Mete n.1

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NR 1 | FEBBRAIO 20

Il ritorno del lupo, tra leggende metropolitane e di montagna

O B I E T T I V I S U C C E S S I DESTINAZIONI

Viaggio nel passato, la meraviglia del tempio di Hera a Paestum


SERVIZI Impianti fotovoltaici, quadri bt e mt impianti elettrici e strumentali, sottostazioni, impianti elettrici industriali e civili, impianti biogas, impianti antincendio e sprinkler MASSIMO MALAVOLTI

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campo base R I P R E N D I A M O C I

Se mi capitava un libro fra le mani, da bambina, la prima cosa che facevo era ficcarci dentro il naso. Annusare le pagine, toccare la carta, è un vizio che non ho perso. Ogni libro possiede un suo particolarissimo profumo, e una sua consistenza. Non a caso, la carta comunemente utilizzata per la stampa dei libri è detta “uso mano”, bianca o avorio, e la sensazione tattile che regala è un’esperienza riservata a pochi eletti. O a pochi nostalgici, poiché ormai gran parte della lettura avviene tramite web, podcast e audiolibri. La lettura di un libro di carta assomiglia molto ad un rituale. Richiede un tempo silenzioso e riflessivo, permette di fotografare mentalmente paragrafi e caratteri, consente di ritornare indietro o di cercare più avanti, sfogliando; le pagine ed il loro voltarsi disegnano un percorso, inscritto nei ritmi della mente e dei pensieri, sempre quelli, da milioni di anni, naturali, imprescindibili. La nostra velocità di vita sta aumentando in maniera esponenziale, siamo pervasi di frenesia, in una accelerazione costante estesa a tutti gli aspetti della quotidianità. Le nostre orecchie, i nostri occhi sono continuamente sollecitati da messaggi in velocità. Stiamo permettendo ai social di carpirci anche le emozioni, che abbiamo imparato a consumare come merce di scambio, che ci affrettiamo a condividere con chiunque prima ancora di averle vissute. Abbiamo questa attitudine a subire la tecnologia, come fosse un ordine costituito che governa le nostre vite, e da cui non riusciamo a prescindere. La tecnologia che non è un’entità astratta; dietro di lei ci sono i colossi hi-tech, che hanno principalmente a cuore il profitto, che influenzano l’economia e hanno voce nell’alto cerchio degli Stati con cui dialogano. Il prodotto siamo noi. Basti pensare all’ “inganno” di Amazon: la favola della velocità e del comfort degli acquisti online coinvolge, in Italia, 38 milioni di abitanti, ovvero il 62% della popolazione. Che sta perdendo il gusto di uscire, usando la propria fisicità, di cercare in un negozio un oggetto, toccarlo, valutarlo e sceglierlo. Si è scritto che è in atto una disumanizzazione digitale. Se non vogliamo trasformarci in numeri occorre risvegliare la nostra consapevolezza. L’accesso libero alle fonti di informazione è pressoché un ricordo; siamo disturbati, nella lettura di qualsiasi contenuto in rete, da link, banner, pop up che ci assediano, ci distraggono e ci distolgono intellettualmente dal percorso di lettura. Siamo tutti esposti al prorompere incessante di immagini e suoni. Ci stiamo abituando alla violenza come ad un mezzo lecito e naturale per avere vantaggi e profitto. Le contraddizioni della democrazia ci sprofondano nell’insicurezza. Eppure ci eravamo cullati in illusioni e promesse di pace, di diritto garantito. Invece, scenari bellici instillano ansia nelle nostre giornate. È il gioco delle guerre, guerre promesse e mai scoppiate, guerre non dichiarate e poi esplose. Riprendiamoci. Riprendiamoci il tempo. Il tempo che è nostro, e non è vero che va veloce. Riprendiamoci il tempo per restare in contatto con noi stessi e compiere uno sforzo per riappropriarci di sentimenti e di emozionalità consapevole. Riprendiamoci l’umanità. Spostiamo il focus

dall’individualismo alla solidarietà. Siamo consapevoli di come i colossi hi-tech stanno depauperando l’Africa delle sue ingenti risorse, sfruttando manodopera infantile e causandone la morte, come avviene in Congo, nelle miniere per l’estrazione del cobalto, componente fondamentale delle batterie al litio, destinato alla fabbricazione di cellulari e veicoli elettrici. Siamo consapevoli della necessità di riaffermare principi quali l’antirazzismo, l’antiomofobia, e promuovere accoglienza, e pacificazione tra gli individui, basate su tolleranza e comunanza. Riprendiamoci la voglia di incontrarci, e non solo su WhatsApp, di condividere risate, pacche sulle spalle, camminate, panini imbottiti e lacrime, non solo su Facebook; di dialogare con franchezza guardandoci in faccia e negli occhi, togliendo di mezzo gli occhiali scuri che fanno da scudo alle insicurezze, non solo su Twitter, dicendoci esattamente quello che pensiamo; e la capacità di ascoltare, rimpicciolendo il nostro ego abnorme che elegge se stesso ad unità di misura di tutto ciò che è altro da sé. Riprendiamo ad allenare il senso critico, a fare distinzione tra punti di vista e principi fuorilegge.

I lupi di Liu Ruowang (un grande artista contemporaneo cinese) assediano piazza del Municipio a Napoli, e inquietano chi passa. Il branco è composto da cento esemplari in fusioni di ferro, ringhianti ad un epico guerriero; non vi è dubbio, l’allegoria della natura che si ribella al delirio di onnipotenza dell’uomo che porta distruzione ed annientamento. Una mostra open air di incontestabile impatto emotivo. Mi ci sono imbattuta passeggiando in una sera di trasferta nella città partenopea, l’aria fresca, sul Vesuvio era caduta un po’ di neve. “Wolves Coming”, così si chiama l’opera. I lupi riempiono la piazza, ma ci si può camminare in mezzo, perché le loro figure non disturbano, sembrano anzi fluire e passarci accanto, pur nella loro immobilità, pungolano lo spirito, spingono a cercare una via di fuga, mentre il guerriero è solo e sovrastato dalla loro disperazione urlante: un grido estremo all’uomo per la salvezza del pianeta. SILVIA GIRONI


SOMMARIO Numero Uno

01 Il ritorno del lupo Sulle tracce.

pagina 6

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04

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Viaggiare da soli

Cent’anni di idee. Marino Punto Cento

Un’antica meraviglia

Orione, il bel cacciatore splendente

Viaggiare in auto.

Andare oltre, storie di chi ce l’ha fatta.

Progetti visionari.

Sosta.

pagina 14

pagina 18

pagina 22

pagina 28

COLOPHON DIRETTORE RESPONSABILE

Silvia Gironi CONDIRETTORE

Giuliano Latuga COORDINAMENTO EDITORIALE E GRAFICA

Enrico Cigolla

HANNO COLLABORATO:

PROMOZIONE E PUBBLICITÀ: tel. 0516014990 Emiliano Ardigò LUOGO DI PUBBLICAZIONE: Bologna Fabio Bergamo ANNO: 2020 Mia Canestrini PROPRIETARIO: A.R.E. s.r.l. Massimo Milo DIRETTORE RESPONSABILE: Silvia Gironi Vinicio Paselli CONDIRETTORE: Giuliano Latuga Olga V. Petukhova EDITORE: A.R.E. s.r.l, Via E. Mattei, 48/D, 40138 Bologna METE MAGAZINE Corrado Poli STAMPATO DA: MGP s.r.l., Francesca Vinai -4Autorizzazione Tribunale di Bologna n. 8523 del 06.08.2019 Marta Gandolfi Gabriele Gironi


08 Mille e una porta sulle strade di Cuba Di tappa in tappa.

pagina 42

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4 passi nella storia, la Bepi Zac

Salario minimo in Europa... è possibile?

Il vento

Il viaggio verticale

Passi.

I talenti e i frutti.

In ascolto.

Altre prospettive.

pagina 33

pagina 36

pagina 39

pagina 46

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SULLE TRACCE

IL RITORNO DEL LUPO Tre articoli, tre autori, tra leggende metropolitane e di montagna

L’uomo non sa di più degli altri animali; ne sa di meno. Loro sanno quel che devono sapere. Noi, no. Fernando Pessoa

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PH: BENEDETTA MILO

01 METE MAGAZINE

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L’incontro

È in un tiepido mattino di fine aprile che io e Benedetta, una delle mie due figlie, con cui condivido l’amore per la natura e le lunghe

MASSIMO MILO

passeggiate, prendiamo la decisione di andare a fare un’escursione nel Parco Nazionale D’Abruzzo,

Lazio e Molise. L’area si trova a poche ore da casa e non servono poi tanti preparativi per trascorrervi una piacevole esperienza naturalistica. Conosco ormai la maggior parte dei percorsi del parco a memoria, perciò basta poco per trovarne uno adatto alla giornata. Sin da subito notiamo sulla strada sterrata la presenza fortemente radicata della fauna locale. In particolare, attirano la mia attenzione le tracce di un lupo nel sottobosco. Siamo pieni di entusiasmo, e ogni piccolo dettaglio appare come il più bello dei miracoli. Arrivati al punto di avvistamento ci fermiamo, nell’impossibilità di continuare. Causa? L’alta vegetazione. Facciamo spallucce. Meglio così, sembra proprio che la nostra fame verrà presto soddisfatta! Con destrezza i panini vengono estratti dalle loro carte e consumati con voracità: è una gioia per l’appetito. Consumato il pasto ci sistemiamo per un po’ di riposo. Benedetta inizia a scattare qualche foto per ingannare la fiacchezza, io chiudo gli occhi nel tentativo di appisolarmi ai piedi di un albero. Passa un po’ di tempo, e Benedetta mi scuote con veemenza un braccio. “Papà”, chiama, “C’è un lupo”. Il suo tono è pacato, disteso. “Va bene”, rispondo, più divertito che assonnato. “Fagli una foto allora, poi la vedremo...” “È quel che sto cercando di fare infatti”. Un attimo di silenzio, poi il fruscio dei vestiti e il battere delle scarpe al contatto con il terreno. Il tipico “click” che permette uno scatto fotografico. “Due”, questa volta è chiaramente percepibile una nota d’urgenza nella voce. “Mh... due cosa?”. “Sono due ora”. Apro gli occhi, perplesso. A pochi metri da noi, una lupa occhieggia timidamente nella nostra direzione, nascosta quasi interamente dagli arbusti. METE MAGAZINE

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PH: MASSIMO MILO

Preso alla sprovvista, mi alzo con il busto. Ăˆ un attimo: la lupa capta il brusco movimento e scompare senza lasciar traccia. Non rimane che erba. Con il cuore pieno di emozione, io e mia figlia ci abbracciamo. Un grazie a Madre Natura per il dono che ci ha fatto.

PASSIONE DI FAMIGLIA Benedetta Milo, ritratta dal padre Massimo durante un’escursione alla ricerca del lupo. METE MAGAZINE

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Sul ritorno del lupo tra leggende metropolitane e di montagna MIA CANESTRINI Ci sono le favole sul lupo e poi ci sono le leggende, che sono un po’ le favole in chiave adulta. Una delle più dure a morire riguarda il ritorno del lupo lungo la penisola e l’arco alpino, un ritorno effettivamente non scontato ma inesorabile e che potremmo definire capillare. Dopo secoli di persecuzione è negli anni ’70 che la specie viene dichiarata protetta e si interrompe di colpo il suo sterminio. Secondo una

campagna di indagine svolta dal WWF i lupi rimasti in Italia sono tra i 100 e i 300, il che significa che siamo ad un passo dall’estinzione. Ma i lupi mostrano immediatamente una grande vitalità e un inaspettato e rapidissimo incremento demografico. In meno di vent’anni dalle montagne della Calabria e dell’Abruzzo i lupi si espandono fino alle Alpi occidentali, ricolonizzando tutta METE MAGAZINE

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la dorsale appenninica. Il loro arrivo in zone dalle quali erano scomparsi da decine di anni o da due secoli coglie tutti impreparati: amministratori pubblici, allevatori e cacciatori. Un ritorno silenzioso e segreto, nascosto com’è nel buio della notte, al quale nessuno riesce a trovare una risposta se non: qualcuno deve averli liberati di nascosto. Ma chi? E a che pro? La colpa viene subito data ai “verdi” e poi agli ambientalisti, definendo con questo termine tutti coloro che, per mestiere o passione, si occupano di ambiente. Si diffonde la voce che da qualche parte i Parchi hanno lanciato i lupi persino dagli elicotteri, sperando che rimanessero dentro i confini dei Parchi, ma i Parchi non sono recintati e i lupi sono scappati. Si racconta che sia un piano dello Stato per distruggere definitivamente i piccoli allevatori e in tempi più moderni che i lupi liberati non siano veri lupi ma


PH: BENEDETTA MILO

Quella che i lupi hanno dimostrato negli ultimi 50 anni non è solo una grande capacità di ripresa ma una plasticità ecologica senza limiti, cioè una capacità di adattamento difficile

da eguagliare nel regno animale.

ibridi, più prolifici e sicuramente nati in allevamento perché più confidenti con l’uomo. Ma dove sta la verità? Da nessuna parte. Benché dal mondo tecnico – scientifico fosse contemplata la possibilità di creare un centro di allevamento in cattività di lupi per poi

cerca di un partner per fondare un nuovo branco. Oltre a trovare un potenziale compagno però devono anche trovare un territorio libero poiché i branchi residenti non accettano intrusi e l’insieme delle due condizioni può richiedere viaggi di decine, centinaia e a volte migliaia di chilometri. Questa è sostanzialmente la molla del

delle aree montane e rurali. Milioni di italiani sono migrati verso valle, costa o pianura in cerca di migliori condizioni di vita e attirati dalle possibilità di lavoro. Con loro sono spariti dalle montagne milioni di capi di bestiame e di ettari coltivati a frumento, segale, foraggio o avena. I terreni rimasti incolti si sono rapidamente rivestiti di erbe selvatiche, poi

Quella che i lupi hanno dimostrato negli ultimi 50 anni non è solo una grande capacità di ripresa ma una plasticità ecologica senza limiti, cioè una capacità di adattamento difficile da eguagliare nel regno animale.

di arbusti e infine di boschi. Gli ungulati, cervi, caprioli, daini, cinghiali hanno trovato in questi ambienti seminaturali o rinaturalizzati le condizioni ideali per riprodursi e aumentare di numero, a volte

effettuare un ripopolamento, non ce n’è stato di fatto mai bisogno. I lupi vivono organizzati in una unità sociale, il branco, che occupa in modo stabile un territorio di dimensioni variabili tra i 300 e i 100 kmq. Ma non ne fanno parte per sempre, almeno non tutti. Raggiunta la maturità sessuale, intorno all’anno e mezzo di età, i giovani lupi possono andare in

ritorno del lupo, il carnivoro con la più grande capacità di dispersione nota, il cui corpo è una macchina perfettamente adattata a questo scopo. Anche l’uomo in un certo senso ha fatto la sua parte, seppure involontariamente: gli anni ’70, gli anni della protezione del lupo, hanno visto proseguire un fenomeno iniziato nel secondo dopoguerra: lo spopolamento METE MAGAZINE

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aiutati da rilasci ad opera di associazioni venatorie, aree protette e amministrazioni provinciali. I lupi non potevano tardare molto ad arrivare. Quella che i lupi hanno dimostrato negli ultimi 50 anni non è solo una grande capacità di ripresa ma una plasticità ecologica senza limiti, cioè una capacità di adattamento difficile da eguagliare nel regno animale.


Il lupo reale, le sue caratteristiche, la sua storia ma anche le leggende che hanno distorto la sua immagine oggettiva. Chi ha voglia di conoscerlo veramente, salga a bordo e mi segua!

L’inverno dei lupi, scoprire il lupo tra la neve. MARTA GANDOLFI PH: MARTA GANDOLFI

Soffice, affonda la zampa sulla neve appena caduta, poi l’altra dinanzi alla precedente e così via, accompagnato dagli altri membri del branco, che lo seguono, uno dietro l’altro, in fila indiana. Procedono così, generalmente, i lupi, soprattutto sulla neve alta, lasciando sul manto nevoso della montagna una sola fila di orme, proprio perché ognuno cammina sulle impronte di colui che lo precede. È il modo per ottimizzare il dispendio energetico, principio fondamentale su cui i lupi basano ogni aspetto della propria vita. Mantenere l’energia corporea e non sprecarla è fondamentale per la fauna selvatica e ancor di più per i predatori, specialmente in inverno, quando le risorse diminuiscono, il freddo si fa sentire e spostarsi sulla neve richiede uno sforzo maggiore. La neve è come un libro aperto sulla vita dei lupi, sulla loro quotidianità, un libro che racconta le loro giornate. La traccia dei lupi è inconfondibile: quest’unica fila di impronte si snoda sul terreno in un tracciato piuttosto rettilineo, quasi seguendo una meta ben precisa, cosa che denota la buona conoscenza del proprio territorio da parte dei membri di uno stesso branco. Talvolta la pista si apre ad asola o a ventaglio, in corrispondenza di un cespuglio, di un ostacolo, di un incrocio o all’arrivo in una radura. In quel momento i lupi si dissociano, ognuno segue il proprio percorso in maniera individuale, ed è possibile conoscerne il numero minimo: quei lupi in cammino sono “almeno” X. Questo candido “libro naturale” può raccontare altre storie sulla giornata dei lupi, storie svelate dai segni sulla neve: una predazione, un giaciglio oppure una marcatura sul territorio con urine o feci. I lupi d’inverno si muovono molto all’interno dei propri territori; si tratta della loro fase nomade, in cui si muove tutto il branco, ovvero il nucleo familiare, compresi i cuccioli nati la primavera precedente e che, oramai, hanno raggiunto le dimensioni degli adulti. E’ difficile distinguerli a vista, se non per il colore del mantello, un po’ più scuro, e l’andatura un poco più goffa e giocherellona. METE MAGAZINE

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I branchi in inverno raggiungono la loro massima consistenza numerica, proprio perché includono i lupi dominanti, la cucciolata dell’anno ed i lupi della cucciolata precedente, al secondo anno di età, i quali, a breve, potranno decidere di lasciare il branco e partire alla ricerca di un nuovo territorio libero e di un lupo dell’altro sesso con cui dar vita ad un nuovo branco. L’ inverno per i lupi è anche il periodo degli amori, un momento delicato, in cui il maschio e la femmina dominanti si accoppiano per poi dare alla luce i cuccioli, che nasceranno a primavera. I miei primi lupi in natura li ho visti d’inverno, anni fa, proprio sulla neve… ed erano 11. In quegli anni i branchi così numerosi non erano comuni, per cui rimasi ancora più sorpresa. Erano distanti da me, ma ben visibili con un binocolo. In un primo momento se ne scorgevano cinque, quasi inconfondibili tra le rocce affioranti nella neve. Cinque lupi che, da lì a poco, a guardare bene, diventarono 8; si stavano riposando al sole, in un luogo tranquillo, abbastanza alto e prominente, da cui potevano osservare tutta la vallata. Ad un tratto, altri 3 lupi li raggiunsero, probabilmente di ritorno da una battuta di caccia. Prima, i tre comunicarono con gli altri ululando, per rintracciarsi meglio. I lupi che si stavano riposando, udendoli, si alzarono tutti sulle zampe per rispondere, poi li accolsero andando loro incontro, muovendo la coda in segno di accoglienza e invitandoli al gioco. Quell’incontro mi ha permesso di vedere con i miei occhi, in uno spicchio, ciò che realmente i lupi sono: animali sociali, che vivono in branchi interagendo gli uni con gli altri, consolidando i legami, rispettando ciascuno il proprio posto e quello altrui all’interno della gerarchia. Questo è uno dei loro punti di forza; ce ne sono molti altri, ma questa è un’altra storia che vi racconterò presto. Dai lupi c’è molto da imparare, molto da riscoprire di noi stessi, soprattutto la nostra parte “buona”, genuina e viscerale, libera dalle catene che la civiltà ci ha imposto e dai cambiamenti che la frenesia della vita odierna ha comportato, alienandoci dall’ambiente naturale, di cui comunque facciamo parte, anche se spesso, purtroppo, ce ne dimentichiamo.


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02 Viaggiare da soli Come programmare il viaggio da soli? Partire con l’idea di tornare. Senza sapere quando. Nel numero zero abbiamo parlato dei tre modi per viaggiare in automobile: viaggiare da soli, con una persona amata o con un partner di lunga data. Essi si differenziano soprattutto dal punto di vista psicologico. In questo numero tratteremo più a fondo

VIAGGIARE IN AUTO CORRADO POLI PH: FREEPIK

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di come programmare un viaggio in auto da soli. Meglio dire: come non lo si dovrebbe programmare, perché il vero senso del viaggiare da soli è la più assoluta mancanza di programmazione; viaggiare da soli, e per di più in automobile, dà un grande


Viaggiando da soli le occasioni di incontri sono frequenti, ma bisogna essere disponibili e capaci di superare i primi impatti.

senso di libertà. Non si deve pensare a guidare la macchina, ma a farsi guidare da essa e da tutto quel che succede. Ci si pone una meta generica. Magari nemmeno quella: basta riuscire a partire, con l’idea di tornare, ma senza sapere quando e sicuri di tornare cambiati. Per lo meno rilassati e felici, avendo acquisito una migliore conoscenza di noi stessi. Non decidiamo nemmeno a che ora partire e l’albergo, se non in periodo di grande esodo; possiamo persino fare a meno di prenotarlo, o lo faremo all’ultimo momento con lo smart-phone. Il primo tratto lo facciamo regolarmente in autostrada per allontanarci rapidamente dal nostro mondo che per un periodo vogliamo lasciare, alla ricerca di novità e per vedere cose inedite. Poi, il viaggio continua su strade normali. Tassativamente non si vogliono mai superare i 50 Km/h. Ci si sorprenderà di quanto poco consuma l’auto e ci si renderà conto di persona

che, a quella velocità, la macchina non si sporca di insetti. Strano, vero? Eppure, se si viaggia lentamente, gli insetti invece di spiaccicarsi sul vetro riescono a scansarsi in tempo: questa è la spia. Lungo le strade secondarie si incontrano luoghi dove non si era mai visto uno straniero. Si entra nei bar, anche quando non si ha voglia di nulla, ma si approfitta per iniziare una conversazione. In tutto il mondo i baristi sono, per mestiere, dei chiacchieroni, e nei bar si trova quasi sempre qualcuno con cui scambiare qualche parola. Dove si vedono pochi forestieri, i geni umani della curiosità inducono inevitabilmente al dialogo, sia che ci si trovi tra popoli chiacchieroni, sia che l’incontro avvenga tra i taciturni finlandesi che parlano solo dopo il quinto bicchiere di vodka (sebbene lo farebbero prima, se non fossero così timidi). Viaggiando da soli le occasioni di incontri sono frequenti, ma bisogna essere disponibili e capaci di superare i primi impatti.

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In certi casi e condizioni della vita il viaggio solitario può essere davvero un’occasione per non parlare né vedere nessuno: anche questa è una possibilità da prendere in considerazione, e l’isolamento dell’auto aiuta non poco. Una mia amica una volta mi raccontò che, per superare una delusione amorosa, peregrinò con la sua Twingo tra le cattedrali gotiche francesi per due settimane e ritornò a casa sollevata e pronta a una nuova vita. Non è detto che questa ricetta funzioni per tutti, ma la solitudine del viaggio aiuta a riflettere su se stessi con il necessario distacco. Mentre viaggi pensi, ricordi, immagini e guardi tutto quel che ti sta intorno senza distrazioni, riconducendolo allo stesso tempo a te stesso e a tutto il resto del mondo di cui ti senti parte, proprio perché sei solo. Scegli il silenzio o la musica che preferisci (senza dovere negoziare con il passeggero), talora ascolti programmi in lingue straniere incomprensibili il cui suono ti tiene compa-


gnia e ti inserisce nei luoghi che scorrono al di là dei finestrini. Quando peregrini solo in macchina non ti serve nemmeno la carta geografica o il navigatore, se non in casi particolari. È la strada che ti sceglie seducendoti con il particolare di un albero,

Instauri anche un rapporto speciale con la macchina che diventa, per quei giorni, la tua vera casa. Si riempie gradualmente di oggetti, carte, giornali e assume un odore famigliare. Ti fermi a guardarla e ti sembra animata. La carrozzeria sporca ti ricorda le

Ecco, tutto questo si apprezza quando sei solo e viaggi con calma, senza un obiettivo prefissato o con una meta che hai scelto, in piena autonomia. In compagnia è un’altra cosa, un altro viaggio, ma non è meno eccitante. Ne parleremo nel prossimo articolo.

Il vero senso del viaggiare da soli è la più assoluta mancanza di programmazione.

strade e i tanti chilometri percorsi. Le ruote hanno un fascino particolare: sono loro che ti hanno portato. E il rombo tranquillo del motore le dà un’anima carica di calore ed energia. (Chissà se l’auto elettrica ti darà le stesse sensazioni del muscolare, caldo motore a scoppio?).

L’unico viaggio possibile

di una curva, di una casa, una cappella, un vecchio castello; o solo con la speranza che quella piccola strada ti porti in un luogo che immagini come il paese della felicità. Entri in un santuario incontrato per caso e ti trovi, se non a pregare, a lasciarti coinvolgere nella mistica atmosfera.

è quello dentro di noi; almeno finché non mi riparano l’auto. Leo Ortolani

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CENT’ANNI DI IDEE MARINO PUNTO CENTO METE MAGAZINE

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03 ANDARE OLTRE, storie di chi ce l’ha fatta SILVIA GIRONI ph: WIKIPEDIA

Dire Fondazione Golinelli, ed Opificio Golinelli, (l’una dal 1988, anno in cui fu celebrato il non centenario dell’Università di Bologna, e l’altro dal 2015, entrambi a Bologna) è come dire scienza in divulgazione, nella scuola e fuori; laboratorio, formazione, ricerca. Dire Fondazione Golinelli, ed Opificio Golinelli, (l’una dal 1988, anno in cui fu celebrato il non centenario dell’Università di Bologna, e l’altro dal 2015, entrambi a Bologna) è come dire scienza in divulgazione, nella scuola e fuori; laboratorio, formazione, ricerca. L’Opificio è un luogo designato alla cultura ed alla conoscenza, ad alta tecnologia, creata per i più giovani, ricavato dalla ristrutturazione di una fonderia, e che dal 2017 si è arricchito del Centro Arti e Scienze, a forma di parallelepipedo luminoso, davvero ampio (700 mq). Chi poteva dar vita e compiutezza a quest’opera, se non un filantropo? Un filantropo imprenditore, ricercatore, estimatore dell’arte: Marino Golinelli. Nato a San Felice sul Panaro l’11

ottobre 1920, da una famiglia di agricoltori, ultimo di cinque figli, da subito appassionato di farmaci, si laureò in farmacia all’Università di Bologna e seppe cambiare la sua vita, avviando presto la sua azienda, la Biochimici AL.F.A (Alimenti fattori accessori), dove cominciò a produrre uno sciroppo, acquistando lo zucchero necessario al mercato nero, e dove METE MAGAZINE

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produsse per anni anche il vaccino antitubercolare italiano. Produsse inoltre farmaci qualificati, ad esempio il Vessel, contro le trombosi, il Normix, antibiotico contro l’overgrowth batterica intestinale, il Reumaflex, contro l’artrite reumatoide. All’estero acquisì Schiapparelli e Wassermann. Negli anni l’azienda crebbe e cambiò spesso di nome,


“ Per rimanere in equilibrio bisogna continuare a muoversi. Albert Einstein

fino a diventare Alfa Wassermann e quindi Alfasigma nel 2015 dopo avere acquisito Sigma-Tau. Marino Golinelli ha destinato alla Fondazione 85 milioni di euro del suo patrimonio personale, per «ridare alla società almeno in parte ciò che ha ricevuto». Ed ecco che l’Opificio Golinelli diventa la sede della scuola di dottorato in “Data Science and Computation”, con un padiglione dedicato allo studio dei rapporti arte-scienza; ecco che si realizza un nuovo edificio che contiene l’incubatore-acceleratore G-Factor, un’area di cinquemila metri quadrati in cui si incontrano imprenditori emergenti, con attività di educazione, trasferimento tecnologico, studio, divulgazione scientifica ed artistica, nello spirito fondante dell’opera. Grazie alle risorse di Golinelli è stato avviato un bando internazionale da un

milione di euro per start-up pensato per tutti coloro, scienziati, ricercatori, studenti che hanno un’invenzione o un’idea da potere essere messa sui mercati farmaceutici, biotecnologici o bioingegneristici, della durata di nove mesi, che include alloggio, laboratori e messa a disposizione degli strumenti necessari a favorire la comunicazione tra la ricerca ed il mercato. Alla visione di Marino Golinelli ha dato voce il Presidente della Fondazione, Andrea Zanotti: “Si concretizza nell’incubatore l’idea di futuro in cui non ci sarà più posto per una frammentazione tra la parte ideativa, sperimentale e produttiva poiché i luoghi della conoscenza, della sperimentazione e della produzione dovranno necessariamente integrarsi per riuscire a far fronte alla velocità del progresso nel quale oggi siamo immersi (…), il METE MAGAZINE

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La vita è come andare in bicicletta.

primo seme di un vivaio che dia frutti e sviluppi di cui benefici il territorio e non gli investitori stranieri”. Marino Golinelli compirà quest’anno cento anni e, per l’occasione, non è stato ad aspettare: ecco infatti nascere il programma “Marino punto Cento”, un insieme di iniziative filantropiche, sociali e culturali, tra cui un importante erogazione liberale a favore del Teatro Comunale di Bologna, oltre alla fornitura di 100 pasti per 100 giorni ai bisognosi dell’Oratorio di Santa Cecilia di Bologna; inoltre, accanto ad altre iniziative, sono previste oltre 200 borse di studio per i migliori studenti delle summer school di scienze della vita. Marino Golinelli guarda alla vita, da sempre, con ottimismo. La sua visione è quella di un imprenditore illuminato, che ritiene di avere il dovere morale di restituire alla società


una parte delle proprie fortune; questa visione contempla la conoscenza come strumento fondamentale per realizzare ogni progresso. Se le scelte imprenditoriali di Alfasigma sono state, in un momento, necessariamente dolorose, l’imprenditore non ha mai nascosto le ragioni dei passi compiuti: a volte occorre lasciare indietro i buoni sentimenti e prendere atto, nostro malgrado, della realtà, e operare oculatamente per salvaguardare il possibile, spostandosi laddove il contesto istituzionale risponde positivamente, per continuare a creare lavoro. «I ragazzi di oggi vedranno un pianeta dove il welfare sarà un ricordo, gli ospedali non saranno certo quelli di oggi, saremo dieci o undici miliardi che avranno bisogno di case, cibo, acqua, salute». METE MAGAZINE

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04 UN’ANTICA MERAVIGLIA L’archeologia e l’architettura del passato ci consentono di viaggiare nel tempo attraverso le tracce che ci hanno lasciato.

il tempio di hera ii a paestum una meraviglia del v secolo a.c.

PROGETTI VISIONARI FABIO BERGAMO Tutto ciò che scopriamo per mezzo di tali discipline non può che arricchire di sentimento la nostra vita ed innescare in noi quella ricerca di bellezza che dà senso all’esistenza. L’intreccio tra sco-

perta e ricerca costituisce quel circolo virtuoso che, in divenire, consente all’uomo, per mezzo della conoscenza, di giungere al suo essere più autentico. Il Tempio di Hera II è l’edificio più grande tra quelli destinati al culto religioso dell’antica Poseidonia, fondata verso la metà del VII secolo a.C. dai Greci Sibariti della Magna Grecia (la regione geografica meridionale dell’Italia, colonizzata dai greci a partire dall’VIII secolo a.C.). Per molto tempo gli studiosi hanno METE MAGAZINE

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ipotizzato che il tempio fosse dedicato a Poseidone (nel culto dei romani, il dio Nettuno) per il nome stesso dato alla città “Poseidonia”, in onore del dio del mare. In realtà, esso è il secondo tempio dedicato ad Hera, dea dell’Olimpo, protettrice della fedeltà coniugale e del parto; il primo, realizzato in precedenza, sempre dedicato alla dea, e di dimensioni leggermente più piccole, è noto come Basilica.


ciò che i sognatori immaginano

Caratteristiche architettoniche Il Tempio di Hera II è del tipo periptero esastilo, cioè è costituito da una sola fila di colonne, atta a formare un portico che circonda la parte interna di esso. Sui due lati frontali si erge su sei colonne; le colonne sui due fianchi lunghi sono 14 (la peristasi, ossia il colonnato

anonimo

formante il portico, è dunque 6x14). Le colonne sono alte 8,88 metri e larghe 2,09 metri alla base e 1,55 metri alla sommità. Quelle frontali risultano leggermente più larghe di quelle laterali. L’entasi, ossia il rigonfiamento del fusto delle colonne ad 1/3 della loro altezza, è contenuto (esso ha la funzione di evidenziare, da un punto di vista ottico, la robustezza delle colonne sottoposte alla METE MAGAZINE

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Il visionario costruisce

compressione del peso sovrastante, e di correggere, da un punto di vista estetico, l’effetto ottico dovuto al sole che fa apparire le colonne più sottili, cioè con un diametro minore di quello reale). Le colonne agli angoli (colonne angolari), come in tutti gli altri templi dorici, sono leggermente a base e a sviluppo ovale per apparire omogenee nella vista frontale come in quella laterale; quelle frontali


sono leggermente inclinate verso l’interno per correggere la percezione di vederle pendere verso l’esterno; per questa medesima ragione, le colonne angolari sono lievemente inclinate verso il centro (in direzione diagonale della base del tempio). Il pavimento dove poggiano le colonne (stilobate) assume una forma convessa dalle estremità verso il centro per correggere la deformazione ottica che mostrerebbe il piano curvo verso il basso; stessa correzione è data alla trabeazione (nello stilobate tale curvatura facilita anche il deflusso delle acque piovane).

Suddivisione interna La parte interna è divisa in tre zone: il pronao, il naos (cioè la cella), l’opistodomo. Il pronao è la parte posizionata anteriormente alla cella. Da esso si accede alla cella che è la sala rettangolare destinata ad ospitare l’immagine scultoria del dio a cui è dedicato il Tempio: essa è suddivisa in tre navate e presenta due ordini di colonne (7 di base e 7 sovrapposte per ogni lato). Nella cella, priva di finestre ed illuminata solo da lampade a fuoco, era concesso entrare solamente nei giorni di alcune festività, mentre l’ingresso era sempre consentito ai sacerdoti. L’opistodomo è la stanza posteriore alla cella: in essa potevano accedere solo i sacerdoti perché conservava le offerte e i doni per la divinità, gli strumenti e le suppellettili utili ad essi per i riti ed i sacrifici offerti al dio. L’opistodomo internamente è dotato di una inferriata per evitare che i doni, specie quelli di valore, venissero trafugati. Il tempio è lungo 60 metri ed è largo circa 25 metri, ed è realizzato in travertino giallo-dorato di origine locale

e rivestito con intonaco bianco di calce;

Tale spazio aveva varie utilità: veniva

è poggiato sul crepidoma di tre scalini

usato per la manutenzione periodica

(la piattaforma di base dove poggiano le

del tetto e offriva, nel contempo,

colonne è chiamata stilobate). I timpani

spazio ai sacerdoti per effettuare altri

dei frontoni non sono decorati con

riti. L’aggiunta delle colonne superiori

sculture in marmo, ma solo colorati ad

garantisce anche più stabilità al tempio

ocra rossa (stessa cosa per le metope e i

ed offre un migliore sostegno al soffitto

triglifi che sono rispettivamente di colore

ed al tetto. Davanti alla facciata principale

rosso cinabro e blu egiziano; la base della

sono stati individuati due altari per i

cornice, al di sopra del fregio, è decorata

sacrifici, il primo contemporaneo alla

con fogliette e palmette colorate di rosso

edificazione del tempio, il secondo di età

e di blu su fondo bianco).

tardo-repubblicana. Il tempio di Hera

Per accedere alla cella vi sono tre scalini,

II, in ultimo, presenta molte affinità con

la quale al suo interno presenta due file

il tempio di Zeus ad Olimpia, costruito

di colonne che dividono la stessa in una

prima di quello presente a Paestum,

navata centrale e due corridoi laterali.

specie la cella, che è pressoché identica.

Il colonnato della cella è costituito

della base del tempio). Il pavimento dove

da due ordini di colonne sovrapposte

poggiano le colonne (stilobate) assume

per elevare maggiormente l’altezza

una forma convessa dalle estremità verso

della cella, e garantire così lo spazio

il centro per correggere la deformazione

per collocare una statua della divinità

ottica che mostrerebbe il piano curvo

di maggiori dimensioni. Viene così a

verso il basso; stessa correzione è data

formarsi una galleria superiore a cui

alla trabeazione (nello stilobate tale

si accede mediante delle scale poste

curvatura facilita anche il deflusso delle

lateralmente all’ingresso della cella.

acque piovane).

Il tempio di Hera a Paestum, meraviglia dell’antichità. METE MAGAZINE

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Frontone

Trabeazione dell’ordine dorico (Tempio di Zeus ad Olimpia, metà del secolo V a.C.)

Trabeazione

Cornice Fregio Architrave

Colonna

Capitello

Crepidoma

Fusto

Stilobate

L’ordine architettonico L’architettura greca si suddivide in tre ordini o stili: lo stile dorico, quello ionico e il corinzio. Il Tempio di Hera II presente a Paestum, realizzato intorno alla metà del V secolo a.C. (circa 470/460 a.C.), appartiene allo stile dorico arcaico, cioè quello più antico e più semplice (si evolverà, più tardi, in dorico ellenistico e dorico romano). Tale stile prende vita tra il VII e il VI secolo a.C., precisamente nella regione del Peloponneso e si diffonde in Grecia, in Occidente e in Cirenaica. I più antichi edifici realizzati in questo stile, ad oggi noti, sono i templi di Era ad Argo e ad Olimpia, e quello di Apollo a Thermos (Etolia), della seconda metà del VII secolo a.C. L’ordine dorico è costituito dal basamento (crepìdoma) sul cui pavimento, detto stilobate, poggiano direttamente le colonne a disegno scanalato e prive di base, e con capitello composto da un elemento circolare convesso (echino a bacile) sormontato da un blocco a base quadrata (abaco). Le colonne a loro volta, reggono la trabeazione che sorregge il frontone col timpano. La trabeazione è formata dall’architrave (di colore bianco), dal fregio (composto da elementi verticali scanalati, i triglifi, e da elementi quadrati lisci o decorati, le metope) e dalla cornice orizzontale perimetrale (geison), posta al di sopra del fregio, dotata di gocciolatoio e decorata con tavolette sporgenti, dette mutuli, poste orizzontalmente e rivolte verso il basso (di colore blu egiziano); quest’ultima, insieme alle due cornici oblique (cornici rampanti) degli spioventi del tetto, forma e circoscrive il timpano del frontone, talvolta decorato con sculture in marmo, o semplicemente colorato (per ultimo, al di sopra delle cornici rampanti vi è la sima di coronamento con funzione di gronda). Esempi meglio conservati di templi dorici sono il Partenone e l’Hephaisteion ad Atene, il tempio di Capo Sunio e quello di Apollo a Bassae (Arcadia) in Grecia; i templi di Agrigento, Selinunte, Segesta e Siracusa in Sicilia; quelli di Paestum e Metaponto in Magna Grecia (Italia meridionale). METE MAGAZINE

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Immagine di tempio dorico analogo a quello di Hera

Decorazioni a palmette rosso cinabro e blu egiziano

Elementi decorativi del frontone

Capitello delle colonne del tempio di Hera II a Paestum Abaco Echino Anuli Collarino Hypotrachelio Fusto

L’hipotrachelio è la parte terminale della colonna con la massima rastremazione, esso è a contatto col collarino del capitello. Gli anuli sono tre anelli concentrici, in rilievo, profilati a becco, situati alla base dell’echino del capitello dorico, sopra il collarino. Oltre ad avere una funzione estetica, fungono da gocciolatoi per allontanare l’acqua piovana dal fusto della colonna. METE MAGAZINE

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METE MAGAZINE

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Orione, Il bel cacciatore splendente nel cielo d’inverno 05 Una delle costellazioni più belle e interessanti del cielo invernale. SOSTA

MARTA GANDOLFI

METE MAGAZINE

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PH: PIXABAY


La costellazione di Orione è una delle costellazioni più luminose e conosciute nel cielo notturno. Si trova sull’equatore celeste.

Alzando gli occhi al cielo, in queste notti invernali, molto probabilmente la nostra attenzione sarebbe rapita da tre stelle affiancate, equidistanti e luminosissime; allargando lo sguardo, noteremmo poi altre due stelle a queste vicine, poste perpendicolarmente alla fila delle tre, più o meno a ugual distanza da essa, a formare tutte insieme una specie di rombo allungato: in particolare, una molto grande e rossa (sopra, alla nostra destra guardando il cielo) e una di dimensioni altrettanto notevoli ma di luce bluastra (sotto, alla nostra sinistra). Ampliando ancora la nostra visuale, noteremmo che queste 5 stelle sono incastonate, assieme ad altri astri, in quella che ci appare come una clessidra, bella evidente in cielo. Ecco, abbiamo individuato Orione, una della più belle e interessanti costellazioni del cielo invernale. La “clessidra” in realtà è soltanto ciò che ci salta all’occhio, ma intorno ci sono METE MAGAZINE

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altre stelle, meno luminose, a definire la costellazione nella sua interezza, allo stesso modo in cui, quando vediamo un grande carro in cielo, in realtà abbiamo trovato solo parte dell’Orsa maggiore. Orione è una delle costellazioni più affascinanti sia dal punto di vista astronomico che da quello mitologico. Fin dall’antichità, grazie alla sua imponente conformazione facilmente identificabile ed alla notevole luminosità delle sue stelle, gli uomini si sono accorti di lei ed hanno iniziato ad interrogarsi ed immaginarsi miti e leggende, guardandola, fantasticandoci sopra e visualizzando, sulla forma che le sue stelle stampano in cielo, l’immagine del più bello tra gli uomini, il grande cacciatore Orione che, in posizione di combattimento, con una gamba protesa in avanti e l’altra indietro, brandisce la spada con una mano e con l’altra mantiene lo scudo o, in certe raffigurazioni, una pelle di leone.


Orione in astronomia Orione è anche una delle costellazioni più ricche di particolarità astronomiche. L’astronomo francese Camille Flammarion, vissuto nell’ottocento, la definì “la California del cielo” per la ricchezza di stelle, ammassi stellari e nebulose da essa contenute. La sua caratteristica più importante ed interessante è sicuramente la capacità di dare origine a nuove giovani stelle. Margherita Hack per questo, in uno dei suoi libri, la definisce “l’incubatrice di stelle”. In particolare, le stelle si formano all’interno di uno dei suoi oggetti astronomici più conosciuti e studiati dagli astronomi di tutto il mondo: la Grande Nebulosa di Orione. Distante da noi circa 1300 anni luce, chiamata anche M 42 nel catalogo di Messier, è la più celebre nebulosa diffusa del cielo, un vasto agglomerato di gas luminoso e di polveri, ovvero minuscole particelle di grafite, silicati, ghiaccio, impurità di ferro e altri elementi, in cui si originano appunto gli astri novelli. Numerose stelle molto giovani, che hanno meno di 1 milione di anni di età (pensiamo che stelle e galassie hanno iniziato a formarsi più di 13 miliardi di anni fa, che il Sole ha 5 miliardi di anni e il sistema solare, Terra compresa quindi, ne hanno 4 miliardi e 600 milioni), formate da gas diffuso, polveri e nubi molecolari. Stelle ancora più giovani sono quelle circondate da anelli di polveri e gas, le nebulose protoplanetarie, da cui si potranno formare nuovi sistemi planetari secondo gli astronomi ce ne sono di ancora più giovani, astri neonati, anch’essi formati da densi agglomerati di gas e polveri che si contraggono sotto l’azione della forza di gravità. La Grande Nebulosa di Orione si trova nello stesso braccio a spirale della Via Lattea. È una regione dello spazio ricca di colore, visibile ad occhio nudo per la sua estensione (abbraccia circa 40 anni luce) e si percepisce come una piccola macchia sfocata all’interno della costellazione,

poco sotto le tre stelle allineate. Ricorda in qualche modo un uccello dalle grandi ali spiegate ed appare già grazie al solo binocolo, mentre, con una maggiore risoluzione (telescopi con apertura di almeno 200 mm), si mostra come una massa irregolare bianco-verdastra. M42 ospita anche un brillante ammasso aperto di stelle noto come Trapezio, visibile anch’esso ad occhio nudo, che costituisce la parte centrale della spada del gigante cacciatore. Oltre a M42, Orione contiene un’altra nebulosa degna di nota: la Nebulosa “Testa di cavallo”, posta poco sotto M42, il più celebre esempio di nebulosa oscura del cielo: sfoggia una forma che, appunto, somiglia in modo impressionante alla testa di un cavallo. Si erge sullo sfondo di una luce emanata dalle stelle che le polveri che contiene nascondono, creando lo stesso effetto della luce del Sole dietro ad una grande nube. Essa è visibile solamente con il telescopio. Dal punto di vista astronomico Orione ha molte altre peculiarità. Prima di tutto, le sue stelle più grandi e luminose: Rigel (o Beta Orionis), una supergigante blu che rappresenta il piede sinistro del valoroso cacciatore e Betelgeuse (o Alpha Orionis), la sua ascella destra, una supergigante rossa. Betelgeuse è molto grande (secondo le ultime stime, estesa 14 volte la distanza media Terra-Sole) e, a detta degli astronomi, si trova a vivere l’ultimo periodo della sua evoluzione. Da qualche tempo Betelgeuse, nella sua normalità una delle stelle più brillanti del firmamento, mostra evidenti segni di indebolimento, la sua luce si sta affievolendo e la sua forma si sta leggermente modificando. Stelle così grandi, in massa e dimensioni, non muoiono, ma piuttosto si autodistruggono, giungendo allo stadio di supernova ed esplodono. L’esplosione di una supernova è un violento evento cataclismatico nella natura dell’Universo ma, grazie alla sua distanza dalla Terra (640 anni luce), l’esplosione verrà da noi percepita con un ritardo di qualche secolo, per cui potrebbe manifestarsi tra molto tempo oppure essere già avvenuta. Gli esperti comunque rassicurano che questo evento METE MAGAZINE

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non dovrebbe recare danni ingenti alla Terra e che in realtà potrebbe risultare come la vista un altro Sole per alcuni giorni; attenzione però alle radiazioni che potrebbero interessare il nostro pianeta. Tutto è ancora in fase di indagine e gli astronomi si stanno interrogando intensamente su cosa stia succedendo, cosa comporterà per noi, e ipotizzano anche altri scenari, oltre la possibile esplosione come supernova, possibilità su cui i più in realtà discutono ora. Altre stelle degne di nota sono quelle che formano la famosa “Cintura di Orione”: Alnitak, Alnilam e Mintaka, ovvero Zeta Orionis, Epsilon Orionis e Delta Orionis, tutte di colore azzurrastro. Tre stelle in fila perfetta, in cui molti uomini, nei tempi antichi, hanno cercato di vedere un segno, una rivelazione, un messaggio. Alcuni ci hanno visto la stessa disposizione delle piramidi della piana di Giza, in Egitto. Altri le hanno denominate “I tre Re”, con l’allusione ai tre Re Magi in cammino oppure i tre mercanti, i tre bastoni o ancora c’è chi si è immaginato nella forma di questo asterismo la rappresentazione di un Rastrello, il cui manico sarebbe rappresentato dal sottostante Trapezio. Va precisato che la loro collocazione in fila perfetta non è altro che un effetto ottico prospettico, in quanto in realtà queste stelle sono poste a distanze anche molto diverse tra loro. Altre stelle importanti e molto luminose facenti parte di Orione sono la gigante blu Bellatrix (o Gamma Orionis), detta anche la Guerriera, l’Amazzone e la super gigante blu Saiph. Queste stelle formano gli altri due vertici della “clessidra”. Orione fa parte del cielo invernale, è visibile cioè soltanto durante l’inverno, da novembre a marzo e culmina a mezzanotte a metà dicembre. Nel cielo la si scorge guardando a nord-est, a sud della costellazione del Toro e ad ovest rispetto al Cane Minore e al Cane Maggiore (all’interno della quale splende la stella Sirio, la stella più brillante del nostro cielo boreale), che nel mito rappresentano i due fidi segugi del cacciatore Orione. A lei vicine in cielo sono inoltre la costellazione della Lepre e le Pleiadi.


Una poesia per Orione. Alzando gli occhi al cielo, alcuni anni fa, in un periodo per me colmo di curiosità per le stelle, osservai Orione e ne fui così affascinata da scrivere in suo onore questi versi.

Il cielo d’inverno si veste di te. Un rubino e uno zaffiro Al mondo mostri Nell’ombra della notte solenne. La cintura, un brulichio diamantato. I due fidi segugi al tuo fianco, Impugnando spada e scudo di luce, Il Toro sfidi tenace E, innamorato, alle Pleiadi aspiri, Per sempre incalzato Dal pungente avversario Che sorge al tuo tramonto E, alla tua alba, Si congeda dal firmamento. Oh impavido cacciatore! Così ti ricordano miti e leggende. Tra mille storie di uomini e dei, Nel tempo, Tu resti immutato, Come gli astri eleganti Che, in cielo, Di tuo, Perpetuano nome e bellezza.

METE MAGAZINE

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Il mito di Orione

PICCOLO GLOSSARIO

Le leggende si sprecano per questa costellazione, alcune belle e piene di mito, altre meno, e non particolarmente elogiative. Tra le leggende più belle della mitologia vi sono quelle secondo cui Orione è il figlio di Poseidone, dio del mare, e di Euriale, figlia del re Minosse. Era il più grande cacciatore dei suoi tempi, alto e molto bello. Si dice che portasse sempre accanto i suoi due cani (in cielo, C. Minore e C. Maggiore). Sembra che fosse immaginato mentre attacca il Toro, che infatti è vicino a lui nel cielo, ma questo non è confermato da nessuna leggenda in particolare; gli antichi preferivano, invece, immaginarlo nell’atto di cacciare la Lepre, altra costellazione a lui prossima nel firmamento. Altri miti lo immaginano nell’atto di rincorrere le sette sorelle, le Pleiadi. Secondo una leggenda, infatti, Orione si innamora di un gruppo di Ninfe, chiamate appunto Pleiadi, rappresentate in cielo dall’omonimo gruppo di stelle della confinante costellazione del Toro. A causa della rotazione terrestre, infatti, Orione sembra rincorrerle. Secondo la mitologia esse vennero inseguite per anni dal cacciatore, innamoratosi di tutte, finché poi le sette sorelle furono mutate prima in colombe, poi in stelle. Di lui si dice che si invaghirono anche il Sole, l’Aurora e Artemide, dea della caccia. Sulla morte di Orione si narrano molteplici storie. Una leggenda dice che Artemide si era invaghita di lui e desiderava sposarlo, ma ciò non era gradito a suo fratello Apollo, che allora sfidò la sorella ad una gara di tiro con l’arco. Le chiese di colpire un oggetto lontano nel mare e lei, scoccando subito una freccia, non mancò il bersaglio, il quale però, a sua insaputa, era la testa di Orione che camminava nel mare (capacità ereditata da suo padre Poseidone). Addolorata, la dea lo pose tra le stelle, in una delle più belle costellazioni. Un’altra storia racconta che Orione morì punto da un grosso scorpione e che, dopo la morte, sempre per volontà di Artemide, fu posto in cielo il più distante possibile dalla costellazione dello Scorpione, in modo che non potesse apparire nel firmamento contemporaneamente a lui, che gli aveva dato la morte. La costellazione di Orione, infatti, tramonta ad ovest, quando in cielo sorge lo Scorpione, ad est. Così quando noi vediamo una di esse in cielo, di sicuro non vedremo l’altra, perché posta al di sotto dell’orizzonte. METE MAGAZINE

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Anno luce: in astronomia, è una misura di distanza. Corrisponde alla distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un anno solare oppure, può essere definita anche come la distanza che un oggetto percorrerebbe se viaggiasse alla stessa velocità uguale della luce nel vuoto, ossia pari a quasi 300.000 chilometri al secondo.

Catalogo di Messier: il Catalogo di Messier è stato il primo catalogo astronomico di oggetti celesti diversi dalle stelle. Fu compilato dall’astronomo francese Charles Messier, che si interessò principalmente alla ricerca di comete. Proprio per evitare di scambiare altri oggetti non puntiformi del cielo per comete compilò, tra il 1758 ed il 1784, un catalogo di oggetti di debole luminosità (nebulose, galassie, ammassi aperti e ammassi globulari). Lo pubblico come “Catalogue des Nébuleuses et des Amas d’Étoiles”, e pubblicato nel 1774. Gli oggetti catalogati sono molto eterogenei: l’unico legame tra loro è di avere un aspetto diffuso e di essere relativamente brillanti. A questa descrizione corrispondono sia nebulose ed ammassi stellari molto vicini, sia grandi galassie, poste a distanze enormi. La prima edizione del catalogo comprendeva 45 oggetti, numerati da M1 a M45, ma la versione finale della lista fu di 110 oggetti.


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Quattro passi nella storia, la Bepi Zac. Un racconto PASSI

EMILIANO ARDIGÒ

Un giorno,

lontano

realizzazione del sogno. Gli innamorati in attesa

nel tempo e nello spazio, l’alba e il tramonto si

del buio complice del loro amore, si fanno promesse

incontrano e nasce una discussione tra di loro

che fanno volare i cuori verso vette infinite di

su quale sia, dei due, il più emozionante, quello

felicità futura. I pescatori lasciano i porti con tanta

che più fa venire i brividi.

speranza, scaldati dai miei ultimi attimi di luce, perché il lavoro è fatica ma c’è sempre la speranza

L’alba dice:

che le onde, forse limacciose, e il buio, tenebroso, possano portare frutti alle fatiche degli uomini.”

“Io, con la mia luce, così calda, così carica di buon umore e così bella, porto gioia al mondo

L’Amore

, che per caso in

che si risveglia. Con me, gli animali si alzano dai

quell’attimo passa di lì, sentendo una discussione

loro giacigli, tutta la natura si desta e comincia

così animata, ma sterile, non potendo stare

bene il giorno. Qualcuno assorto in riva al mare,

zitto e non volendo dare ragione a nessun

oppure davanti ad una montagna resta così

contendente, dice loro queste parole:

estasiato da sentire, nel silenzio, mirabili melodie. I pescatori tornano dal mare verso il porto sicuro portando il frutto del loro lavoro e, sicuramente, il mio apparire fa sorridere le loro anime stanche per la nottata di fatica. Nel cuore di tante persone nascono nuove speranze alimentate dalla bellezza indescrivibile degli attimi che regalo.”

Il tramonto

“Tutte e due siete bellissimi e sapete regalare emozioni, ma non dimenticate mai una cosa, forse la più importante. Senza di me, senza il sentimento, l’amore, che nel cuore dell’uomo sa aprire occhi, mente e anima alla bellezza del mondo, voi non sareste niente. Quell’amore che davanti ad un’alba oppure ad un tramonto, col sole che, in entrambi, colora di rubino ogni cosa, dà un senso vero

non fa una

mossa, resta colpito; però, anche lui ha frecce al suo arco. Ribatte:

alla bellezza; senza di me voi sareste solo freddi fenomeni naturali a cui nessuno presta attenzione. Con me, invece, i cuori si scaldano di un’emozione che spesso lascia sfuggire una lacrima. La vera

“Io ho, come te, una luce calda e, spesso,

bellezza del mondo, sia nella natura che nella vita

porto soddisfazione a chi ha saputo sognare

delle persone, sono io e, credetemi, senza di me il

in questo giorno e al mio arrivo si gode la

buio sarebbe terribile e senza fine.”

METE MAGAZINE

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Che cos’è un passo? È il possibile di fronte al tutto Gianmaria Polidoro

Questa piccola fiaba rispecchia la mia visione secondo cui è l’amore che regala un senso nuovo a tutte le cose, anche alle più semplici e scontate, come un’ alba o un tramonto che emozionano il cuore oppure, molto più semplicemente, al trovare ancora meravigliosamente importante dormire , respirare, mangiare, condividere , insomma vivere felici , vicino ad una stessa persona dopo tanti anni. Perché la meta di ognuno di noi è, o dovrebbe essere, la felicità, ma quella vera, che riempie il cuore sempre. Anche nelle mie escursioni la meta non è solo, o quasi mai, la cima o il rifugio sognato da tempo e finalmente raggiunto, ma il fatto di vivere attimi, spesso indimenticabili, che entrano a far parte del mio vissuto e prepotentemente danno un senso nuovo al mio vivere di ogni giorno. Questo è per me il traguardo: vivere i sogni ma conservare un po’ di sana curiosità per crearne sempre di nuovi, di più belli, sempre motore e scoglio contro la noia del vissuto quotidiano. È questa la mia meta, vivere immaginando per qualche preziosissimo attimo un sogno da realizzare, una soddisfazione da togliermi. Voglio quindi raccontare una delle mie tante “pazzie”, faticosa ma bellissima; finalmente, ancora, un sogno diventato realtà, un desiderio: il sogno non è che questo, ora divenuto dolcissimo ricordo. La meta, proprio il risultato finale, non è una cima (ce ne sono molte qui), ma un percorso in cresta che, dai libri di itinerari, è passato nei miei felici ricordi: il sentiero attrezzato Bepi Zac. In METE MAGAZINE

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montagna spesso mi coglie la “pazzia” e qualche volta davvero combino dei guai che chi ama davvero la montagna dovrebbe evitare. Il problema è che io, in montagna in particolare, mi faccio guidare dal cuore e non dal cervello razionale e prudente che ognuno di noi dovrebbe ascoltare. Per cui, parto per una escursione, avviso qualcuno delle mie intenzioni, dato che spesso le affronto da solo, ma poi capita che un alito di brezza leggera o una sfumatura di luce mi emozionino così tanto da farmi cambiare idea ed itinerario…so bene che in montagna non si dovrebbe farlo. Nell’ escursione che racconto ho fatto un percorso che chiunque conosca un poco la valle e i suoi monti giudicherebbe “da matti”; e, in effetti, lo è. Parto come al solito dall’hotel Cima 11, a Meida, scarponi già calzati, mi incammino velocemente verso la Malga Crocefisso e in un secondo tempo verso la Malga Monzoni dove, tirato un po’ il fiato, decido il da farsi. La mia idea originale è salire al rifugio Selle, bellissimo luogo con un panorama mozzafiato su queste montagne così uniche ed emozionanti, passando per il rifugio Taramelli ed il piccolo lago appena sopra (si dice che sia il lago più alto nel gruppo della Marmolada). Il compianto Toni Rizzi, il grande cercatore di cristalli e minerali, mi diceva che sulle rive del lago, osservando bene, si possono trovare piccole parti di pirite così luccicanti da sembrare quasi oro; però io vado di fretta, il mio scopo è arrivare al rifugio, poi deciderò se sia per me possibile realizzare un sogno che ho nel cuore da anni. Dal passo Selle, a cui quasi tutti arrivano partendo dal passo S. Pellegrino, diparte un sentiero attrezzato su una cresta magnifica con quattro o cinque cime davvero notevoli che porta alla forcella La Costela, nel gruppo dei Monzoni, un insieme di rocce davvero bellissime e rare, tanto che ancora oggi i geologi di tutto il mondo ne studiano le caratteristiche. Ho sentito qualche


esperto affermare che la predisposizione degli strati geologici è piuttosto strana: qualcuno di questi è in basso anziché in alto e non si è ancora capito il perché. Sono anni che sogno questo sentiero, a cavallo fra valli lussureggianti e boscose, e credo che stavolta proverò, nonostante sia solo, non abbia neanche un cavetto per assicurarmi sui cavi attrezzati e la via sia abbastanza lunga e per niente banale. Scrivendo “abbastanza lunga” mi viene da ridere, il cammino percorso si rivelerà lungo almeno il doppio. Sopra il laghetto il pendio si restringe e sulla destra si notano benissimo, sulla crestosa cima Selle, le feritoie dove gli Austriaci mettevano i fucili o le mitragliatrici per sparare contro i nostri soldati che dovevano conquistarla. Qui sembra ancora di toccare con mano quanto sia orribile la guerra, quante giovani vite sprecate, quanta sofferenza e quale sacrificio; qualche volta ho l’impressione, forse perché sono solo, di avvertire il dolore di quei ragazzi e delle loro famiglie; al di là del colore della divisa, il dolore e la morte sono uguali per tutti. Confesso che, nonostante io sia un cristiano poco coerente, una muta preghiera per tutti loro mi parte spontaneamente dal cuore sulla pendenza costante del pendio. Finalmente arrivo al passo e posso ammirare sotto di me tutta la conca del S. Pellegrino, con le pale di S. Martino non vicinissime ma davvero spettacolari e tutti i boschi che davvero regalano al panorama sfumature uniche. Sul passo c’è un piccolo monumento con filo spinato e una targa a ricordare i morti … in luoghi così belli che invitano a vivere. Con questi pensieri osservo l’inizio della cresta che voglio salire; mi scappa l’occhio sulla sinistra e vedo un cartello che mi informa che da lì parte la Bepi Zac, un sentiero attrezzato e bello come quello dei Monzoni. Quindi, prima salgo su cima Selle, noto che punta Vallaccia, cioè la fine della cresta, è lontanissima (mai fidarsi delle constatazioni visive, spesso in montagna sono false e io l’ho provato sulla mia pelle sia in Dolomiti che sui quattromila metri) quindi volto gli scarponi e torno al passo, oggi Bepi Zac. Del resto è anche questo un sogno che cullo da tempo. Anche questo sentiero è spettacolare, in certi punti catene o cavi metallici facilitano i passaggi ma non c ‘ è niente di davvero difficile, anche se la prudenza deve sempre accompagnarci; in certi luoghi è difficile scindere l’esperienza in montagna e l’emozione. Passando proprio sotto una paretina di roccia grigia si nota un buco molto grande con una porta di legno e, guardando bene, si osserva quello che a me sembra essere un dormitorio per i soldati

austriaci che, probabilmente, ma non ne sono sicuro, si fermavano qui, dandosi il cambio per fare la guardia sulle creste che dominano tutte le valli… se ci passate, guardate ed assicuratevene. Alla fine, camminando e arrampicando un poco sui cavi, guadagno cima Campagnaccia e, subito dopo, cima Costabella, ammirando con estrema gioia la valle di S. Nicolò proprio sotto di me. Come sarebbe bello se ci fosse un sentiero che scende in questa bellissima valle, in due o tre ore sarei in albergo. Peccato non ci sia! (e invece c’è, e arriva direttamente a baita Le Cascate, però se la cartina rimane nello zaino è dura poi trovare i sentieri!) Qui la Bepi Zac prosegue ma io, se non voglio rientrare tardi e far preoccupare la mia famiglia, devo scendere, per cui farò così: discesa al passo S. Pellegrino per poi trovare un passaggio in macchina per Pozza o, mal che vada, Moena (sigh). Dalla forcella da punta Campagnaccia e cima Costabella scendo per una facile ferrata fino agli impianti che dal passo portano i turisti proprio vicino a queste immense rocce; credo si tratti della località Paradiso, ma secondo voi… gli impianti possono essere aperti? Niente. Non conoscendo il sentiero per scendere al passo, penso di scendere in linea retta sotto i cavi della seggiovia e fortunatamente la cosa mi riesce bene, scendo abbastanza velocemente, anche perché fortuna vuole che non ci siano strapiombi da superare. Arrivo al passo e, come al solito, non ho il coraggio di chiedere un passaggio (non ci si crede ma sono profondamente introverso, nonostante le apparenze). Per cui, gambe in spalla, mi incammino sull’asfalto e con passo veloce, nonostante la stanchezza, mi avvio verso Moena e quindi verso Pozza, dove preferisco non raccontare la mia impresa. Non sono in grado nemmeno di quantificarne la lunghezza. Provate ad immaginare la mia reazione quando, in camera, guardando la cartina che era rimasta chiusa nello zaino, ho scoperto che, dall’ultima cima, parte il sentiero che scende! Bellissimo itinerario che consiglio, ma con imbrago e cordini, e poi tanta voglia di panorami maestosi. Credetemi, al passo S. Pellegrino ammirando questa cresta continua da cima Selle fino al Costabella, il cuore si riempie anche di orgoglio, non potrebbe essere altrimenti. Auguro di potere sperimentare queste emozioni anche a tutti voi che avete avuto la voglia di leggere fino alla fine la narrazione di questa mia “pazzia”… del resto, quando si ama, se ne fanno di pazzie! E io di queste montagne sono malato, non dolorosamente, ma dolcemente malato, e felice.

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07 SALARIO MINIMO IN EUROPA... È POSSIBILE? I TALENTI E I FRUTTI VINICIO PASELLI PH: PEXELS Negli ultimi mesi sono circolate diverse ipotesi relative al salario minimo europeo e, la più plausibile, è quella che mira a legarlo al costo della vita del singolo Paese. Posto pari a 100 il costo della vita medio nell’Europa a 28 nel 2018, incluse le imposte indirette, si riscontrano valori molto diversi da Paese a Paese: 102,8 nell’area Euro a 19; 111,1 in Belgio; 104,3 in Germania; 80,1 in Estonia; 127,3 in Irlanda; 84,2 in Grecia; 92,5 in Spagna; 110,3 in Francia; 100,6 in Italia; 88,8 a Cipro; 73,8 in Lettonia; 65,7 in Lituania; 126,6 in Lussemburgo; 82,2 a Malta; 112,1 nei Paesi Bassi; 109,6 in Austria; 86,8 in Portogallo; 84,9 in Slovenia; 70,2 in Slovacchia; 122,5 in Finlandia. Secondo Adecco vi sono salari medi lordi mensili molto diversi tra i vari Stati membri, così come, in realtà, varia molto l’imposizione fiscale diretta su tali salari tra un Paese e l’altro. Il salario METE MAGAZINE

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Non puoi fare una buona economia con una cattiva etica Ezra Pound

L’ipotesi più plausibile di salario minimo europeo è quella che lo vuole legato al costo della vita del singolo Paese.

medio lordo è, secondo tale inchiesta, pari a 2091 € mensili in Europa, 3133 € in Lussemburgo, 2794 € in Germania, 2695 € in Olanda, 2673 € in Irlanda, 2624 € in Austria, 2547 € in Belgio, 2415 € in Francia, 2395 € in Finlandia, 1940 € in Italia, 1658 € in Spagna, 1290 € a Cipro, 1285 € a Malta, 1231 € in Slovenia, 999 € in Grecia, 997 € in Portogallo, 874 € in Estonia, 863 € in Slovacchia, 693 € in Lettonia, 632 € in Lituania. Molto diversi i livelli di produttività del lavoro, ma sono molto diversi anche i tassi di occupazione fra i 20 e i 64 anni (dati Eurostat del 2018): 72% nell’area € a 19; 69,7% in Belgio; 79,9% in Germania; 79,5% in Estonia; 74,1% in Irlanda; 59,5% in Grecia; 67,0% in Spagna; 71,3% in Francia; 63,0% in Italia; 73,9% a Cipro; 76,8% in Lettonia; 77,8% in Lituania; 72,1% in Lussemburgo; 75,5% a Malta; 79,2% nei Paesi Bassi; 76,2% in Austria; 75,4% in Portogallo e in Slovenia; 72,4% in Slovacchia; 76,3% in Finlandia. Come si può evincere dai dati, vi sono casi di bassi salari ed occupazione

relativamente alta, come nell’Est dell’area Euro (Grecia esclusa) e in Portogallo; casi di bassi salari e bassa occupazione (Grecia); casi di salari medi ed occupazione relativamente bassa (Italia e Spagna). Va poi considerata, come già detto, la tassazione sui salari, che in Italia è più alta che altrove. Va altresì precisato che il tasso di occupazione include i lavoratori autonomi e anche coloro che lavorano almeno un’ora a settimana. I lavoratori autonomi percepiscono compensi variabili a seconda del Paese, e anche in tal caso vanno considerate le imposte dirette, che in Italia sono particolarmente alte. Riguardo al lavoro dipendente, considerato che un lavoratore in Lussemburgo guadagna in € quasi cinque volte un lituano e che il costo della vita in Lussemburgo è quasi il doppio che in Lituania, è decisamente complesso fissare un salario minimo uguale per tutti: nei paesi dell’Est potrebbe scendere l’occupazione, con un salario minimo troppo alto, mentre

in spagna, il salario minimo è salito a 900 € mensili su 14 mensilità: non ci sono stati licenziamenti di massa

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Costo della vita nei Paesi UE

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I ss rla em nd b a Fi ur nl go Pa an es di iB a as Be si l A gio G ust er ri a Ar ma ea nia Eu r It o a Sp lia ag n Po Ci a rt pro og Sl all ov o en G ia re c M ia a Es lta t Le oni Sl tto a ov ni ac a Li chi tu a an ia

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3500

Salario medio lordo mensile

3000 2500 2000 1500 1000

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500

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a Ovest molti lavoratori potrebbero vedere ridursi i propri salari. Un salario minimo adattato al costo della vita è più opportuno, anche se non esiste una precisa proporzione fra salari e costo della vita: è indubbio che, nonostante l’elevato costo della vita, un lavoratore medio abbia maggiore potere d’acquisto in Lussemburgo, in Austria, in Olanda o in Germania, piuttosto che in Lituania, Lettonia, Estonia o in Slovacchia. Deve esserci un legame fra salari e produttività; nei paesi maggiormente avanzati la produttività è maggiore e quindi anche i salari. Servono studi approfonditi sull’impatto per le imprese derivante da innalzamenti del salario minimo. Un esperimento recente è stato compiuto in Spagna, dove il salario minimo è salito a 900 € mensili su 14 mensilità: non ci sono stati licenziamenti di massa, anzi l’occupazione è cresciuta ulteriormente, seppure a un ritmo più lento (ciò a causa del rallentamento globale, probabilmente). La stessa Germania negli ultimi anni ha innalzato sostanzialmente il salario minimo, che ora si avvicina ai 9 € lordi l’ora; anche in questo caso l’occupazione è cresciuta, nessun licenziamento di massa. Occorre quindi valutare quanto si possa osare nell’adeguamento al rialzo dei salari; trattasi di un ribilanciamento dell’economia dell’area Euro in direzione di un mercato interno più dinamico.


Il vento non è semplicemente l’effetto di una legge fisica per cui, in termini semplici e poco scientifici, si ha uno spostamento di una massa d’aria da un’area con temperatura più fredda verso

il vento

una con temperatura più calda, o da un’area di alta pressione verso una di bassa pressione. La cosa è facilmente indagabile

quando, per esempio, trovandosi sulla riva del mare in una mattina estiva afosa ed assolata, occorre attendere le ore mediane per apprezzare la brezza ad intensità crescente che comincia a provenire dal mare, quando la sua temperatura è progressivamente divenuta più bassa di quella della terraferma. Ed il contrario la sera, quando piccole correnti scendono dai monti lungo i pendii ed i corsi d’acqua per gettarsi e disperdersi nelle pianure ancora arroventate. Non è solo questo...

IN ASCOLTO gG

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Il vento porta odori e profumi, vicini e lontani. A volte se ne segue la scia per trovarne inaspettatamente l’origine: profumo di bucato steso sui fili negli stretti vicoli, dove le correnti d’aria non mancano mai; odore di sughi caserecci, di legna bruciata, di camini riaccesi, lingue di fumo leggero che fluttuano sinuose da vecchi comignoli. Porta l’odore di pioggia, di terra bagnata, con il ricordo dell’emozione per il suo ululare nei temporali estivi. E porta sempre con sé i ricordi; fa rivivere antiche memorie, precise sensazioni, attraverso fragranze a volte misteriose.

Il vento porta l’odore di pioggia, di terra bagnata, con il ricordo dell’emozione per il suo ululare nei temporali estivi.

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Può essere rilassante o tonificante; pulisce, purifica, spazzando via particelle velenose, cattivi odori e l’eccessiva umidità. Aiuta a scacciare i cattivi pensieri, dà un senso di libertà e di vita, rende meno monotono il paesaggio che lo è, l’angolo più insignificante della città o il momento noioso di un’attesa: perché crea movimento, fa muovere la natura, ondeggiare le piante, le foglie, i fili d’erba. Ciò che è solitamente statico, diventa vivo, anche più bello. Lo trovi al mare, quando si spalanca tra l’infinito dell’acqua e quello del cielo, dove arriccia le onde e cesella le rocce; in città, quando trova le sue

vie; in montagna, quando risale lungo le pareti maestose o cade (e si chiama foehn) con violente raffiche calde che si accendono nella compressione. Lo trovi in campagna, ondeggiando spighe e papaveri. Viene chiamato tramontana, tagliente e fredda; grecale, con profumo di aria fresca, pulita, secca; scirocco, carico di umidità; ostro africano, colorato di sabbia desertica; libeccio temperato, profumato di mare, oppure levante, che nasce al sorgere del sole. E ponentino romano, tiepido e leggero; bora triestina, che sbuca improvvisa dalla porta del Carso; maestrale (sotto il quale “urla e biancheggia il mar”), che segue sempre precise regole.

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E poi gli altri, anche quelli senza nome: brezze leggere, soffi, refoli, bave, spifferi, mulinelli, raffiche taglienti, turbini veloci e correnti costanti sotto i portici. A volte può sembrare un po’ fastidioso, a volte è violento. Ma anche quando, nelle sue manifestazioni più cruente, provoca purtroppo danni e vittime, non ha colpe: non fa altro che seguire la propria strada e le leggi fisiche, sempre più spesso deteriorate ed esasperate dall’opera umana. Cosa significa amare il vento? Tanti si sentono disturbati al primo soffio. Probabilmente significa semplicemente amare la natura che, nei suoi effetti più spettacolari, ricorda e dimostra che c’è, esiste e sa essere ancora forte.


09 MILLE E UNA PORTA SULLE STRADE DI CUBA Le porte di Cuba non sono confini, sono passaggi.

DI TAPPA IN TAPPA FRANCESCA VINAI PH: TAKEANYWAY

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Tutte in legno, verniciate di pastello o colori fluo, coperte da un leggero velo di polvere che si insinua nelle cesellature. Le scopro passeggiando per l’Avana, perdendomi nei meandri di Trinidad, per le strade di Camaguey e Cienfuegos, lungo i saliscendi di Santiago, ai lati delle vie di Viñales. Sono le porte di Cuba, cuore pulsante della vita isolana, scenografie di salotti imbastiti per strada. I cubani amano stare sull’uscio di casa, in piedi, accovacciati sui gradini o seduti su una seggiola trascinata fuori per l’occasione. C’è chi studia i passanti, chi chiacchiera con i vicini, chi resta in silenzio con un sigaro in mano, chi sorveglia i bambini a distanza. E chi non fa nulla se non riposare, dondolandosi sulle sedie nella calura che si stempera al tramonto. Le porte di Cuba non sono confini ma

Quando il tempo si arresta, diventa luogo Chawki Abdelamir

passaggi. Sono ponti tra ciò che è dentro e ciò che è fuori casa: un unicum, di fatto, considerato che restano quasi sempre aperte. Sono leggere e cigolanti nelle schiere di bassi edifici ad un piano. Recintate da eleganti volute in ferro o da sbarre modellate nel legno, se ne stanno in mostra come canarini in gabbia. Sono massicce laddove segnano l’ingresso di palazzi in decadenza; così alte che si fa fatica a schiuderne i battenti, parlano di un remoto splendore coloniale. Qua e là, a fianco delle porte, murales rivoluzionari – una bandiera cubana, Viva la revolución – e qualche impalcatura improvvisata a puntellare balconi barocchi o neoclassici acciaccati dal tempo, da cui svolazzano panni stesi. Io sono curiosa di sapere cosa ci sia oltre le porte e sbircio ogni volta che posso. METE MAGAZINE

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Nelle case ad un piano si aprono soggiorni allestiti su pavimenti piastrellati d’altri tempi, un televisore nell’angolo, un quadro di Che Guevara o Fidel Castro, poltrone polverose e centrini in pizzo. Nei grandi palazzi, i portoni socchiusi nascondono scale che salgono ripide nella penombra. Gli androni sono così stretti da non lasciarne intravedere la fine; chissà quanti passi le hanno sfiorate leggeri o colpite con foga, chissà dove portano. Vorrei farmi guidare fino in cima e sbirciare dentro le stanze in cui conducono; ma non ho il coraggio di varcare l’ingresso. Per me, sì, la porta resta un confine, sospiro e lavoro di fantasia. Intorno a me voci e corse di bambini, echeggi di pettegolezzi sussurrati e sguardi rubati. E un’atmosfera surreale, in bilico tra indolenza e fierezza.


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Sono le porte la vera anima di Cuba, cuore pulsante della vita isolana.

Abbiamo avuto un’idea, abbiamo messo il mondo in capsula

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Il viaggio verticale: i mezzi di trasporto non servono Mai nella storia umana un viaggio dal

ALTRE PROSPETTIVE

punto A al punto B è stato così vario, così ricco di destinazioni. Grazie all’alta tecnologia adesso è veloce e comodo, e anche accessibile a tutte le tasche. Ma forse nessuno di questi viaggi “orizzontali” è così eccitante come un altro: chiamiamolo viaggio “verticale”. Verticale, perché non vi servirà nessuno spostamento fisico. METE MAGAZINE

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olga v. petukhova

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Chi sei tu? Bella domanda! James Coburn, Lo sceriffo Pat Garrett

Cosa fa un viaggiatore? Raccoglie impressioni. Abbandona il suo comodo letto e va in cerca dell’incertezza e della suspense. Solo cento anni fa pochi potevano permettersi di viaggiare: era una vera avventura oppure un pellegrinaggio. Al giorno d’oggi, i viaggi fanno parte della cultura di massa, sono diventati una forma di vacanza, un passatempo, e nessuno si sorprende più che si viaggi. Paradossalmente, nei viaggi di oggi si perde il senso della novità e dell’imprevedibilità; siamo ben informati in anticipo. Se vogliamo ritornare all’antica sensazione del batticuore e dell’arrivo di adrenalina, ci vuole un “digiuno”, una bella pausa tra i piatti deliziosi, solo con un bicchiere di acqua fresca in mano. Anziché il classico viaggio, dovremmo fare un viaggio “verticale”, quello che tutta l’umanità più creativa e pensante ha sempre praticato nel corso dei millenni. È il viaggio più economico possibile, ma forse produce effetti molto più profondi sulla nostra vita. Non ci servono mezzi di trasporto. Ci vuole solo un po’ di tempo libero e un luogo dove nessuno ci possa disturbare. Ne esistono di due tipi: viaggio verticale “soft” e “hard”.

Un viaggio soft: rimanendo nel vostro eremitaggio, sceglietevi la fonte di informazione che vi affascina di più, telefono, computer, televisore, radio, libro, musica, quadri o la conversazione con una persona. Quanto alla persona, meglio se al telefono. Quando la nuova informazione entra nella nostra vita in modo così privilegiato, succede spesso che produca un serio effetto, anche più di un tipico viaggio “orizzontale”. Un viaggio hard: telefono, computer, televisore, radio sono spenti, i libri chiusi, non parlate con nessuno e non guardate le immagini. Come facevano gli eremiti nei monasteri. Così non rimane nient’altro che incontrare sé stessi, rivedendo il passato o sognando il futuro. Per i credenti, parlare con Dio. Per scrittori o sognatori, creare altre realtà. Più isolamento dall’esterno, più concentrazione ci sarà, più profondo sarà il viaggio e maggiori cambiamenti porterà. Nota bene: se non volete un effetto così forte, meglio che viaggiate in modo classico. E, se siete veri geni, riuscirete a combinare i due tipi di viaggi insieme.

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ULTIMO CHILOMETRO

Con Formula 200xCento.com fai una campagna promozionale su METE e ti regaliamo veramente l’auto aziendale Hai una partita IVA? Ti sei mai posto queste due domande? Da imprenditore immagino di sì! Sai quanto ti costerebbe oggi l’acquisto, il noleggio o il leasing di un’auto aziendale nuova? Sai quanto ti costerebbe oggi una campagna promozionale che ti porti

Già tanti imprenditori hanno scoperto i veri benefici della nostra Formula (Chiedici un link ad un ultimo numero di una nostra rivista, così potrai contattare tutti i nostri inserzionisti e averne conferma)

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Se ti dicessimo che, per entrambi alla fine, “Ci paghi solo lo spot?”

Premesso che, se scegli l’auto che desideri, noi siamo in grado di adattare l’investimento della tua campagna alla tua scelta. Formula 200xCento.com è una Promo con Auto Aziendale gratis in cambio.

“Tutto il resto, campagna e auto, a conti fatti sono gratis e, semmai, ci paghi in percentuale al raggiungimento degli obiettivi prefissati?” Oggi una campagna promozionale può costare da 200/300 euro (che non serve a nulla) fino a decine di migliaia di euro; dipende da ben 10 possibili obiettivi variabili che un’impresa dovrebbe prefissare al momento dello studio e della firma di un contratto di assistenza marketing. Una importante società di pubblicità quarant’anni fa, agli albori delle televisioni private, cominciò a proporre ad imprese di medio livello contratti pubblicitari con lo slogan:

“Ci paga solo lo spot?” “Tutto il resto della campagna è a nostro rischio; se otteniamo risultati commerciali soddisfacenti per voi ci pagate una percentuale sui fatturati che incrementiamo, altrimenti non ci dovete nulla; come se diventassimo i vostri rivenditori, tutto il rischio ce lo prendiamo noi.” Si è stimato che nel 76% dei casi l’imprenditore accettava la scommessa e nessuno pensava di potere ottenere risultati al 1.000% superiori alle più rosee aspettative.

Investi in un contratto pubblicitario deducibile fino al 175% e noi ti regaliamo un’auto di pari valore Esempio: l’auto in programma di acquisto ha un valore di 34.303 euro + IVA = 34.303 + 7.547 = 41.850 euro. Se l’auto fosse acquistata per contanti, in leasing o a NLT il suo costo sarebbe praticamente, salvo rari casi (agente di commercio, ma parliamone) un costo puro per l’azienda. Infatti, in base ai vincoli stabiliti dalle norme forfettarie fiscali, si può detrarre il 40% dell’IVA, e dedurre il 20% dell’imponibile fino ad un massimo di 18.075 euro, stabilita un’aliquota cautelativa di tassazione aziendale sugli utili pari al 54% (secondo la CGIA di Mestre la pressione fiscale nel 2019 è arrivata al 68%). Nel caso di specie il recupero dell’IVA sarebbe

40% x 7.547 = 3.019 euro e 18.075 x 20% x 54% = 1.952 euro per un totale di 4.971 euro risparmiati: l’auto costa effettivamente all’impresa 36.879 euro. Un risparmio dell’11,8%.

Oggi sono diventati noti salumifici, ma allora, da anonimi quali erano, esplosero letteralmente grazie a queste campagne promozionali.

Come si può ben capire, più aumenta il valore dell’auto e più diminuisce la percentuale di risparmio; per un’auto di 60.000 euro + IVA il risparmio sarebbe 13.200 x 40% = 5.280 + 1.952,1 = 7.232,1 pari al 9,9%.

La nostra proposta oggi è simile, ma possiamo usufruire di un grosso beneficio in più: l’elevato credito d’imposta che lo Stato riconosce per campagne pubblicitarie e di marketing come la nostra.

Torniamo al nostro esempio e alla nostra proposta irrinunciabile. Ti proponiamo una campagna del valore commerciale di 34.303 euro + IVA = 41.850 euro, a cui sommare il costo dello spot grafico che è di 8.370 euro IVA compresa.

Siamo così sicuri dei risultati che porteremo che siamo pronti a rischiare e regalarti un’auto per uso aziendale di pari valore al nostro contratto, al netto della costruzione del materiale pubblicitario (lo spot) che è l’unica cosa che rimane a tuo carico.

Ovviamente il costo dello spot varia al variare della campagna: per un investimento di 73.200 IVA compresa il costo spot è di 14.640 IVA compresa.

Per invitarti ad aderire senza rischio alla proposta “Formula 200xCento.com (Paghi solo lo spot e l’auto è gratis)” di seguito ti spiego come funziona.

Ecco quanto costa a bilancio del nostro cliente con questa formula: Costo della campagna 34.303 euro + IVA = 41.850 euro. A cui aggiungere il costo spot 41.850 + 8.370 (20%) euro = 50.220 euro IVA compresa. METE MAGAZINE

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L’auto, in questo caso potrebbe

Un risparmio di circa 80.000 euro

essere: BMW 318 d Berlina

pari al 382,5%, anziché all’11,8%.

BMW 318 berlina nuova - IVA esposta - 110 kW 150 CV, Diesel, di pari valore viene inserita in contratto come bene promozionale e ceduta gratuitamente ed immediatamente dalla nostra società alla persona fisica che l’impresa vorrà indicare quale beneficiario del regalo. A suo carico solo le spese do passaggio di proprietà. In questo modo, a fronte di un investimento totale di 50.220 euro IVA compresa, forniamo:

In realtà c’è oggi un asso nella manica, come dicevamo: il credito d’imposta incrementale fino al 75%.

Una campagna del valore di 41.850 IVA compresa + (GRATIS) un’auto del valore di 41.850 euro IVA compresa. Un totale di 83.700 euro IVA compresa. Ora facciamo i calcoli da un punto di vista fiscale. La nostra fattura per una campagna promozionale e di marketing “Formula 200xCento.com Paghi solo lo spot” sarà di 50.220 IVA compresa, e la BMW 318 d Berlina è gratis, ma con un impegno vincolante. Circolare per un anno con il nostro logo tridimensionale applicato sulla carrozzeria. Risparmi fiscali certi: mantenendo la stessa aliquota di detassazione al 54%, si ottiene IVA recupero 100% ed imponibile recupero al 100%. Pertanto abbiamo: 50.220 - 9.056 - (41.164 x

54%) = 50.220 - 9.056 - 22.230 = 18.934 euro. Se a questi 18.934 euro togliamo quanto il nostro cliente recupera vendendo l’auto entro 3 anni, è facile che la valutazione del bene sia ben più alta (circa 24.000 euro pari a meno del 60% del valore da nuovo e senza fattura), ma in ogni caso si azzera il costo dell’operazione, e rimane un bel deposito in tasca del nostro imprenditore.

Nella migliore delle ipotesi si otterrà: 50.220 - 9.056 - (41.164 x 175% x 54%) = 50.220 - 9.056 - 38.900 = 2.264 euro. Un risparmio di circa 80.000 euro pari al 382,5%, anziché all’11,8% (che è meno del costo dello spot). In questo modo il costo dell’auto scompare e la plusvalenza a seguito della vendita dell’auto finisce interamente nelle tasche dell’imprenditore. Ovviamente, se la campagna porta frutti, il nostro imprenditore sarà ben contento di riconoscerci degli emolumenti in percentuale all’incremento delle vendite precedentemente pattuiti. Generalmente, stabiliamo un importo per ogni lead procurato e/o una percentuale sull’incremento del fatturato.

È possibile finanziare anche fino all’80% dell’intera operazione. Il bello è che il finanziamento è scollegato dal nostro contratto e dalle sue fatture. Rimanendo nell’esempio, e sommando il costo di istruttoria pratica da parte di Banca Santander pari a 350 euro, abbiamo questa possibilità:

50.220 + 350 – 9.056 = 41.514 euro, potendo scegliere il costo rata in base alla durata del finanziamento di 3, 4, o 5 anni. Con 36 rate da 1.262 euro. Con 48 rate da 973 euro. Con 60 rate da 805 euro. Gli importi delle rate sono indicativi in quanto soggetti ad aggiornamento dei tassi bancari e possono subire una variazione di un+/-1%. Nel caso il nostro Partner volesse utilizzare questa opzione, dovrà inviarci i seguenti documenti: IBAN per il pagamento, carta d’identità, tessera sanitaria, patente, visura camerale, reddito mensile dichiarato (documento reddito del cliente), presenza o assenza di eventuali redditi secondari dell’eventuale coobbligato e loro importo, data d’inizio di occupazione del coobbligato (occorre sapere se è stato assunto da più o meno di sei mesi), modello unico 2019 dell’eventuale coobbligato (se non percepisce utili specificarlo e inviarci la certificazione unica in sostituzione del modello unico, se non lo presenta, oltre all’ultima busta paga), bilancio dell’anno scorso e bilancino, ricevuta di deposito di bilancio.

Senza meta, libere riflessioni Il Dovere è la volontà morale tradotta in sentimento di pura ragione, avente come autonomo fine l’eticità della sua azione: dell’Uomo elevazione alla sua maestà. FABIO BERGAMO METE MAGAZINE - 50 -


ASSISTENZA E CONSULENZA PER LE ARTI GRAFICHE Nuova Tesea opera da anni nel settore delle Arti Grafiche, avvalendosi dell’esperienza dei tecnici che la compongono, con un know-how costruito attraverso le numerose installazioni e gli interventi su periferiche e software dedicati al colore, vero punto di forza della società, forniamo assistenza a 360 gradi a tutte quelle aziende al cui interno vengono realizzati prodotti con l’utilizzo di hardware e software dedicati.

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