Mete n. 7

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NR 7 | NOVEMBRE 21

Nobiltà in fiore sul Lago Maggiore

O B I E T T I V I S U C C E S S I DESTINAZIONI

Il ritorno dell’inflazione, come proteggersi


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campo base Amicizia. Per il vocabolario online del Corriere della Sera il termine “amicizia” definisce un “Sentimento di affetto, di simpatia, di solidarietà, di stima tra due o più persone, che si traduce in rapporti di dimestichezza e familiarità”, ma anche, per estensione, al plurale, le “amicizie” identificano più in generale persone con cui si è in buoni rapporti, anche interessatamente (l’espressione “contare su amicizie importanti” lo testimonia). In una relazione interpersonale come è l’amicizia la fedeltà reciproca è elemento fondante. La carica emotiva, la gratificazione nello stare insieme, il fatto di essere in un rapporto di assoluta parità reciproca sono caratteristiche proprie dell’amicizia. Tuttavia, non esiste un modo univoco di intendere questo sentimento. Le sfumature sono molteplici. Esistono amicizie convenzionali, amicizie parziali. Addirittura oggi abbiamo le cosiddette amicizie virtuali (social): in questa espressione, sostantivo ed aggettivo, per definizione, parrebbero auto elidersi. Capita di trattare in modo amichevole e confidenziale persone che in realtà risultano esserci assolutamente indifferenti: queste amicizie convenzionali si basano a volte sul interessi pratici e, di fatto, sulla superficialità. Spesso si creano malintesi trattando alcune persone, alla cui amicizia non teniamo, come amici in alcune occasioni, per poi ignorarle in successive occasioni. Le amicizie “minori”, o rapporti amichevoli, nascono per bisogni e situazioni pratici spesso condivisi: vicinato, necessità di fare squadra, una classe scolastica, un viaggio. Gli amici parziali sono coloro con cui si ha in comune un’esperienza, una passione, una pratica sportiva, un interesse, il lavoro; questo tipo di amicizia è gratificante ancorché circoscritta ad un ambito soltanto; rende

migliore le nostre rispettive vite, le arricchisce, ma raramente varca i confini degli ambiti in cui è nata. Può raramente accadere che si estenda ad altri aspetti della nostra ed altrui esistenza, diventando così un’amicizia totale, un’amicizia vera. La vera amicizia entra nella nostra sfera privata e ci fa stare bene. L’amicizia totale ci rende parte dell’altro, ci porta a condividerne le emozioni in totale sintonia: questo perché non esiste antagonismo, né competizione, perché tra amici ci si sceglie, cosa che non avviene con fratelli, figli o parenti. L’errore che a volte commettiamo, forse in una ricerca di amore, è di cercare di trasformare un’amicizia parziale in un’amicizia totale, anziché vivere il gusto della condivisione, anche se limitata ad un determinato ambito. Senza dubbio l’amicizia porta a fare sperimentare al bambino la prima relazione fuori dal contesto familiare, una relazione in cui sentirsi sicuro anche senza la presenza di adulti o familiari; un banco di prova del proprio carattere nello scambio con gli altri. Nell’adolescenza le amicizie “del cuore”, molto esclusive, totalizzanti e gelose hanno la funzione di rafforzare l’immagine di sé attraverso lo specchio dell’altro; il fatto che gli amici appartengano allo stesso sesso o al sesso opposto non ha rilevanza, specie in questo tempo in cui ragazzi e ragazze si frequentano liberamente e fanno esperienza di vita senza separazione. Resta poi la vecchia domanda, ovvero se possa esistere amicizia tra persone di sesso diverso: se tra bambini piccoli la questione non si pone, crescendo generalmente si scelgono amici dello stesso sesso, cosa che comunque non preclude la possibilità che possa instaurarsi una amicizia autentica anche tra un maschio e una femmina. E che dire delle amicizie ritrovate magari dopo


tanti anni (quelle tra compagni di scuola ad esempio) in cui con stupore non ci si riconosce più, poiché il tempo ha affievolito quel feeling, o ci ha cambiati. Nascono per contro amicizie autentiche anche tra persone di età molto diverse: a testimonianza che si tratta di un amore assolutamente privilegiato, non inquadrabile in alcuna categoria, nonostante sull’argomento tanto sia stato scritto o trattato, da sempre, da illustri filosofi ed artisti. Un amico sa tirare fuori il meglio di te ed apprezzarlo; non ti teme. Deve, nel caso, manifestarti il suo dissenso, liberamente, farti scorgere i tuoi errori. Si può anche litigare, tra amici. Ma sai che è sempre emotivamente dalla tua parte. E’ importante ascoltare, e sapere ascoltare; magari anche a distanza, al telefono, se e quando non sia possibile un incontro; il tempo preso tra tanti impegni e dedicato ad un amico è prezioso, e si rivela sempre un toccasana per la nostra salute psicofisica. Cosa c’è di più prezioso del nostro tempo infatti? Una frase che comunemente si pronuncia è quella che recita “il vero amico è colui che c’è nel momento del bisogno”: chiaramente, non può essere considerato amico chi scompare quando si è in difficoltà. Quando vengono quei momenti che non sai quando finiranno, sono parte integrante dell’avventura, hai il pensiero fermo, avvizzito, secco come una bacca di ginepro dell’anno prima, e provi a fare gli esercizi per rinfocolare l’autostima, e il predatore della psiche ti invita a sfogliare il tuo album fotografico che ha avuto cura, prima, di manomettere, facendo sparire le foto più luminose... Pensi di essere arrivato al limite delle tue forze psicologiche e provi a sprofondare mentalmente per cercare un rifugio. Da quaggiù, tutto appare

accessorio e non sostanziale; quaggiù, tutto si azzera e ritorna alle radici. Si comprende che cosa veramente conta ed è importante e viene voglia di abbandonare tutto quel che tarpa le ali, inutile zavorra. Non ci sono nemici quaggiù nel cuore del globo. Ci si sente fatti di materia, da cui il pensiero si scioglierà. Ma l’amico presente in un silenzio pesantissimo ti fa arrivare il rumore dei suoi passi e capisci che ne avevi bisogno; senza parlare ti trae dal vuoto e si incammina con te verso l’uscita; conoscendoti, ha anticipato il tuo bisogno, non avevi la forza per chiamarlo, e lui lo sapeva. Eppure l’amicizia vera la si testa anche sulla gioia. Anzi, forse ancora più delle difficoltà la gioia condivisa sa saldare il legame. È spesso più facile aiutare qualcuno che gioire con lui. Aiutando ci si sente gratificati, si mette a tacere il bisogno di sentirsi utili. Gioire della felicità altrui invece presuppone l’assenza totale di invidia e di competizione; la gioia compartecipe, che è diversa dall’allegrezza, apre il nostro spirito ad una nuova possibilità, alla forza della felicità che libera. L’amicizia, l’empatia, la complicità che si instaura e nasce a volte spontanea e pura tra persone che si incontrano per la prima volta, sono tutte espressioni di quel sentimento universale che è parte di noi, anche se non sempre ne siamo consapevoli. Sciogliamoci in parole, gesti e pensieri, se anche evitiamo ancora di abbracciarci. SILVIA GIRONI


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SOMMARIO Numero Sette

01 Cosa mangiano i lupi? SULLE TRACCE

pagina 8

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04

05

Vagabondando in Serbia

Scorciatoie

Il diverso

Nobiltà in fiore sul Lago Maggiore

RITORNI

SOSTA

CON ALTRE SCARPE

SCORCI

pagina 12

pagina 15

pagina 18

pagina 20

COLOPHON DIRETTRICE RESPONSABILE

Silvia Gironi CONDIRETTORE

Giuliano Latuga COORDINAMENTO EDITORIALE E GRAFICA

Enrico Cigolla

PROMOZIONE E PUBBLICITÀ: tel. 0516014990 Emiliano Ardigò LUOGO DI PUBBLICAZIONE: Bologna Fabio Bergamo ANNO: 2020 Vinicio Paselli PROPRIETARIO: A.R.E. s.r.l. Corrado Poli DIRETTRICE RESPONSABILE: Silvia Gironi Francesca Vinai CONDIRETTORE: Giuliano Latuga Marta Gandolfi Gabriele Gironi METE MAGAZINEEDITORE: A.R.E. s.r.l, Via E. Mattei, 48/D, 40138 Bologna STAMPATO DA: MGP s.r.l., Antonio Iannibelli -6Autorizzazione Tribunale di Bologna n. 8523 del 06.08.2019 Martina Verrilli Fabio Tolomelli HANNO COLLABORATO:


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Il ponte coperto di Pavia

Il rafforzamento del dollaro

PROGETTI VISIONARI

IL TALENTO E I FRUTTI

pagina 24

pagina 46

09

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Ghiacciai

Antermoia, meta stupenda

Mindfulness

Il ritorno dell’inflazione: come proteggersi

OBIETTIVI AMBIENTALI

PASSI

VIAGGIO IN SÉ STESSI

IL TALENTO E I FRUTTI

pagina 30

pagina 36

pagina 40

pagina 44

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08

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sulle tracce

antonio iannibelli

ph: antonio iannibelli

Cosa mangiano i lupi? METE MAGAZINE

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Ho sentito troppe volte parlare del lupo come di un predatore infallibile, famelico, sanguinario. Un predatore che ammazza solo per gioco o per succhiare il sangue. Quello che invece posso dire con convinzione è che si tratta di un carnivoro che si nutre in gran parte di animali già morti che trova nel suo territorio e senza questi

La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui vengono trattati i suoi animali. Mahatma Gandhi METE MAGAZINE

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L’uomo, che è il suo nemico da sempre, involontariamente è anche un buon alleato; con le sue frenetiche attività “produce” facile cibo per la maggior parte dei lupi che vivono nel nostro Paese. La caccia, per esempio, lascia talvolta sul campo degli animali feriti, ma ancor più fanno le auto per le strade, le quali sono trappole mortali per tanti animali che si trasformano fatalmente in cibo supplementare per i branchi. Inoltre i selvatici muoiono per vecchiaia, per fame, per il freddo e per molte malattie. Girando per i boschi mi sono imbattuto spesso in animali morti, feriti o ammalati; per i lupi cibarsene è un’opportunità irrinunciabile. Si tratta quindi più di uno “spazzino” che di un super predatore. Gli ungulati, che sono le sue prede per eccellenza, hanno sviluppato difese che consentono loro di sfuggire facilmente. In diverse occasioni ho documentato che gli ungulati selvatici, hanno un fiuto superiore, intercettano i lupi da lontano e mantengono le dovute distanze. Mi è capitato inoltre di vedere lupi scacciati in malomodo da cervi e da cinghiali. Al lupo va comunque riconosciuto il ruolo di vero selezionatore in quanto tra gli ungulati rintraccia gli immaturi che vengono abbandonati o quelli non protetti, controllando di fatto che non aumentino a dismisura. Elimina

gli esemplari non più utili, come gli ammalati e i feriti e produce in definitiva un benefico effetto per la sopravvivenza di quella specie. Inoltre con la sua presenza costringe gli erbivori a spostarsi in continuazione contribuendo a diminuire gli effetti del sovra pascolamento e a proteggere la biodiversità. Vi riporto di seguito un’osservazione fatta in un territorio dove sono presenti molti cinghiali e dove viene praticata la caccia per il suo contenimento. Era l’ultimo giorno di febbraio di molti anni fa. La neve era presente al suolo solo nelle zone in ombra e faceva molto freddo, anche a causa del forte vento che soffiava con insistenza da nord. Una giornata che non prometteva niente di buono, vista la persistenza del vento, e riflettei che anche per gli animali non era conveniente uscire dai loro ripari. Ma quando nel binocolo inquadrai un cinghiale e udito le sue inconfondibili grida, iniziai a ricredermi. Mi cercai un riparo dal vento e continuai a tener d’occhio il cinghiale che compiva strani salti e solo di tanto in tanto riuscivo a intravederlo. Essendo molto lontano cercai in fretta di avvicinarmi su un calanco più vicino, dal quale scoprii che in realtà il cinghiale era braccato da due lupi e i suoi versi si facevano sempre più tormentati. I lupi risultavano meno METE MAGAZINE

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visibili del cinghiale poiché mimetizzati nel sottobosco invernale, e dal mio punto di osservazione non capivo bene cosa stesse accadendo. Riuscii ad avvicinarmi ancora, e vidi per la prima volta nella mia vita un branco di lupi che cercava di catturare un cinghiale. Con il binocolo scorsi soltanto quel grosso ungulato che sobbalzava disperatamente e non capivo come mai non si decidesse a fuggire. Il mantello nero della preda spiccava tra i colori fulvi della vegetazione e il grigio dei calanchi. Ma quando finalmente vidi bene la scena, mi accorsi che lo sfortunato suino era accerchiato da quattro o cinque lupi e appena tentava di liberarsi veniva aggredito da uno di essi. I suoi salti erano in realtà provocati dai morsi dei carnivori che lo sollevavano dal suolo con una facilità incredibile, costringendolo a rientrare nel fitto dei rovi, dove invano aveva cercato riparo. Questo gioco fatale durò alcuni minuti, nei quali sentii echeggiare nella valle solo le grida di morte del cinghiale, urla che si interruppero di colpo quando le mascelle del maschio dominante gli serrarono la gola. Non riuscii a vedere tutto, a causa della vegetazione, ma quel giorno ho potuto apprezzare la rigida gerarchia che regola alla perfezione l’intera famiglia. In questi casi infatti si comprende l’importanza del branco e del compito assegnato a ogni individuo. Avevano accerchiato il cinghiale con cura, costringendolo in una posizione a loro favorevole. L’animale poteva difendersi solo con il muso ma quando si girava per scacciarne alcuni, gli altri lo addentavano da dietro; non avendo via di uscita si dimenava come impazzito a destra e a sinistra. Una trappola mortale che in breve tempo fiaccò il cinghiale fino a farlo rovinare su un lato. Le potenti mascelle dei predatori lo ridussero letteralmente in pezzi. I dominanti mangiarono a caldo le interiora svuotando completamente la carcassa, poi il maschio, il dominante del branco, si allontanò di poco e si accucciò tra le foglie secche di una quercia. Intanto la femmina non mollò la carcassa fin quando non la divise in più parti. Questa scena mi colpì per la facilità con la quale la lupa riuscì a sezionare la carogna, come per ripartirla in parti uguali. Le cosce, le spalle e la gabbia toracica vennero


separati dalla colonna vertebrale con le zanne. Intanto tutt’intorno gli altri componenti del branco attendevano con pazienza il loro turno per nutrirsi. Appena il lupo dominante si disinteressò del cibo, i subadulti del branco si avventarono sui resti del cinghiale e in poco tempo ne scomparve ogni traccia. Anche in questo caso però non conoscevo quali fossero le condizioni iniziali del cinghiale, è probabile che fosse ferito o debilitato come mi è capitato tante volte di vedere. I resti di cibo sono utili per indagare sulla dieta dei lupi ma non possiamo certo sapere chi ha ucciso o ferito quell’animale. Anche analizzando gli escrementi si può studiare la dieta del lupo ma non possiamo mai sapere la causa di morte della preda. Ho visto anche istrici finire in pasto ai lupi. Normalmente questo grosso roditore riesce a tenere alla larga i predatori grazie ai suoi aculei, ma se muore per altri motivi o è in difficoltà i predatori non esitano a nutrirsene. In alcuni casi dove la presenza di istrici e molto alta e gli ungulati selvatici scarseggiano i lupi hanno sviluppato la capacità di catturarli e cibarsene come fonte primaria. Questo conferma le sue qualità di selezionatore naturale agendo principalmente sulle specie più diffuse in quel determinato ambiente. A proposito delle predazioni di animali domestici, mi sono chiesto come mai i lupi, pur avendo tanti selvatici a disposizione, rischiano la propria vita per attaccarli, e sono giunto a queste due conclusioni: per la fame dei giovani erranti e per l’istinto predatorio degli adulti in branco. In fase di dispersione, per esempio, quando i giovani lupi vengono scacciati dal branco e trovandosi spesso senza cibo, rischiano più del solito. Si avvicinano alle attività umane attratti dagli odori del cibo, scarti di macellazione non smaltiti correttamente o avanzi di cibo per cani e gatti, in questo modo se trovano animali incustoditi o alla catena possono tentare di catturarli mettendo così a rischio la propria vita. Questi esemplari solitari comunque non possono fare gravi danni e in molti casi muoiono semplicemente di fame o finiscono

vittime del bracconaggio e delle attività antropiche. I componenti di un branco, invece, seguendo il loro istinto predatorio considerano gli animali domestici come fossero dei selvatici, con la differenza che gli animali allevati dall’uomo non sono più in grado di difendersi. Se i lupi attorniano dei caprioli o dei mufloni, per esempio, questi in poco tempo si allontanano senza pericolo; le pecore o le capre, al contrario, non essendo abituate a correre e a difendersi si spaventano a morte e si feriscono a volte anche da sole, calpestandosi a vicenda o urtando contro le stesse recinzioni che avrebbero dovuto proteggerle. E anche probabile che gli animali domestici non custoditi a volte si prestano a essere utilizzati dai lupi come oggetti di apprendimento a beneficio dei cuccioli, che imparano grazie a essi a catturare le prede. Mi viene da supporre che il lupo, di fronte ai domestici, pensa a individui non più utili per garantire l’evoluzione della specie, mette quindi in atto il suo ruolo di selezionatore naturale

azzannando nello stesso momento anche più animali di quanti ne possa effettivamente mangiare. Difficile da spiegare all’allevatore che subisce delle perdite. Ma conoscere il vero lupo selvatico gli darebbe l’opportunità di difendere meglio i suoi animali e avrebbe qualche motivo per cercare una convivenza più ragionata. In ogni caso le aziende agricole che si trovano nel territorio dei lupi mettendo in atto le dovute protezioni, anche grazie al supporto degli enti preposti, possono beneficiare di prodotti qualitativamente migliori in quanto derivanti da un territorio incontaminato. Per rendere l’ambiente più sano e favorire l’esistenza del maggior numero possibile di specie, il lupo, insieme agli altri super predatori come l’aquila e l’orso, è assolutamente necessario. In definitiva possiamo affermare che il lupo, Canis lupus italicus, favorisce la biodiversità, perciò la vita e non la morte come erroneamente molti pensano.

Lupetto con testa di istrice in bocca METE MAGAZINE

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… poi ti succede per caso che ti invitano a cena in una piccola città della Vojvodina di cui non sapevi nemmeno il nome nonostante ti vanti di essere un geografo… Intanto rimani colpito dal ristorante sulla bella spiaggia del fiume Sava per attraversare il quale è stato costruito il ponte ciclo-pedonale più lungo del mondo (così mi riportano, ma anche se ce ne fossero altri, questo è davvero grande e sorprendentemente senz’auto).

Vagabondando in Serbia RITORNI corrado poli ph: freepik

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La città è Sermska Mitrovica che oggi ha meno di ventimila abitanti (ma la regione di cui è capoluogo amministrativo arriva a 70.000). Al tempo degli antichi romani si chiamava Sirmium ed era una delle quattro capitali del tardo impero diviso tra i quattro Tetrarchi. Vi sono nati dieci imperatori, tra cui Traiano! Marco Aurelio non ci è nato, ma ci ha passato vari anni. La città era antichissima, forse una delle prime città in Europa. Sono stati trovati reperti che risalgono a una vita urbana già nel 5000 avanti Cristo. Il nome ricorda – secondo il Mazza – la nostra Sirmione: potrebbe essere di origine greca e significherebbe “coda” o “strascico”, toponimi legati alla penisola, all’acqua e al fiume. Il lungo periodo di appartenenza all’Impero Romano ha lasciato tracce rilevanti: dai mosaici recentemente restaurati, all’acquedotto e a numerose opere scultoree alcune delle quali di marmo portato da Carrara. Impressiona la bellezza dei reperti, la qualità dei materiali usati e la loro provenienza da tutto il Mediterraneo, quali alcune

colonne egizie. Tutto questo in una regione la cui profonda bellezza naturale non è appariscente, ma reale e preziosa. Una grande pianura con un largo e placido fiume che la percorre lento in mezzo a campi di grano e boschi opportunamente conservati per evitare inondazioni. La fertilità della terra, ben conosciuta e bonificata dai romani ha reso questa città e la regione contesa da diversi imperi così che la popolazione è sempre stata multietnica e multireligiosa. Talora vivendo in pace e armonia, altre volte i poteri esterni hanno usato le diversità per suscitare guerre e massacri intestini. Oggi la popolazione è prevalentemente serba, ma la gran parte dei cittadini non riconoscono vere diversità tra serbi e croati. Vi abitano anche molti ungheresi e in passato c’era una grande minoranza di tedeschi e di ebrei. Gli ebrei, i Rom e i Serbi furono sterminati dai tedeschi in un grande campo di concentramento sito nei pressi della città. I tedeschi se ne andarono dopo la guerra. Prima esistevano numerose moschee, eliminate assieme ai METE MAGAZINE

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turchi con il ritiro dell’Impero Ottomano. Rimangono diverse confessioni cristiane, cattoliche, greche ortodosse e serbo ortodosse che tuttora rendono giustizia a una città – come molte altre nei Balcani – che dalla diversità ha tratto nei secoli la propria ricchezza. L’altra grande bellezza di questa città, come di tutte le città piccole e medie del mondo, sta nel suo provincialismo, anzi nella sua “provincialità”. Si cammina per la strada e si incontrano persone conosciute… non tutti al punto di violare la tua privacy; giusto quelle poche che ti consentono di non sentirti solo come nelle grandi metropoli dove ti sorprendi se incontri qualcuno che conosci. Ecco il mio rapporto da una cittadina sperduta nei Balcani, una delle tante presenti in tutta Europa il cui modello di vita, di relazioni e la cui storia costituiscono un patrimonio che purtroppo stiamo disperdendo concentrandoci in metropoli sempre più grandi, sempre più anonime.


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scorciatoie

Accorciare in senso pratico la strada, il percorso, risulta effettivamente conveniente solo in alcune circostanze: per chi è abituato a camminare, tagliare qualche “tornante” può risultare comodo ma sempre a seconda della reale aspettativa soggettiva. Il risparmio di tempo e chilometraggio, in una visione semi-agonistica, può essere comprensibile, quello di energia fisica molto meno. Forse è preferibile percorrere qualche centinaio di metri in più, ma con salita lieve e costante rispetto ad uno strappo più breve ma molto più impegnativo. La conferma che “il taglio” non sempre porta ad un effettivo vantaggio: quante volte, durante il tragitto, capita di reincontrare le stesse persone che precedentemente avevano deviato, magari inerpicandosi invano su scarpate dissestate? Senza considerare che non si dovrebbe uscire mai dai sentieri segnalati, sia per ragioni di sicurezza che per rispetto dell’ambiente. L’immagine della scorciatoia, sempre in senso pratico, può essere facilmente riportata alla vita quotidiana, a volte frenetica, in cui ogni piccolo risparmio di tempo può risultare “fondamentale”; ad esempio, escludendo motivi di reale urgenza,

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per andare in palestra, accompagnare i figli ai vari corsi sportivi, mantenere una costante ed ininterrotta attività sui social, fare shopping...insomma per tante “necessità” che fino a non molto tempo fa non erano così tanto contemplate. Ma la scorciatoia, intesa non in senso “fisico” è sempre esistita; genialmente ed ironicamente rappresentata dalla commedia italiana degli anni ‘60. Metafora di facilitazione nel raggiungimento di uno scopo, di un salto di livello lavorativo o politico oppure per ottenere un permesso, una concessione, una licenza bloccata dalla burocrazia, una riduzione dei tempi di attesa per una visita medica... Rappresentazione non certo etica di un certo costume e di un certo senso civico, solo a volte “giustificata” da effettivi intoppi difficilmente comprensibili. In ogni caso le scorciatoie risultano spesso fittizie: non usufruendone forse non si raggiunge sempre la meta agognata, oppure la si raggiunge con tempi e modi più dilatati, ma con indubbia maggior soddisfazione personale. Chi ne fa una propria abitudine di vita si autorappresenta spudoratamente in ogni circostanza, anche la più semplice, abituato appunto a questo “diritto di precedenza acquisito”. Tornando alla scorciatoia “pratica”, nel migliore dei casi “innocenti” (calpestio di un’aiuola o di un prato per percorrere un metro lineare in meno), quando il risparmio cronometrato consiste in un paio secondi, il danno non è solamente estetico ma è anche rappresentato dalla nuova e furba pista tracciata, in un certo senso “autorizzata”, poichè già praticata, e che verrà seguita dal passaggio quotidiano di molti adepti. La scelta invece di imbrattare le scarpe nel fango invece di seguire il tracciato originale pavimentato, ma di qualche metro più lungo, meriterebbe un’analisi psicologica, ma questa è un’altra storia.

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il DIVERSO

La diversità può essere naturale o per scelta. Quella naturale è legata al colore della pelle, a una cultura, a una tradizione, all’identità sessuale o ai tratti somatici. con altre scarpe

fabio tolomelli

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Gestire le difficoltà richiede impegno, ma è proprio dal confronto che possono nascere nuove scoperte, che sono l’essenza della vita.

Pubblicato per la prima volta su “Il Faro”, settembre 2021

La diversità per scelta è legata al modo di vestire, al taglio di capelli o ai tatuaggi disegnati sul corpo, ma anche al modo di vivere, o al comportamento fuori dalla cosiddetta ‘norma’, scelta che può essere legata anche a forme di contestazione. ‘Diverso’ è, per definizione, ‘non uguale, né simile’. Così recita il vocabolario Treccani. Sembra una parola come un’altra, ma ha un lato chiaro e uno scuro… L’idea della diversità infatti può evocare belle sensazioni, come la varietà dei colori, sapori, suoni, odori in cui ci troviamo immersi e la molteplicità delle personalità con cui veniamo a contatto, insomma l’incredibile gamma di possibilità di conoscere e scoprire che la realtà ci offre. Purtroppo però non tutti apprezzano questa ricchezza: ci sono soggetti (secondo me non meritano di essere definite ‘persone’) che vivono la diversità come discriminazione e arrivano a sentimenti di disprezzo e di odio che si traduce in comportamenti di bullismo, aggressività, esclusione sociale, fino alla massima espressione che dà origine al genocidio e a fenomeni storici come la Shoah. Tuttavia tra i due estremi l’amore per il diverso e il profondo odio per il diverso - ci stanno molte sfaccettature. In effetti quando ci troviamo di fronte a una novità, che comunque richiede un adattamento e quindi un cambiamento, si crea una percezione di sospetto e diffidenza. Pensiamo ad esempio quando conosciamo una persona nuova: possiamo entrare subito in sintonia senza capire il perché, oppure trovare delle difficoltà. Magari in seguito potremmo scoprire che c’è maggiore simpatia proprio per chi all’inizio non ci piaceva, ma occorre essere disposti a superare la prima impressione. Infatti il diverso ci mette paura, mentre la normalità ci dà un certo senso di essere liberi comodità, protezione e tranquillità. Gestire le difficoltà richiede impegno, ma è proprio dal confronto che possono nascere nuove scoperte, che sono l’essenza della vita. Cosa sarebbe infatti la vita, se fosse un continuo ripetersi di cose note e rituali? Spesso, per fortuna, ciò che ci attrae degli altri è proprio ciò che li rende diversi da noi e che ci offre l’occasione per metterci in discussione, crescere e migliorarci. Per questo è giusto affermare che siamo tutti diversi; ma che dobbiamo avere gli stessi diritti e doveri.

Quando perdiamo il diritto

di essere diversi, perdiamo il privilegio di

Charles Evans Hughes

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Amore e ‘l cor gentil sono una cosa. Dante Alighieri

scorci francesca vinai ph: takeanyway

Nobiltà in fiore sul Lago Maggiore: le isole Borromee METE MAGAZINE

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05 Incuneato fra Piemonte, Lombardia e Canton Ticino, il lago Maggiore è un concentrato unico di arte e ricercatezza. Gorgheggia storie di nobiltà sulle

Il nostro viaggio inizia sull’isola Bella, interamente occupata dal palazzo seicentesco dei Borromeo e dai relativi giardini. Borromee in onore della Il palazzo è un’espressione pura di barocco fra ricchi scaloni, stucchi, decori e grandi opere. È un susseguirsi di potente famiglia che le cupe salette interne e di saloni ariosi affacciati sul lago. agghindò nel corso dei secoli. Nelle prime, massicce cornici dorate affollano pareti bordeaux e tabacco. Nei secondi, lampadari in vetro di Murano o cristallo di Boemia scendono in picchiata da volte altissime e lunghe finestre si rincorrono fra pareti tinte di pastello. Al piano terra, passando per le stanze decorate a mo’ di grotta e l’atrio di Diana, si raggiunge il verde esuberante dei giardini isolani. Ad accogliere i visitatori è un’attenta scenografia di giochi d’acqua, ordinate terrazze e scalinate in pietra locale a picco sul lago. Simmetrie di statue, colori e profumi fra aiuole e stagni. Curatissimi labirinti di siepi smeraldo, piante esotiche e nostrane, qua e là candidi pavoni. Altra opera dei Borromeo, più antica e sobria, è la villa cinquecentesca che sorge sulla vicina isola Madre. Una vera oasi di pace. Scalinate in pietra fanno breccia nella penombra della vegetazione lungolago, incuneandosi ripide verso la villa. I colori delicati, i caldi pavimenti scricchiolanti e i rassicuranti soffitti a cassettoni, entrambi in legno, ricordano la tenuta di campagna di un qualche Signor Rochester (vi ricordate Jane Eyre?) con in più il divertimento dei teatrini delle marionette. È soprattutto lo scalone all’ingresso – semplice rigore di fredda pietra, linee essenziali, chiarore diffuso, rabbuiato ogni due passi da grandi ritratti alle pareti d’inquietante respiro – a rievocare le mura di Thornfield Hall, algida e confortevole, misteriosa e accomodante. Meraviglioso il parco botanico ottocentesco che cinta la villa, fra dolci riflessi lacustri di carta da zucchero. Atmosfera ben diversa si respira sull’isola Superiore, conosciuta come isola dei Pescatori, l’unica stabilmente abitata dell’arcipelago Borromeo. Disordinata, frenetica e viva, è percorribile a piedi in una manciata di minuti. È così piccola che in alcuni degli stretti vicoli, fra panni stesi e vecchie barche riconvertite a fioriere, basta volgere lo sguardo da un lato all’altro per ritrovare, vicinissime, le acque del lago. E gli splendori dei Borromeo.

sponde delle sue isole, dette

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progetti visionari

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Il Ponte Coperto di Pavia Fedele riproduzione di quello di epoca medievale METE MAGAZINE

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Il Ponte Coperto, simbolo di Pavia, noto anche come Ponte Vecchio, si eleva sopra il fiume Ticino e collega il centro storico della città sito sulla riva sinistra, noto anche come Borgo Basso, ed il quartiere denominato Borgo Ticino o Lungo Ticino, collocato invece sulla riva opposta e che storicamente era fuori delle mura cittadine.

il nobile galeazzo ii visconti signore di pavia, alessandria, asti, alba, vercelli, como, tortona, vovara.

Il ponte, lungo circa 200 metri, si presenta oggi, con cinque arcate ed ha tre caratteristiche principali che lo rendono unico da un punto di vista architettonico: è totalmente coperto; su uno dei due piloni centrali di sostegno si erge una cappella dedicata a San Giovanni Nepomuceno, protettore dei nuotatori; ed alle sue estremità presenta due portali di ingresso al piano destinato al transito dei pedoni e dei veicoli. la foto mostra i resti del ponte realizzato nel XIV La costruzione del ponte risale all’epoca romana, secolo. posteriormente alla antica struttura è sotto l’impero di Ottaviano Augusto (63 A.C. – 14 visibile una delle arcate del ponte attualmente in uso D.C.). Infatti, in quel tempo, era già presente tale infrastruttura utile a collegare le due sponde del fiume: ancora oggi sono visibili i resti degli antichi piloni, in prossimità di quelli odierni, quando, nei periodi più caldi dell’anno, il livello del Ticino è molto basso. Nel XIV secolo, precisamente nel 1351, quando il ponte di costruzione romana è abbandonato a se stesso e ridotto a rudere già da diversi secoli, vengono avviati i lavori di costruzione del nuovo ponte che viene ultimato nel 1354. Il ponte ultimato appunto nel 1354 fu progettato dagli architetti Giovanni da Ferrera e Jacopo da Cozzo. Esso si presentava con 7 arcate e due torri alle estremità, realizzate per scopi difensivi ed era collocato 30 metri più a valle del ponte di epoca romana. Fu Galeazzo II dei Visconti (1320 – 1378) a volere che il ponte fosse coperto: la copertura a forma di tetto era sorretta da 100 pilastri in granito; la cappella centrale dedicata a San Giovanni Nepomuceno fu aggiunta molto più tardi, nel 1746. Esso fu utilizzato fino alla metà del XX secolo, allorquando fu gravemente danneggiato e reso inutilizzabile dai bombardamenti delle forze alleate, avvenuti a Pavia nel 1944, contro gli invasori tedeschi, nel secondo conflitto mondiale: gli ordigni sganciati dagli aerei causarono il crollo di una delle arcate. Finita la guerra, considerata la forte corrente del fiume ed il timore di una possibile inondazione dovuta al crollo della struttura ormai indebolita si optò non per il suo rifacimento ma per la sua totale demolizione, che avvenne nel 1948 con l’uso della dinamite: i lavori di costruzione del nuovo ponte ebbero inizio nel 1949 e terminarono nel 1951 con la sua inaugurazione. METE MAGAZINE

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La Cappella religiosa al centro del Ponte Coperto Il Ponte Coperto di Pavia incorpora una cappella religiosa dedicata a San Giovanni Nepomuceno, martire per annegamento nel fiume Moldavia nel 1393, per ordine di Venceslao, re della Boemia, ricordato con l’appellativo del “Re Fannullone” per la sua inclinazione all’ozio ed ai vizi. In essa è presente una nicchia nella quale trova posto la statua del Santo, protettore dei nuotatori e di coloro che sono in pericolo di annegare; protegge le popolazioni dalle alluvioni e le esondazioni dei fiumi e del mare.

la statua di san giovanni nepomuceno, protettore dei nuotatori e di coloro che rischiano l’annegamento METE MAGAZINE

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vista dall’alto del ponte coperto di pavia

La targa dedicata allo scienziato Albert Einstein (1879 – 1955)

albert einstein all’età di 15 anni e la targa in suo a ricordo

Nel 2005 a 50 anni dalla morte di Albert Einstein, sul ponte, nella posizione centrale, è stata collocata una targa a suo ricordo, con una frase dello scienziato che quindicenne soggiornò a Pavia per un anno, a cavallo tra il 1894 e il 1895. La targa riporta la frase: “Ho spesso pensato al bel ponte di Pavia” contenuta in una lettera inviata da lui, molti anni dopo, tra il 1946 e il 1947, ad Ernestina Marangoni (1876 – 1972), sua amica durante la permanenza a Pavia della famiglia dello scienziato.

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il monumento alle lavandaie di pavia

Il Monumento alle Lavandaie La statua dedicata alle lavandaie, posta nelle vicinanze del Ponte Coperto è un altro simbolo della città. La scultura in bronzo, opera dell’artista Giovanni Scapolla, realizzata nel 1981 vuole ricordare tutte le lavandaie che ogni giorno si recavano al fiume per lavare i panni in cambio di una miserevole paga. L’artista nel realizzarla riprese l’aspetto e le fattezze di sua madre, lavandaia anch’ella e nota ai pavesi col nome di “Sciura Teresina”. Il lavoro di lavandaia era non solo duro da un punto di vista fisico ma metteva a rischio la salute delle donne che lo svolgevano sia di giorno che di notte: d’inverno lavorando col freddo accendevano il fuoco per riscaldare l’aria circostante e mitigare così le temperature gelide. Nel 2016, a 35 anni dalla sua realizzazione, la città ha organizzato una festa alla quale hanno partecipato due lavandaie ancora viventi.

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07 sosta

Ghiacciai. Futuri fantasmi tra la nuda terra e l’aria del cielo. I ghiacciai.. “I giganti buoni, che candidi e freddi, da sempre proteggono l’uomo, guardandolo da lassù, mentre

marta gandolfi ph: christian casarotto, archivio muse – museo delle scienze, trento

Cosa sta succedendo in alta quota? Cosa ci direbbero, i nostri “candidi giganti buoni” se potessero parlare?

abbracciano dolcemente le montagne”. Così reciterebbero fiabe e leggende e se ne raccontano a centinaia di storie fantastiche su ghiacci, neve, principesse, barbuti “omoni” bianchi e streghe che di ghiaccio hanno pure il cuore. Ma nella realtà, se alziamo gli occhi ad osservare le cime delle vette a noi più care e familiari, oggi, cosa e quanto appare ai nostri occhi dei maestosi e vasti ghiacciai di un tempo?

I giganti buoni, che candidi e freddi, da sempre proteggono l’uomo, guardandolo da lassù, mentre abbracciano dolcemente le montagne. METE MAGAZINE

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Sono andata a chiederlo a Christian Casarotto, esperto Glaciologo e Mediatore Culturale della Sezione di Geologia e Paleontologia del MUSE - Museo delle Scienze di Trento, nonché membro del Comitato Glaciologico Italiano. Christian studia i ghiacciai alpini da circa vent’anni. Gli chiedo innanzitutto come si studiano i ghiacciai, con quali strumenti e per raccogliere quale tipo di dati. Mi dice che i glaciologi si occupano di monitorare le variazioni della massa dei ghiacciai, cercando di capirne le perdite o i guadagni, rari oggi più che mai. Vengono fatte due misurazioni all’anno: una a fine inverno, con cui i glaciologi cercano di quantificare la neve che è caduta (le precipitazioni nevose) e una a fine estate, con cui si calcola invece quanta neve e


ghiacciaio della Marmolada, patrimonio mondiale dell’umanità. Il ghiacciaio più grande delle dolomiti

quanto ghiaccio si sono persi per fusione durante l’estate. Per verificare questi parametri e raccogliere i dati relativi, in inverno, essi usano delle sonde da valanga e annotano lo spessore della neve in cm, mentre in estate, piantano sulla superficie del ghiacciaio le “paline”, degli appositi pali in alluminio, la cui sporgenza viene monitorata per tutta la stagione fino ad ottobre. I pali, vengono piantati nel ghiacciaio per mezzo di trivelle a vapore, “inventate” dagli svizzeri negli anni ’80 ed utilizzate tutt’oggi, che funzionano un po’ come delle pentole a pressione, emettendo del vapore e fondendo il ghiaccio dove si deve inserire il palo. Oltre a ciò, i glaciologi fanno anche confronti fotografici e topografici, per valutare le variazioni dei ghiacciai nel tempo. Attraverso rilievi di campo, osservazioni ed i suddetti confronti, è possibile calcolare le variazioni, l’evoluzione dei ghiacciai e fornire

numeri e dati veritieri, oggettivamente e scientificamente fondati. I dati raccolti vengono poi elaborati per ricavare trend (ovvero andamenti) evolutivi pluriennali: tutti i parametri analizzati vengono “proiettati nel futuro”, grazie all’uso di modelli matematici, per ricavare stime probabilistiche su ciò che succederà o potrebbe verificarsi nell’arco di alcune decine di anni. Vengono anche ricavati grafici delle temperature presenti e passate, per capirne le dinamiche evolutive, viene valutata la bontà degli strumenti con cui sono state rilevate in passato e, utilizzando gli scenari descritti nei documenti dell’’IPCC (Comitato Intergovernativo per i Cambiamenti Climatici), i glaciologi cercano di fare previsioni sui futuri scenari in base alle probabili diverse emissioni di gas serra. Christian sta lavorando su questi aspetti per quanto riguarda il Trentino e presto pubblicherà il lavoro. METE MAGAZINE

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Allora gli chiedo: Qual è il vero stato dei ghiacciai alpini oggi e a cosa è dovuta la loro notevole riduzione negli ultimi anni? Per rispondere a questa domanda Christian mi fa un bell’esempio, comparando i ghiacciai ad un conto in banca. “Ogni conto in banca”, mi dice, “ha delle entrate e delle uscite ed un conto in bilancio positivo si ha quando le entrate sono maggiori delle uscite. I ghiacciai funzionano allo stesso modo: le entrate sono rappresentate dalle precipitazioni nevose invernali e le uscite dall’acqua persa per fusione durante l’estate”. Il bilancio dei ghiacciai si chiama bilancio di massa. Per poter dire se essi avanzano o si riducono però, non è sufficiente considerare un solo bilancio positivo annuale: i bilanci dei ghiacciai vanno calcolati per più anni consecutivi, perché quello che io risparmio è neve che deve trasformarsi in ghiaccio e per tale trasformazione ci vuole tempo. La trasformazione neve-ghiaccio sulle


ghiacciaio di lares, gruppo dell’adamello, trentino

Alpi impiega dai 3 ai 5 anni quindi, per poter osservare un ghiacciaio in avanzata, devo ottenere una serie pluriennale di bilanci di massa positivi, ovvero attendere il tempo necessario al ghiaccio, che a monte si è formato, di scendere verso valle aumentando la massa del ghiacciaio. Devo, cioè, ottenere quello che viene tecnicamente chiamato un trend positivo di bilanci di massa. Solo un trend continuo di bilanci positivi mi può portare a un avanzamento glaciale. Mi spiega che questo è un concetto molto importante da capire e da tenere presente, un concetto spesso erroneamente tralasciato dai mass-media che, invece, si basano sui bilanci annuali, divulgando avanzamenti glaciali che in

realtà non avvengono. Christian mi spiega anche che un ghiacciaio è formato da due zone: a monte, la zona di accumulo, mentre a valle, la zona di fusione, detta zona di ablazione e queste due sono separate dalla linea di equilibrio del ghiacciaio. La zona di accumulo si configura come quella zona dove, alla fine dell’estate si trova ancora la neve dell’inverno precedente; la zona di ablazione è, invece, quella dove affiora il ghiaccio vivo poiché la neve invernale è andata tutta incontro a fusione. Durante l’inverno, il ghiaccio è coperto interamente da neve, per cui, tutto il ghiacciaio è in zona di accumulo. Con l’avvio della stagione estiva, partendo dalle quote più basse, la neve inizia

il ghiacciaio d’agola, dolomiti di brenta

Cosa comporta il “non avere più i ghiacciai di una volta” per l’ambiente ma anche per l’uomo? METE MAGAZINE

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a fondere e la zona di ablazione (il ghiaccio vivo) inizia ad ampliarsi. Se le temperature estive non sono troppo alte e l’estate risulta fresca, il ghiacciaio riesce a risparmiare un po’ di neve ed il bilancio annuale potrebbe risultare in pareggio o, addirittura, tendere alla positività. Purtroppo, a livello mondiale, i ghiacciai da qualche anno stanno vivendo di bilanci negativi. Mi dice Christian che in 20 anni in cui lui si è occupato di ghiacciai, di bilanci positivi ne ha visti solo pochi. Negli ultimi quindici anni, per esempio, i bilanci dei ghiacciai in Trentino sono sempre stati negativi, eccetto quelli delle annate 2008-2009 e 2013-2014. Il Ghiacciaio del Careser, nel settore trentino del Parco Nazionale dello Stelvio, per citare un esempio, del quale


si ha la più lunga serie di dati di bilanci di massa disponibile in Italia, dal 1967 ad oggi si trova in ritiro costante, addirittura bilancio costantemente negativo dal 1981 ad oggi. Il riscaldamento climatico attuale non porta a trend di bilanci continui in positivo, per cui i ghiacciai arretrano costantemente (Dati bilanci di massa, fonte: Provincia autonoma di Trento, MUSE, SAT – Società degli Alpinisti Tridentini). Inoltre, sebbene da certi media passi il messaggio che di ghiacciai ce ne sono più di prima, la realtà è che questo avviene perché, a seguito dell’arretramento, i ghiacciai si frammentano in apparati più piccoli che, solo a livello di inventario, restituiscono un numero di ghiacciai maggiore di quello di prima.

Chiedo ancora a Christian: Cosa comporta il “non avere più i ghiacciai di una volta” per l’ambiente ma anche per l’uomo? I ghiacciai sono un importante archivio di acqua, allo stato solido, ceduta con regolarità durante l’estate. Sono quindi importanti elementi capaci di regolare il deflusso idrico superficiale, cedere acqua che può essere utilizzata per scopi civili, agricoli, industriali e per la produzione di energia elettrica: ricordiamo tutti i bacini artificiali d’alta quota costruiti negli anni ’50 per la produzione di energia elettrica, come per esempio quello del già citato Careser o quello di Fedaia in Marmolada. E, non da meno, i ghiacciai sono una componente fondamentale del paesaggio, che caratterizza le alte

i ghiacciai della lobbia, a sinistra, e dell’adamello a destra. il ghiacciaio della lobbia è il più grande del trentino. l’adamello è il ghiacciaio più grande d’italia

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montagne, che crea bellezza, porta turismo e, quindi, economia. Non avere più “i ghiacciai di una volta” può comportare anche altri pesanti disagi per l’ambiente e per l’uomo: l’assenza dei ghiacciai potrebbe determinare un più irregolare deflusso idrico a causa delle maggiori precipitazioni liquide (ovvero, per la diminuzione delle precipitazioni nevose che, fino agli anni ‘80, caratterizzavano abbondantemente i nostri inverni), causando modificazioni degli assetti morfologici del nostro territorio e delle strutture che su esso insistono, modificazioni che, in certe zone, potrebbero perfino cambiare le dinamiche ecosistemiche di certi bacini, per esempio variando le condizioni vitali di certe specie di pesci. Per cui la presenza dei ghiacciai può regolare un deflusso idrico che, altrimenti, anche in inverno risulterebbe catastrofico. La riduzione dei ghiacciai per fusione è correlata con situazioni di dissesto idrogeologico, di cui talvolta si sente parlare relativamente a danni infrastrutturali e ambientali anche di notevole entità: in ambiente alpino, o comunque montano, tali fenomeni possono provocare danni a strutture antropiche, come i piloni delle funivie o le fondazioni dei rifugi di alta quota, causandone il crollo. A questo si allaccia la questione del permafrost, quel ghiaccio permanente che sta dentro e sotto il terreno, il ghiaccio nascosto fra un sassolino e l’altro, che in passato teneva “incollato” il suolo e che si sta degradando a causa del riscaldamento globale: il terreno in precedenza gelato, con il degrado del permafrost, si mette in movimento, causando il cedimento di tutto ciò che sta sopra e rendendo le montagne più instabili. Altro aspetto: i pendii che circondano i ghiacciai rilasciano detriti rocciosi che, cadendo, vanno a ricoprirli parzialmente. Oggi i ghiacciai, sempre più piccoli e sempre più vicini ai pendii ad essi circostanti, vengono quasi completamente ricoperti da tali detriti, fenomeno che crea i così detti “ghiacciai neri”, dove il ghiaccio va a nascondersi sotto una coperta di detrito anche instabile.


rilievo nivostratigrafico christian casarotto rilievo topografico del ghiacciaio con gps rover

La conclusione è facile ed intuitiva: noi, come l’ambiente, abbiamo bisogno dei ghiacciai. Cosa dovremmo aspettarci dal futuro prossimo, chiedo a Christian, ovvero quali sono le previsioni sui ghiacciai in base ai dati che voi glaciologi state raccogliendo? Mi risponde con una frase breve ma ricca di significato: “le prossime generazioni saranno le ultime a vedere i ghiacciai in Trentino e probabilmente su tutte le Alpi, al di sotto dei 3500 metri. Entro la fine del secolo vi saranno ghiacciai soltanto alle quote più elevate”. Queste le previsioni, ad una scala alpina, datate in realtà in tempi non troppo lontani, si parla all’incirca del 2070, ovvero, tra qualche decina di anni. Stiamo andando incontro ad una perdita dei ghiacciai che, ad oggi, se non cambiamo qualcosa, potremmo definire “irreversibile” perché attualmente irreversibile pare l’aumento del riscaldamento globale della Terra, se le emissioni dei gas serra dovessero rimanere identiche a quelle di oggi. Forse quindi è tardi per salvarli, per poter fare ancora qualcosa? Forse dovremmo solo indirizzarci un grosso mea culpa? O forse qualcosa potremmo ancora fare per ridurre il riscaldamento globale. Ad ogni modo queste conoscenze e queste previsioni devono farci riflettere. Quando andando in montagna ed alzando gli occhi vediamo i ghiacciai, restiamo pure a contemplarli nella loro maestosità e bellezza, ma facciamolo pensando a tutto questo e alla loro importanza per noi e per l’ambiente. Ringrazio vivamente Christian Casarotto per averci dedicato il tempo di questa piacevolissima chiacchierata ricca di importanti nozioni sui “candidi giganti buoni” delle nostre montagne alpine. METE MAGAZINE

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Antermoia, la meta stupenda dalla splendida Val Dona Capitano, in una vita generalmente piatta e grigia, emozioni così forti che si fatica a descriverle.

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Il viaggio non è mai una questione di soldi, ma di coraggio. Paolo Coelho

passi emiliano ardigò ph: wikipedia

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Qualcuna però ti illumina così tanto l’anima che, con un piccolo viaggio nei ricordi, merita davvero di essere condivisa e raccontata. Scrivere un libro, pescando nei meandri del proprio vissuto, è già una bella emozione; se poi lo presenti ad una platea di amici la sensazione è bellissima. Quando poi ti rendi conto che magari qualcuno di questi amici ha affrontato un sacco di strada per essere lì con te, resti stupito da quanto possa valere una amicizia, nata per caso, che però è per te e, spero, per chi la vive con te, di enorme soddisfazione. Permettimi di fare qualche nome… oltre a Virna, la mitica giornalista della valle, desidero ringraziare METE MAGAZINE

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Elisabetta, Viola, Rosella, Simonetta, Simona, Eliana e Vittorio, Libero con la sua compagna, e tanti altri di cui non conosco o non ricordo il nome: mi avete davvero regalato un bellissimo raggio di sole. Di quei giorni, pochi ma intensi, oltre l’escursione che poi ti racconto, e le emozioni che, come volevo dirti, le amiche e amici mi hanno donato, mi resta impressa una frase che una bambina Toscana, Viola, nel mio stesso albergo, di otto anni ha detto: “l’anno prossimo, sarò più grande e voglio fare una camminata con Emiliano” soddisfazione immensa, forse la mia passione è contagiosa e io probabilmente la so raccontare e condividere.


la conca dell’antermoia, con il lago e il rifugio

Oppure l’emozione che mi ha dato Enrico, che, incrociandomi mentre muovevo i primi passi verso malga Monzoni per poi salire su Cima Undici, ha fermato la macchina e dicendo di avermi visto su internet, con la mia conferenza, la sera prima mi ha chiesto di unirsi a noi, per poi arrivare insieme in cima con uno spettacolo credo, per lui e per noi, impagabile. Ma, come sempre, le cose che più mi sanno regalare, nonostante la fatica, sensazioni bellissime, spesso di stupore e meraviglia, sono le escursioni e se di quella del primo giorno, su Cima Undici nel gruppo della Vallaccia, ti ho già solo accennato, parlando dell’amico Enrico, ti voglio raccontare quella al mio luogo magico, la mia meta preferita ogni volta che ritorno in valle, il lago e rifugio Antermoia, da un sentiero che non avevo mai fatto, che mi ha stremato dalla fatica ma anche regalato, soddisfazione ed emozione, quello che parte da Mazzin, sale con ripidissime serpentine al rifugio Dona, e tramite il passo che dà il nome a questo grazioso e piccolo rifugio (Dona) al mio personale paradiso, il rifugio Antermoia. Sul sentiero molto, ma molto ripido (io tra l’altro l’avevo già fatto in discesa ma, ricordandole la fatica ne avevo dimenticato l’intensità) ci sono scorci panoramici molto belli su Pozza, sul gruppo della Vallaccia e lo sguardo abbraccia la valle fino a quasi Soraga. Invece, arrivato a Camerlot, il

verdissimo e delizioso pianoro che spezza la faticosa e ripida intensità del sentiero, appaiono i giganti, da qui quasi benevoli, la Marmolada la regina, il Sassolungo, il Molignon e altre cime dove lo sguardo si perde ogni volta in eterei sogni. Qui è bellissimo camminare, tra prati in fiore e scenari paradisiaci e questa pseudo pausa diventa anche occasione di riposo e di pensieri leggeri come la brezza che dalle cime dei monti rinfresca questi luoghi magici. A proposito, io vado in montagna, spesso, sono allenato ma il fiatone in salita, viene anche a me, come i pensieri cattivi appena partito, sulle prime salite, col pensiero di chi me lo da fare, del perché devo sempre cercare la sofferenza e dubbi vari, quindi se ti capita, è normale, capita a molti e a me sicuramente. Comunque l’ultima salita, quella al passo Dona, che da sotto sembra terribile, me la faccio con passo regolare e cadenzato, forse perché la mia anima sente che il sogno, uno dei tanti si sta quasi realizzando. Di questa ultima camminata, mi resta il piacevole ricordo dei battiti del mio cuore che, dal petto sembravano arrivare, forti e regolari, con un ritmico e continuo tum-tum come fosse un tamburo, al mio cervello, forse per dargli più forza e motivazioni verso la meta. Arrivati a passo Dona, non resta che una facile discesa fino al rifugio e ti devo confessare una cosa che mi ha colpito, che non avrei mai pensato, arrivato vicino al rifugio, mi sono METE MAGAZINE

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EMOZIONI FASSANE Il libro di Emiliano Ardigò, edito da IM Editore. Per informazioni contattare:

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commosso, ho proprio versato calde lacrime, forse perché in quest’anno sono salito quassù moltissime volte, oppure perché invecchiando sto diventando troppo emotivo, comunque non mi pento, le mie lacrime, non volute, hanno rinforzato la mia passione per questi ambienti, con il lago ameno, piccolo ma sempre con un fascino particolare, che ogni volta mi tocca il cuore con note e sensazioni davvero bellissime. Appena arrivato al rifugio, assetato e ancora trafelato mi sono gustato una birra. Tu sei libero di pensarla come vuoi, ma io sono convinto che il primo sorso di una media fresca, quasi ghiaccia, sia paragonabile, come carica emotiva ad un orgasmo, infatti dopo questa gioia ho fatto pace con il mondo ed ho iniziato ad ammirare scenari che, nonostante conosca molto bene, hanno sempre qualcosa di nuovo che colpisce la mia anima. A parte la bellezza del luogo, la cosa più bella è stata la compagnia del gestore del rifugio, Martin Riz, che seduto al nostro tavolo (cosa che due settimane fa non avrebbe potuto fare, visto la mole di persone che arrivava), ha parlato con noi della bellissima esperienza che regala la montagna a chi ha la forza di perdere un po’ di sé stesso e di mettersi in gioco. Per me le guide sono tutte grandi persone, ma la cosa che più mi affascina di loro è l’immenso amore per le montagne che esce da ogni loro gesto, ogni METE MAGAZINE

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loro parola. Grazie Martin, ti conoscevo di fama, ma parlarti mi ha fatto capire che non avevo sbagliato pensando che tu fossi un grande e una persona davvero bella dentro. Il lago Antermoia mi ha regalato anche questa certezza. Lasciato a malincuore questo mio e di molti, sempre di più, luogo magico, siamo scesi per la rapidissima e selvaggia Valle Udai, nella prima parte accompagnati dallo scroscio delle acque del Rio che dà il nome alla valle, e circondato da una natura davvero selvaggia, con un sentiero molto bello che nella parte alta richiede un po’ di attenzione visto la presenza di ghiaietto fine che può, spesso, portare i piedi a scivolare. Infatti per un paio di volte mi sono trovato seduto per terra, da capire è se sia stata la ghiaia, oppure la media a cui facevo riferimento prima. Comunque, giornata fantastica, emozionante, con amici impagabili e scenari che elevano lo spirito. Probabilmente è la dodicesima volta che arrivo all’Antermoia, ma già mente e cuore stanno mettendosi di accordo per ritornarci l’anno prossimo o magari prima ancora. La meta sarà ancora quella, cambierà sicuramente l’itinerario, ma non cambia mai la mia voglia, il mio desiderio di essere tutt’ uno con tanta bellezza che, sicuramente, nella gioia del ricordo, colorerà di sfumature nuove le magari tristi, sicuramente grigie e fredde serate del prossimo inverno.


09 mindfulness concentrarsi nel qui ed ora per accrescere il proprio benessere

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Imparare ad accettare sé stessi e la realtà in maniera non giudicante: il ruolo della mindfulness viaggio in sé stessi martina verrilli ph: pexels

Durante gli ultimi due decenni vi è stato un crescente interesse sull’effettiva possibilità di utilizzare la Psicologia dell’est in un setting clinico e, in particolare, quelle tecniche basate sulle pratiche di origine buddhista. Numerosi studi hanno tentato di indagare le possibili implicazioni cliniche di questi approcci e le loro applicazioni nel trattamento di disturbi psicologici. Si è sentita, infatti, la necessità di combinare queste pratiche con quelle componenti innate della natura umana che sono decisive nell’interpretazione degli eventi e nei comportamenti di tutti gli individui (Didonna, 2009). Queste componenti possono essere ritrovate nell’accettazione dell’esperienza (Hahn, 1998), nell’attitudine compassionevole verso la propria e altrui sofferenza (Gilbert, 2005), nella capacità di osservare sé stessi senza giudicare (Kabat-Zinn, 1990) e nell’idea che la mente può osservare sé stessa e capire la propria natura (Dalai Lama et al., 1991), ma anche nella capacità di dirigere l’attenzione alla sfera emozionale e nella relazione di interdipendenza tra la mente e il corpo (Goleman, 1991). Tutte queste componenti possono essere racchiuse nel concetto di mindfulness. La mindfulness è il cuore della Psicologia buddhista (Kabat-Zinn, 2003) e si riferisce ad uno stato di consapevolezza che METE MAGAZINE

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include una presenza cosciente alle esperienze momento per momento (Brown & Ryan, 2003). Questo stato si sviluppa attraverso la pratica meditativa (Kabat-Zinn, 2005), che permette di diventare meno reattivi a quello che ci accade nel momento presente; è un modo di relazionarci alle nostre esperienze, siano esse positive, negative o neutre, e fornisce un mezzo attraverso il quale ridurre i livelli generali di sofferenza e aumentare il benessere (Germer et al., 2005). Un aspetto centrale delle pratiche di mindfulness riguarda il senso di accresciuta ma distaccata consapevolezza delle sensazioni e dei pensieri. La comprensione del valore terapeutico di questi processi potrebbe rappresentare un completamento importante della Psicologia occidentale (Walsh, 1996). La crescente integrazione tra mindfulness e psicoterapia è giustificata dal fatto che la mindfulness può essere considerata un costrutto trans-teorico che può essere utilizzato in diversi approcci terapeutici occidentali. Oggi, i differenti modelli (terapia cognitivo-comportamentale, psicoanalisi, traumatologia) possono infatti usufruire di un fattore unificante comune a tutti i trattamenti psicologici; il meccanismo di cambiamento che costituisce la base della meditazione mindfulness può essere ritrovato nella maggior parte delle prospettive psicoterapeutiche occidentali. Gli approcci basati sulla mindfulness pongono anche attenzione all’importanza delle risorse personali e potenziali e alla capacità dell’individuo di guarire sé stesso.

L’unione di mente e corpo Nella mindfulness rilevanza particolare è data all’unità mente-corpo, per la quale l’identificazione e la descrizione delle


imparato ad attivare in relazione alla loro esperienza personale. Un aspetto importante di questa relazione è la tendenza a lasciarsi sopraffare e dominare dai pensieri, fino al momento in cui essi non possono più essere controllati a lungo. Durante la meditazione, si diventa consapevoli del fatto che si è continuamente immersi in un flusso ininterrotto di pensieri, il quale si presenta a prescindere dalla nostra volontà di averli o meno. Il problema non è eliminare i pensieri, ma disidentificare l’individuo Consapevolezza, esperienza presente da essi. I principali programmi basati sulla e accettazione sono i tre elementi mindfulness, come ad esempio la Mindfulness fondamentali della mindfulness. basata sulla riduzione dello stress (MBSR, Kabatconsiderando che molti pazienti hanno Zinn, 1990), si focalizzano sull’idea di difficoltà ad esprimere i propri pensieri “non essere i propri pensieri”, ossia e le proprie emozioni e preferiscono fare sul non identificarsi con essi. Meno la uso del corpo come metafora delle loro mente sarà identificata con il contenuto esperienze. Il concetto di unità mentedei pensieri, maggiori saranno l’abilità corpo è stato fondamentalmente perso dell’individuo di concentrarsi e il nella cultura occidentale, ma nella senso di calma. La meditazione agisce, pratica meditativa assume un ruolo quindi, cambiando non i contenuti della centrale: le due entità comunicano mente, ma l’identificazione con essi; in modo attivo e continuo. Dietro l’obiettivo è quello di far diminuire la questa differenza tra le due culture, vi forza coercitiva dei contenuti cognitivoè una diversa concezione di mente e affettivi, fino alla sua totale scomparsa. salute/malattia, alla base della quale I processi di decentramento e disidentificazione, che nelle terapie troviamo la dicotomia che caratterizza cognitive standard sono considerate il pensiero occidentale da quando un mezzo per raggiungere l’obiettivo Descartes, nel diciassettesimo secolo, (ad esempio cambiando i contenuti introdusse la divisione dell’essere in dei pensieri), sono loro stessi la meta due entità separate, mente e corpo. nelle terapie basate sulla mindfulness. Questo dualismo ha permeato la Queste favoriscono un atteggiamento cultura occidentale a tal punto da non “lasciar andare” verso i propri pensieri, considerare l’interazione mente-corpo fondamentale per la salute fisica e come possibile campo di ricerche psicologica, dal momento che aiuta scientifiche. Solo recentemente, ad evitare di rimanere bloccati in essendo più evidente la debolezza del circoli viziosi nocivi. Il danno peggiore paradigma dualista, questa tendenza ha causato dalla ruminazione è il fatto che cominciato ad essere capovolta. i pensieri si alimentano continuamente: questo processo genera emozioni che Meditazione diventano sempre più intense e lontane mindfulness, processi dalla situazione attuale, cosicché, con il cognitivi e sofferenza passare del tempo, diventa sempre più difficile differenziare la realtà dal giudizio mentale su essa. Per questa ragione, secondo la Uno dei fattori principali che causa mindfulness, è molto importante che i e mantiene la sofferenza mentale è pazienti imparino come disidentificarsi l’atteggiamento che le persone hanno dai loro pensieri. sensazioni corporee e delle percezioni costituiscono un canale di informazione importante circa la sfera cognitivoemozionale. È importante sottolineare che, negli interventi di mindfulness, la concezione della relazione dell’individuo con il corpo è differente da quella normalmente adottata nella cultura occidentale: la pratica di mindfulness permette di esplorare la dimensione della propria fisicità in modo autonomo e spontaneo. Questo aspetto è molto importante,

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La mindfulness: terapia e pratica Jon Kabat-Zinn (2003), un pioniere nell’applicazione terapeutica della mindfulness, definisce quest’ultima come “la consapevolezza che emerge prestando attenzione allo scopo, al momento presente e non giudicando il dispiegarsi delle esperienze momento per momento”. Bishop e colleghi (2004) definiscono la mindfulness come una “autoregolazione dell’attenzione al fine di mantenerla sull’esperienza immediata, consentendo così un maggior riconoscimento degli eventi mentali nel momento presente e


adottando un particolare orientamento verso l’esperienza caratterizzato da curiosità, apertura e accettazione”. Consapevolezza, esperienza presente e accettazione sono i tre elementi fondamentali della mindfulness. L’accettazione riveste un ruolo primario soprattutto nei pazienti travolti da esperienze traumatiche: la consapevolezza senza accettazione non permette di lavorare con ciò che occorre nella vita di chi soffre intensamente. Al contrario, senza consapevolezza, l’accettazione potrebbe diventare una forma di evitamento difensivo. Quando i pazienti giungono in terapia, cercano qualcuno che li aiuti a comprendere chi sono e perché stanno soffrendo

così tanto. La compassione è la matrice invisibile che tiene unito tutto il resto; la parola deriva dal latino e significa “soffrire con”. Se il terapeuta offre consigli utili senza prima fornire accettazione e compassione, il paziente può sentirsi incompreso. La mindfulness può essere coltivata attraverso esercizi e pratiche che comprendono diverse forme di meditazione. Lo scopo non è, come abbiamo visto, svuotare la mente dai pensieri, ma allenarla ad essere consapevole di cosa sta facendo e a riconoscere che si sta pensando quando lo si fa. La mindfulness non prevede di essere senza emozioni: in realtà, con la mindfulness, spesso si ottiene l’effetto opposto. Infatti, poiché

l’obiettivo è quello di prestare attenzione ai contenuti della mente e non scappare dal dolore, le emozioni vengono esperite in maniera più completa e vivida. La pratica di mindfulness accresce la capacità di sostenere questo dolore. È importante, inoltre, astenersi dalle azioni automatiche e immediate che possono dare sollievo: ad esempio, se mentre si medita sopraggiunge un prurito, l’istruzione tipica è quella di osservarlo e prestare attenzione agli impulsi che nascono, ma non agire su di essi. Il risultato è, naturalmente, un maggior disagio, ma se si impara ad esplorare e ad accettare queste esperienze spiacevoli, la capacità di tollerarle aumenta.

BIBLIOGRAFIA Bishop, S. R., Lau, M., Shapiro, S., Carlson, L., Anderson, N. D., Carmody, J., Segal, Z. V., Abbey, S., Speca, M., Velting, D., & Devins, G. (2004). Mindfulness: A proposed operational definition. Clinical Psychology: Science and Practice, 11(3), 230–241. Brown, K.W., Ryan, R.M. (2003), The benefits of being present: Mindfulness and its role in psychological wellbeing. Journal of Personality and Social Psychology, 84(4), 822–848. Dalai Lama, Benson, H., Thurman, F., Goleman, D., Gardner, H. (1991), MindScience. An East-West dialogue. Wisdom Publications, Boston. Didonna, F. (2009), Mindfulness-based interventions in an impatient setting. Clinical Handbook of Mindfulness, 447462. Germer, C., Siegel, R., Fulton, P. (2005). Mindfulness and psychotherapy. Guilford Press, New York. Gilbert, P. (2005). Compassion. Routledge, New York. Goleman, D. (1988). The meditative mind. JP Tarcher, Los Angeles. Hahn, T.N. (1998). The heart of Buddha’s teaching. Transforming suffering into peace, joy and liberation. Parallax, Berkeley. Kabat-Zinn, J. (1990). Full catastrophe living. Delacorte, New York. Kabat-Zinn, J. (2003). Mindfulness-based interventions in context: Past, present, and future. Clinical Psychology: Science and Practice, 10, 144–156. Kabat-Zinn, J. (2005). Coming to Our Senses. Healing Ourselves and the World Through Mindfulness. Hyperion, New York.

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10 Il ritorno dell’inflazione: come proteggersi È un tema recente il ritorno dell’inflazione in quasi tutto il mondo, dovuto alla mancanza di componentistica elettronica cinese e alla carenza di manodopera, anche qualificata, richiesta dalle imprese. Gli Stati hanno scelto fra l’altro di stimolare la domanda per accelerare la ripresa economica, senza risolvere i colli di bottiglia nella catena dell’offerta. Il risultato è appunto una inflazione crescente e,probabilmente, più persistente del previsto, con risvolti drammatici in alcune economie emergenti come la Turchia, dove la crescita dei prezzi sfiora il 20%. I risparmiatori si chiederanno pertanto come fare a salvaguardare il proprio potere d’acquisto. A mio parere una risposta sono i BTP Italia legati all’inflazione italiana con scadenza a 4 anni, oppure i BTP€i legati all’inflazione europea con scadenza variabile, anche a 30 anni. A mio parere l’inflazione europea supererà quella italiana per molti anni a venire per ragioni strutturali, dunque la seconda opzione potrebbe risultare la migliore. Non sono altrettanto convinto che investire nell’azionario in modo disattento e poco selettivo possa fruttare guadagni, dato che le valutazioni risultano spesso già gonfiate e l’aumento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali potrebbe generare vendite generali sui mercati azionari, provocando avversione al rischio e maggiore propensione ad acquistare titoli sicuri e redditizi a quel punto (grazie all’aumento dei tassi).

I risparmiatori si chiederanno come fare a salvaguardare il proprio potere d’acquisto. i talenti e i frutti vinicio paselli ph: freepik

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La mera parsimonia non è economia. La spesa, o una grande spesa, potrebbe essere una parte essenziale

della vera economia. Edmund Burke

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11 Il Dollaro si sta rafforzando grazie al tapering della Federal Reserve, ossia la riduzione di acquisti di attività finanziarie, ma anche grazie al probabile aumento del tetto del debito americano che drena Dollari dal mercato e al buon andamento dell’economia americana, che lascia presagire una stretta monetaria Un Dollaro forte facilita più intensa, visto che l’inflazione è elevata. la competitività delle L’economia europea e italiana beneficeranno del rafforzamento nostre merci. del Dollaro in un contesto di alta inflazione americana, nonostante il rincaro dei beni energetici, che danneggia le famiglie europee. Un Dollaro forte facilita la competitività delle nostre merci, sia sul mercato interno che su quello americano.

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Il rafforzamento del dollaro e le conseguenze positive per l’Europa METE MAGAZINE

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Senza meta, libere riflessioni La storia è quell’insieme di fatti ed eventi tra loro interdipendenti che, nel loro evolversi cronologico stabiliscono, determinandolo, l’andamento dell’esistenza umana. FABIO BERGAMO

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