtù nelle opere di Hanna Arendt. Caterina Tagliani in questo saggio di 200 pagine (la tesi è di 500 pagine, perché scritta su un lato solo, è sintetizzata) cerca di rispondere alle esigenze scolastiche degli studenti, che oggi nei testi trovano l’Arendt tra i pensatori del ‘900. Orfana di padre l’Arendt, ebrea tedesca, visse la sua vita con una madre colta, che la instradò culturalmente sulla via del pensiero di libertà, inteso come bene assoluto, profondo, al contrario del male che è così superficiale, da essere banale e che affronteremo più avanti. In seguito emigrò, perché arrestata dalla all’estero, da una nazione all’altra fino al 1941 negli Usa. Interessante nel testo l’affrontare il concetto di polis e di uomo politico. Un testo, ci dice Caterina Tagliani, che affonda quindi le sue radici nell’antichità classica, nel luogo in cui nacque per la prima volta la realizzazione spaziale della libertà dell’uomo, che era appunto la polis. Spazio pubblico, in cui all’uomo è dato di poter partecipare e sentirsi parte di un sistema tra eguali. L’Arendt nel tempo non fu certo un facile personaggio da comprendere, le sue idee, contestate e rapportate ai tempi, facevano del suo pensiero sulla polis non certo un concetto agevole in un ambiente che mutava dopo lo sconvolgimento della II guerra mondiale. La Tagliani mostra nel saggio che di certo non si tratta di un approccio romantico del concetto di polis, un volere tornare indietro all’era classica, fra l’altro impossibile, nel momento in cui il cambiamento è in atto, ma semplicemente ribadire di come l’uomo politico debba conquistare quello spazio, che deve, mantenere libero per essere realmente rappresentativo di quella libertà di pensiero e di interessi che spingono dal basso a partecipare. Della produzione intellettuale dell’Arendt, la Tagliani prende in esame il concetto di totalitarismo (Le origini del totalitarismo - 1951), in cui è espresso anche, lontano dalle vicende, che portarono dopo ai processi sulla shoah, il concetto del male.

Una tesi di laurea, quella della scrittrice, che diventa un saggio su una delle donne più misteriose del secolo scorso Edito da edizioni Ursini di Catanzaro

Il lavoro della Tagliani, lo abbiamo detto, è diretto agli studenti, in un’epoca la nostra in cui il senso critico della realtà, appare sempre più necessità spirituale per l’adolescente. Caterina ci parla a lungo del suo amore per questa filosofa tedesca, che nella sua vita cercò sempre di porre un’analisi oculata su quando avvenne negli anni del nazismo, che per noi Italiani, aggiunge la Tagliani, non fu della portata che ebbe nel nord dell’Europa. Vero è che vi furono le leggi razziali, ma che le condizioni persecutorie che si ebbero in Germania in Italia furono di portata inferiore. La Tagliani affronta anche il sentire critico dell’Arendt nei confronti degli esecutori della shoah, poiché inviata nel 1960 a Gerusalemme, seguì come corrispondente di un giornale, il processo al nazista Eichmann, che le apparve un uomo mediocre, incapace di distinguere tra bene e male, un semplice esecutore di ordini, di cui egli stesso non ne comprendeva la gravità, tanto e più che era un intero stato ad avere votato quel sistema. Ciò le procurò molte accuse di antisemitismo, allontanando dall’Arendt la vera percezione di ciò che era stato il suo pensiero, non era per niente conservatrice più vicina alle forme di spontaneismo dell’esperienza rivoluzionaria dei Consigli, teorizzata da Rosa Luxemburg (politica, filosofa e rivoluzionaria polacca naturalizzata tedesca, teorica del socialismo rivoluzionario marxista) estranea al problema del potere e attiva nella difesa dei diritti civili e delle minoranze. Per concludere, per l’Arendt vi sono profonde analogie tra nazismo e stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l’assenza di ogni salvaguardia delle libertà civili, quella libertà che è determinante nello spazio politico dell’uomo politicus. La Tagliani ha analizzato con noi il concetto importantissimo della libertà umana, che si esplica secondo la relazione. Umano, infatti è, per l’Arendt, l’agire insieme, che costituisce l’ambito della politica e presuppone un linguaggio comune per il rapporto nella pluralità delle persone. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica, dove la politica è il contesto della libertà, dell’emergenza del nuovo e la sfera privata, corrispondente all’oikos dei Greci (caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzione).

«È... mia opinione che, scrive la Arendt in una lettera a Gershom Scholem, il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale». Pensiero interessante da cui scaturì il libro nel 1963 La Banalità del male.

LdC Caterina Tagliani


sabato 11 ottobre 2014

XV

Pillole di fede La chiesa evangelica pentecostale di Tortora-Scalea con il pastore Salvatore (Rino) Mancuso di Lucia De Cicco

Chiesa evangelica pentecostale di Tortora-Scalea, con il pastore Salvatore (Rino) Mancuso, abbiamo preso parte al rito della memoria dell’ultima cena del Signore, che differisce dal rito dell’Eucarestia cattolica, perché non si attua la transustanziazione, cioè il pane e il vino non diventano realmente corpo e sangue di Cristo, ma non perché, ha affermato il pastore Mancuso, durante la celebrazione, Dio non sia in grado di compiere questa trasformazione della materia, ma perché la memoria di ciò che è stato è irripetibile e valido non solo per il tempo in cui avvenne, ma per tutti coloro che arriveranno. La nuova appartenenza all’Evangelo, consiste nel nuovo battesimo, che non annulla il precedente: semplicemente consiste in un alto esempio di consapevolezza, del volere appartenere esclusivamente a Cristo Gesù. A Tortora avviene immergendo la persona, vestita interamente di bianco, nel mare o nel fiume.

La memoria della Cena Il memoriale del Signore della mensa Pastore Mancuso, come avviene il suo passaggio dalla dottrina cattolica alla chiesa evangelica? Ero adolescente, frequentavo la Chiesa cattolica spinto da mia madre, fervente praticante, ma non ero assiduo. Capitò che nella città di Cosenza venne posta una tenda, molto umile, in cui mi invitarono e dove si predicava il Vangelo. Ascoltai per la prima volta un pastore che proclamava il Vangelo, svelandomi un mondo nuovo. Era il 1970 e ricordo che mi piacquero i canti con il messaggio, molto semplice e lineare e così iniziai a frequentare quella comunità evangelica. La chiesa attualmente si trova a Cosenza ed è guidata ieri come oggi dal pastore Giovannini. Cominciai a frequentare e piano piano cambiai la mia posizione. Stiamo attenti: non è un cambio di religione, ma semplicemente di posizione. Nella Bibbia è scritto che Cristo è la porta attraverso cui passare. Nel Vangelo di Giovanni: «Chi accetta Cristo ha il diritto di diventare figlio di Dio». Riguardo al rito battesimale... Il Battesimo com’è inteso dagli evangelici è un sacramento istituito da Gesù, (noi evangelici crediamo in due soli sacramenti: nella Cena del signore e il Battesimo). Atto in cui si decide pubblicamente di abbracciare la fede in Cristo. I neofiti sono tutti vestiti di bianco, compreso il pastore; si discende nelle acque e si avvia la cerimonia del battesimo. Era così in origine e si ripete il Battesimo di Gesù. Nel corso dei secoli è cambiato per ragioni precise, a causa delle epidemie, si preferì solo bagnarsi con poche gocce di acqua, e ciò è diventata istituzione, in seguito. Come si è ritrovato a Tortora da Cosenza? Ero assistente pastore in una delle chiese di Cosenza; una sorella di origine siciliana che per motivi di lavoro si trasferì a Tortora dal Belgio, richiese che si costituisse un gruppo anche in questa località. Era il 1982, fine novembre, quando il pastore della chiesa di Cosenza, mi propose di viaggiare per compiere degli incontri nel luogo. Nacque il primo gruppo e crebbe nel tempo. Nel 1987 con la conversione di un venditore ambulante, che per il suo lavoro aveva tanti amici, riuscì con la sua opera di evangelizzazione a convertire anche un gruppo a Scalea, Cs. Dopo un poco si avvertì la necessità anche di creare una chiesa evangelica a Scalea. Chiesi il trasferimento definitivo dal 1989 a Tortora, perché mi era diventato difficile viaggiare e gestire le due realtà pentecostali, nate rispettivamente a Tortora nel 1983 e a Scalea nel 1985. Evangelo e missione... Noi ci spostiamo molto e crediamo nella condivisione del messaggio. Perché nella condivisione si cresce e non si rimane fermi nelle proprie posizioni, ma Dio permette qualcosa di nuovo. Avremo ospite, domenica 19 ottobre, un fratello evangelista, proveniente dall’Africa, che per tutta la settimana dal 6 al 12 di ottobre sarà presso la comunità Betel in via Popilia a Cosenza. Eucarestia e Memoria dell’ultima Cena del Signore... Le differenze? Dio è onnipotente e potrebbe benissimo compiere il mutamento della sostanza in carne e sangue dal pane e il vino. Ma è necessario? e perché? La Bibbia è chiara a questo riguardo: nell’epistola agli ebrei si dice chiaramente che il sacrificio di Cristo è unico e irripetibile e,

eucarustica, che differisce dal rito celebrato nelle chiese cattoliche

La celebrazione della cena del Signore con il pastore Mancuso

soprattutto, sufficiente per tutto il corso dei secoli. È essenziale, infatti, ripetere la memoria, perché Cristo dice: fate questo in memoria di me. Ci ha lasciato quindi un ricordo, senza sminuire l’elemento della sacralità dell’atto, che è comunitario e al quale accostarsi con rispetto e con la richiesta a Dio di una coscienza migliore. Sulla confessione e il perdono... Crediamo nel supporto e dialogo con il credente, ma non crediamo nella possibilità sacerdotale di rimettere i peccati in nome di Dio. L’aspetto sacerdotale, tra il Vecchio e Nuovo Testamento è mutato. La parola "sacerdote" significa intermediatore. Una volta venuto Cristo, il sacerdozio di Cristo non si trasmette, dice l’epistola agli ebrei, diventando sommo sacerdote, e tutti i suoi credenti diventano sacerdoti. Perciò non crediamo nella remissione dei peccati per opera di un uomo. Nell’epistola agli ebrei, Cristo ha spezzato la cortina che divideva l’accesso al Padre; il luogo santissimo dal luogo santo; e l’ha fatto per darci libertà di accesso a Dio. Quando egli spirò in Croce, ci fu un grosso terremoto e la cortina del tempio si squarciò da cima a fondo. Sul perdono tra fratelli: questo perdono va dato settanta volte sette a fronte dell’ammissione della colpa verso il fratello offeso, che è tenuto a perdonare. Il Banco delle opere di carità è il banco alimentare presso cui voi evangelici vi rifornite per distribuire ai bisognosi... È un banco presso cui ci riforniamo per redistribuire a tutte le famiglie indigenti senza distinzione di etnia. Siamo in contatto con i servizi sociali del Comune, che ci forniscono le liste dei bisognosi. Il carico avviene a Cirò Marina, secondo la disponibilità. Organizziamo una lista su cui preparare i pacchi da distribuire agli indigenti. Tutto è regolato e digitalizzato nel nostro deposito. Adesso il progetto è stato rifinanziato per sette anni, mentre prima era biennale; per cui si finiva per essere sempre in emergenza a causa dei procedimenti burocratici. Tengo a precisare che poiché la nostra utenza è varia, attraverso la carità non facciamo opera di proselitismo. Sulla santità qual è la vostra posizione? Crediamo in un processo di santificazione. La parola "santo" potrebbe dare l’idea di uno che fa i miracoli. La parola "santo" significa invece appartato, separato. E Dio nella sua Parola dice: procacciate la santificazione senza la quale nessuno vedrà Dio. Il processo di santificazione deve essere presente in ogni uomo, inteso come purificazione da tutto ciò, che è negativo. E, tuttavia, siamo sempre portati a guardare a Cristo, che è la perfezione. E sull’ecumenismo? Il 99% delle chiese evangeliche non è contrario al dialogo tra Chiese, soprattutto tra cristiani. Il dialogo come relazione è fondamentale altrimenti saremmo settari e rinchiusi in noi stessi e non è ciò cui Cristo ci chiama. Ma l’ecumenismo inteso come unione di dottrina non può esistere, perché l’appartenenza a un Credo è verità dottrinaria, in cui si crede: posso condividerlo ma non lo posso tagliare a metà e deformare per il piacere di unirmi a un altro cristiano di dottrina differente. L’evangelico crede nella salvezza per grazia, attraverso la fede, l’esclusiva di Cristo nel piano della redenzione, mediatore unico tra Dio e l’uomo, nella condizione, che oggi sono chiamato a dovermi redimere per poi poter affrontare l’Eternità.



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