NR 5 | APRILE 21
O B I E T T I V I Etica e fotografia naturalistica
S U C C E S S I DESTINAZIONI
Un pensiero ai 4000
SERVIZI Impianti fotovoltaici, quadri bt e mt impianti elettrici e strumentali, sottostazioni, impianti elettrici industriali e civili, impianti biogas, impianti antincendio e sprinkler MASSIMO MALAVOLTI
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campo base LA VITA “IN-DIFESA” “Non solo Covid…”: questo è il titolo che avevo pensato per l’editoriale di questo numero. Ma la ricerca di argomenti altri che, a ben guardare, pur non mancano, riconduce sempre lì: è un limite, ma è anche un fatto imprescindibile dato che ormai, da oltre un anno, le nostre esistenze sono, volenti o nolenti, condizionate dalla necessità di fare costantemente fronte all’esposizione ad un rischio tanto certo quanto infido. Il rischio nasce da una minaccia, la minaccia genera paura, la paura è uno stato emotivo assolutamente naturale, ed utile, poiché ci consente di autoproteggerci. In questo particolare momento storico diviene una condizione esistenziale, ed è necessario essere in grado di gestirla affinché non possa causarci malessere e pervadere ogni aspetto della nostra vita. Essa ci sospinge naturalmente a creare la nostra zona di comfort, dove potere vivere rilassati al riparo dalla paura stessa. In questo numero la rubrica “Viaggi Altri” ospita una piccola riflessione: il rifugiarsi in un “luogo” assolutamente personale può aiutarci a sostenere e tenere accesi buonumore e creatività, e a coltivare il pensiero positivo.
domestica, come non mai in crescita durante le chiusure; e ancora penalizzate dall’emarginazione politica.
La vita in difesa si scopre indifesa. Oltre il gioco di parole, finalmente la speranza ora è ancorata ad un vaccino. Sarà per tutti? Così dovrebbe essere in una comunità civile. In Italia, 500.000 persone rischiano di essere “non pervenute” nel piano di vaccinazione nazionale: giuridicamente “irregolari”, prive di permesso di soggiorno, senza fissa dimora, apolidi, socialmente fragili. Difenderle promuovendo una campagna di vaccinazione ad hoc vorrebbe dire salvaguardare la loro salute e quella dell’intera comunità.
Non solo Covid: … e, infatti, concentrati su noi stessi e sulle ripercussioni che l’emergenza sanitaria ha sulla nostra quotidianità, non vediamo assolutamente quanta vita inaccettabilmente indifesa ci scorre accanto; pensiamo ad esempio agli 80 milioni di persone, dichiarati profughi dalle Nazioni Unite, di cui l’86% viene accolto dai Paesi poveri del mondo! Soltanto il 14% bussa alle porte dei Paesi ricchi, eppure lo vogliamo respingere. Scappano da guerra e fame e muoiono, per mare e per terra… mentre l’Europa, perseguendo nei fatti politiche discriminatorie e di esclusione, usa il nostro Paese, approdo naturale per chi parte dall’Africa, nel tentativo di esternalizzare i confini e così trattenere i profughi nei lager libici, dove ogni diritto umano viene calpestato.
Le donne: che stanno sostenendo questa crisi caricandosi l’onere della cura domestica, oltre al lavoro; contenitori per i sogni dismessi dei propri figli, giovane erba tagliata; colpite in modo esemplare dalla pandemia; sono la maggioranza degli operatori sanitari: in Italia il 66,8% delle persone impiegate nel settore, che è uno dei maggiormente esposti al virus; in Europa il 76%. L’emergenza sta cancellando i progressi fatti negli anni sull’uguaglianza di genere: 47 milioni di donne nel mondo sono a rischio di ricadere sotto la soglia di povertà, a causa della contrazione dei posti di lavoro considerati ancora purtroppo tipicamente femminili, come quelli legati agli asili nido, alla segreteria, alle attività domestiche e assistenziali, specialmente se part-time, modalità caratterizzata da minori diritti anche nella protezione sanitaria. Le donne, vittime di violenza
La Terra: è donna. In origine era Gea (in greco antico) o Gaia (in greco ionico ed omerico), la madre di tutti i viventi. La Terra continuerà ad esistere dopo la scomparsa dell’essere umano. L’Agenda 2030 ha fissato obiettivi comuni a tutti i Paesi, da raggiungere entro quell’anno che rappresenta il punto di non ritorno rispetto ai processi di cambiamento climatico; lo scioglimento del permafrost e delle calotte polari, la pratica di deforestazione per far spazio a monocolture ed allevamenti intensivi, i sistemi alimentari (responsabili, con l’utilizzo del suolo, la refrigerazione, l’imballaggio, la gestione dei rifiuti ed altro, delle emissioni di gas a effetto serra) impongono azioni decisive di mitigazione a difesa della sopravvivenza del genere umano. A me piace pensare alla Natura così come è rappresentata nelle religioni antiche, prima dell’avvento delle culture antropocentriche dove l’uomo ha assunto il ruolo di dominatore di tutte le cose: una madre, fertile, rigeneratrice, accogliente ma al contempo forte e potente.
Sarà bello recuperare il concetto di curiosità, che spesso ormai stravolgiamo con il nostro essere iperattivi sui social e sui motori di ricerca, nel suo primario significato, dal latino cūriōsitās , da cūriōsus “attento, diligente, curioso” ma, ancor più, nell’accezione di più largo respiro : “avere cura, prendersi cura”; spostare il focus dalla nostra paura, dopo averla conosciuta e sperimentata (è un passaggio necessario per superarla), alla degustazione del presente, con la sua bellezza e le sue bontà, all’attenzione all’altro; perché probabilmente è vero che si ha bisogno del malessere per capire cos’è il suo opposto. SILVIA GIRONI
SOMMARIO Numero Cinque
01 Etica e fotografia naturalistica SULLE TRACCE
pagina 6
02
03
04
05
Basta Medioevo!
Abitudini (eco) insostenibili
Entrare (e non uscire) dalla zona di comfort
Primavera, il risveglio della natura
SCORCI
SOSTA
VIAGGI ALTRI
SCORCI
pagina 10
pagina 13
pagina 16
pagina 20
COLOPHON DIRETTRICE RESPONSABILE
Silvia Gironi CONDIRETTORE
Giuliano Latuga COORDINAMENTO EDITORIALE E GRAFICA
Enrico Cigolla
HANNO COLLABORATO:
PROMOZIONE E PUBBLICITÀ: tel. 0516014990 Emiliano Ardigò LUOGO DI PUBBLICAZIONE: Bologna Fabio Bergamo ANNO: 2020 Vinicio Paselli PROPRIETARIO: A.R.E. s.r.l. Corrado Poli DIRETTRICE RESPONSABILE: Silvia Gironi Francesca Vinai CONDIRETTORE: Giuliano Latuga Marta Gandolfi Gabriele Gironi METE MAGAZINEEDITORE: A.R.E. s.r.l, Via E. Mattei, 48/D, 40138 Bologna STAMPATO DA: MGP s.r.l., Antonio Iannibelli -4Martina Verrilli Autorizzazione Tribunale di Bologna n. 8523 del 06.08.2019
10 Safari, il sapore della libertà DI TAPPA IN TAPPA
pagina 42
06
07
08
09
Il Duomo di Ravello
Un pensiero ai 4000
Dipendenza da internet
La vaccinazione in Africa, e nei Paesi poveri
PROGETTI VISIONARI
PASSI
VIAGGIO IN SÉ STESSI
IL TALENTO E I FRUTTI
pagina 24
pagina 30
pagina 34
pagina 38
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01
sulle tracce
antonio iannibelli
Etica e fotografia naturalistica La fotografia naturalistica è un ramo della fotografia che si concentra sulla ripresa di animali e piante nel loro habitat naturale, per conoscerne il comportamento e apprezzarne la bellezza. Soprattutto la fotografia della fauna selvatica necessita di una particolare attenzione, perché la qualità della sua vita è molto condizionata dalla nostra presenza. Lo scopo di questo genere fotografico è quello di mostrare la bellezza intrinseca della natura, quindi gli animali nel proprio habitat con i loro pregi e i loro difetti, se difetti possiamo chiamarli. Scoiattolo meridionale in atteggiamento di curiosità METE MAGAZINE
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ph: antonio iannibelli
La fotografia naturalistica è un ramo della fotografia che si concentra sulla ripresa di animali e piante nel loro habitat naturale, per conoscerne il comportamento e apprezzarne la bellezza. Soprattutto la fotografia della fauna selvatica necessita di una particolare attenzione, perché la qualità della sua vita è molto condizionata dalla nostra presenza. Lo scopo di questo genere fotografico è quello di mostrare la bellezza intrinseca della natura, quindi gli animali nel proprio habitat con i loro pregi e i loro difetti, se difetti possiamo chiamarli. Ad esempio, se un lupo mangia un capriolo, sembra la cosa più naturale del mondo; se un lupo mangia una pecora, invece, ciò non appare molto naturale agli occhi degli umani e tendiamo a considerarlo un difetto, ma se conoscessimo meglio il lupo potremmo conviverci pacificamente. La fotografia naturalistica è praticata sia da professionisti, persone che fanno questo per lavoro, che da amatori, persone che desiderano il contatto con la natura senza interesse economico, in ogni caso per ottenere dei buoni risultati è necessario conoscere sia l’ambiente naturale che gli animali selvatici che lo abitano. Sapendo che la flora e la fauna sono strettamente collegate fra esse e che il giusto equilibrio dipende dalla selezione e dalla distribuzione naturale, l’intervento umano è quasi sempre dannoso. Il fotografo naturalista ha il privilegio di essere ambasciatore tra il mondo naturale e la nostra specie, ma si trova spesso da solo di fronte a vite inermi; il suo comportamento può essere quindi decisivo per la sopravvivenza di quella singola vita e addirittura per la sua intera specie. Per questo genere fotografico la cautela quindi non è mai abbastanza, serve una particolare etica che porti il fotografo di natura a concentrare la propria attenzione sul rispetto degli animali e del loro ciclo biologico, prima di tutto, mettendo in secondo piano la fotografia. Ritengo che chi non sia un bravo naturalista non potrà mai diventare un bravo fotografo di natura. Per me fotografare gli animali selvaggi è un modo per conoscere sempre più il mondo
METE MAGAZINE
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naturale e per meravigliarmi ogni giorno esattamente come quando ero bambino, desideroso di scoprire gli abitanti del bosco. E’ un pretesto per stupirmi di fronte al mistero della vita e per immergermi in quella dimensione primordiale che mi purifica corpo e spirito. Ho conosciuto persone che fotografano gli animali allo zoo o in ambienti chiusi dove la vita o la morte degli animali dipende esclusivamente dall’uomo. Altri che in particolari situazioni usano espedienti per ingannare gli animali, e mi sono sentito dire che non fanno altro che studiare il loro comportamento e che le foto serviranno per far conoscere meglio quella determinata specie. Personalmente penso che le aree che limitano il movimento degli animali e che ne condizionano il comportamento andrebbero quasi tutte cancellate, e che i fotografi che ritengono di far conoscere una specie in questo modo in realtà non conseguono una buona conoscenza di quella specie e quindi non possono essere considerati fotografi naturalisti. Altrettanto scorretto ritengo il comportamento di quei fotografi che con il cibo e attrattive varie condizionano il comportamento dei selvatici pur di ottenere delle facili fotografie. Chi si occupa di natura, oltre alla biologia e all’etologia dei suoi soggetti deve sapere quali sono i rapporti con gli uomini e in particolar modo quali sono i problemi di sopravvivenza di quella determinata specie. Quando una specie è protetta per legge bisogna sapere quali sono i motivi di disturbo da evitare, e, se tra questi c’è la presenza umana, bisogna astenersi dall’avvicinarsi e dal fotografarli. A volte sento di persone che si prefiggono di fotografare una certa specie proprio perché sanno che è protetta, senza porsi il problema della salvaguardia. Questo comportamento non è etico. Solo per fare un esempio, le aquile e i rapaci in generale sono specie molto sensibili al disturbo di fotografi e ricercatori, cercare una foto a tutti i costi può contribuire a farle scomparire per sempre. Chi è allora un buon fotografo di natura?
Canis lupus italicus. Canis lupus italicus.
Lupa che si addormenta
Lupa che osserva curiosa
di nuovo nonostante la mia presenza
È un naturalista, uno studioso della natura che conosce molto bene i suoi soggetti fotografici e che usa la fotografia come mezzo per documentare ciò che vede. E’ un appassionato che utilizza il suo tempo libero alla ricerca di angoli incontaminati, per migliorare le sue condizioni di vita e quelle di ogni altro essere vivente. E’ un amatore che non vende i suoi lavori, ma li condivide, perché crede ciecamente nella difesa degli habitat; è in questo senso che mi piace definirlo amatoriale: colui che ama quello che fa. E’ un tecnico impeccabile perché vuole che i suoi reportage possano diventare documentazione scientifica per contribuire attivamente alla ricerca ufficiale, e perché non vuole neanche lontanamente che qualcuno metta in discussione la sua buona fede. Conosce la sua attrezzatura alla perfezione e privilegia il tele obiettivo piuttosto che il grandangolare, sapendo che più lontano si mantiene dal soggetto meno disturbo arrecherà. Deve anche conoscere la legislazione in merito, la legge sulla caccia, per esempio, ma anche le normative che regolamentano le aree protette e le proprietà private. In ogni caso, per il fotografo naturalista tutto il mondo è un parco, in fondo gli animali selvatici sono indicatori di una maggiore biodiversità e di un ambiente più sano, ancora di più se fuori dalle aree protette per legge. Il fotografo naturalista è un comunicatore: attraverso le sue foto, le pagine web, le conferenze, i workshop fa conoscere la natura che ci circonda. E’ un educatore: tramite la divulgazione delle sue foto, educa e sensibilizza a modelli di conoscenza ambientale e di responsabilità. Gli animali e le piante selvatiche italiane sono tra le più sconosciute, anche tra noi italiani; ho incontrato persone che conoscono alla perfezione
animali e piante africane o tropicali, ma faticano a distinguere un capriolo da un cervo o un’orchidea da una pianta grassa. Il fotografo naturalista è principalmente un ricercatore di emozioni. Conosce il linguaggio fotografico e sa che catturerà l’attenzione degli osservatori solo se le sue foto saranno in grado di trasmettere emozioni. Perché le foto possano cogliere nel segno devono essere autentiche, come ogni animale che è libero di vivere nel suo habitat. Inoltre il fotografo di natura, per confermare quello che ha esaminato sul campo, produce documenti (foto e video) che cataloga con molta cura, il suo archivio è fonte di tante piccole ricerche direttamente dal campo. In fin dei conti il fotografo è prima di tutto un naturalista ma anche uno studioso e un educatore. È etico corredare le proprie foto di nome e cognome, della data in cui è stata scattata e del luogo, anche se, rispetto a questo ultimo dettaglio, per le specie particolarmente protette è richiesta una certa cautela. Sono altrettanto utili i dati di scatto e le attrezzature usate per una più corretta identificazione dei soggetti. Personalmente ritengo non corretto presentare ricerche anche scientifiche corredate da immagini ad animali o piante riprese in cattività, ma se proprio non se ne può fare a meno va specificato dove, quando e perché. Se la fotografia è tutto questo, vuol dire che il mondo scientifico, ancora di più in questo periodo di crisi economica, ha a disposizione un tesoretto da poter utilizzare, perché i fotografi naturalisti sono tanti e, come si diceva, spesso sono dei bravi ricercatori. Sono dei volontari e aspettano solo di essere coinvolti. Possono essere formati e indirizzati a progetti specifici, dandone il giusto riconoscimento; per loro poter collaborare al METE MAGAZINE
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Canis lupus italicus.
Capriolo nel
Lupo nel suo covo
bosco a riposo
miglioramento del nostro ambiente è segno di grande riconoscimento morale. Il mondo scientifico attinge spesso dagli archivi dei fotografi amatoriali, e altrettanto spesso non riconosce la loro importanza. Da parte nostra la collaborazione c’è già, ma ci piacerebbe creare un canale strutturato con gli enti, in modo da prevedere il nostro contributo ai progetti fin dalla fase propositiva. Attualmente invece veniamo contattati solo quando il lavoro sta per concludersi e con richieste di immagini che altri non sono riusciti a reperire. Come se le fotografie fossero solo un contorno, mentre tutti sappiamo che una foto ben fatta vale di più di mille parole. Spesso vengono richieste foto con la sola promessa di pubblicare il nostro nome, come fosse una concessione del tutto facoltativa, ignorando che è invece obbligatorio per la legge sul copyright. Il mondo scientifico e gli enti pubblici (enti parchi, comuni, provincie, regioni ecc.) con i loro uffici preposti sono dei grandi fruitori di immagini di natura, attingono a piene mani dagli archivi fotografici di noi fotografi naturalisti senza darci il giusto riconoscimento, a volte persino manomettono le nostre foto adeguandole alle esigenze tipografiche vanificando il valore.
Antonio Iannibelli - Fotografo e scrittore naturalista. Bologna Sito web: http://www.antonioiannibelli.com Il blog del lupo selvatico italiano: http://www.italianwildwolf.com Ass. culturale Provediemozioni.it: http://www.provediemozioni.it Clicca Mi piace sulla pagine Un cuore tra i lupi: https://www.facebook.com/UnCuoreTraILupi
A loro, noi fotografi di natura, porgiamo la mano per dire che abbiamo voglia di vedere pubblicate le nostre foto e che siamo fieri di contribuire alla ricerca ma che tutto il processo, nel limite del possibile, deve essere controllato anche da parte nostra. Un lavoro fatto a più mani, ognuno con le proprie competenze, facendo sì che il lavoro sia completo ed acquisisca un valore che non potrebbe essere raggiunto altrimenti. I veri fotografi naturalisti sono uomini che mantengono vivo il dialogo con il mondo naturale utilizzando il linguaggio più potente del mondo, la fotografia.
Sus scrofa. Cinghiale mascherato METE MAGAZINE
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Basta Medioevo! METE MAGAZINE
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scorci corrado poli ph: unsplash
02 “Basta Medioevo”! Così sbottò una volta la mia compagna di viaggio durante un lungo tour della Toscana e dell’Umbria una ventina di anni fa. Tra le stradine di Gubbio scoppiammo in una sonora risata perché la frase rappresentava perfettamente lo stato d’animo che avevamo maturato dopo quasi una settimana a gironzolare tra Cetona, San Cassiano, Chianciano, Montalcino, Pienza (questa è un po’ diversa, ma alla fine non tanto), Arcidosso, Orte, Orvieto e quant’altre mai. Certo, luoghi magnifici, interessanti. Pieni di storia e leggende, misteriosi quel che basta per immaginarsi fantasmi di eroici cavalieri, di santi predicatori e di crudeli signori aggirarsi tra quelle pietre che da lì non si sono mosse per mille anni e talora duemila e più, vista la discendenza romana ed etrusca di tanti di quei borghi. Il fascino di questi paesi abbarbicati sulla cima di montagne è innegabile. Ti addentri per minuscole stradine che talora si confondono con cortili, logge, piccoli porticati, piazzette, scale a vista, in un disordine urbanistico – solo apparente? – che oggi sarebbe inaudito nelle nostre città, ma che attira i turisti nei centri medievali. E il turismo e le nuove residenze restaurate, ridanno vita a centri che sembravano sul punto di morire negli anni Sessanta. Un urbanista contemporaneo potrebbe definire queste
costruzioni come una serie di abusi edilizi: in essi. Ti rendi conto che queste case case rialzate, aggiunte, palazzi e torri affastellate hanno una loro razionalità, collocati nel bel mezzo di una via senza ma soprattutto hanno un’anima. I mille preoccuparsi di bloccare la viabilità. dettagli sono certamente sintetizzati in Chissà se gli abitanti allora ne discussero un’anima… che non si riesce a trovare, a e cercarono di opporsi. cogliere. Il fascino del borgo medievale Probabilmente, molte controversie, sta in questo desiderio di cogliere piuttosto che con un ricorso al TAR, allora quell’anima sfuggente. Ma un desiderio, si risolvevano facendo volare qualche testa. Ti rendi conto che queste case affastellate Tra queste viuzze hanno una loro razionalità, ma soprattutto medievali, non hanno un’anima. I mille dettagli sono ci si stanca mai di trovare certamente sintetizzati in un’anima… uno scorcio interessante, che non si riesce a trovare, a cogliere. decorazioni inattese e capitare improvvisamente, girato per definizione, è irrealizzabile e questi un angolo, davanti a un panorama borghi, tutti diversi e tutti eguali, dove mozzafiato. ogni dettaglio non somiglia all’altro, Si viene presi da un desiderio compulsivo sono inafferrabili. Se ti lasci trascinare di fotografare tutto perché tutto sembra dai desideri ne diventi schiavo e svanire pur nella stabilità delle pietre. E continui a vagare e cercare senza sosta. nulla si trattiene di queste città a causa Se invece riesci a liberarti da questa dell’immane diversità accumulata nei dipendenza dalle cupe e strette viuzze, secoli, ma anche – e direi soprattutto – prendi la macchina e ti rechi in una città perché in queste città sembra mancare rinascimentale, barocca o moderna una logica che ne permetta di coglierne l’anima nel suo insieme. Sì, il borgo esiste ha un nome, una storia e una struttura, ma si articolano in talmente tanti dettagli da perdersi METE MAGAZINE
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dove la razionalità è evidente, la bellezza esibita, gli spazi accessibili è allora che puoi finalmente prorompere in un liberatorio: “basta Medioevo”!
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n°195 - 2020
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03 sosta gG ph gG
Esiste sempre un nesso strettissimo tra la natura in generale e qualsiasi gesto o avvenimento materiale, anche se ciò non è immediatamente ed apparentemente tangibile. Qualsiasi prodotto od evento artificiale comporta un costo naturale: al momento dell’acquisto di un bene, di un viaggio, della partecipazione ad un concerto, sarebbe educativo valutarne il costo ecologico e la eventuale modalità di riduzione dello stesso. L’educazione è fondamentale: trasmettere alle nuove generazioni le lezioni della vera economia circolare applicata quotidianamente dai nostri nonni, quella economia circolare che veniva praticata non solo a causa delle ovvie ristrettezze che spesso segnavano la vita di quei tempi ma anche per rispetto, spontaneo, dei cicli e dei doni della natura. Ogni azione ha un ritorno che, compiendo un percorso circolare, transita attraverso il fine e va a nutrire un’azione successiva non attingendo (o attingendo limitatamente) da altre risorse. E si parte sempre dalle semplici abitudini, da alcuni accorgimenti, dai piccoli gesti quotidiani.
Abitudini (eco) insostenibili METE MAGAZINE
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“
Quella umana è l’unica specie al mondo ad aver inquinato la Terra ed è l’unica che può ripulirla
Dennis Weaver
Bisogna essere intransigenti, anche e soprattutto con se stessi, poiché nel proprio piccolo ognuno tende a giustificare certi comportamenti, autoassolvendosi generosamente, anche solo per semplice pigrizia: come non fossero già sufficienti tutte le abitudini ed i comportamenti menefreghisti e dolosi. Per strada è facile osservare, per chi lo
Le scarpate fuori dai centri abitati, anche
vuole, una serie di “piccoli fatti” che ben
su pendii boschivi ed impervi (peraltro
rappresentano l’andamento generale
difficili da raggiungere per eventuali azioni
e che aiutano a comprendere come,
di recupero), sono cosparse di grandi
proporzionalmente in misura amplificata e
sacchi neri (dai contenuti inquietanti), wc,
in ampia scala, si possano raggiungere certi
bidet, materiali di risulta idraulici ed edili
impensabili livelli di degrado. Tutti i fossi
in generale (comprese lastre di eternit),
di campagna delle periferie cittadine (ma
frigoriferi, pneumatici, cestelli di lavatrice
non solo) sono pieni di immondizie di ogni
e quant’altro. Più facile e veloce rovesciare
genere: perlopiù sacchetti di plastica con
dove capita i resti dei lavori artigianali
resti di pranzi veloci, bottiglie e bottigliette,
anziché portarli nelle apposite stazioni
lattine, pacchetti di sigarette ed ora anche
ecologiche, e soprattutto gratuito visto che,
tantissime mascherine (probabile esito
fatto condivisibile o meno, è previsto un
di lanci dai finestrini di auto e furgoni o di
piccolo costo di smaltimento per le aziende
abbandoni ove presenti piazzole di sosta).
che utilizzano questi servizi. METE MAGAZINE
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Una osservazione curiosa: si può constatare la sciagurata abitudine di gettare nei tombini carte e mozziconi di sigaretta, impegnandosi a volte anche a fondo per riuscire a sospingerli con i piedi nelle griglie, quasi compiacendosi per il gesto “sanificatorio”, ignorando che tutto ciò che è stato lì sospinto seguirà il corso delle acque sotterranee, terminando nei fiumi e quindi nel mare. Come, del resto, tutto ciò che viene sversato nel lavabo o nel wc di casa, per smaltirlo facilmente e senza fatica e comunque per toglierselo velocemente di torno. Olii alimentari dei vasetti di prodotti conservati, prodotti chimici di ogni genere usati per le varie pulizie, i famigerati cotton fioc: tonnellate di materiali non degradabili che ritroviamo nei fiumi e nei mari. Un’ultima curiosità: se si assiste alla pulizia dei tombini fognari stradali (auto spurghi programmati) si resta sorpresi dalla quantità di “antiche” bottigliette di plastica e lattine estratte (ovviamente non aspirate): chi cammina, corre o pedala evidentemente non riesce a conservare l’energia necessaria per conferire “i vuoti” negli appositi raccoglitori…
Alcune azioni possono essere ricondotte ad una grande ignoranza, altre, invece, sono dolose, ed altre ancora dovute a diverse “abitudini culturali”. Merita una considerazione a parte un’altra pessima azione, sicuramente sottovalutata e mai considerata: la dispersione delle borracce dei ciclisti (agonisti). Tante corse, migliaia di chilometri, migliaia di ciclisti, migliaia di borracce gettate con noncuranza nelle scarpate, nei boschi, nei corsi d’acqua, nei prati, nonostante da qualche anno timidi regolamenti imporrebbero “lo scarico” in apposite aree segnalate o in prossimità di gruppi di tifosi (che di certo non le lasciano a terra, rappresentando un prezioso gadget). E le borracce, che non sono neppure biodegradabili, vengono accompagnate anche dagli incarti delle varie barrette alimentari. Negli ultimi mesi l’UCI (Unione ciclistica internazionale) ha inasprito le sanzioni (€ 300,00 per ogni lancio illecito), ma chi segue le gare ciclistiche potrà notare solo piccoli miglioramenti comportamentali e, in ogni caso, la “flagranza” è difficilmente registrabile in diretta. Triste ed abnorme contraddizione per l’attività che per antonomasia dovrebbe rappresentare il miglior spot ecologico! Tornando alle abitudini quotidiane, per quanto riguarda la raccolta differenziata, inizialmente osteggiata dalla maggioranza (poiché sempre di cambiamento si tratta, ed anche un po’ più “scomodo”), poi gradualmente “adottata”, si sta diffondendo negli ultimi tempi il vizio di lasciare i sacchetti dei rifiuti indifferenziabili ed organici a terra, non conferendoli negli appositi bidoncini privati o, nel migliore dei casi, sfruttando quelli degli altri. Un gesto incivile che allontana dal senso di comunità e che, anche in questo caso, corrisponde soprattutto alla pigrizia per evitare la scomodità nel dover “gestire” i propri contenitori. Comportamento forse anche veniale che però causa spesso la dispersione in strada dei rifiuti, rovesciati e scomposti da corvi, topi ed altri “avventori notturni”.
Una situazione di certo non igienica, non odorosa e non estetica che va a sommarsi con l’altrettanto vergognoso abbandono di rifiuti vari, anche ingombranti, agli angoli delle strade o presso le campane per la raccolta del vetro. D’altronde cosa si può pretendere se, ad esempio, ai piedi degli appositi raccoglitori posacenere si vedono tappeti di mozziconi di sigaretta? Da notare infine che molti, pur avendole a disposizione, non utilizzano le isole ecologiche attrezzate per il corretto
METE MAGAZINE
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smistamento e smaltimento dei rifiuti elettronici (cosiddetti RAEE, prodotti tecnologici, piccoli elettrodomestici, accumulatori, batterie, ecc.), preferendo la più antica e comoda raccolta indifferenziata e non comprendendo i vantaggi di un corretto smaltimento, ora che è finalmente possibile praticarlo. Pur non esistendo nemmeno più l’alibi della mancanza di informazione, siamo ancora lontani dall’effettuare una raccolta differenziata corretta. Un fatto di cultura, di coscienza o anche di semplice buon senso: la strada è ancora lunga.
04 Entrare (e non uscire) dalla zona di comfort viaggi altri giuliano latuga ph: pexels
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Entrare (e non uscire) dalla zona di comfort. Per farlo è necessario fare un passo in più, raggiungendo la vetta.
comfort io lo pratico da anni, mi viene
Cosa è utile per cercare di vivere meglio? Quale è la nostra natura? Non chiediamolo a una parte di noi in particolare, non sapremmo probabilmente a quale rivolgerci. Leggendo qua e là, si trovano alcuni spunti di riflessione sulla natura umana.
novità tutte insieme.
– Come formuliamo questa domanda? Ci chiediamo semplicemente “qual è la mia natura?”
Una nuova avventura, una nuova sfida;
– Forse non proprio. Ci si interroga, magari nella solitudine della notte, e si aspetta
nostro Paese che con lentezze, burocrazia,
proprio naturale, tanto che addirittura spesso mi trovo a dovere affrontare troppe Recentemente ho accettato di rimettermi alla prova, da un punto di vista professionale, e di avviare un confronto con un’impresa costruttrice di automobili derivate da auto d’epoca. almeno mi sembrava così. Ma alla fine ho fatto i conti con la realtà di questo
– Riceviamo mai una risposta?
procrastinazioni, tarpa inesorabilmente tante brillanti iniziative. Tornando da quell’incontro non riuscivo a farmene una
– Sì, un nuovo silenzio.
ragione. Ho espresso le mie perplessità
– E se non fossimo noi a domandare?
al mio accompagnatore e, per quanto le
Se quella domanda non nascesse da noi, ma da una di quelle parti di noi? Una parte di noi che vuole sapere a quale tutto apparteniamo.
sue osservazioni fossero preziose per la
– Sappiamo quale sia la nostra natura? Forse è difficile accettare la nostra natura, perché si chiama Silenzio.
nella parola “comfort”. Il termine in sé
Lo abbiamo letto, ascoltato, detto e pensato tantissime volte: se vogliamo crescere, vivere meglio con noi stessi e nel mondo, dobbiamo uscire dalla nostra zona di comfort.
comune, che traduciamo impropriamente
riflessione, non mi erano sufficienti; ho continuato a scavare dentro di me. Alla fine, ho capito che il problema sta
A volte accade che il cambiamento non sia frutto di profonde riflessioni e lungo studio, che avvenga come una specie di folgorazione. Spesso nasce dal confronto. È capitato una sera, durante una conversazione sul tema del tempo per sé.
ha il significato positivo di “ciò che dà forza, soccorso”, mentre, nel linguaggio dall’inglese, i “comfort” sono le comodità materiali. L’espressione comfort zone può essere tradotta con “abitudini limitanti”: situazioni in cui ci sentiamo comodi ma che ci impediscono di crescere. Pertanto, non c’è contraddizione nel percorso che ho intrapreso. È importante continuare a sollecitare se stessi per cambiare quelle che sono le “abitudini limitanti” che impediscono di crescere sia personalmente
Qualcuno ha citato il consueto mantra sull’esigenza di uscire dalla zona di comfort per ottenere un cambiamento significativo. E ho pensato “Sarebbe bello entrarci, nella zona di comfort! C’è chi ci prova tutta la vita, spesso senza riuscirci.” Mi sono reso conto di avere appena rinnegato una delle mie verità.
che professionalmente al ritmo desiderato.
L’ esercizio di uscire dalle mie zone di
sentirsi sicuri e felici di stare.
È importante continuare a sfidarsi, a provare cose nuove, ad imparare, a coltivare curiosità con la volontà di costruire la nostra “area di comfort”, uno spazio mentale e anche fisico in cui potere essere autenticamente a proprio agio, dove
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PRI MA VE RA,
il risveglio della natura e altre storie scorci
marta gandolfi
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ph: marta gandolfi
“L’altro giorno ho visto volare in cielo le mie prime rondini…”
05 Anche gli alberi a primavera scrivono poesie, e gli stupidi pensano che siano fiori.
Donato Di Pace
Come sosteneva Aristotele nell’Etica Nicomachea, “una rondine non fa primavera”. Ma un gruppetto sì! O almeno questa è la nostra speranza. Abbiamo bisogno di primavera, in tutti i sensi, o no? Ad ogni modo, se osserviamo bene ed ascoltiamo con attenzione, in questo periodo possiamo indovinare un cambiamento. Un cambiamento forse ancora più percepibile dal silenzio forzato intorno a noi a cui tuttora la pandemia costringe. La natura si sta risvegliando, a poco a poco, anche se in molte zone, soprattutto montane, le temperature sono ancora basse e la neve non si è sciolta. Se aguzziamo la vista e tendiamo bene le orecchie, possiamo percepire che il paesaggio intorno a noi sta mutando lentamente, le giornate si stanno allungando e, piano piano, si iniziano ad udire i canti melodiosi degli uccelli, per lo più silenziosi durante l’inverno. Mettiamoci in ascolto...
Cosa succede in primavera? Già la sua etimologia risulta interessante. La parola “primavera” deriva dal latino “primus” (inizio) e “ver” (ardere, splendere, dalla radice sanscrita vas-), a significare da un lato la stagione prima dell’estate (quella ardente, calda) e dall’altro la stagione splendente, la prima dell’anno (in francese infatti si chiama printemps). Vivaldi le ha dedicato uno dei suoi componimenti più noti, Botticelli uno dei quadri più belli del Rinascimento, seguito da Monet nell’800, ed anche il nostro Lucio Battisti l’ha cantata, tra fiumi azzurri, colline, praterie e immenso amore, in strofe che molti di noi hanno canticchiato e forse continuano a canticchiare spesso volentieri... “Primavera” vuol dire qualcosa di importante, significa “inizio”. Uno splendido inizio per tutto e per tutti. L’aria si scalda a poco a poco ed il cielo lascia spazio ad un tiepido sole, che diventa via via più caldo. Le giornate si fanno più lunghe, dando più luce a tutti gli esseri viventi, anche a noi per le nostre attività. Una luce per qualcuno particolare.. Diceva Emily Dickinson: “Una luce c’è in primavera non presente nel resto dell’anno...” La terra fertile inizia a dare vita e, con lei, le piante si risvegliano e germogliano. Alberi pieni di nuove gemme, che origineranno foglie di un verde vivo e fiori colorati, per poi produrre frutti. Mandorli, noccioli, ciliegi, meli, ontani, carpini, solo per fare METE MAGAZINE
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alcuni esempi. Suolo ricoperto di nuova erba verdissima e i fiori spontanei, i primi fiori dell’anno iniziano a comparire sui prati o nei boschi, seguiti via via da tutti gli altri, che doneranno colore e nuova vita ai prati. Le primule fioriscono molto presto (lo dice il nome), sono il simbolo dell’arrivo della primavera e appaiono a grappoli qua e là, per poi brulicare velocemente dappertutto. Fiori di Crocus selvatico, anch’essi tra i primi, con l’animo aranciato, colorano di quel viola caratteristico i prati aperti o le radure dei boschi, i bucaneve, che anch’essi, come suggerito dal loro nome, iniziano a crescere molto presto, facendo a volte capolino tra la neve che ancora non si è sciolta, le margherite pian piano fioriscono ovunque, i narcisi selvatici e le viole, profumate e dal colore acceso, anch’esse accompagnano gli altri fiori nelle proprie prime fioriture. Anche il mondo animale si risveglia, riprende i propri ritmi di attività, Il modo accelerandoli piano piano ed inizia a dar vita anch’esso, con le prime cove animale e via via, verso la primavera inoltrata, con le nuove nascite dell’anno. Il canto degli uccelli spezza il silenzio invernale, volgendo via via al suo picco. Le cince cantano ininterrottamente volando qua e là, come i pettirossi, tanti altri passeriformi ed altri uccelli, insieme ai picchi, di cui nel bosco, iniziamo ad udire il martellare del loro becco sui tronchi e come non citare i merli che, cercando vermi e insetti senza sosta, tornano ad allietare le nostre giornate con il loro canto inconfondibile e melodioso, iniziando, durante la bella stagione, ancora prima del sorgere del sole. Per l’avifauna, con la bella stagione sta iniziando il periodo di ritorno dei migratori, per cui i canti nell’aria e gli uccelli in volo nel cielo o posati vicino gli specchi d’acqua, sugli alberi o sui pali aumenteranno sempre di più.
In cielo, piano piano, inizieranno a ricomparire anche i primi bombi e le prime farfalle colorate, con via via tanti altri insetti. Gli animali che vanno in letargo, o in ibernazione, ad aprilemaggio si svegliano lentamente ed escono pian piano dalle loro tane o giacigli, tornando ad essere più attivi ed iniziando ad alimentarsi di più, per recuperare le energie spese durante il riposo invernale, in cui non si sono nutriti. Dalla marmotta, al ghiro, allo scoiattolo ed altri piccoli roditori, fino all’orso bruno, chi più o meno “dormiglione” in inverno, tutti piano piano tornano in attività. Coloro che in letargo non sono andati e che hanno invece sfidato il lungo e nevoso inverno con tutte le proprie forze, come gli ungulati (cervi, caprioli, camosci, stambecchi ecc.) cercano i primi germogli, le prime erbette fresche, le nuove sostanze nutritive per riprendere le forze perse durante la stagione fredda, le volpi sono attive e mobili come al loro solito, pur godendo anch’esse dei benefici della primavera e alcune altre specie preparano un nido nuovo o tornano a quello vecchio, altre pensano a dove fare la tana per il parto o comunque si preparano al vicino periodo delle nascite e/o ai nuovi amori. Ecco, il risveglio della natura. Nel nostro emisfero, ovvero quello boreale, la primavera ha inizio tra il 19 ed il 21 marzo, quando si verifica l’equinozio di primavera, uno dei due periodi dell’anno in cui giorno e notte hanno la stessa durata (“equinozio”: notte uguale, dal latino), ovvero le ore di luce corrispondono in egual misura a quelle di buio (l’altro è l’equinozio d’autunno). L’equinozio di primavera si verifica quando il sole è allo zenit dell’Equatore, cioè in posizione perpendicolare all’asse di rotazione della Terra, dando inizio così al periodo dell’anno più luminoso e caldo del nostro anno solare. Da quel momento, infatti, il periodo di luce quotidiano comincia ad allungarsi rispetto a quello di buio nel nostro emisfero, mentre succede l’opposto in quello australe
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dove nello stesso giorno ha inizio l’autunno. Equinozi e solstizi sono date particolari: dipendono dal movimento apparente del della natura Sole e dal moto di rivoluzione della Terra intorno ad esso. Scandiscono il passaggio delle stagioni e, mentre gli equinozi hanno ugual durata di giorno e di notte, i solstizi d’estate e d’inverno corrispondono al giorno più lungo e più corto dell’anno, rispettivamente. Quest’anno l’equinozio primaverile è arrivato un giorno prima del “solito”: nel 2021 è caduto il 20 marzo. Di solito, infatti, come primo giorno di primavera si considera il 21 marzo, ma, in realtà, non è sempre così, perché l’equinozio di primavera tende a cambiare. Chissà perché? L’inizio della primavera astronomica non corrisponde ad una data precisa e fissa, ma varia tra il 19 e il 21 marzo poiché la Terra non impiega esattamente 365 giorni a fare un giro completo attorno al Sole, bensì le servono 365 giorni, 6 ore e qualche minuto. L’introduzione degli anni bisestili, con i quali ogni 4 anni all’anno in corso viene aggiunto un giorno in più, si deve a questo fenomeno. Ma ciò non è sufficiente, per cui, a causa del ritardo accumulato ogni anno nella rivoluzione della Terra attorno al Sole, l’equinozio di primavera subisce variazioni. La primavera e l’uomo? Beh, anche noi, almeno in tanti, ci sentiamo rinnovati a primavera, quasi come se fossimo invasi da un nuovo sentimento, una sensazione di risveglio, nuova voglia di muoverci di più, di essere più attivi. Le giornate più lunghe, l’aumento delle ore di luce, delle temperature, il risveglio della natura, il giardinaggio, per chi ama praticarlo, sono tutte cose che “ci fanno bene”, la possibilità di star fuori per più tempo, le tante belle giornate in più (anche se oggigiorno è tutto relativo), ma anche la maggior quantità e varietà di prodotti freschi dall’orto, frutta e verdura a volontà che ci offre pian piano la “bella stagione”, sono fattori positivi per l’uomo.
Il risveglio
Da sempre, nell’immaginario collettivo, la primavera è considerata “la stagione della rinascita”, dopo la “cupa” stagione invernale (gli amanti dell’inverno non saranno d’accordo, ma culturalmente pare proprio così). Fin dall’antichità, in tutte le epoche, tutte le diverse culture e popolazioni umane hanno sempre associato l’inizio della primavera con il concetto di rinascita appunto, con quello di fertilità e di rinnovamento. Ed anche noi oggi, nella nostra società rapita dalla tecnologia e dal digitale, ancora in molti non rimaniamo indifferenti al “fascino” della primavera in arrivo, della natura che torna attiva e piena di colori, profumi e vita. L’uomo ha sempre accolto la primavera con celebrazioni propiziatorie, riti e festeggiamenti vari, credendo che portasse una nuova energia e che, venerandola, gli garantisse anche tante risorse, provenienti dalla terra, con le semine negli orti e dalla natura in generale. Non a caso, antichi importanti monumenti come, per esempio, la Grande Sfinge di Giza in Egitto o Stonehenge in Inghilterra, nel giorno dell’equinozio di primavera, risultano essere perfettamente allineati con il sole (ci sono alcune interessanti teorie su questi aspetti). La prima festa di primavera in assoluto, celebrata nell’antico Egitto, è datata addirittura 4.700 anni fa! Ed era appunto una ricorrenza propiziatoria, di buon augurio, legata all’agricoltura. Molti miti arcaici legano la primavera all’amore, alla sensualità e al piacere di vivere, mentre quelli greci sono associati a divinità quali Demetra, Persefone e al ciclo della natura che si perpetua ogni anno. Anche nella Roma antica avevano luogo particolari celebrazioni per accogliere la primavera, che evocavano l’alternanza di vita e morte e che, col tempo, finivano addirittura per diventare articolate e simili a rappresentazioni teatrali, con danze frenetiche ballate al ritmo dei tamburi. Cosa singolare, pare che di questi riti rimanga oggi una traccia importante nella “Tarantella”, la danza popolare tipica dell’Italia meridionale, nell’ambito della quale viene utilizzato il “tamburello”, simbolo delle divinità anticamente venerate. Vi erano feste anche in Asia centrale e in Occidente, con balli, grandi falò, riti di purificazione ed, in particolare, nel mondo occidentale, i riti, le celebrazioni ed i miti legati alla primavera vennero col tempo connessi con la religione e, quindi, con quelli legati alla Pasqua cristiana, che comunque simboleggia e ricorda anch’essa una rinascita, la resurrezione di Cristo. In Germania e in Gran Bretagna, per esempio, i termini che indicano la Pasqua nelle rispettive lingue (Oster in tedesco ed Easter in inglese) sembra trovino origine nel nome di una dea norrena, Eostre, la personificazione della primavera, legata a simboli di rinascita e resurrezione. Insomma, la primavera porta con sé molto dell’uomo, del suo legame con le componenti naturali e soprattutto della natura, dell’ambiente che ci circonda, nel suo risveglio. Questo ci pone ancora una volta in stretta connessione con esso, ce lo rende evidente, ricordandoci nuovamente quanto è importante conoscerlo, rispettarlo, viverlo e saperci convivere in armonia.
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progetti visionari
fabio bergamo
Il Duomo di Ravello
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ph wikipedia
Il Duomo di Ravello, prima dedicato a Santa Maria Assunta e poi a San Pantaleone Martire (Patrono della città) è divenuto Basilica della città nel 1918, per volontà di Papa Benedetto XV, e come tale è il luogo più importante destinato al culto cristiano cattolico ravellese. Situato nella parte più alta della città, è il monumento più importante di Ravello ed innanzi ad esso si apre la Piazza del Vescovado. Fino al 1818 il Duomo è stato Sede Vescovile della Diocesi di Ravello; attualmente funge da Chiesa parrocchiale all’interno della Arcidiocesi di Amalfi e Cava de Tirreni. Il sacerdote è Don Angelo Mansi. L’edificio viene costruito intorno 1086-1087 (XI secolo) per volontà del primo Vescovo di Ravello e monaco benedettino di S. Trifone, Orso Papicio, ravellese di origine e di rango patrizio; e con il contributo economico del Nobile Signore Nicolò Rufolo anch’egli ravellese.
Architettura
il duomo con il campanile sulla destra
Il Duomo ha una struttura basilicale, richiamante lo stile benedettino-cassinese (Abbazia di Montecassino); esso è suddiviso in tre navate, una centrale e due laterali; le navate – sorrette da due file di otto colonne in granito – terminano con un transetto sopraelevato da cui si dipartono le tre absidi; al di sotto del pavimento vi è una cripta. La facciata è ti tipo romanico con l’aggiunta di elementi architettonici di stile successivo: originariamente vi erano due scale laterali che conducevano al portico che venne demolito, perché danneggiato dal sisma del 1786; esso era costituito da archi sorretti da un colonnato, delle quali solo quattro sono ancora presenti su un fianco del sagrato. L’interno, inizialmente di stile romanico, assume le caratteristiche architettoniche del barocco in molte sue parti per le modifiche occorse a causa del degrado in cui è venuto a trovarsi il Duomo nei secoli passati.
La Porta Bronzea
la porta bronzea
Il portone realizzato dall’artista pugliese Barisano da Trani, viene donato da Sergio Muscettola, anch’egli nobile ravellese. Esso viene costruito nel 1179 ed è formato da due battenti di legno sui quali sono collocate ben 80 formelle bronzee (54 presentano delle figure, le restanti 26, disposte a cornice lungo i lati, riportano delle decorazioni) realizzate con la tecnica del bassorilievo romanico. Esse a partire dal basso, mostrano il mondo animale, quello vegetale con l’albero della vita e l’universo umano rappresentato da arcieri e guerrieri e più in alto le gerarchie ecclesiastiche con i Santi, la Madonna e Gesù Cristo. Le giunture dei due battenti del portone sono impreziosite da fasce ornamentali raccordate da borchie piramidali o circolari assicurate alla struttura con dei chiodi.
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L’Altare L’altare venne realizzato nel 1795 con marmo bianco a fasce nere. Esso ha come base un piano a tre gradini, presenta riquadri in marmo policromo, teste scolpite di puttini e una colomba sul tabernacolo. Con gli interventi di restauro effettuati nel 1971 per l’altare si è impiegato un sarcofago di marmo fatto realizzare nel 1340 dal Vescovo Francesco Castaldo: il sarcofago, dal 1750 al 1971, era incassato nella parete della navata destra; e fino a prima del restauro era esposto nel Museo del Duomo.
Pulpito o Ambone del Vangelo l’interno del duomo
ambone del vangelo
Una delle opere più belle, sul piano artistico, presenti nel Duomo di Ravello è il Pulpito o Ambone del Vangelo detto anche Ambone Maggiore. Adorno di splendidi marmi e stupendi mosaici, è il prodotto dell’intreccio degli stili arabo-bizantino e romanico: frutto dello spirito creativo del grande Maestro Nicola Bartolomeo da Foggia che lo realizzò nel 1272, fu voluto e finanziato dal nobile Signore di Ravello Nicola Rufolo. Esso si presenta con una rampa laterale e una porta di accesso, su di esso appaiono scolpiti i ritratti di Nicola Rufolo e di sua moglie Sigilgaida; a cui si unisce una struttura quadrangolare esaltata da un arco trilobo. L’ambone è sostenuto da sei colonne tortili o a spirale, sorrette da tre leoni e tre leonesse, i quali stanno a simboleggiare l’avanzare della Parola di Dio nel Mondo. I capitelli, di forte impatto estetico sono caratterizzati da tralci vegetali e motivi zoomorfi. La facciata del lettorino, che sporge dal fronte dell’ambone, è arricchita da un’aquila recante negli artigli, l’iscrizione: “In principio erat Verbum”, frase presente nel Vangelo di San Giovanni. Le decorazioni che abbelliscono il pulpito sono costituite da tessere policrome, fasce composte da stelline, disegni di animali, draghi e uccelli. Al centro della facciata laterale è raffigurata la Madonna con il Bambino a cui fianchi è disegnato lo stemma della Famiglia Rufolo.
L’Ambone minore o dell’epistola L’ambone dell’epistola realizzato per volere del secondo vescovo della Diocesi, Costantino Rogadeo, si presenta con due scale laterali affiancate e collegate ad un lettorino centrale, recante in alto la scultura di un’aquila. Esso rappresenta l’unico esempio di arte romana in Campania che appunto prevedeva un ambone a due scale laterali. ambone dell’epistola o minore Artisticamente esso presenta un mosaico raffigurante l’episodio biblico del profeta Giona, ingoiato e poi rigettato dalla pistrice che è un mostro marino con coda di serpente: il disegno prefigura, come riportato nelle sacre scritture, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Sulla cornice del lettorino sono presenti due piccoli animali: un bue e le zampe di un leoncino (simboli che richiamano i Vangeli degli apostoli Giovanni, Luca e Marco). La nicchia presente inferiormente al lettorino, raffigura il sepolcro vuoto di Cristo e dunque, la sua resurrezione. Ai lati della nicchia vi sono due pavoni intarsiati che si orientano verso la fonte d’acqua ricavata con delle tessere METE MAGAZINE
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di marmo di colore rosa: la parola di Dio, sorgente di vita eterna per l’uomo.
La Reliquia: il Sangue di San Pantaleone
Busto di San Pantaleone
Il Duomo conserva la reliquia del Santo Patrono, San Pantaleone. Si tratta del sangue del Martire ucciso a Nicomedia, il 27 luglio del 305 d.C., e raccolto durante il martirio da Adamantio, anche lui cristiano. Esso è riposto in una ampolla in vetro, ed ogni anno, il 27 luglio, come accade per San Gennaro a Napoli, si scioglie passando dallo stato solido a quello liquido: un evento soprannaturale che è di buon auspicio per i credenti. In base ad una leggenda, il sangue del Santo sarebbe giunto a Ravello, via mare, tramite dei mercanti che lo avrebbero recuperato presso una anziana donna di Costantinopoli. A causa del maltempo i naviganti, poterono fortunosamente interrompere la navigazione fermandosi a Marmorata (frazione marittima di Ravello), la località su terraferma più vicina sulla loro rotta, scampando così al pericolo: in segno di devozione al Santo per la sua protezione, l’ampolla restò dunque a Ravello, in dono al Vescovo.
La Cappella dedicata a San Pantaleone
cappella di san pantaleone
La cappella dedicata a San Pantaleone, viene realizzata nel XVII secolo (1600) per offrire in segno di devozione una appropriata collocazione alla reliquia del Santo, conservata fino ad allora a sinistra dell’altare maggiore. Essa è costituita da una cupola in marmi policromi e quattro colonne, sormontate dalla trabeazione. Al centro di essa si ammira il dipinto raffigurante il martirio del Santo, realizzato nel 1638 da Gerolamo Imperiali, artista genovese. Egli anche è l’autore delle tele laterali dove appaiono i Santi Tommaso e Barbara. Il sangue del santo, è custodito in una reliquiario in argento dorato. Una piccola cappella è destinata al ricordo della nobile Famiglia Rufolo di Ravello. Nella nicchia dedicata ai Rufolo, decorata da lastre musive, si poteva ammirare un trittico, risalente al 1300, che raffigurava la Madonna col Bambino, detta “La Bruna”, con ai suoi lati S. Giovanni Battista e S. Nicola di Bari. L’opera pittorica fu trafugata dal Duomo nel 1974.
Il Museo del Duomo Il Museo – del quale è Direttore è il Prof. Luigi Buonocore, esperto di storia dell’arte – è stato inaugurato nel 1983, trova il museo del duomo collocazione negli ampi spazi della cripta. In esso sono custoditi antichi reperti lapidei, urne cinerarie di epoca romana, sarcofagi, arredi sacri, e reliquiari cristiani. Tra i vari oggetti artistici troviamo il busto di Sigilgaida Rufolo realizzato da Nicola di Bartolomeo da Foggia. L’opera scultorea in passato era collocata sul portale di accesso dell’ambone del Vangelo. Un aneddoto racconta che il viceré Pedro de Toledo, nel 1540, stupefatto della bellezza della scultura, ordinò di trasferirla a Napoli: ma dopo breve tempo per via dei malumori e le lamentele dei cittadini ravellesi, l’opera fu riportata a Ravello.
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Per alcuni esperti il volto di Sigilgaida rappresenterebbe la Chiesa trionfante e non il viso della moglie del Nobile Signore Nicola Rufolo oppure la regina Giovanna di Napoli. Altra scultura di epoca medievale, presente nel Museo, è “Il Falconiere” (risalente al XIII secolo). Nel Museo si conservano anche dei pezzi scultorei richiamanti il bestiario medievale che abbellivano il Ciborio del Duomo realizzato da Matteo da Narni nel 1279 e donato da Matteo Rufolo. L’opera s’innalzava su quattro colonne dotate di capitelli corinzi che reggevano gli architravi rivestiti a mosaico con i simboli dei quattro Evangelisti; al di sopra della struttura vi era una cupola con due ordini di colonnine, col fastigio impreziosito dal mosaico dedicato all’Agnus Dei.
volto di sigilgaida
La Pinacoteca d’arte medievale e moderna La Pinacoteca raccoglie opere pittoriche che vanno dal XVI al XIX secolo. Sono dipinti che provengono dalle Cappelle del Duomo ormai non più esistenti per i vari rifacimenti a cui l’edificio è stato sottoposto o da chiese limitrofe. Tra essi si citano il polittico di Giovanni Filippo Criscuolo, e diversi quadri di Giovanni Angelo e Giovanni Antonio D’Amato. Per quanto concerne l’arte contemporanea si segnalano: Giobbe, opera in bronzo di Francesco Messina del 1934; il Christus Patiens, in terracotta di Carlo Previtali del 2010; l’Annunciata, in terracotta patinata di Valerio Pilon.
il giobbe di francesco messina
la poesia sulla legge esposta nel duomo di ravello
La Poesia sulla Legge conservata nel Duomo di Ravello Dal 2017 il Duomo di Ravello conserva anche la poesia dedicata alla Legge, dal titolo “L’Abbraccio Materno della Legge” scritta da Fabio Bergamo. L’Autore ha voluto che la stessa avesse come punto di partenza proprio la città di Ravello per giungere in molti paesi del mondo, e destinata ai bambini affinché comprendano il valore educativo e formativo di essa, fin dalla più tenera età (Gesù infatti insegnava che “dei bambini è il regno dei cieli”). La prima tappa, nel 2018, è stata il Benin dove è giunta nel quantitativo di 200 copie, tradotte in francese, destinate ai bambini delle Missioni dei Frati Cappuccini delle Marche, che operano nel paese africano e alla cui guida è Padre Francesco Pettinelli; nel 2020 è arrivata in Mali con 500 copie, sempre in lingua francese, destinate ai bambini delle scuole elementari della Regione e Città di Sikasso, grazie alla disponibilità del Dr. Grégoire Tessougue; il terzo paese che accoglierà la poesia sarà il Brasile nel 2021: la poesia tradotta in lingua portoghese sarà destinata ai bambini della Missione che fa capo al Centro Missionario di Reggio Emilia; e a seguire altre destinazioni.
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passi
emiliano ardigò
ph: emiliano ardigò
Un pensiero ai 4000
“
Ci sono viaggi che si fanno con un unico bagaglio, il cuore. Audrey Hepburn
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07 Nonostante io sia un amante della montagna, oggi sono in un luogo magico. Qui a Portovenere, con la brezza leggera che arriva dal mare ad accarezzarmi le guance, scaldate dal sole, riposa per sempre, insieme alla sua compagna di una vita, Walter Bonatti, uno dei più grandi alpinisti del passato e, per me ragazzino, uno dei primi miti nel variegato e bellissimo mondo dell’alpinismo. Davanti a questa croce, affacciata sull’azzurro splendente del mare, dal mio cuore, pieno di emozione, non può che partire una silenziosa preghiera per chi, giovanissimo ed entusiasta, mi ha fatto davvero sognare con i suoi scritti e le sue eroiche gesta. L’aria leggera e piacevole disegnando sull’azzurro del mare linee bianche sulle onde increspate come immensi sorrisi, mi fa tornare alle mente episodi della vita di questo grande uomo amante delle montagne che spesso, da ragazzino, mi hanno tenuto col fiato sospeso sopra le pagine aperte di un libro che raccontava le sue eroiche scalate. Il tepore della giornata con questi refoli di vento mi fanno andare col pensiero al vento gelido, alla neve in profondi e dolorosi aghi sbattuti in faccia su quel pilone centrale del Monte Bianco, dove una spaventosa tempesta gli avrebbe tolto amici di una vita. Walter al freddo ci era abituato, al K2 il primo bivacco senza tenda oltre gli 8000 metri lo aveva davvero provato con un misto di paura e delusione per i compagni di spedizione che sembrava lo avessero abbandonato. Sulla nord del Cervino, da solo, in inverno e per una bellissima via nuova, con le rocce che sembravano una conchiglia rovesciata piena di ghiaccio e il peluche regalato dal figlioletto di un amico, unica parvenza di qualcosa di umano in quella parete, verticale e gelida. Era forte la
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tentazione di buttare il peluche di sotto per alleggerire lo zaino troppo pesante, ma con chi avresti parlato, con chi ti saresti consultato per proseguire nella dura e faticosa scalata? Perché molti giovani oggi non sanno cosa voglia dire arrampicare con lo zaino... la prospettiva cambia tutta e la fatica è davvero enorme. E che gioia l’uscita sulla cima inondata dal sole, finalmente un po’ di tepore e il commosso ed emozionante, quasi stritolante, abbraccio alla croce. Quanto freddo hai sopportato grande Walter? E quante critiche perché non hai mai smesso di essere te stesso in tutto? Io, nonostante i tanti anni, non dimenticherò mai il mio trattenere il fiato leggendo le pagine della tua impresa solitaria ai Dru, quando non potendo salire né scendere, non hai trovato altra soluzione che fare un nodo ad uncino e lanciarlo verso le rocce in alto per provare a dondolare e trovare un modo, con un pericoloso pendolo, di indovinare una fessura per uscire da quella situazione molto scabrosa. Mi sembrava davvero di tirare anche io la corda e affidarmi al caso, terrà o no? E, sotto, centinaia di metri di vuoto assoluto. Quanti sogni, quante emozioni mi hanno regalato, con i loro libri, Walter, Messner e molti altri “mostri” dell’alpinismo. E con i sogni indotti e raccontati di questi insuperabili maestri, ti voglio raccontare tre montagne, tre 4000 che ho sempre sognato e sogno ancora; non le ho mai salite, magari ci proverò, però le sensazioni, le emozioni che ho provato ai loro piedi sono nel mio cuore scolpite e spesso tornano a colorare i miei attimi belli di vita. Inizio da quella che per me, per il mio cuore, è la montagna più bella del mondo, la molla che da ragazzino appena tredicenne ha fatto scattare in me la passione per il salir montagne.
Walter Bonatti è stato un alpinista, esploratore, giornalista, scrittore e fotoreporter italiano. Soprannominato «il re delle Alpi», è stato una delle figure più eminenti dell’alpinismo mondiale. Oltre che alpinista e guida alpina, fu autore di libri e numerosi reportage nelle regioni più impervie del mondo, molti dei quali come inviato esploratore del settimanale Epoca.
Una cima che si erge sola su valli e ghiacciai e, piramide quasi perfetta, domina il panorama quasi fosse una donna, una bellissima donna che, consapevole del suo fascino, fa di tutto per farsi notare ed ammaliare, con le sue grazie, i cuori di chi sa ancora sognare. Non dimentico, quando, da adolescente, camminando sui ghiaioni alla base e arrivato a quello che è l’ inizio, un po’ la porta d’accesso alla via normale Italiana, l’emozione mi ha colto; la sacralità di quel luogo, così importante che, io che di solito non sto mai zitto, non ho saputo emettere nessuna parola. Mi sembrava di andare contro alla bellezza del luogo e del momento, è stato un po’ come fermarsi all’entrata di una grande cattedrale e avere il fiato mozzato per tanta bellezza. Il Cervino è una montagna così unica e bella che su ogni cima, ogni colle, ne cerco la caratteristica forma, per contemplare ancora per qualche prezioso attimo il mio grande e idealizzato sogno.. spesso penso che quando riuscirò a porre i miei piedi su quella vetta, le lacrime mi scenderanno sincere e copiose. Il Cervino, come ogni cima del resto, non è solo una montagna, è un mondo dove ognuno, a seconda della sua sensibilità, dei suoi desideri e aspirazioni, della sua voglia e capacità di mettersi in gioco, si infervora. La storia di ogni vetta richiederebbe un capitolo, e anche abbastanza lungo. La storia del Cervino a 21 anni io l’ho portata, nel 1984, come materia, a Superflash, un quiz con Mike Bongiorno. METE MAGAZINE
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Credo che tu abbia capito l’amore che ho per questa fantastica piramide che sembra ricordarmi ogni volta che ogni sogno non è mai troppo grande, ed è almeno da provare. Un altro 4000 che amo e che mi emoziona è il Monte Rosa, un gruppo di diverse cime oltre i quattromila metri, una più bella dell’altra, ammantate da ghiacciai che gli regalano un manto di bellezza davvero singolare e donano alle varie ascensioni un pizzico di magia pur nella lunghezza e la fatica, oltre a difficoltà di non poco conto, di tanti itinerari. Da Alagna Valsesia sembra un gruppo di montagne accattivante e alla portata di tutti, ma non ci si deve far suggestionare, perché all’occhio più esperto questo versante offre molte possibilità di salite tecnicamente difficili, e di soddisfazione. Io sono rimasto molto impressionato dal versante di Macugnaga, con i 2600 metri della Est del Monte Rosa, la parete più alta delle Alpi, sopra la mia testa, forse la sola quasi “himalayana” dei numerosi 4000. Dal rifugio Zamponi Zappa, in un giorno di sole dopo una settimana di brutto tempo e nevicate, i secchi della parete continuavano a scaricare ghiaccio e neve verso il basso, con boati così forti e roboanti da incutere anche in noi,che eravamo al sicuro, un po’ di timore. Emozionante però lo sguardo verso l’alto, con la testa piegata all ‘ insù ad ammirare la sfilata di vette alte e quasi superbe sopra di noi. La punta Gnifetti, la Nordent, la Zumstein e la Doufur,
EMOZIONI FASSANE Il libro di Emiliano Ardigò, edito da IM Editore. Per informazioni contattare:
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inanellate da una candida cresta che regalava al nostro sguardo un pizzico di civettuola bellezza in più. Inutile dire che su ogni cima dove si fermava il mio sguardo si fermava un attimo il germoglio di un mio sogno… come sarebbe bello salirle tutte. Dopo il magico Cervino e il maestoso monte Rosa non può mancare il re dei 4000, il Monte Bianco, credo sia il desiderio forse anche segreto di ogni alpinista , perché con la sua cima arriva quasi a 5000 metri, e con i suoi maestosi versanti, con ghiaccio e roccia a fare a gara a chi è più bello, a chi ama l’aria sottile regala davvero enormi soddisfazioni. Io frequento spesso le Dolomiti, ma a quelle Occidentali ho dedicato poco tempo. Però, almeno una volta o due ho potuto ammirare la montagna più alta d’Europa dalla particolare e bellissima Val Veny e devo dire che lo spettacolo che ho racchiuso, come perla preziosa, nello scrigno del mio cuore è stato veramente un balsamo per la spesso noiosa apatia della vita. Camminando verso l’alta valle lo sguardo è catturato da un picco di roccia scura che ad una occhiata fugace ma attenta fa capire che non è terreno di gioco per tutti, anzi è un ambiente dove solo audaci ed esperti possono mettere mani e piedi per salire: la cima ha nome Aiguille Noire, veramente una fuga di roccia esposta e strapiombante verso l’azzurro del cielo. Ma lo sguardo mai sazio di bellezza non si ferma, perché da questo versante il monte sembra voler stupire col suo lato selvaggio e caotico METE MAGAZINE
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con ghiacciai e seraccate che sembrano essere prossime a cadere su chi osa sfidare il destino e provare a salire per questo dedalo di crepacci. Anche qua, nel mio sguardo c’è sempre la ricerca degli itinerari che forti alpinisti hanno saputo aprire su queste difficoltà, fino alla visione della parte sommitale del monte, con la bianca cima a promettere soddisfazioni ed emozioni uniche ed incancellabili. Anche questo è un mio grande sogno, ma più passa il tempo più diventa difficile poterlo realizzare. Ecco, dal luogo dell ‘ ultimo riposo di un grande, ho provato a farti entrare nelle mie emozioni; io, un umile e piccolo innamorato di montagne, credo che per salire una cima servano forza, e il coraggio di mettersi in gioco; se però non c’è il cuore che sogna e si emoziona, la ragione più vera del vivere queste sensazioni, l’impresa ha poco senso. Da credente, con rispetto di chi non crede, sono estremamente convinto che chi ha creato, ha plasmato tutta questa bellezza ha fatto davvero un ottimo, strepitoso lavoro e qualche volta accarezzo l’idea che le montagne siano una lode che la terra tributa al suo Dio... e spesso anche il mio salire montagne diventa una preghiera, un sincero grazie. Posso sbagliarmi, ma se in ogni cosa che facciamo mettessimo il cuore, non cambieremmo forse un poco il nostro mondo, rendendolo anche più bello?
Dipendenza da internet: uno sguardo alla prevenzione Senza dubbio portatori di grandi vantaggi, l’utilizzo eccessivo può portare a conseguenze anche molto gravi. Il lockdown ha esacerbato il problema: gli studi riportano un aumento della dipendenza dal gioco e dall’uso di internet con un impatto negativo sul benessere psicosociale (Fernandes, 2020).
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08 viaggio in sé stessi martina verrilli ph: freepik
La diffusione sempre più capillare delle nuove tecnologie e lo sviluppo di internet hanno alterato e modificato la nostra quotidianità e la nostra stessa vita. Il termine “internet addiction” (dipendenza da internet), fu introdotto la prima volta da Ivan Goldberg più di 25 anni fa. Egli riprese i criteri per la diagnosi della dipendenza da sostanze contenuti nell’allora vigente Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV, 1994), applicandoli all’utilizzo inadeguato di internet. Le dipendenze comportamentali, o dipendenze senza sostanza, sono caratterizzate dalla messa in atto di comportamenti volti a dare piacere e dall’incapacità di controllarli; rappresentano spesso una via di uscita dalla sofferenza emotiva e/o fisica e provocano l’insorgere di importanti conseguenze negative per la vita della persona. Tra le dipendenze comportamentali sono inclusi il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da TV, da internet, lo shopping compulsivo, le dipendenze dal sesso e dalle relazioni affettive, le dipendenze dal lavoro. Si può parlare di dipendenza da internet quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, creando in tal modo menomazioni forti e disfunzionali nelle principali e fondamentali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva. La dipendenza da internet può essere generalizzata o di tipo specifico, ossia legata solo ad alcuni METE MAGAZINE
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aspetti del web, quali: 1. videogiochi online, soprattutto giochi di ruolo e a squadre (Young et al., 2000); 2. comportamenti compulsivi messi in atto tramite internet: gioco d’azzardo (dai casinò online ai videopoker), commercio in rete e partecipazione ad aste online. Spesso comportano gravi problemi finanziari; 3. cybersex addiction, ossia la fruizione compulsiva di filmati porno e/o di chat erotiche; 4. social network (Facebook, Instagram, Tik Tok); 5. cyber-relational addiction: riguarda la tendenza ad instaurare relazioni affettive virtuali, attraverso siti di incontri, chat o social network. Sebbene ancora oggi la generica dipendenza da internet non sia presente nell’attuale DSM-5, nella sezione III del Manuale è stata inserita la proposta di classificazione diagnostica, tra i disturbi di Dipendenza Patologica, del Disturbo da giochi online (Internet Gaming Disorder). Molti studiosi sostengono che la dipendenza da Internet non possa essere classificata come uno specifico disturbo psichiatrico, piuttosto dovrebbe essere considerata come un sintomo psicologico che può manifestarsi nell’ambito di differenti quadri psicopatologici. Le dipendenze da internet si caratterizzano per un rapporto patologico che si traduce
in difficoltà legate al controllo degli impulsi e alla regolazione degli stati emotivi. Tra queste troviamo (Goldberg, 1995): • il bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore online o giocando; • agitazione psicomotoria, ansia, depressione e pensieri ossessivi quando si è impossibilitati a soddisfare il bisogno; • l’impossibilità di interrompere l’attività o di esercitare un controllo su di essa; • dispendio di una grande quantità di tempo e/o di denaro (ad esempio nel caso del gioco d’azzardo online); • una forte riduzione di interesse per le altre attività (anche quelle che prima suscitavano piacere). Sono state rilevate differenze di genere nelle preferenze verso le attività online: gli uomini prediligono giochi online, cyberporno e gioco d’azzardo virtuale, mentre le donne preferiscono passare il loro tempo messaggiando o facendo shopping online. Le donne, inoltre, sembrano essere più attratte dalla ricerca di relazioni in rete e prediligono la forma di comunicazione anonima, attraverso la quale possono nascondere, quando lo desiderano, età ed aspetto fisico (De Angelis, 2000).
Fare prevenzione Il disturbo da dipendenza da internet è in forte aumento sia tra i più giovani che tra gli adulti. Quando parliamo di prevenzione, possiamo distinguere tre livelli di intervento: 1. la prevenzione primaria, ossia l’insieme delle strategie volte ad impedire l’insorgenza di malattie; 2. la prevenzione secondaria, volta a riconoscere la malattia ai primi segnali; 3. la prevenzione terziaria (sanitaria di supporto), che interviene quando la patologia si è già manifestata e tende ad evitare ulteriori aggravamenti. Nell’ambito delle dipendenze da internet, operando in un’ottica di prevenzione primaria, è importante che i ragazzi ne facciano un utilizzo consapevole, imparando a riconoscere i propri scopi quando sono online: “Perché mi è utile questo sito?” “Cosa sto cercando?”. Potrebbe anche essere insegnato loro ad autoregolarsi, limitando la quantità di tempo trascorsa quotidianamente su internet, senza perdere di vista la socialità reale, alternando momenti online ad attività sociali (rispettando le restrizioni vigenti). Un ruolo chiave per quanto riguarda la prevenzione è naturalmente svolto dai genitori o dalle figure di accudimento. E’
spesso difficile riconoscere una dipendenza che, come abbiamo visto, implica tutta una in via di sviluppo, tuttavia ci sono tre serie di comportamenti disfunzionali. segnali che possono aiutare a capire se il/ Un genitore potrebbe anche preferire che il la ragazzo/a sta andando incontro ad una problematica di questo genere: I bambini, soprattutto da piccoli, • Se passa assorbono ed imitano molti dei comportamenti più di 3 ore
che osservano mettere in atto dagli adulti. consecutive al pc/smartphone/tablet (al di fuori delle attività scolastiche o lavorative) oppure se il ritmo sonno-veglia subisce alterazioni (sia perché potrebbe preferire passare tempo online anziché dormire, sia perché un utilizzo eccessivo di strumenti tecnologici in orario serale può provocare una disregolazione del sonno); • se risponde con aggressività ai tentativi di allontanarlo dai dispositivi; • se si riscontrano differenze nello svolgimento delle attività quotidiane: può succedere che non escano più di casa per stare su internet. È importante che un genitore sia informato sui siti o le applicazioni maggiormente in uso tra i giovani, per poter fornire informazioni specifiche ed utili ai propri figli riguardo l’utilizzo e gli eventuali rischi che essi comportano; inoltre, non bisogna dimenticare di comunicare con loro: i ragazzi spesso hanno bisogno di aiuto ma non lo chiedono! Domandare ai propri figli se stanno vivendo situazioni di disagio può spronarli ad aprirsi. Il genitore potrebbe anche aiutare il ragazzo a stimolare l’autoconsapevolezza, ad esempio delle ore trascorse al pc, evidenziando i comportamenti disadattivi, se ce ne sono. Ricordiamoci però che un controllo eccessivo potrebbe essere controproducente. E’ preferibile non entrare nello spazio personale del ragazzo se non quando strettamente necessario. Soprattutto in un’età complessa e caratterizzata dal bisogno di autonomia e indipendenza come quella adolescenziale, è importante che i ragazzi imparino ad autoregolare i propri comportamenti, sapendo di poter comunque contare su un adulto di riferimento in caso di necessità. Alcune convinzioni molto comuni tra i genitori possono favorire l’utilizzo eccessivo di internet da parte del proprio figlio. Un pensiero diffuso, che può portare ad una sottovalutazione dei comportamenti non adeguati, è quello di credere che siamo un po’ tutti dipendenti dalle nuove tecnologie. La dipendenza è un problema molto serio METE MAGAZINE
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proprio figlio resti al sicuro a casa, anche se davanti al pc, piuttosto che uscire e magari mettersi in condizioni di pericolo. Anche in questo caso sarebbe importante la “regola” della comunicazione: mettere in guardia i ragazzi dai possibili pericoli esterni, cercando di non trasmettere loro la propria (legittima) ansia, favorendo tuttavia quelle attività che sono utili per un adeguato sviluppo fisico, psicologico, emotivo e sociale. Inoltre i bambini, soprattutto da piccoli, assorbono ed imitano molti dei comportamenti che osservano mettere in atto dagli adulti: non utilizzare eccessivamente il cellulare, in loro presenza, potrebbe essere un’utile accortezza per evitare una tendenza emulatrice in questa direzione. Spesso si utilizzano lo smartphone od altri dispositivi anche come “regolatori emotivi” per calmare il bambino quando piange: tuttavia, i divieti di un genitore, i “no” che sono accompagnati da una spiegazione che faccia capire al piccolo il motivo di quel diniego, anche se estremamente difficili da dire a volte, possono essere molto utili a lungo termine.
BIBLIOGRAFIA American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5. Arlington, VA. (Tr. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014) De Angelis, T. (2000). Is Internet addiction real? Fernandes, B., Urmi, B.N., TanMansukhani, R., Vallejo, A., & Essau, C.A. (2020). The impact of COVID-19 lockdown on internet use and escapism in adolescents. Revista de Psicología Clínica con Niños y Adolescentes
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La vaccinazione in Africa, nei Paesi emergenti e nei Paesi poveri
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Paesi, come il Brasile, hanno acquistato dosi di vaccino cinese (per esempio), di cui non conosciamo l’efficacia, dato che le autorità europee e americane non hanno espresso pareri, stante la necessità di verificare i trial clinici di questi vaccini. Su Sputnik V c’è molto più ottimismo rispetto ad altri vaccini, ci sono pubblicazioni e i trial clinici sembrano essere stati svolti con criteri adeguati. Il Brasile ha rapporti stretti con la Cina; l’Europa con gli Stati Uniti. Sembra esserci anche un elemento geopolitico dietro la selezione dei vaccini, potrebbe trattarsi altresì di un fenomeno legato a similitudini tra le autorità sanitarie, un fatto di “metodo scientifico”. La situazione a mio parere più allarmante è quella dei Paesi poveri, che non detengono riserve in Dollari o in Euro (le due valute più scambiate, valute di riserva) sufficienti ad acquistare le fiale dalle case farmaceutiche, compresi i vaccini cinesi. Il mondo “sviluppato” ha deciso di “fare da sé” e, come vediamo, ogni Paese va per conto proprio: il Regno Unito ha preferito somministrare una dose di vaccino singola, ma a molte più persone; l’Europa ha scelto di somministrare due dosi, e quindi di conservare la seconda dose, anziché somministrarla a persone che non sono state vaccinate contro covid-19. Ora pare arrivino anche vaccini Uno dei temi attuali è la difficoltà monodose. Tuttavia, ancora più indietro nel processo di vaccinazione rispetto all’Unione Europea, ci sono i Paesi poveri; noi abbiamo scelto di vaccinare in massa di acquistare i vaccini per “noi stessi” e non siamo in grado al momento le popolazioni dei Paesi poveri. di “regalare” vaccini ai Paesi che nemmeno detengono medicinali adeguati ad affrontare emergenze pandemiche. Ci sono pochi vaccini ed è una lotta per la sopravvivenza. Come sempre, chi sta peggio starà sempre peggio. Una realtà spietata. i talenti e i frutti Come possiamo incrementare la produzione di vaccini, al punto di garantirne anche ai Paesi arretrati? L’opinione pubblica del mondo “sviluppato” accetterebbe di pagare (come contribuenti) i vaccini per l’Africa? Possiamo pensare di vaccinare solo noi vinicio paselli stessi egoisticamente e supporre che non si svilupperanno ulteriori varianti, in arrivo dai Paesi poveri, in grado di reinfettarci successivamente attraverso gli spostamenti ph: pexels delle persone (non solo gli arrivi di migranti, ma soprattutto i flussi turistici e i rapporti commerciali e industriali)? Già in questo momento alcune varianti sembrano aggirare gli anticorpi e possono quindi reinfettare: ad esempio la sudafricana, la brasiliana e la newyorkese. Intendiamo attendere che si moltiplichino queste varianti e riteniamo di poterle confinare nei Paesi poveri? La brasiliana è giunta in Italia, soprattutto in Umbria; la sudafricana è giunta in Alto Adige...e questo senza scambi economici intensi come nel periodo pre-pandemico. Dobbiamo riflettere e agire. La monetizzazione del debito da parte delle banche centrali, intesa come monetizzazione di fatto (non necessariamente di diritto), ossia il riacquisto del debito in scadenza tramite acquisto di titoli di nuova emissione, pare essere l’unica alternativa sostenibile: evitiamo di aumentare la pressione fiscale nei Paesi sviluppati o il taglio della spesa pubblica e contemporaneamente riusciamo a salvaguardare le vite umane, nostre e dei più poveri. L’indipendenza delle banche centrali potrebbe essere sospesa nei fatti per un po’, a tutela del bene collettivo, concentrandoci sugli investimenti in ricerca e nella sanità pubblica. Qualcuno dovrà poi spiegare che una banca centrale può essere prestatrice di ultima istanza, come avviene in USA, in UK, in Australia, in Giappone e così via, spazzando via il dibattito contraddittorio fra salute e salvaguardia dei conti pubblici. In questo momento l’Italia ha un debito pubblico molto alto in rapporto al PIL, a livelli astronomici, ma non siamo in crisi finanziaria. Per un po’ di anni la BCE e le altre banche centrali potrebbero mantenere l’ordine nei mercati finanziari, per superare l’emergenza. Non dobbiamo sprecare risorse, in quanto prima o poi tornerà la necessità di politiche monetarie restrittive, ma se sappiamo spendere bene il denaro potremo uscirne, tutti insieme, ricchi e poveri del pianeta.
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Più di un anno senza viaggi programmati oltre confine, senza nuovi orizzonti da scoprire. In tempo di pandemia, un viaggiatore non può che aggrapparsi ai ricordi di libertà vissuta. METE MAGAZINE
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I miei mi riportano a quei giorni di sole e vento, di lente attese, di avvistamenti e stupore. Protagonista la savana africana e una natura imperante, avvolgente, struggente. Tuffarmi in quel mondo, cartina alla mano e binocolo al collo, è stata un’immersione di fulgida libertà, che oggi più che mai mi gonfia il cuore di gratitudine. Ricordo l’emozione di attraversare il “Crocodile Bridge” che fa da ingresso meridionale al Kruger National Park, in Sudafrica. Una piana d’erba imbiondita dal sole, arbusti e terra sabbiosa, grande quanto la Lombardia. A bordo di un’auto a noleggio, ho viaggiato nel parco in modalità self-drive. Vietato, naturalmente, scendere dal mezzo (se non nei punti segnalati e nei campi interni al Kruger),
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compiere manovre improvvise, superare i limiti di velocità, disturbare gli animali o dar loro da mangiare. Assaporo, oggi come allora, il silenzio surreale. Frugo tra l’oro e il bronzo del bush sino all’orizzonte in cerca di un movimento. Ma non serve spingersi tanto in là con lo sguardo quando a pochi metri di distanza alcune giraffe sono intente a brucare le cime degli arbusti più alti. Ovunque posi lo sguardo, è una sorpresa. Un maestoso rinoceronte si riposa all’ombra di alcuni massi. Il manto maculato di un leopardo, sul tronco poderoso di un albero, brilla nel fitto intrico di rami. Un gruppetto di zebre trotta a bordo strada e una iena, eccezionalmente allo scoperto nelle ore di sole, cammina solitaria nei dintorni di un fiumiciattolo.
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Grossi ippopotami sono stesi a riva e non lontani stanno in agguato lunghi coccodrilli coriacei. Un giovane leone si gusta pigramente un kudu (alta ed elegantissima antilope) rovesciato a terra, mentre un compagno, già sazio, riposa nelle vicinanze. In alto, sui rami secchi di un albero morto da chissà quanto, gli avvoltoi seguono la scena, pronti a fiondarsi sugli avanzi. Due maschi di impala dal manto brunorossiccio combattono a colpi di corna, mentre le femmine in gruppo si allontanano con lunghi salti. Elefanti in fila, sotto la scenografica chioma di una Kigelia, l’“albero delle salsicce”, procedono lentamente verso il vicino corso d’acqua. Quanta Africa, quanta meraviglia, quanta libertà.
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Senza meta, libere riflessioni
Montagne L’Uomo è in continua lotta con se stesso: la sua vita legata ai bisogni si scontra con la sua esistenza fatta di desideri e rivalse. Tale conflitto spinge l’uomo a trascendersi: la scoperta di sé, è una salita irta di ostacoli che comporta ripetute cadute, le quali rallentano il suo cammino ma allo stesso tempo ne perfezionano l’indole, e raggiunta finalmente la vetta (il suo profondo) conosce se stesso invero.
Astute vette di falangi d’un pianoforte di pietra, i cui tasti, scalandoli, scavano dentro! FABIO BERGAMO
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