NR 3 | NOVEMBRE 20
il prototipo feel the peel e l’economia circolare, intervista a Carlo Ratti
O B I E T T I V I S U C C E S S I DESTINAZIONI
Le Torri del Vajolet, un sospiro di Dio
SERVIZI Impianti fotovoltaici, quadri bt e mt impianti elettrici e strumentali, sottostazioni, impianti elettrici industriali e civili, impianti biogas, impianti antincendio e sprinkler MASSIMO MALAVOLTI
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campo base
Finestre Oggi, in pineta, era il 1967. Mi pare sia giugno, a giudicare dalla temperatura, così soffice sulla pelle. Indosso calzoncini di cotone bianchi confezionati in casa, ciabattine di plastica blu incrociate davanti. Terreno morbido di aghi di pino ed intenso profumo di resina calda di sole. Conduco a mano la mia Graziella perché la sabbia che a tratti emerge sul percorso (presagio del mare, vicino, che emoziona un piccolo cuore) ha già rischiato di farmi cadere, seguo i passi di mia madre. Poi è la spiaggia vasta e bianca, contornata di dune, la bisnonna seduta su una poltroncina sotto l’ombrellone ben piantato da un raro bagnino. Poco prima di inoltrarci in pineta, per poi raggiungere la spiaggia, siamo passate dal bazar: una meraviglia di blister imbottiti di giocattoli, biglie di vetro colorate, animali di plastica e formine. Sento pungere una nostalgia. Qualcosa di molto desiderato, che mi sollecita, che non riesco e non voglio afferrare. Sono già consapevole del tempo magico, diverso da quello di città, che mi appartiene e che, paradossalmente, mi sfugge. Il piacere sta tutto nella contemplazione, nell’attesa assorta di quel che sta per accadere, la luce abbagliante del sole espanso sull’acqua. Guardo i giocattoli immobili e non li tocco, percepisco con avidità il profumo della gomma. Un timore antico, in un tempo sospeso. Le foto migliori di quegli anni le ho guardate tante volte, fino a confondere memoria e realtà; ho scattato infinite foto con gli occhi, e le ho confuse con quelle stampate negli anni a seguire, sempre più pallide. E poi, forse oggi era luglio. Che cosa ha illuminato la mia mente per un lungo istante? Un’idea improvvisa, un impulso, un istinto. I grandi parlano tra loro. Così prendo per mano il mio “fratellino di latte”, gli dico “andiamo via”. A piedi lungo la spiaggia, con piccoli passi veloci. Lui mi segue stupito o affascinato, non lo saprò mai. Non sembra spaventato. Il timore lontano è svanito e sono piena di coraggio, ho fatto il salto. Ho lasciato il mio posto sotto l’ombrellone, senza dir nulla mi sono messa in
cammino, prima di qualsiasi ragionamento, nell’incoscienza di bambina. I passanti ci scorrono accanto sulla battigia, procediamo a passo deciso verso il paese. Dalla riva del mare scorgo la sagoma del grattacielo, un rettangolo grigio azzurro, che diventa sempre più vicino. Non abbiamo idea di quanti passi abbiamo già fatto. Sono elettrizzata dal pulsare dell’imprevisto, del nuovo. Nessuna consapevolezza di averla fatta grossa. Il cuginetto mi segue sopraffatto, non ne sento la responsabilità, la sua presenza fortifica la mia determinazione, dissolve un vago senso di timore; senza alcuna percezione di distanza, di allontanamento fisico e temporale, sperimento l’ebbrezza di vedermi capace di camminare nel mondo senza una protezione accanto. Perfettamente a mio agio proprio dove mi trovo, in questo preciso momento, terribilmente attratta e soggiogata dalla ribellione che è spuntata e che ho assecondato. Ci saranno altre partenze nella mia vita. Partenze, non fughe. Capita all’improvviso di guardarsi dall’alto, come da un’estremità del soffitto, vedersi estranei, decidere di compiere il salto, allungando la gamba per un passo più lungo, uscire a sentire cosa succede fuori. Dalle finestre, che proteggono od espongono. Se ti affacci assaggi la vita e lasci che lei ti annusi. In questo oggi lontano e sfumato un ombrellone sulla rena è la finestra, il limite. Oltre, c’è un cammino nuovo e sconosciuto, una proposta, una scommessa, un rischio; c’è qualcosa che deve succedere, e che può succedere solo se ci si mette in gioco, interamente. Proprio come nei viaggi, si va verso l’imprevisto e il non-noto, si è permeabili ed attenti, o persi, esposti, senza gusc\io. Così, spesso, viaggiare è cibo per lo spirito, si fa a volte “vizio” febbrile; nel viaggio inseguiamo, più o meno consciamente, l’incertezza e la sorpresa che il partire porta con sé, imprimendo un’accelerazione al passo della quotidianità; per compiere un viaggio non è sempre indispensabile percorrere tanta strada: per fare cominciare le cose e abbracciare un pezzetto di nuovo quasi sempre basta correre il rischio di aprire la finestra e non tirarsi indietro. SILVIA GIRONI
SOMMARIO Numero Tre
01 vita di tana e di rendez-vous SULLE TRACCE
pagina 6
03
04
05
06
il viaggio di una coppia affiatata
il prototipo feel the peel, intervista a Carlo Ratti
sulla riservatezza russa, occhi a mandorla
la fotografia
VIAGGIARE IN AUTO
PROGETTI VISIONARI
ALTRE PROSPETTIVE
IMMORTALARE EMOZIONI
pagina 18
pagina 22
pagina 26
pagina 30
COLOPHON DIRETTORE RESPONSABILE
Silvia Gironi CONDIRETTORE
Giuliano Latuga COORDINAMENTO EDITORIALE E GRAFICA
Enrico Cigolla
HANNO COLLABORATO:
PROMOZIONE E PUBBLICITÀ: tel. 0516014990 Emiliano Ardigò LUOGO DI PUBBLICAZIONE: Bologna Fabio Bergamo ANNO: 2020 Vinicio Paselli PROPRIETARIO: A.R.E. s.r.l. Olga V. Petukhova DIRETTORE RESPONSABILE: Silvia Gironi Corrado Poli CONDIRETTORE: Giuliano Latuga Francesca Vinai Marta Gandolfi METE MAGAZINEEDITORE: A.R.E. s.r.l, Via E. Mattei, 48/D, 40138 Bologna STAMPATO DA: MGP s.r.l., Gabriele Gironi -4Antonio Iannibelli Autorizzazione Tribunale di Bologna n. 8523 del 06.08.2019 Martina Verrilli
02 che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?
09
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L’autoefficacia. Credere in sé stessi.
Come, dove e quando è nata la Festa della Mamma
SOSTA
VIAGGIO IN SÉ STESSI
pagina 12
pagina 40
pagina 52
08
10
07 le torri del Vajolet
07/2
corti costituzionali escursione al nazionali e Corte di Rifugio Teodulo Giustizia europea
Capo di Buona Speranza
PASSI
PASSI
I TALENTI E I FRUTTI
DI TAPPA IN TAPPA
pagina 34
pagina 38
pagina 44
pagina 48
ABBONAMENTI
FOTOGRAFI
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TABREZ SYED | TOA HEFTIBA | VALERY SYSOEV
SULLE TRACCE
MARTA GANDOLFI - NATURALISTA ZOOLOGA, ESPERTA DI LUPI
Se l’inverno dei lupi è, tra le altre cose, il periodo degli amori, primavera ed estate rappresentano per loro quello delle nascite e della cura dei piccoli.
VITA DI TANA E DI RENDEZ-VOUS METE MAGAZINE
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PH: ANTONIO IANNIBELLI
01 METE MAGAZINE
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I cuccioli di lupo nascono in primavera (aprile-maggio), all’interno di una tana appositamente scelta e preparata. La madre, la lupa dominante del branco, partorisce dopo 63 giorni di gestazione e si prepara al parto qualche tempo prima, insieme agli altri membri del branco, che cooperano anche sistemando la tana. Sia il padre (il maschio dominante) che gli altri lupi del branco (loro figli di precedenti cucciolate) si adoperano nel periodo delle nascite e si occupano dei cuccioli sia direttamente, attraverso la generale difesa della zona di tana sia indirettamente, nutrendo e assistendo la femmina riproduttiva nel periodo di allattamento. Al momento della nascita e nelle settimane successive, infatti, la femmina rimane all’interno della tana insieme ai cuccioli appena nati, accudita e nutrita dagli altri membri del branco. Gli altri lupi vanno a caccia e durante il resto del tempo si riposano nei pressi della tana, alcuni possono addirittura trovarsi un posto nelle vicinanze, su rocce o luoghi rialzati, per controllare meglio la zona. Intorno alla tana possono essere uditi i rumori della natura, soprattutto il canto degli uccelli, ma i lupi no. Loro stanno in silenzio... In questo periodo sono, infatti, molto accorti e silenziosi, evitano qualsiasi rumore che possa attrarre attenzione sul sito di tana e mettere in pericolo la cucciolata. La fase di nascita e crescita dei cuccioli è molto delicata per i lupi, che cercano di proteggerli al meglio. Se sono loro ad udire strani rumori, subito si mettono in allerta e si dirigono a controllare. Le tane sono solitamente situate in luoghi tranquilli, remoti e difficilmente accessibili (all’interno di valli impervie, su pendii scoscesi e rocciosi, in luoghi caratterizzati da fitta vegetazione). Le loro caratteristiche variano a seconda delle regioni in cui i lupi vivono e dei loro territori, dipendentemente dalle risorse disponibili e spesso sono localizzate vicino ad una fonte di acqua. Possono essere situate, per esempio, in cavità tra le rocce o, nei luoghi del mondo dove i lupi si stanziano in zone costiere, su promontori sabbiosi. Nelle zone forestate, possono essere scavate
La giusta risposta per il detto “In bocca al lupo”? E’ “Grazie!” o “W il lupo!” “In bocca al lupo!” è un augurio e in quanto tale ha sicuramente una valenza positiva e bene augurante. Ma allora, perché rispondiamo “Crepi!”? Questo detto si riferisce al comportamento della lupa dominante, madre della cucciolata di un branco che, in caso di pericolo nei pressi della tana, prende i suoi cuccioli con la bocca, delicatamente, uno per uno, per sollevarli in sicurezza e portarli in salvo. La risposta “Crepi!”, alla quale siamo abituati, è dunque soltanto legata alla cultura del “lupo cattivo”, ma non è quella giusta. Dato il reale significato positivo del detto, sarebbe più opportuno dire “Grazie!” o “W il lupo!”.
sotto le radici di grossi alberi. I lupi sono animali veramente adattabili a diverse aree e condizioni. Le tane, cavità più o meno profonde, vengono scavate, se necessario e preparate all’interno in modo da essere sempre pulite, asciutte e confortevoli. Solitamente le tane non si trovano in prossimità dei confini del territorio del branco, dove pericolosi incontri con lupi estranei ad esso potrebbero verificarsi, ma tendenzialmente sono più centrali. I piccoli nascono ciechi e sordi, del peso di circa 500 grammi e sono dipendenti dalla madre che li cura assiduamente. Nelle prime settimane di vita i cuccioli restano in tana (aprono gli occhi a 1214 giorni), poi iniziano ad uscire e ad intrattenersi fuori dalla tana per diverso tempo, pur rimanendo comunque nelle sue prossimità. In questo frangente, i lupetti sono molto curiosi ed iniziano ad esplorare ciò che vedono intorno a loro. Colori, odori, rumori, un mondo tutto nuovo per i piccoli lupi. Se un lupetto si allontana goffamente dalla tana, la madre lo prende METE MAGAZINE
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delicatamente tra le fauci per riportarlo in un luogo per lui più sicuro, presso l’apertura della tana. In media una cucciolata è composta da 3-5 cuccioli, ma sono state documentate cucciolate anche di 7 o di 9 lupetti. Questo dipende da diversi fattori, quali soprattutto la disponibilità di risorse alimentari, ovvero di prede, nella zona. Le prime settimane di vita sono per i cuccioli un periodo di rapido apprendimento e crescita: devono imparare a conoscere il mondo intorno a loro, le proprie funzioni vitali, iniziare a socializzare con i genitori, i propri fratelli e così via. In realtà, si può dire che tutta l’estate ed anche l’autunno costituiscano un periodo estremamente didattico per i cuccioli, fino a quando poi, in inverno, seguiranno gli adulti in giro e a caccia dentro il loro territorio, imparando altre cose ancora. All’età di 8-10 settimane circa, i cuccioli, oramai un po’ cresciuti, con le zampe sproporzionatamente grandi rispetto al corpo, come nei cuccioli di alcune razze canine, sono grandi abbastanza per seguirli
L’uomo non sa di più degli altri animali; ne sa di meno. Loro sanno quel che devono sapere. Noi, no. Fernando Pessoa
in brevi spostamenti. Hanno terminato la fase di svezzamento, ma ancora non hanno una mandibola così forte da spezzare grossi pezzi di carne. Perciò i cuccioli lasciano la tana per recarsi in luoghi chiamati “siti di rendez-vous”, per rimanervi per circa tutta l’estate, fino agli ultimi giorni di settembre. I siti di rendez-vous sono zone aperte e remote, indisturbate e protette, da cui si possa vedere ma non essere visti, zone che possano contenere dei giacigli per il riposo, una rete di piste e passaggi e svariate aree di gioco. Sono aree in cui i cuccioli rimangono in attesa degli altri lupi del branco che si allontanano per andare a caccia. Lì, i lupetti interagiscono e giocano da soli o spesso in compagnia di qualche lupo adulto, detto helper, che aiuta la coppia dominante (i genitori) nella cura dei piccoli. Anche questa è una fase delicata, dove la protezione dei cuccioli e l’attenzione a non essere visti o percepiti sono essenziali. Se disturbati, i lupi possono infatti lasciare il sito di rendez-vous e spostarsi in un luogo diverso.
Questi siti si chiamano di rendezvous, termine francese che significa “appuntamento”, “incontro”, proprio perché lì i cuccioli si rincontrano con gli adulti che tornano dalla caccia e che portano loro del nutrimento: quando arrivano gli adulti al rendez-vous, i cuccioli vanno loro incontro correndo e li stimolano leccandoli sul muso per indurli a rigurgitare per loro cibo predigerito che hanno precedentemente ingerito. Un branco può avere più siti di rendezvous, per cui adulti a caccia e cuccioli in attesa nel sito, per orientarsi e localizzarsi, comunicano tramite gli ululati. I cuccioli in quel periodo sono, perciò, molto ricettivi a rispondere appena odono degli ululati e, ascoltandoli durante tutta l’estate, si può percepire come essi imparino pian piano anche ad ululare bene, “da lupo grande”, ovvero a modulare, con il tempo, i propri ululati, che all’inizio sono più simili a dei guaiti, mentre in seguito cominciano a svilupparsi maggiormente come un ululato vero e proprio. METE MAGAZINE
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L’ululato del lupo... L’avete mai udito? Per me è la cosa in assoluto più affascinante dei lupi. Li ho visti, ne ho seguito le tracce, li ho catturati a scopo scientifico, li ho soccorsi, per cui sono stata loro anche molto vicina, tutto speciale e tutto impresso nella mente, ma nulla è più emozionante che udire il loro ululato libero e selvaggio nella natura. Una sensazione unica, la più emotivamente travolgente, che rapisce e riporta immediatamente a contatto con le origini, con il selvaggio appunto, con la natura di cui facciamo parte. Se ad ululare sono anche i cuccioli, l’emozione raddoppia. I vocalizzi dei cuccioli sono pieni di entusiasmo e, ululando tutti insieme ripetutamente, sembra un vero coro di tantissimi elementi, più di quanti non siano davvero. La cosa più bella è trovarsi ad ascoltare un branco di lupi i cui membri (piccoli compresi) ululano e si rispondono da posti diversi, chi a caccia qua o là all’interno del territorio e chi con i cuccioli nel sito di rendez-vous. In quel caso ci
disegno di Marta Gandolfi
si sente veramente parte di un mondo antico ma familiare, più grande di noi ma non ostile, bensì così accogliente, che è come sentirsi a casa. All’età di 4-5 mesi i lupetti cominciano a seguire gli adulti nelle loro incursioni di caccia all’interno del territorio e cominciano anche a cacciare insieme a loro, ad imparare come si caccia e come si morde efficacemente una preda. Sì, dal mese di ottobre in poi i lupi cominceranno la fase nomade invernale, quella in cui lasceranno sia tana che siti di rendez-vous e cominceranno a muoversi maggiormente sul loro territorio, portando con sé tutta la cucciolata ormai
sufficientemente cresciuta. I cuccioloni durante i mesi invernali avranno raggiunto quasi le dimensioni degli adulti, quindi non saranno più morfologicamente distinguibili da essi se non per il loro portamento più goffo e giocherellone e per il manto leggermente più scuro rispetto a quello degli adulti. Così, i lupi si accingono a trascorrere un nuovo inverno, lasciando tane e rendezvous e percorrendo in lungo e in largo il loro territorio, cacciando e vivendo in branco, uniti e compatti; poi un nuovo periodo degli amori, la dispersione di alcuni giovani che lasciano il branco natale per crearsene uno proprio, in METE MAGAZINE
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un nuovo territorio, e di nuovo la calda primavera e le nuove nascite. Un ciclo vitale scandito e ordinato, retto da regole e gestito secondo un articolato e affascinante sistema comunicativo, ciò che fa del lupo lo straordinario animale che è. Ma come è iniziato il rapporto uomo-lupo? Come è iniziato e come si è sviluppato nella storia? Che significato ha e aveva il lupo per noi uomini di oggi e di un tempo? Nel prossimo numero di Mete parleremo di questo, di come è cambiata la concezione del lupo nei secoli e di cosa resta oggi di lui nel nostro immaginario.
METE MAGAZINE
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Parte seconda
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? La pallida signora del cielo, tra i suoi miti e le sue veritĂ sosta
MARTA GANDOLFI
METE MAGAZINE
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02 ph: paola fazzi
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We are all like the bright moon, we still have our darker side (Siamo tutti come la luminosa Luna, abbiamo ancora il nostro lato più nascosto) Kahlil Gibran
Eccoci qui ancora rapiti dalla Luna, a raccontarvi nuove cose delle tante che ci sarebbero da dire sul nostro affascinante satellite, che ogni notte ci guarda da lassù con volto amico e non ci lascia mai, “tenendoci stretti per mano”. Gira la Luna e fa girare anche noi, in mille modi, influenzandoci, ispirandoci e scatenando la nostra fantasia e le nostre abilità letterarie. A lei sono dedicate infatti non solo canzoni e produzioni cinematografiche, ma anche alcuni dei componimenti più belli della letteratura.
Come gira la Luna e come “fa girare” anche noi: i suoi movimenti e le sue influenze sul nostro pianeta e sulla nostra vita. Ma quanto gira la Luna? Come la Terra, anche la Luna gira su se stessa però, per farlo, impiega un tempo più lungo di quello necessario al nostro pianeta, ovvero ben più di un giorno. Il movimento di rotazione della Luna, che si compie nello stesso senso della rotazione terrestre (da ovest a est), viene completato in 27 giorni e quasi 8 ore. Il moto di rotazione impiega lo stesso tempo della sua rivoluzione intorno alla Terra, anch’esso quindi nello stesso senso e della stessa durata, di circa 27 giorni, motivo per cui noi della Luna vediamo sempre la stessa faccia, mentre l’altra resta a noi nascosta. METE MAGAZINE
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La rotazione della Luna non è perfettamente uniforme, perché la sua forma non è tonda ma più ellissoidale e l’attrazione terrestre, maggiore sul rigonfiamento equatoriale, provoca delle leggere oscillazioni, chiamate librazioni, che ci permettono di vedere un po’ di più della metà della sua superficie. Il moto di rivoluzione lunare si compie lungo un’orbita ellittica, di cui la Terra occupa uno dei due fuochi. La Luna, perciò, non si trova sempre alla stessa distanza dalla Terra, bensì ha un suo punto di massima distanza da essa (apogeo) ed uno di minima distanza (perigeo). C’è un terzo movimento che riguarda la Luna, la quale girando intorno alla Terra, che gira intorno al Sole, ruota a sua volta intorno al Sole pure lei. Questo moto si chiama di traslazione.
Luna piena, luna “vuota” e luna a spicchi. Osservando il nostro satellite per più sere consecutive, possiamo notare che le sue condizioni di luminosità cambiano nel tempo e possiamo vedere tutta la faccia tonda che ci mostra, o un piccolo spicchio, oppure può apparirci del tutto scura. Queste manifestazioni prendono il nome di fasi lunari e rappresentano le varie posizioni che la Luna, nel corso del suo moto di rivoluzione, assume non solo rispetto alla Terra, ma anche al
Luna: lato SCURO o lato OSCURO? Meglio “Lato NASCOSTO”. Il lato della Luna che noi non vediamo viene spesso definito “oscuro”, ovvero senza luce, buio, cupo, tenebroso, tetro, misterioso. Questo perché la fantasia dell’uomo lavora molto e, in questo caso, crea delle colossali “astrobufale”, come le ha definite il giovane astrofisico Luca Perri nel suo omonimo libro. Che la Luna abbia un lato oscuro, ovvero che non riceve mai luce dal Sole, lo crede una persona su due. Gli inglesi, infatti, ci spiega Luca, definiscono spesso il lato della Luna che noi non vediamo come “dark” e a noi italiani piace tradurlo con “oscuro”, più che scuro o buio, perché è più “cool”. Nel 1973 i Pink Floyd, con il loro
famosissimo album “The dark side of the Moon”, ci hanno messo il carico, come si suol dire, creando praticamente un cult e tac, la bufala è servita! In realtà non è affatto vero che la Luna abbia un lato che non riceve mai la luce del Sole, questo succede invece ben una volta ogni 4 settimane, quando essa si trova frapposta tra la Terra e il Sole e quel lato che noi non vediamo viene, quindi, perfettamente illuminato dalla luce solare. Per cui, si può dire il lato “nascosto” della Luna, per intendere che a noi non è visibile, ma non oscuro.
Sole che la illumina. Quando la Luna si trova “in congiunzione”, ovvero dalla stessa parte del Sole rispetto alla Terra, l’emisfero lunare rivolto verso di noi non riceve i raggi solari, risultando scuro e quasi invisibile, come se sparisse, anche se invece c’è e come: siamo nella fase della Luna nuova, ovvero novilunio. Quando invece la Luna si trova in “opposizione”, ovvero dalla parte opposta del Sole rispetto alla Terra, allora la faccia della Luna rivolta verso di noi risulterà completamente illuminata: è la fase di luna piena, ovvero plenilunio. In mezzo a queste due fasi ce ne sono molte altre, per cui la parte della Luna illuminata diminuisce dopo i pleniluni ed aumenta dopo i noviluni, e noi la vediamo a spicchi più o meno grandi. Dopo il novilunio la porzione di Luna illuminata aumenta e si parla di luna crescente, mentre dopo il plenilunio la parte illuminata diminuisce e si parla quindi di luna calante. Tra queste, altre due fasi vengono ricordate: prendono il nome di “quadrature” e possono essere concepite immaginando che Terra, Luna e Sole siano collocate ai vertici di un triangolo rettangolo ideale, con la Terra al vertice dell’angolo retto: la porzione di Luna a noi visibile risulterà quindi un quarto. In particolare si ricordano il primo e l’ultimo quarto. Queste quattro fasi sono separate da un intervallo di tempo pari a circa 7 giorni. Quando si verifica la coincidenza di Luna piena (plenilunio) in perigeo, è possibile, assistere al fenomeno della Superluna, termine non scientifico, ma che rende l’idea di ciò che appare ai nostri occhi in cielo: una Luna molto più grande e luminosa, grazie alla sua minore distanza dalla Terra.
Eclissi di luna e di sole: da secoli un affascinante spettacolo del cielo. Le eclissi di Luna sono state fra i fenomeni celesti che hanno maggiormente interessato l’uomo fin dall’antichità. Una eclisse di Luna si manifesta quando la Terra si viene a trovare tra il Sole e la Luna stessa, che scherma così la luce che normalmente la illumina per intero. L’eclisse perciò si verifica quando la Luna è in fase di plenilunio. In questa particolare condizione i tre importanti corpi celesti sono perfettamente allineati fra di loro. METE MAGAZINE
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Everyone is a moon, and has a dark side which he never shows to anybody (Ognuno di noi è una Luna e ha un lato nascosto che non mostra mai a nessuno) Mark Twain
Quando la luna è invece in fase di novilunio, la sua ombra potrebbe oscurare una porzione della superficie terrestre, impedendo in quella zona la vista del Sole e provocando così un’eclisse di Sole. I piani dell’orbita terrestre e lunare non coincidono esattamente, ma sono inclinati l’uno rispetto all’altro di qualche grado. Perciò, l’allineamento Sole -Terra - Luna si può avere soltanto in corrispondenza dei due punti di intersezione dei due piani orbitali. Questi due punti sono detti nodi. Quindi, le eclissi di Luna si verificano quando si hanno novilunio o plenilunio e contemporaneamente la Luna si trova in un dei nodi (eclisse totale) o in prossimità di esso (eclissi parziale).
Influenze lunari. La Luna da sempre influenza le nostre vite o forse siamo noi che ci facciamo suggestionare dal suo fascino? Sono molte le credenze popolari relative all’influenza della Luna sugli animali, sull’agricoltura e sull’uomo e, da qui, il termine “lunatico”. Ebbene sì, si dice che la Luna faccia perdere la ragione. Ludovico Ariosto, nell’Orlando furioso, fa viaggiare il principe Astolfo fin sulla Luna, a cavallo di un ippogrifo, per recuperare il perduto senno di Orlando, così da porre fine alla sua pazzia e alla guerra. E ancora, “È tutta colpa della luna, quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti”, scriveva il grande William Shakespeare a proposito dell’astro a noi più vicino. Altre dicerie parlano di influenze lunari sui nostri capelli e peli, sulla nostra pelle, sul parto della donna... addirittura ricordiamo la leggenda della licantropia, forse legata o forse no, alla credenza per cui i lupi ululano alla Luna. Tuttavia, sono poche le influenze realmente dimostrate, anzi,
oggi l’unica influenza della Luna sulla Terra, provata in modo scientifico, è quella di tipo gravitazionale: l’attrazione che la Luna esercita sulla Terra, insieme a quella del Sole, provoca infatti maree terrestri ed oceaniche.
La Luna tra miti e leggende. Come quelli sulle stelle, anche i miti sulla Luna, nelle varie epoche, si sprecano e spuntano da ogni angolo della storia, ben denotando come l’uomo si sia sbizzarrito con la sua impressionante fantasia. Alcuni di essi valgono la pena di una menzione. Nella mitologia greca Selene , ovvero “colei che risplende”, è la dea della Luna, sorella di Elio, il Sole ed Eos, l’Aurora. Selene, in particolare, rappresenta la personificazione della luna piena, Artemide quella della luna crescente ed Ecate quella della luna calante. Singolare è il fatto che venga generalmente descritta come una bella donna dal viso pallido, con lunghe vesti fluide di colore bianco o argento e con una luna crescente sulla testa ed una torcia in una mano. Spesso è raffigurata su un carro trainato da buoi o su una biga tirata da cavalli, inseguendo quella che porta il Sole. Secondo la mitologia egiziana, invece, la divinità celeste Nut, contrapposta a Ra, dio del Sole, generò cinque figli, uno dei quali, Osiride personifica la Luna (prima di diventare signore del regno dei morti). Uno dei miti racconta che egli sposò la sorella Iside, dea della fertilità e della maternità. Un altro fratello, Seth, uccise Osiride e ne divise il corpo in quattordici pezzi. Il quattordicesimo pezzo rimase nel Nilo, donandogli la sua forza fecondatrice (propiziava anche la fecondità della terra ed i raccolti). In questo mito, si esprime l’importanza che la Luna aveva un tempo nell’immaginario dell’uomo e l’interesse sulla sua costante presenza in cielo e sul ripetitivo alternarsi delle sue fasi. Lo smembramento del corpo
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La Luna e i lupi La leggenda del lupo e della Luna.
se nella realtà è veramente così.
“Esiste un’antica leggenda sui lupi e sulla Luna, nella quale si narra che una notte scese sulla Terra per svelare i suoi misteri. Mentre si muoveva tra gli alberi, rimase impigliata tra alcuni rami. Un lupo, passando di là, ne ebbe compassione e la liberò. Durante tutta la notte, la Luna e il lupo si raccontarono storie, scherzarono e si divertirono insieme. La Luna, affascinata, si innamorò dello spirito del lupo e prima di ritornare in cielo al suo posto, rubò l’ombra dell’animale in modo da non poter più dimenticare quella fantastica notte. Da allora, quindi, il lupo ulula alla Luna perché rivendica la sua ombra”.
“Il cielo si aprì e una brezza primaverile ripulì l’aria. I raggi della luna affondarono come dita tra i capelli degli alberi, disegnando ricami di luce sui fili delle ragnatele. […] Chiuse gli occhi e liberò un ululato fiero. Sulle onde di quel canto che prendeva possesso della valle [...] La valle respirò, soffiandogli addosso il vento fresco di una nuova notte. In quel momento, per la prima volta, lo accarezzò l’idea. Poteva esserci una stessa Luna per Uomini e Lupi”. Giuseppe Festa, “La Luna è dei Lupi”.
L’immagine dei lupi che ululano alla Luna è un cult immancabile nei film e nei libri di ogni tempo. Evoca un turbinio di emozioni, di mistero, di paura, di profondo legame con il selvaggio e con la natura e stimola enormemente la nostra fantasia. Senza questa immagine libri e film non sarebbero gli stessi. Eppure dobbiamo chiederci
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Folle è l’uomo che parla alla Luna. Stolto chi non le presta ascolto. William Shakespeare
della Luna-Osiride, inoltre, allude alla sua progressiva scomparsa durante la fase calante ed è centrale il rapporto tra Luna e fecondità. Una caratteristica analoga si ripete nella mitologia Maya, in un racconto alquanto simile. In altre antiche culture, invece, era diffusa l’idea che la Luna morisse ogni notte per poi scendere nel mondo delle ombre. Nella mitologia medievale, piuttosto cupa e colma di fantasiosi e lucubri terrori, alla luce della luna piena certi uomini si trasformavano in lupi mannari e alle fasi lunari erano legate le riunioni delle streghe. La Luna non è sempre stata donna: tra le numerose divinità
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Ma è vero che i lupi ululano alla Luna?
Il lupo ulula per comunicare con gli altri lupi, per difendere il proprio territorio, per rafforzare i legami sociali con i membri del branco o per richiamare i cuccioli. Per cui l’utilizzo dell’ululato non dipende dalla presenza o meno della luna in cielo ma dall’esigenza comunicativa dei lupi in una data situazione. Forse si è creata questa credenza in passato, in quanto è più probabile udire l’ululato di un lupo in serate nitide, in cui la luna è visibile, che sono più adatte ad uscite notturne ed a percepire suoni anche in lontananza.
lunari compaiono talvolta alcune figure maschili, come Nanna e Sin tra i popoli mesopotamici, il giapponese Susanowo o le figure e divinità lunari della mitologia nordica, spesso maschili, di cui un esempio è Isil, la Luna maschio della Terra di Mezzo, personaggio mitologico del mondo immaginario creato dallo scrittore J.R.R. Tolkien, nel suo Silmarillion: “Isil, lo Splendore, così anticamente i Vanyar chiamarono la Luna, venne fabbricato e approntato per primo, e per primo si levò nel reame delle stelle e fu il più anziano delle nuove Luci […] Fu così che per un certo periodo il mondo venne illuminato dalla luce lunare”.
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La Luna nella letteratura Nella Letteratura italiana la parola “Luna” appare per la prima volta nel Cantico delle creature di San Francesco: “Laudato sì, mì signore per sora Luna e le stelle” nel 1224. All’inizio del 1300 poi, ci pensò Dante ad incantarci, dedicandole l’intero secondo Canto del Paradiso, che è un vero e proprio inno alla Luna non come mito, ma come astro. Il canto descrive l’ascesa di Dante e Beatrice nel Il Cielo, quello appunto della Luna, la quale gli appare come una nube spessa e splendente, simile a un diamante illuminato dal Sole. Dante, nel Cielo della Luna, si interroga riguardo all’origine delle macchie lunari, per lui causate nella loro oscurità e chiarezza dalla diversa densità delle rocce, ma Beatrice viene in suo soccorso rispondendo al suo dubbio con una spiegazione mistica, legata alla virtù angelica. Petrarca fa della Luna una metafora dei suoi stati d’animo malinconici e notturni, mentre la Luna più romantica è senza dubbio quella di cui scrisse, in diversi suoi componimenti, Giacomo Leopardi, che, nel suo Canto “Alla Luna”, le parla “pien d’angoscia” e la osserva, mentre lei, luminosa in cielo, rischiara la selva, il paesaggio tutto intorno. La Luna è “queta” nel suo “La Sera del dì di festa” ed è “cadente” nell’ “Ultimo canto di Saffo”, sta tramontando la Luna, il cui raggio appare “verecondo”. Mentre nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” egli la interroga, le chiede “Che fai tu, luna, in ciel?” e si perde a confrontare la condizione umana, colma di sofferenze, forse inutili, con quella della Luna, la “solinga, eterna peregrina”, “giovinetta immortal”, che da lassù tutto vede, sa e “discopre”. In toni assai diversi, ma sempre molto piacevoli e ispiratori, la Luna lascia il romanticismo leopardiano per immergersi nel crudo verismo di Giovanni Verga, nelle parole di Rosso Malpelo (1878), bambino cresciuto fin troppo presto in una vita crudele e impietosa, trascorsa dentro una cava di rena rossa, in Sicilia. Lui odiava “le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e METE MAGAZINE
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la campagna si disegna qua e là vagamente - perché allora la sciara sembra più brulla e desolata. - Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, - dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -.” Una Luna che si riscatta, solo pochi decenni dopo, nel Ciàula pirandelliano dei primi del ‘900, scrollandosi di dosso il duro naturalismo verghiano per abbracciare e svelare sentimento ed umanità. Qui Ciàula, anch’esso operaio in una cava con una vita difficile, scopre letteralmente la Luna, una sera, uscendo allo scoperto: “E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore”. E poi ancora, da Saffo a D’Annunzio e Pascoli, che ne “L’assiolo” canta “Dov’era la luna? Ché il cielo notava in un’alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla”. Walt Whitman, che in Foglie d’Erba del 1867 la esorta: “Abbassa il tuo sguardo bella luna ed inonda questa scena”, per passare a William Blake, che nei suoi “Songs of Innocence and Songs of Experience” di fine ‘700 la descrive come “un fiore nell’alto pergolato del cielo, con delizia silenziosa siede e sorride nella notte”. Virginia Wolf, Charles Baudelaire, Shelley, Federico García Lorca, Alda Merini e l’elenco è ancora lungo, ma non si può non citare lui, il poeta dell’amore e della passione, della natura e dei suoi frutti, Pablo Neruda, per il quale in “Oda a la bella desnuda” la Luna vive sotto la pelle della sua donna e che in “Qui ti amo” vede la Luna brillare sulle acque erranti o semplicemente in cielo, quando la notte giunge e gli canta, lei lassù “fa girare la sua pellicola di sogno”. Insomma la Luna ci ha ispirato in mille modi e in altrettante maniere continua ad ispirarci, come se facesse in qualche modo parte di noi, nel magico tutt’uno dell’Universo. Ed evidentemente, in questa visione olistica delle cose, è proprio così, come ci insegna una delle più grandi astrofisiche dei nostri tempi, Margherita Hack, dicendoci che “L’astronomia ci ha insegnato che non siamo il centro dell’universo, come si è pensato a lungo e come qualcuno ci vuol far pensare anche oggi. Siamo solo un minuscolo pianeta attorno a una stella molto comune. Noi stessi, esseri intelligenti, siamo il risultato dell’evoluzione stellare, siamo fatti della materia degli astri.” Forse è questo il motivo per cui sentiamo un forte legame con la Luna e, anche se lo facciamo magari di nascosto e in solitudine, per non sembrare matti, nel nostro intimo ci rivolgiamo ancora spesso a lei, per condivisione o consiglio, aspettando con ansia un’erudita risposta. D’altronde, come disse Shakespeare, “Folle è l’uomo che parla alla Luna. Stolto chi non le presta ascolto”.
Il viaggio di una coppia affiatata
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viaggiare in auto corrado poli ph: unsplash
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Nei passati numeri avevamo parlato dei due diversi modi di viaggiare in macchina: da soli o in compagnia della persona amata. In questo terzo articolo descriverò come viaggia una coppia ben affiatata… senza figli o con figli grandi che fanno vacanze per conto loro. Nel quarto parleremo anche dei viaggi automobilistici in famiglia. Una coppia affiatata e da lungo tempo convivente, che già ha avuto esperienza di viaggi in solitario o romantici, trova piacere nel condividere il tempo e lo spazio protetto dell’auto per recarsi in luoghi ancora sconosciuti o per ripetere vecchi viaggi con nuovi occhi. È un piacere dato dalla sensazione di sicurezza, dal fatto che non c’è nulla
che non già non si conosca del partner. Il contrario che nel viaggio romantico e in quello solitario in cui la parte più eccitante è l’inaspettato, l’ignoto che donano un’ansia talora gradita, altre volte incresciosa. Se poi si tratta di una coppia che per una ventina d’anni non ha più provato il piacere di stare da sola poiché aveva necessariamente i figli al seguito, l’esperienza si arricchisce. Si confronta il prima e il dopo: com’eravamo e come siamo. Certo, il viaggio della coppia affiatata non ha la tensione provocata dalla solitudine che accompagna il viaggiatore solitario, né l’emozione del viaggio romantico. Non per questo è meno interessante, anzi, lo possiamo definire un viaggio
Una coppia affiatata trova piacere nel condividere il tempo e lo spazio protetto dell’auto per recarsi in luoghi ancora sconosciuti.
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L’unico viaggio possibile
è quello dentro di noi; almeno finché non mi riparano l’auto. Leo Ortolani
“diversamente emozionante”. La coppia affiatata – non quella che litiga continuamente – sa bene cosa il partner gradisce e cosa lo infastidisce e in viaggio le decisioni sono prese senza doversi consultare. Qualche volta è necessario negoziare a causa di diversi interessi, ma si sa come farlo. Tra l’altro, il più delle volte, una coppia affiatata non parte all’avventura e piuttosto programma bene tutto. La bellezza del viaggio è data dalla curiosità: come per gli altri due tipi, dirà il lettore! No: un’altra curiosità che non è data dal caso, dall’emozione,
dall’imprevisto, ma dal vero e proprio obiettivo di vedere o fare qualcosa di interessante. Per i più intellettuali può
alla ricerca di buoni piatti. Non importa: in tutti i casi si viaggia per andare da qualche parte ben precisa con uno scopo
per la coppia affiatata la capacità di isolarsi è pari a quella del viaggiatore solitario, ma con la sicurezza di avere qualcuno accanto. essere una mostra, un museo, una città. Per i meno acculturati si può trattare di un concerto rock, una partita di calcio, una famosa discoteca, una gita culinaria
prefissato: fare e vedere qualcosa di insolito o piacevole. Si soddisfano così tranquillamente curiosità e desideri personali che si condividono almeno in
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soli pur nella sicurezza di avere qualcuno accanto. Non ci si sente fuori posto se si mangia da soli in un ristorante come succede al viaggiatore solitario, ma allo stesso tempo si possono passare mezz’ore e forse ore a pensare alle proprie cose o a osservare i paesaggi attraverso i finestrini dimenticandosi completamente dell’esistenza del partner, la cui presenza non di meno rassicura. Il ruolo dell’auto nel viaggio di coppia è diverso che negli altri due casi descritti in precedenza. Il solitario riversa su di essa l’amore che gli manca: si affeziona
all’auto come un tempo ci si affezionava al proprio cavallo. Quando giunge in un luogo impervio o simbolico, si sofferma a guardarla, ne osserva le ruote, ne coglie l’usura e vorrebbe che avesse quell’anima che sta cercando in se stesso o in un partner. Nel viaggio romantico, dell’auto ci si disinteressa completamente al momento e, semmai, diventerà oggetto di un blando ricordo molti anni dopo. Per la coppia affiatata, invece, l’auto è solo un oggetto di cui si apprezza la comodità, la bellezza e persino l’immagine che offre al prossimo.
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buona parte. La conoscenza reciproca consente di concentrarsi su qualcos’altro che non sia il partner mentre si gode del viaggio o delle visite. Esattamente l’opposto di quanto accade nel viaggio romantico in cui tutto viene visto attraverso gli occhi del partner. La coppia affiatata viaggia e vede luoghi indipendentemente dalla relazione, liberamente e profondamente. Questa capacità di trovarsi nella solitudine pur stando vicino a qualcuno è molto diversa dal solitario viaggiatore. Si tratta piuttosto della capacità di isolarsi e stare
04 Il prototipo Feel the Peel e l’economia circolare Intervista a Carlo Ratti
progetti visionari silvia gironi ph feel the peel 2019
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C’è chi guarda alle cose come sono e si chiede “perché”. Io penso a come potrebbero essere
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e mi chiedo “perché no? Robert Kennedy
Ci ha colpiti il progetto “Feel the Peel” che, presentato prima al 40° Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini, è poi stato installato al Singularity University Summit di Milano l’8 e 9 ottobre, e sarà esposto a novembre all’Ecomondo di Rimini, evento leader in Europa per i nuovi modelli di economia circolare. Il prototipo “Feel the Peel” è uno spremiagrumi alto 3,10 metri, sormontato da una cupola riempita con 1500 arance. Quando una persona ordina un succo, le arance scivolano nello spremiagrumi, mentre le sue bucce si accumulano sopra, per poi essere trasformate in bioplastica attraverso un processo di essiccazione e macinazione. Una volta riscaldato e fuso, il polimero diventa un filamento, utilizzato da una stampante 3D incorporata nella macchina. Abbiamo pensato di intervistare il Prof. Carlo Ratti.
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Prof. Ratti, può spiegarci che cosa è il principio di circolarità e in che modo si sviluppa nel concetto di economia circolare? Il principio di circolarità si basa su un concetto semplice: tutti i nostri scarti non devono finire in discarica ma essere – appunto - rimessi in circolo. Applicato al design, ciò significa far sì che i tutti i componenti di quello che progettiamo possano essere riutilizzati. In questo senso l’anno scorso, insieme a Eni, abbiamo realizzato il prototipo di Feel the Peel, un grande spremiagrumi che riutilizza le bucce delle stesse arance per realizzare la bioplastica con cui stampare dei bicchieri in 3D in cui bere la spremuta....
Può spiegarci brevemente i passaggi tra il lavoro della stampante 3D e la realizzazione di un oggetto finito quale, nella fattispecie, un bicchiere? Il funzionamento di Feel the Peel segue la logica della circolarità in tutti i sensi – non solo per la costruzione della macchina ma anche per il suo utilizzo: come dicevamo, una volta spremute, le arance vengono raccolte e trattate per diventare polvere, poi lavorata a sua volta per creare il filamento con cui la stampante 3d estrude i bicchieri. Il design include tutti i passaggi nella stessa macchina, rendendo la circolarità un concetto molto concreto.
Quale è il futuro che intravvede per i suoi progetti? Progetti che dimostrano che è possibile ripensare e cambiare davvero i comportamenti…Quello del design circolare è un tema che affrontiamo spesso nei progetti di Carlo Ratti Associati. Sempre con Eni, abbiamo progettato il Circular Garden al Salone del Mobile di Milano dello scorso anno. Si tratta di una serie di archi interamente realizzati in micelio: un materiale organico che, al termine dell’installazione, è ritornato al suolo come compost. Negli ultimi mesi, inoltre, insieme a Italo Rota, stiamo lavorando al Padiglione Italia a Expo Dubai, una struttura che fa della circolarità il suo principio centrale, con materiali organici e di recupero integrati direttamente negli elementi costruttivi.
Riuscirà il mondo a “fare il salto”? “Mai lasciare che una crisi vada sprecata!”, come diceva Churchill. Credo che la pandemia stia facendo da acceleratore rispetto a molte dinamiche legate alla sostenibilità – speriamo di riuscire a fare il salto tutti insieme…
Ci parli della sua passione, dove è nata, che cosa la spinge continuamente alla ricerca C’è una scena di Jules et Jim, il celebre film di Truffaut, in cui Jim dialoga con il suo professore Albert Sorel: “Mais alors, que dois-je devenir?” — “Un Curieux.” — “Ce n’est pas un métier.” — “Ce n’est pas encore un métier. Voyagez, écrivez, traduisez…, apprenez à vivre partout. Commencez tout de suite. L’avenir est aux curieux de profession.” (“Ma allora, cosa devo diventare?” – “Un curioso” – “Non è un mestiere” - “Non è ancora un mestiere. Viaggiate, scrivete, traducete…, imparate a vivere ovunque. Cominciate subito. Il futuro è dei curiosi di professione”). Ecco, credo che la curiosità sia un motore indispensabile per chi fa ricerca. E anche a me piace pensare che il futuro sarà dei curiosi di professione”.
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Carlo Ratti, architetto e ingegnere, insegna presso il Massachusetts Institute of Technology di Boston, USA, dove dirige il MIT Senseable City Lab. Fondatore di CRA-Caro Ratti Associati, un ufficio internazionale di design e innovazione con sede a Torino, con filiali a New York City e Londra che, attingendo alla ricerca di Carlo Ratti presso il MIT, è coinvolto in molti progetti in tutto il mondo, abbracciando ogni scala di intervento: dal design del prodotto alle installazioni, all’architettura ed alla pianificazione urbana.
Per gentile concessione di: Carlo Ratti Associati srl Corso Quintino Sella,26 10131 Torino Tel. +39011 19694270
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Sulla riservatezza russa, occhi a mandorla”, trappole pericolose e altre cose altre prospettive olga v. petukhova ph: unsplash
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Immagine: V. Borovikovskij, Ritratto di M.I. Lopukhina (1797) (В.Боровиковский, “Портрет Марии Лопухиной”)
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la russia è più vicina alle culture orientali In generale, quella che gli italiani chiamano la «riservatezza russa» fa parte della cultura dei rapporti personali. In Russia essa è più vicina alle culture orientali, come la cinese o la giapponese, nel modo di esprimere i propri sentimenti e capire i sentimenti dell’altro. Se vuoi bene a qualcuno, devi indovinare che cosa lui o lei sente, interpretando i piccoli segni: l’espressione del viso, sfumature del comportamento, le sue azioni. Quale movimento ha fatto con le ciglia o le labbra, quale tono della voce ha usato? Potete dire, ma perché non dire tutto direttamente? Dire le cose direttamente fa parte della cultura occidentale, nella quale le cose devono / aspettano di essere dette, spiegate, pronunciate, analizzate, altrimenti è come se non esistessero (esagero, ovviamente). Ma per la gente «orientale» così si perde tutta la poesia delle sfumature, il valore delle parole viene sminuito. Di che cosa puoi sognare, che cosa puoi aspettare se lo scopo (confessione, dichiarazione) è già raggiunto? E poi? Che cosa sarà? Per questo, penso, i russi vogliono rimanere più riservati e sembrano misteriosi. Non lo fanno apposta; forse siamo misteriosi anche per noi stessi. Quando le cose belle non sono ancora dette, tutte le azioni diventano più significative, parlanti, importanti, intriganti. Invece le cose brutte meglio non dirle mai in generale, perché forse domani cambierai il tuo umore o punto di vista, ma le scorie dolorose che distruggono i rapporti saranno già uscite. Così, i russi riservano la poesia dei loro sentimenti all’interiorità. Quando invece le cose vengono dette, diventano indimenticabili.
Le radici di questa differenza sono anche più profonde
la cultura russa si trova nell’incrocio occidente-oriente
È la differenza nella percezione del concetto del Vuoto, del concetto del Niente (Nulla) nelle culture orientali ed occidentali. Nell’Occidente il Vuoto è qualcosa di negativo, che significa mancanza, assenza, deprivazione, solitudine, noia, freddezza. Il Vuoto oppure il Niente sono le cose opposte alle cose desiderabili e piacevoli: abbondanza, ricchezza, varietà. Invece, nell’Oriente il Vuoto è madre di tutte le cose. Come, per esempio, nella mitologia indiana oppure nella tradizione buddista Il Vuoto è un concetto centrale, ricco di tutte le possibilità, una cosa desiderabile e positiva. Il Vuoto / Silenzio nella tradizione orientale assomiglia alla luce bianca che contiene tutti i colori. La parola è d’argento, il silenzio è d’oro, dice anche il proverbio russo. Per “curare l’anima” un uomo occidentale vuole parlare, materializzare i suoi sentimenti nelle parole che diventano gli strumenti che permettono di cambiare poi la sua vita per il meglio. Invece un uomo orientale per raggiungere l’armonia vuole le cose contrarie, esattamente meditare nel silenzio. Gli strumenti del cambiamento possibile non sono le parole ma i pensieri, che richiedono il silenzio.
Tutta la cultura russa si trova nell’incrocio occidente-oriente, sia geograficamente sia culturalmente. Fisicamente i russi non sembrano molto orientali, non come i cinesi, giapponesi, indiani, arabi. Solo gli occhi a mandorla di alcuni russi svelano un po’ di orientalità. Hanno anche abitudini del mondo europeo, perché c’è una grande storia europea in comune, usano gli stessi oggetti della vita quotidiana. Sembrano europei, occidentali. E quindi gli italiani si aspettano dai russi un comportamento o modo di reagire, sentire occidentale. Ecco la trappola per gli stranieri. Proprio qui i russi sono diversi. Il mondo dei sentimenti russo è molto più vicino all’Oriente, con cose non dette, segni da interpretare… E se parliamo del silenzio e della riservatezza, è così.
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LA FOTOGRAFIA immortalare emozioni gG PH: gG
L’era del “digitale” (e, ancora prima, dell’automatico) ha stravolto come non mai la vera essenza della fotografia. L’accelerazione imposta ed acquisita in tutti gli aspetti attuali della vita non ha risparmiato questa forma d’arte, di fatto ora difficilmente
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riconoscibile come tale.
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Dalla pellicola all’elettronica
Se sapessi come si fa una buona fotografia, la farei ogni volta
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Le prime forme di pellicola del ‘800 (supporti di rame, vetro o metallo cosparsi di soluzioni di nitrato d’argento) portavano, visti alla luce odierna, anche a risultati impensabili. Fino a quel tempo lo scatto “istantaneo” era quasi esclusivamente una posa, quindi non molto spontaneo. Ma la singola foto voluta, cercata, studiata, soppesata, era frutto di passione ed impegno, e quando il risultato ottenuto era fedele a tutte le aspettative spesso poteva definirsi artistico. Anche nel primo mondo analogico le impostazioni erano sempre manuali ed occorreva obbligatoriamente impostare i parametri principali (tempo di esposizione, distanza del soggetto e luminosità), pratica ancora seguita dai fotografi “puristi”. Dagli anni ’80 anche l’analogico, con l’arrivo dell’elettronica, ha avuto la possibilità di “automatizzarsi” (tempi, apertura diaframma e messa a fuoco completamente automatici): segnale di grande cambiamento che avrebbe a breve portato al digitale. Il digitale ha consentito di perfezionare l’uso della funzione automatica, grazie alle nuove tecnologie, all’informatizzazione ed alla registrazione delle immagini sul sensore (e non più sulla pellicola). Con l’automatismo totale si possono ottenere ottimi risultati (dipende però sempre dalla qualità che si vuole ottenere): non sono più indispensabili studio e preparazione particolari, una volta componenti fondamentali ed obbligati per realizzare anche un singolo, occasionale, scatto. Non ci si deve più preoccupare dell’esaurimento della “vecchia” pellicola. I presunti vantaggi degli scatti “in automatico”, effettuati con qualsiasi fotocamera, rispetto ad una fotografia “più professionale” effettuata con impostazioni manuali o semiautomatiche, consistono nel poter effettuare un numero infinito di scatti senza preoccuparsi più di tanto delle impostazioni e nel poter cogliere l’attimo senza necessariamente prepararsi tecnicamente: tutto ciò non è certo didattico mentre in parte lo è il poter verificare ed analizzare in tempo reale il relativo risultato (per valutare errori e correzioni da parte ovviamente di chi ha interesse e volontà di approfondimento). C’è anche da dire che la grande disponibilità di funzioni rende anche il funzionamento in automatico meno immediato ed “automatico” di quanto ci si aspetterebbe.
Fotografi mordi e fuggi La tecnologia, in continua evoluzione, permette comunque di ottenere ottimi risultati anche con fotocamere digitali ed automatiche contenute in altri supporti, non dedicati propriamente alla fotografia, quali possono essere i telefoni cellulari. L’inflazione degli scatti effettuati con lo smartphone e la loro presenza invasiva in tutti i canali possibili della “rete” confonde e rende più complicata l’emersione degli scatti più professionali ed impegnati. Il risultato è che, di questi tempi, chiunque si improvvisa e si autodichiara “fotografo”; spesso crede di esserlo solo per il fatto di “pubblicare” su ogni piattaforma possibile centinaia di scatti, alcuni anche riusciti bene, ma spesso ipervalutati dalla METE MAGAZINE
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visualizzazione sullo schermo ridotto di un piccolo display (la stessa visualizzazione su schermo digitale di dimensioni e risoluzione maggiori svelerebbe spesso i loro limiti, anche di utilizzo…). Credo che si fotografi troppo e troppo spesso solamente per “rubare” una immagine “esclusiva” da condividere istantaneamente con il proprio “pubblico”, non per sentire in primis l’esigenza di realizzare qualcosa per sé stessi, ma per sentirsi in qualche modo più “visibili”, secondo gli attuali dettami della moda e della non-cultura. Per non parlare della fotografia macabra. Dell’essenza artistica, ripensando alle origini della fotografia, rimane in ogni caso ben poco; forse unicamente la capacità creativa di individuare d’istinto quale può essere un soggetto o scena o paesaggio meritevole o particolare, in un preciso istante. Fortunatamente rimane qualche parametro basilare che perlomeno seleziona il risultato dei tanti scatti così poco “sudati”: per fare il più semplice esempio, il controsole o la controluce, che non molti considerano.
Ritoccare la realtà La foto non riproduce mai un’immagine reale come quella, per intendere, che si vede con l’occhio umano, anche se il sensore fotografico, di massima, corrisponde alla retina oculare: è sempre e comunque diversa, spesso peggiore, a volte migliore. Solo ciò che si vede con i propri occhi è sicuramente reale. Ciò che vuole il nostro immaginario perfezionista può essere ottenuto con un raro scatto ottimamente riuscito oppure con il fotoritocco. Raramente si vuole conservare la presentazione reale di quel momento se presenta sfocature o difetti di luce. Osservando, ad esempio, una bella siepe fiorita illuminata dalla luce calda pre-tramonto e confrontando questa immagine con una foto scattata con la piena luce del mezzogiorno, in questo ultimo METE MAGAZINE
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caso i colori dei fiori risultano molto “spenti” dalla luce del sole, che fa riflessi su di loro e sulle foglie nascondendoli ed uniformandoli ad una luce bianca diffusa. Ebbene, questo è reale, di quel momento, anche se ha un effetto scadente e non rappresenta ciò che si è visualizzato in altre condizioni “fotografiche”. Il fotoritocco aiuta ad ottenere il nostro immaginario ideale, al di là delle condizioni luminose dello scatto. I colori non sono necessariamente di quel momento, ma di quando lo preferiamo. Non è quindi la rappresentazione della realtà. Il fotoritocco si usa, oltre che per eliminare imperfezioni, elementi o persone “intruse”, per cercare appunto di perfezionare il reale se non, a volte, per stravolgerlo “ad arte”. Ed ha pure un’origine antica: anche nelle lastre dell’800 si toglievano elementi estranei raschiando la lastra...
Catturare un ricordo La fotografia è soggettiva, in tutti i sensi. Innanzitutto perché immortala un momento particolare e sempre irripetibile: ogni fermo immagine differisce dall’altro, come effetti (luce, contrasto, colore) e come “sensazioni”. Ogni fotografia è un ricordo e anche quando risulta tecnicamente scadente è romanticamente difficile separarsene, e ciò che rappresenta per l’autore spesso è nulla per gli altri. Rivedendo una foto capita di rivivere lo stato d’animo e persino di percepire gli odori di quel preciso momento, anche molto distante nel tempo, che risvegliano ricordi di particolari che si pensavano perduti. In ogni caso è fondamentale trovarsi al posto giusto nel giusto momento di luce; del resto, il termine fotografia deriva dal greco “scrivere con la luce”. E non esiste una regola universale per realizzare sempre una buona foto: “se sapessi come si fa una buona fotografia, la farei ogni volta” (R.Doisneau).
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È il possibile di fronte al tutto Gianmaria Polidoro
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Che cos’è un passo?
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Le torri del Vajolet, un sospiro di Dio
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Credo che debba esserci sempre una meta nel nostro camminare e nel vivere, ogni giorno, le emozioni dell’esistenza. Purtroppo la vita moderna, con le sue discutibili regole, ci porta spesso a essere solo realisti e poco sognatori, per cui le nostre mete tante volte diventano lo stipendio, le vacanze o altre scelte che hanno ben poco di romantico o di idealistico. Forse tanti di noi si sono imborghesiti ed hanno perso il gusto di sognare, di porsi una meta che non sia solo l’ interesse personale.
Spesso, io che cerco di vivere ancora di sogni e, credetemi, ne ho tantissimi, vengo criticato proprio per questo, per il mio continuo ricercare un senso più stimolante nella vita...insomma una meta dopo l’altra, per continuare a vivere, e sognare, senza arrendermi, un mondo migliore, partendo proprio dal mio io più profondo. Chi mi conosce , o ha letto l’ ultimo numero di questa rivista, sa qual ‘ è la mia meta più ambita, il mio sogno più grande: il Cervino, amato e desiderato così tanto da essere
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A me piace immaginare che a Dio siano piaciute così tanto, queste montagne di rocce superbe, da sospirare di emozione e che da quel sospiro siano nate le torri del Vajolet
sicuro del mio pianto di emozione un domani che, eventualmente, riuscissi ad arrivare in cima. Ma ci sono tantissime mete nel mio cuore e nella mia mente, raggiunte dopo tanto aspettare e sognare, e in questa occasione vorrei parlarti di una di queste, che da ragazzino mi toglieva il fiato per la sua verticale e assoluta bellezza e che, un po’ più cresciuto, forse una decina d’ anni, sono riuscito a gustare appieno. Noi alpinisti…anzi io, amante delle montagne (essere un alpinista sarebbe un onore, che non merito), spesso le vediamo come fossero esseri umani, imbastiamo un rapporto di amore quasi intimo con molte di queste, che entrano nel nostro vissuto, prima come sogno, poi come bellissimo ricordo, per non uscirne mai più. Di molte montagne ci costruiamo immagini personali davvero amorevoli e qualche volta qualcuna di queste cime fa nascere tra le persone una fama particolare, spesso alimentata da leggende o da nomi speciali che diamo agli oggetti… o soggetti del nostro desiderio. Per cui, se il poeta chiamava il Cervino “Il più nobile scoglio d’Europa” dove il mare è lontano, inarrivabile con lo sguardo, a molti alpinisti piace chiamare la mitica montagna della Patagonia, il Cerro Torre, l’urlo pietrificato, e ancora, tra gli abitanti sotto le sue bianche distese di ghiaccio e neve, è usanza chiamare l ‘ Everest Chomolunga, cioè Dea Madre delle nevi. Ora ti parlerò delle mitiche torri del Vajolet. Una leggenda dolomitica racconta che il Padreterno, dopo avere creato le Dolomiti, che sono per me le montagne più belle del mondo, si sedette sul Monte Pelmo a contemplare la sua opera; infatti, il Pelmo sembra proprio una sedia, visto da lontano, METE MAGAZINE
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quasi un trono, tanto che i valligiani lo chiamano EL CADREGON. A me, pensando a questa leggenda, piace immaginare che a Dio siano piaciute così tanto, queste montagne di rocce superbe, da sospirare di emozione e che da quel sospiro siano nate le torri del Vajolet… così, queste torri sono per me un SOSPIRO DI DIO. Avevo tredici anni, età in cui non avevo paura di niente, e con qualche amico salivo la ripidissima Gola Di Gartl ,sopra il rifugio Preuss e Vajolet , per arrivare al rifugio Re Alberto e godere appieno l’emozione e la visione di queste torri magiche. Sono passati tanti anni ma credo che non dimenticherò mai quegli attimi così importanti e vivi per me, ragazzino appena affacciato alla vita, che scopriva un senso diverso dell’esistenza che, più in là nel tempo, l’avrebbe coinvolto e travolto letteralmente, regalandogli sensazioni nuove ed emozioni infinite. Guardando le tre torri, la Delago, col suo famoso spigolo, la tozza Stabler e la Wynkler, dai nomi dei primi salitori, mi mancava il fiato nell’ammirare i puntini blu e rossi che, eleganti e metodici, arrampicavano verso la loro meta, i loro sogni cullati forse lungamente, le cime di queste lame di roccia slanciate verso il cielo, proprio come un sospiro di Dio, esile, pieno di bellezza e di amore. Da quel momento ho capito che la vita si poteva anche colorare con mani aggrappate alla roccia e i piedi ben piantati in fessure fino all’arrivo, dove il mondo torna orizzontale ma il cuore batte così forte e pienamente felice, tanto da scoppiare . Avrei nel tempo raggiunto una moltitudine di mete così, e il mio cuore, ancora, ne crea continuamente di nuove. Così, dieci anni dopo, con numerose salite alle spalle, anche su ghiacciai, ma prevalentemente su
roccia, spinto dalla passione nata in quell’attimo, mi trovo alla base della torre Delago per arrampicare su quello spigolo così a lungo sognato e desiderato . A tutti i miei amici, amanti come me dell’aria sottile, consiglio spesso di arrampicare un po’ sulle rocce: danzare sulla verticale è una emozione particolare e molto intensa. Caschetto, imbrago con nodo otto infilato e si parte. Il primo tiro (lo spazio fisico da una sosta con chiodi all’altra) è in obliquo verso sinistra, verso lo spigolo che è separatore naturale su un vuoto assoluto e terribile alla vista. Anni dopo, in una malga sotto la torre nel versante sotto di me, dovrò piegare il collo all’ indietro in maniera inverosimile per seguire fino in cima la linea di questa bellissima via. Credo sia stata la prima volta in cui ho provato l’esperienza di arrampicare su un vuoto così maestoso, terribile e profondo, tanto che spesso, arrampicando, l ‘ occhio scappava furtivo a guardare l’immensità del panorama e dello spazio sotto i piedi. Questa sensazione di vuoto assoluto, quasi un mostro che vorrebbe divorarti, l’ho avuta anni dopo salendo verso un’ altra meta, un altro mio grande METE MAGAZINE
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sogno, il grande traverso sul terzo spigolo a sud della Tofana di Rosez. Comunque la scalata è facile e gli appoggi per i piedi con gli appigli per le mani sono numerosi , grossi e sicuri, sembra quasi di salire su una immensa scala, che ti porta a toccare il cielo con un dito. La gioia, giunto in vetta, è immensa e piena; ogni sogno, ogni meta, contiene emozioni che si possono raccontare e sensazioni che rimangono spesso nel segreto dell’ anima per poi uscirne in attimi inaspettati e aiutarci nel difficile e faticoso cammino della vita. Un consiglio: se vi dovesse capitare di arrivare in questi luoghi magici, dopo il rifugio Re Alberto, camminate ancora un poco fino al passo Santner, al rifugio gustatevi una meritata birra e ammirate con animo curioso e nuovo la magnificenza di questa meta raggiunta, di queste lame che salgono verso il cielo, come ad elevarsi a preghiera verso Chi le ha create ( è un pensiero che mi ricorre spesso) e provate a pensare se sia azzeccato, o meno, l’appellativo affettuoso con cui le chiamo io… LE TORRI DEL VAJOLET… un sospiro di Dio.
passi vinicio paselli ph: vinicio paselli
Valle d’Aosta, escursione al Rifugio Teodulo (mt 3317 s.l.m.)
07/2 METE MAGAZINE
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Si parte da Cervinia la mattina presto, muniti di borracce piene d’acqua e ricaricati dopo una buona colazione. A destra della chiesetta di paese parte una strada, la si imbocca e si sale nei quartieri alti di Cervinia. Sconsiglio il sentiero 15 indicato da un cartello vicino perché molto ripido ed esposto a eventuali frane, consiglio invece il 14, che parte sulla sinistra dalla zona alta di BreuilCervinia. Quest’ultimo sentiero percorre a zig zag la salita verso Plan Maison e mantiene sulla sinistra il Cervino e la Grande Muraglia, in tutto il loro splendore di rocce e ghiacciai. Una volta raggiunto Plan Maison, oltre 2500 metri s.l.m., è possibile sostare e godersi il sole e il panorama, che ora offre anche il Ghiacciaio del Plateau Rosa. Dopodiché è possibile imboccare il sentiero per il rifugio Teodulo , sulla sinistra(ma non troppo); potremmo dire che è alla sinistra del Plateau Rosa ma perpendicolare a Plan Maison. In una fase iniziale possiamo vedere dall’alto la Valtournenche e il gruppo del Gran Paradiso con ghiacciai all’orizzonte; poco più avanti scompaiono dietro la Grande Muraglia. Anche il Cervino gradualmente si nasconde dietro l’anfiteatro del Furggen e il paesaggio diventa lunare: scompaiono i prati e rimangono distese di pietre e qualche collina morenica. In lontananza si scorge ancora il lago Goillet, che si trova sulla destra di Plan Maison (a Est). Possiamo notare anche la stazione di Laghi Cime Bianche, situata a 2800 metri, ai piedi del Plateau Rosa. METE MAGAZINE
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C’è inoltre un altro laghetto di origine glaciale poco conosciuto che possiamo notare nelle vicinanze. Salendo è bene tenere la sinistra; per un breve tratto è possibile salire per la pista da sci o in alternativa da un sentiero, che però ci deve portare in quota: se doveste trovarvi in direzione Laghi Cime Bianche, tornate sulla sinistra. Un punto di riferimento importante è il Rifugio presso la Cappella Bontadini, aperto nel periodo invernale, a fianco del quale e poco sotto il quale si notano diversi nevai. La salita verso il Teodulo si fa via via più ripida, seppure lentamente, con il sentiero che prosegue a zig zag e, a poco a poco, si nota un muro di neve sulla cresta occidentale vicina e, infine, si torna a vedere il Cervino. Appena raggiunto il rifugio si apprezza un panorama mozzafiato: partendo da destra il Ghiacciaio del Plateau Rosa con la Gobba di Rollin, il Piccolo Cervino, il Breithorn Occidentale con la sommità coperta da decine di metri di neve, la parte finale del ghiacciaio, le montagne svizzere ricoperte di ghiacciai e il ghiacciaio del Lyskamm del gruppo del Monte Rosa, con le sue propaggini in una vallata non lontana da Zermatt, nota località svizzera. L’aria è piuttosto fresca anche in presenza di un buon soleggiamento, si consiglia di sostituire periodicamente magliette e felpe e di indossare una giacca a vento quando si è fermi. Dopo una mezz’ora di spettacolo incantevole, consigliamo di scendere di quota sul versante italiano da cui si è partiti, per recuperare ossigeno.
L’autoefficacia.
Credere in sé stessi.
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08 viaggio in sé stessi martina verrilli
Sentiamo spesso parlare di autostima, ma poco di autoefficacia. In questo articolo approfondiremo vari aspetti di questo concetto: che cos’è l’autoefficacia, e perché è così importante? L’autoefficacia viene definita come la convinzione che le persone hanno circa la propria capacità di impegnarsi in un determinato compito e portarlo a termine per raggiungere un obiettivo, o, più sinteticamente, la fiducia che si possiede nelle proprie capacità (Bandura, 1997). Le convinzioni di autoefficacia sono alla base dell’agentività umana, ossia della facoltà di produrre un effetto, di intervenire sulla realtà. Se non possedessimo un senso di competenza verso un determinato comportamento, non saremmo spinti ad agire, poiché penseremmo di non riuscire ad ottenere i risultati sperati. Le aspettative riguardo le proprie capacità influenzano quindi i comportamenti individuali. In particolare, le convinzioni di autoefficacia hanno un peso significativo in quattro ambiti: • Le decisioni su quali attività
•
•
perseguire: le persone tendono a coinvolgersi in compiti per i quali si giudicano efficaci e ad evitare le attività sulle quali non si ritengono competenti o che ritengono di non poter compiere. Inoltre, ad un più elevato senso di autoefficacia corrispondono obiettivi più ambiziosi;
di autoefficacia sperimenteranno
La persistenza nel compito: dal momento in cui l’attività è stata intrapresa, le persone con alto senso di autoefficacia aumentano gli sforzi nel compito con l’obiettivo di portarlo a termine, e persistono anche di fronte a fallimenti o insuccessi; al contrario, persone con scarsi livelli di autoefficacia percepita tenderanno a desistere e a rinunciare più facilmente all’attività;
l’individuo a sentirsi sempre meno
Risposte a livello affettivo: di fronte ad eventi minacciosi, che potrebbero recare danno, le persone con un maggiore senso METE MAGAZINE
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minore ansia, mentre chi possiede una scarsa autoefficacia si ritroverà a dover affrontare un maggior numero di vissuti ansiosi e depressivi. A sua volta, l’umore depresso diminuisce il senso di autoefficacia, instaurando così un circolo vizioso che potrebbe portare in grado di affrontare determinate situazioni; •
Formulazione di strategie: le persone con un più elevato senso di autoefficacia sviluppano e valutano le loro strategie in maniera più analitica, e sono in grado di modificarle o adattarle alla situazione da affrontare.
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Il senso di autoefficacia è quindi in grado di influenzare i nostri processi decisionali, affettivi e motivazionali.
L’autoefficacia può essere intesa sia come la convinzione di essere in grado di raggiungere un obiettivo mettendo in atto un determinato comportamento, sia come la credenza di poter controllare o gestire eventuali difficoltà che possono sorgere durante lo svolgimento di una prestazione (Kirsh, 1995; Maddux & Gosselin, 2003). Quindi, l’autoefficacia è definita sia come un costrutto generale, sia relativamente a specifiche capacità personali, che entrano in azione di fronte a determinate richieste. Infatti, le capacità umane sono molto eterogenee, e le convinzioni di autoefficacia sono collegate a sfere di funzionamento distinte (Bandura, 1997). D’altronde, non possiamo essere bravi in tutto!
Autoefficacia e autostima Apparentemente intercambiabili, i termini “autoefficacia” ed “autostima” sono in realtà molto diversi. L’autoefficacia si riferisce alle valutazioni di capacità personale, mentre l’autostima riguarda i giudizi di valore personale. Ci si può ritenere inefficaci e inadeguati in una data attività senza che questo vada ad influire negativamente sulla propria autostima. Avere un’elevata autostima, quindi piacersi, non implica riuscire in un compito; per fare questo, è necessario un buon senso di autoefficacia, che significa non solo sapere di possedere determinate capacità, ma anche essere convinti di saperle utilizzare al meglio in quel contesto (Bandura, 1997).
Incrementare il proprio senso di autoefficacia è possibile? Sì, è possibile! Le convinzioni di autoefficacia possono essere modificate e potenziate attraverso quattro strategie: 1) l’esperienza diretta, molto utile per verificare le proprie capacità, soprattutto se avviene in un contesto “protetto”, in sicurezza. Sperimentare successi aiuta ad aumentare il senso di autoefficacia, ma anche i fallimenti possono essere visti in un’ottica positiva, poiché permettono di arricchire l’esperienza personale,
motivandoci a ricercare strategie più efficaci per portare a termine l’attività e raggiungere i nostri obiettivi; 2) l’esperienza vicaria, ossia l’apprendimento attraverso l’osservazione di comportamenti positivi messi in atto da altre persone, soprattutto sé simili a sé. I modelli sociali, come genitori, insegnanti o gruppo dei pari, rappresentano un’ottima fonte di apprendimento di nuove abilità e strategie (Schunk e Zimmerman, 2007), sia attraverso la trasmissione di informazioni, sia attraverso l’azione vera e propria, grazie alla quale possono essere raggiunte le mete prefissate. L’osservazione dei comportamenti di queste persone aumenta la fiducia dell’individuo nelle proprie competenze. Il confronto sociale risulta fondamentale nei processi di autovalutazione: molto spesso, le persone valutano le proprie capacità confrontandole con quelle di altri. Le convinzioni di autoefficacia aumentano quando si è convinti che le proprie prestazioni siano migliori di quelle del gruppo di riferimento, e diminuiscono nel caso opposto (Bandura, 1997). Tuttavia, è importante che il confronto assuma una funzione istruttiva e non valutativa: un riferimento eccessivo ai risultati e alle prestazioni altrui rischierebbe di sminuire l’individuo; 3) la persuasione verbale: le convinzioni di autoefficacia possono mantenersi elevate, durante l’esecuzione di un compito, se altre persone significative (come genitori o insegnanti) esprimono fiducia nei confronti della persona, soprattutto in caso di difficoltà e se l’incoraggiamento è realistico, quindi fondato sulle reali capacità dell’individuo e non esagerato. La persuasione verbale ha un ruolo importante nel far sì che la persona persista nel compito e nel promuovere l’autocambiamento (Bandura, 1997); 4) il controllo degli stati fisiologici ed emotivi: in situazioni complesse e difficili da gestire, le reazioni di stress possono essere tenute sotto controllo affinché l’energia sia orientata all’azione. Ad avere un’influenza sul senso di autoefficacia non è la semplice attivazione emotiva o fisiologica, ma l’interpretazione che ne fornisce l’individuo. Uno stato di METE MAGAZINE
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tensione, ad esempio, potrebbe essere valutato come indice di vulnerabilità personale e conseguente incapacità di gestione della situazione. Invece, è importante assegnare significati più positivi alle modificazioni corporee (come la sudorazione o il battito cardiaco, che sono fondamentali, in quanto predispongono l’organismo ad agire per affrontare la situazione) o imparare a rilassarsi attraverso tecniche specifiche, ad esempio il training autogeno, proprio per rafforzare e sostenere le convinzioni di autoefficacia. Le convinzioni di autoefficacia risultano fondamentali per il raggiungimento
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Che tu creda di farcela o di non farcela avrai comunque ragione Henry Ford
dei nostri obiettivi. Per aumentarle,
BIBLIOGRAFIA
sarebbe importante imparare ad
Bandura, A. (1997). Self-Efficacy: The Exercise of Control, WH Free-
uscire dalla nostra comfort zone e sperimentarci in situazioni nuove, anche complesse. Avere fiducia nelle proprie capacità non significa non fallire mai (sarebbe impossibile!), ma considerare gli insuccessi come opportunità di
man, New York, USA. Bandura, A., Autoefficacia: teoria e applicazioni (1997, ed. it. 2007) , Fabbri Editore. Kirsch, I. (1995). “Self-efficacy and outcome expectancy”, in Self-Efficacy, Adaptation, and Adjustment: Theory, Research and Application,
crescita e di apprendimento. I fallimenti
Maddux, J.E., Ed., 331–345, Plenum, New York, NY, USA.
possono aiutarci a ricercare alternative
Maddux, J. E., Gosselin, J. T. (2003). “Self-efficacy”, in Handbook of
valide e, di conseguenza, ad ampliare
Self and Identity, Leary, M.R. & Tangney, J.P., Eds., 218– 237, Guilford
il nostro repertorio comportamentale,
Press, New York, NY, USA.
selezionando di volta in volta le azioni e
Schunk, D. H., Zimmerman, B. J. (2007). Influencing children’s
le strategie più efficaci per affrontare una
self-efficacy and self-regulation of reading and writing through mode-
nuova esperienza.
ling, Reading and Writing Quarterly, 23(1), 7–25.
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09 Risolvere le dispute tra corti costituzionali nazionali e corte di giustizia europea, come?
i talenti e i frutti vinicio paselli ph: pexels
Lo scorso 5 Maggio la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe ha lanciato un ultimatum di tre mesi alla Banca Centrale Europea affinché comprovasse la proporzionalità del penultimo programma di acquisto di titoli. La BCE ha inviato documenti al Bundestag (il Parlamento tedesco) tramite la Bundesbank Dopo la sentenza di Karlsruhe (la Banca nazionale tedesca) e sia Bundestag ci si è domandati se la BCE sia che Bundesbank hanno riuscita a preservare la propria dato parere favorevole; dunque, la Bundesbank indipendenza dal potere politico non ha dovuto vendere tedesco i titoli precedentemente acquistati né interrompere gli acquisti. Tuttavia i giudici di Karlsruhe ritengono che per ogni programma, dunque anche quello pandemico recente, la BCE debba motivare le proprie scelte e il Bundestag approvare, con la decisione finale in capo alla Bundesbank. Bastano alcuni ricorsi infatti e l’episodio si potrà ripetere per il programma di acquisto recente. Ci si è domandati pertanto se la BCE sia riuscita a preservare la propria indipendenza dal potere politico tedesco; formalmente la risposta è affermativa, in quanto METE MAGAZINE
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la BCE non ha inviato documenti direttamente al Bundestag, ma li ha fatti pervenire. Alcuni parlamentari tedeschi si sarebbero inoltre lamentati del fatto che la lingua dei documenti fosse l’inglese e non il tedesco! Alcuni dei documenti sono stati inoltre secretati e i ricorrenti hanno chiesto di potere vidimarli. Serve in tempi rapidi una decisione politica che sottragga alla Germania il potere di veto contro la BCE per ripristinare un corretto equilibrio fra istituzioni. Karlsruhe aveva infatti accusato la Corte di Giustizia Europea di essere andata “ultra vires” nella sentenza che legittimava i piani della BCE, avocando a sé la competenza in merito alla Bundesbank. Karlsruhe aveva attaccato la BCE per aver comprato buoni del Tesoro oltre la quota capitale nella BCE nel caso di paesi come Italia METE MAGAZINE
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e Spagna, aveva chiesto di verificare gli effetti sul mercato derivanti dal mantenimento in vita di imprese “zombie”, aveva chiesto di monitorare le conseguenze sul mercato immobiliare, sulle bolle finanziarie, sui piani pensionistici e così via. Non sappiamo se la BCE abbia risposto integralmente alle richieste, ma possiamo immaginare nuove dispute legali dovute ai ricorsi di esponenti di AFD in Germania. Serve chiarezza giuridica a livello europeo. L’Europa non è ancora una Federazione di Stati, dunque le singole corti costituzionali nazionali possono richiamare competenze. Anche i diritti democratici in Polonia e soprattutto in Ungheria sono una questione aperta: chi vuole ridurli ha festeggiato dopo la sentenza di Karlsruhe, che ha creato un precedente nell’Unione Europea.
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DETRARRE IL 100% DEL VEICOLO A USO AZIENDALE Autovettura aziendale in regime forfetario o autoveicolo aziendale totalmente detraibile e deducibile? Ora puoi scegliere.
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a anni la trasformazione da autovettura ad autocarro è una delle possibili soluzioni consentite, ma non l’unica o la più efficace, specie se sei un libero professionista. Esistono una serie di omologazioni, quali quelle di autoveicoli ad uso speciale, che permettono di scegliere la versione ideale del proprio autoveicolo per uso aziendale, evitando così di perderci tanti soldi. Gli autoveicoli ad uso pubblicitario (pubblycar), tecnologico (technologycar) e officina mobile (workcar) sono, insieme all’autocarro, le risposte più sicure per un’auto aziendale Per un parere di pre-fattibilità totalmente deducibile per inerenza. visita il sito www.businesscar.it Infatti, la legge impone che i beni (anche quelli mobili) aziendali per essere detraibili e deducibili al 100% abbiano due Per saperne di più, o se desideri caratteristiche: ricevere il questionario, scrivi a 1) Essere strumentali (tutti gli autoveicoli di categoria N1 sono strumentali) bcpoint@businesscar.it 2) Essere inerenti (l’inerenza stabilisce che ogni attività deve o telefona al numero 3476997198 avere il suo autoveicolo su misura della propria attività) Ecco perché quattro soluzioni: per usare quella correttamente inerente ad ogni impresa o studio professionale. Anche il Sole 24 Ore nei suoi opuscoli informativi sulla materia utilizza il marchio Businesscar per definire gli autoveicoli ad uso speciale aziendale deducibili per inerenza. Per questo, in collaborazione con un pool di commercialisti esperti, è nata la certificazione di congruità fiscale che, unitamente all’omologazione della trasformazione, garantisce al 100% la detraibilità e la deducibilità di un autoveicolo per uso aziendale. Sarà sufficiente compilare un apposito questionario sul sito www.businesscar.it per ottenere gratuitamente il pre - parere di fattibilità. METE MAGAZINE
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di tappa in tappa francesca vinai ph: takeanyway
Capo di Buona Speranza METE MAGAZINE
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Quando il tempo si arresta, diventa luogo Chawki Abdelamir
Il Capo di Buona Speranza, all’estremità
arbusti e cespugli. L’aria frizzante fuori dal
sudoccidentale del Sudafrica, è
finestrino rende straordinariamente vividi
uno di quei luoghi mitici che vivono
i colori.
nell’immaginario collettivo senza una
Non appena la strada inizia la discesa
precisa rappresentazione. Si sa che è il
verso “Cape of Good Hope”, la bruma,
lembo di terra più meridionale dell’Africa
come una maledizione, sale dal mare e
– affermazione non del tutto corretta, in
incatena le sue coste.
verità, come scopriremo tra poco – ma
Il cielo, da blu, si fa azzurro tenue e le
non si riesce a definirne il profilo: è una
tinte accese della vegetazione scolorano
spiaggia o un dirupo? Ha un faro, una
in un grigio diffuso. Qualche struzzo
qualche indicazione o cos’altro?
spunta fra i cespugli, mentre il velo di
Neppure io sapevo cosa aspettarmi
vapore biancastro diventa un muro via via
prima di arrivarci. Vedere finalmente
più fitto.
materializzarsi il Capo in una ragnatela di
Affondo con cautela nella nebbia, lungo
nebbia, quella nebbia che tanti naufragi
curve che mi portano giù e ancora giù.
ha causato nei secoli, è stato come un
Sul ciglio della strada passeggiano due
sogno che ho vissuto con un misto di
babbuini – una mamma e il suo cucciolo –
incredulità e soggezione.
indifferenti al mio passaggio.
Per raggiungere Buona Speranza ho
La visibilità si riduce al minimo.
percorso in auto la penisola a sud di
D’improvviso, mentre la strada svolta
Città del Capo, lunga una settantina
stretta a sinistra, distinguo di fronte a
di chilometri. Pochissime le auto in
me la schiuma bianca di onde fragorose:
circolazione sulla M65, un nastro di asfalto
sono scesa a livello del mare e l’acqua si
che percorre in lunghezza l’altopiano
schianta contro le rocce appena oltre la
centrale della penisola fra distese di
curva. METE MAGAZINE
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Ancora qualche metro e ci siamo. Il Capo di Buona Speranza è lì, esposto a venti contrari, sbattuto dalle onde. Il cartello in legno, con l’indicazione del Capo in inglese e in afrikaans, sfida l’umidità fra ciottoli rossi e pietre ocra. È un palcoscenico surreale in cui recita, come in un dramma, un grande stormo di cormorani. Alcuni sono in volo, molti altri se ne stanno appollaiati sugli scogli a riva, mentre l’oceano applaude con foga. Non saprei dipingere un’atmosfera più adatta per un luogo così epico e insidioso. La nebbia annacqua l’aria e si diverte a tenermi in pugno, ingannevole quanto basta per decidere le sorti dei naviganti che si spingono fin quaggiù. È questo il passaggio che, a fine Quattrocento, i portoghesi raggiunsero in navigazione e poi oltrepassarono, aprendo una nuova via marittima verso le Indie. È qui che affondarono molte navi. È qui che si credeva l’oceano Atlantico incontrasse quello Indiano, nel punto più meridionale dell’Africa. In realtà è Cape Agulhas, più di 200 Km a est di Buona Speranza, a detenere questo primato: è là che il continente africano finisce e i due oceani si toccano. Eppure il Capo di Buona Speranza mantiene intatto il suo fascino, forte di un potere simbolico generato da secoli di storia e leggenda. METE MAGAZINE
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11 Come, dove e quando è nata la Festa della Mamma fabio bergamo ph pexels La festa della mamma è una delle ricorrenze più diffuse al Mondo. Gli studiosi fanno risalire la nascita di tale festa in pieno paganesimo, presso le popolazioni greche e romane, prima dell’avvento della religione cristiana. Questi popoli celebravano le divinità femminili e la fertilità delle donne nella stagione primaverile che appunto dava inizio al rinnovamento della natura e della produttività della terra. In particolare, nell’antica Grecia la festa della mamma corrispondeva alla celebrazione in onore della Dea Rea (figlia di METE MAGAZINE
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Nel ruolo di madre, di padre o altri, ognuno di noi può, o non può, riconoscersi. Non solo un giorno all’anno. Il giorno eletto a Festa della Mamma ha una valenza centrale ed universale, e spesso finisce per rimandare soltanto l’immagine di una figura che ha i figli con sé. E tutte le altre? La mamma è solo questo, attualmente? E le donne che non possono essere madri, i padri che hanno perso la loro compagna, i bambini che non hanno la mamma? Che cosa può significare per loro questa ricorrenza? Mamma si è ogni giorno, si è sempre, senza pubblicità, senza il consumismo di una giornata ”speciale” che può sottilmente fare sentire incompleti coloro che non posseggono i carismi imposti dalla logica del profitto commerciale. Così, per non svuotare la festa del suo valore intrinseco, non festeggiamola un solo giorno dell’anno.
Urano e di Gea), madre di tutti gli Dei. La festa dedicata a Rea aveva la durata di un giorno e aveva cadenza annuale. Gli antichi romani destinavano alla Dea Cibele, Madre degli Dei, protettrice della natura e di tutte le mamme, sette giorni di festa ogni anno. Durante il Medio Evo, nessuna particolare celebrazione è dedicata alla mamma. In epoca moderna la festa della mamma appare in Inghilterra nel XVII secolo (1600). La festività è denominata “Mothering Sunday” e si ripete, ogni anno, la quarta domenica di Quaresima; tutti i bambini che per vari motivi sono lontani dalla mamma e la famiglia, in questo giorno possono tornare a casa. Successivamente la festa della mamma si trasforma in una ricorrenza della durata di più giorni che si ripete ogni anno verso la metà del periodo di Quaresima e i bambini che tornano alle loro case
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donano alle mamme fiori ed altri regali. Oggi, nel Regno Unito, la festa della mamma è chiamata “Mother’s Day” e si celebra tra il 1 marzo e il 4 aprile di ogni anno.
La Festa della Mamma viene istituita, per la prima volta, negli Stati Uniti d’America nel 1914 Negli Stati Uniti la festa della mamma si diffuse inizialmente come festività correlata ai movimenti contro la guerra e a favore dell’abolizione della schiavitù. Nel 1870 fu Julia Ward Howe, pacifista e abolizionista, a proporre l’istituzione del Mother’s Day for Peace: la festa dunque non era dedicata esclusivamente alla mamma ma era legata appunto al pacifismo, ai diritti della gente di colore e al suffragio delle donne. Ma tale iniziativa non ebbe seguito.
Statua della Grande Madre, la Dea Cibele Nella mitologia greca fu identificata con Rea, Madre degli Dei o Dea Madre
La festa dedicata esclusivamente alla mamma fu celebrata per la prima volta nella città di Grafton nello Stato del Massachusetts, nel maggio del 1908, l’anno seguente fu festeggiata a Filadelfia. A promuovere la sua introduzione fu Anna Jarvis dopo la morte della mamma: la festa si diffuse anche in altre città degli Stati Uniti e Anna scrisse ai ministri e ai membri del Congresso degli USA, chiedendo la istituzione della festa nazionale dedicata a tutte le mamme. Come simbolo della festa della mamma, Anna scelse un garofano bianco, il fiore che piaceva tanto a sua madre. Così nel 1914 il Presidente degli Stati Uniti d’America, Woodrow Wilson, istituì, attraverso una delibera del Congresso, il “Mother’s Day”. Non fu prevista un data fissa nel calendario, ma la ricorrenza si sarebbe celebrata ogni anno, nella seconda domenica di maggio. Prendendo esempio dagli Stati Uniti d’America, la festa della mamma, dalla sua istituzione ad oggi, è divenuta una ricorrenza per quasi tutti gli Stati del Mondo.
In Italia la Mamma si festeggia per la prima volta nel 1956 A partire dal 1933, sotto il Ventennio Fascista, si iniziò a celebrare la Giornata Nazionale della Madre e del Fanciullo. Tale ricorrenza, celebrata il 24 dicembre di ogni anno, era connessa al premio destinato alle mamme più prolifiche nel quadro della politica messa in atto da Mussolini a favore della famiglia e per l’incremento della natalità, con l’istituzione, nel 1925, della OMNI (Opera Nazionale Maternità ed Infanzia). Nella giornata dedicata alla madre e al fanciullo, il Duce assegnava personalmente un premio in denaro di 5.000 Lire e una polizza di assicurazione alle mamme con più di 7 figli che si trovavano a Roma per la festa; naturalmente non mancarono altre agevolazioni alle famiglie italiane affinché incrementassero le nascite.
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La festa dedicata solo ed esclusivamente alla mamma, staccata dagli scopi della politica, come invece si era attuato con Benito Mussolini, viene festeggiata in Italia, per la prima volta, nel 1956. L’iniziativa fu lanciata dal senatore Raul Zaccari, che era sindaco di Bordighera e a collaborare con lui fu Giacomo Pallanca, Presidente dell’Ente Fiera del Fiore e della Pianta Ornamentale di BordigheraVallecrosia. La festa fu celebrata presso il Teatro Zeni di Bordighera e negli anni a seguire presso il Palazzo del Parco. Nel 1957 fu Don Otello Migliosi a lanciare la festa della mamma a Tordibetto di Assisi; la festività da lui introdotta aveva una connotazione cristiana, non dedicata solamente al ruolo sociale della mamma. Successivamente a Tordibetto sarà anche realizzato il Parco della Mamma, progettato dall’architetto Enrico Marcucci e con al centro una statua dedicata alla maternità, scolpita da Enrico Manfrini. Dal 1957, ogni anno, la parrocchia di Tordibetto celebra ufficialmente la Festa con vari eventi e manifestazioni di tipo religioso e culturale.
Un esempio di famiglia numerosa durante il Ventennio Fascista (Anno 1942) Genitori: Giovanni Bergamo e Maria De Martino, di Eboli (SA) con i loro 9 figli: Fortunata, Lucia, Preziosa, Tommaso, Alfonsina, Angela, Antonietta, Cecilia e Alfonso, più altri 3 (Elena, Gerardo e Mario) che sarebbero nati negli anni seguenti, ai quali si aggiungono 4 bambini persi appena nati.
Dal 1958 in poi la festa iniziò a diffondersi in tutta Italia; nei primi anni, essa fu celebrata l’8 di maggio, poi si passò alla seconda domenica di maggio, come avviene oggi. Per tradizione, in tale occasione, i bambini regalano alle mamme disegni e lavori che essi stessi realizzano a scuola, oltre ad imparare delle poesie dedicate alla mamma.
Cartolina emessa dalla Ferrovia del Nord Pacifico per la festa della mamma del 1915. In onore della migliore madre che abbia mai vissuto, tua madre (Northern Pacific Railway, 1915)
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Deducibilità massima con il credito d’imposta
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Fai una campagna promozionale stellare con noi e noi ti regaliamo un’auto di pari valore al contratto pubblicitario. In questo modo l’auto è totalmente deducibile e detraibile al 100% e, con il credito d’imposta, deduci dal 150% al 175%! Già tanti imprenditori, dal 2004 ad oggi, hanno scoperto i veri benefici della nostra Formula, ma gli spazi disponibili sono sempre meno e questa opportunità è riservata solo a 210 Partite IVA.
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Hai una partita IVA? Ti sei mai posto queste due domande? Da imprenditore immagino di sì!
Sai quanto ti costerebbe oggi una campagna promozionale che ti porti centinaia di nuovi clienti e che ti aiuti a fidelizzare quelli già acquisiti, o la creazione di un Brand o un Logo di successo? Sai quanto ti costerebbe oggi l’acquisto, il noleggio o il leasing di un’auto aziendale nuova al netto dei risparmi fiscali? Se ti dicessimo che con la nostra Formula, per entrambi i servizi e per la consulenza per aumentare le possibilità di risparmio, mal che vada risparmi il 96% del costo auto, tu onestamente cosa ci risponderesti? Siamo così sicuri dei risultati che ti porteremo che siamo disposti a regalarti un’auto di pari valore al nostro contratto.
Ti spieghiamo come funziona la Formula. Formula 200xCento.com è un contratto di servizi promozionali che ti dà in cambio l’Auto Aziendale Gratis. Investi in un contratto pubblicitario deducibile fino al 175% e noi ti regaliamo un’auto di pari valore. Nella percentuale risparmiata sono comprese anche le nostre commissioni. Fai due domande precise al tuo consulente fiscale! Chiedi al tuo commercialista quanto ti costa un’auto aziendale al netto dei risparmi fiscali. Chiedigli anche quanto ti costa una campagna promozionale di pari valore al netto dei risparmi fiscali, magari con credito d’imposta annesso. Ecco assolta la Formula vincente:
+ fatturato e – costi (fiscali) = auto gratis subito! Due prodotti al costo di…? ZERO!
Ma non finisce qui. Vogliamo sottolineare che ci sono altri due vantaggi economici di cui potresti usufruire: in molte altre situazioni si tratta delle soluzioni del consulente fiscale o dell’escapologo di turno, e invece con la nostra Formula sono… in più!
Formula 200xCento = + Fatturato – Costi = Auto gratis Subito Ma… attenzione! I posti sono veramente limitati. Possiamo accettare solo 210 adesioni l’anno.
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Senza meta, libere riflessioni Una parola sola fa sì Che ogni giorno sorga il sole a rinnovare il miracolo della vita; Che i pianeti, percorrendo indefinitamente le loro orbite, ruotino intorno alle proprie stelle che ad esse li attirano amorosamente, come festosi bambini che accorrenti alla mamma, l’abbraccino con tutte le loro forze, abbandonati totalmente al suo tenero e rassicurante affetto. Una parola sola fa sì Che il cuore di un uomo e una donna si fondano e diventino uno, nell’amore che li unisce; Che il minuscolo seme germogli, resistendo al freddo e al caldo delle crudeli intemperie, e diventi un albero maestoso, adorno di rami e foglie; Che i fiori abbiano la forza di nascere in condizioni proibitive
colorando con romantiche tinte, luoghi impervi e ambienti inospitali; Che l’uomo faccia uso della sua più degna intelligenza e delle utili doti, per natura fornite a lui soltanto. Ciò che rende possibile tutto questo, È simile ad una farfalla, che sospesa in volo, Aleggia senza turbare l’aria ad essa circostante, In immoto silente movimento, come in assente gravità, in un cronologico imperituro attimo. Essa non si tocca, né si vede e sente, È quello spirito che ammanta, permea e riempie ogni cosa dell’Universo, Non ve ne sono altre per definirla, Sentimento è la sua unica parola.. FABIO BERGAMO
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ASSISTENZA E CONSULENZA PER LE ARTI GRAFICHE Nuova Tesea opera da anni nel settore delle Arti Grafiche, avvalendosi dell’esperienza dei tecnici che la compongono, con un know-how costruito attraverso le numerose installazioni e gli interventi su periferiche e software dedicati al colore, vero punto di forza della società, forniamo assistenza a 360 gradi a tutte quelle aziende al cui interno vengono realizzati prodotti con l’utilizzo di hardware e software dedicati.
MARCHI DISTRIBUITI:
SERVIZI: - Software per la gestione del colore- Profilatura stampanti e macchine da stampa. - Conversione in automatico dei file Color Server. - Profilatura monitor. - Creazione di hotfolder per processi automatizzati. - Installazione di Server.
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