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Roberto Beccantini
PREFAZIONE
di Roberto Beccantini
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Conobbi Gianfranco attraverso Giuseppe Ghillini, presidente della Federbaseball. Eravamo a metà degli anni Sessanta, gli anni del boom. Bologna, città all’avanguardia: attorno al calcio, una botta di adrenalina, un sacco di sport. Fra questi, il baseball. Papà conosceva Ghillini che conosceva Civolani. Sapeva, Ghillini, che Civola, corrispondente di “Tuttosport”, cercava un ragazzo di bottega: in gergo, un “galoppino”. Papà gli parlò della mia passione per i giornali e il giornalismo, Ghillini ne parlò a Civ. Era il 1966. Avevo 15 anni e mezzo, frequentavo il liceo classico Marco Minghetti. Scoccò un qualcosa che, all’inizio, fu cerino e, poco dopo, scintilla.
Ci fiutammo al telefono: io rapito, lui concreto. Subito in mischia. A Casalecchio di Reno, per Libertas Aurora-Verona 6-14, partita della Serie B di baseball. Ho conservato quel numero di “Tuttosport” come il più caro dei cimeli. Martedì 7 giugno 1966: a pagina 9, in un’epoca in cui le pagine erano distese di piombo, senza il silicone della grafica a gonfiarne il panorama, affioravano un tabellino e una decina di righe, con una parentesi all’inizio. E dentro la parentesi, il paradiso di due lettere: r. b. Le mie iniziali. “Imposte” dal Civ. Fu il cielo a toccarmi con un dito, non viceversa. Prendete un debuttante e fategli segnare un gol al primo pallone. Ecco: provai le stesse emozioni, le medesime capriole nella pancia.
Mi ha dato del lei per un sacco di tempo, poi siamo passati al tu. Quando Zelio Zucchi lasciò vacante la cattedra del basket a Torino, la direzione scelse Gianfranco. Che non aveva nessunissima voglia di muoversi da Bologna. L’amava trop-
po: nello sport, nella politica, nell’arte, nella vita. Mai e poi mai l’avrebbe tradita. Da ogni trasferta, rientrava appena possibile: mania che mi ha attaccato. Alla marines: compiuta la missione, tutti a casa. E se dalla redazione lo pregavano di restare, nessun problema: c’era sempre il telefono.
Consigliò me. E così, il 20 agosto 1970, a nemmeno 20 anni, esordivo fra Giglio Panza, il direttore, e Gian Paolo Ormezzano, fra Gianni Romeo e Pier Cesare Baretti. Per questo, e per molto altro, gli devo tutto. Mi ha insegnato a governare l’enfasi, a domare l’ansia, a disarmare la paura. Mi spiegò che, nelle interviste, le domande devono essere corte, per dar spazio alle risposte. E, alla fine del testo, sempre il virgolettato dell’interlocutore, mai un inciucio tipografico fra un mezzo quesito e un mezzo salamelecco. Mai. Guai.
Se n’è andato il 3 novembre di un anno fa. Una domenica. Sapevo che stava male, ma sapevo anche che era già stato male e sempre si era ripreso. Non questa volta. Me lo comunicò Matteo Marani. In casi del genere, si rischia di scivolare sulla buccia del sentimentalismo che, uomo libero e scrittore di rottura, visceralmente detestava. Ma come faccio a restare freddo di fronte a ricordi così forti, a episodi così nitidi? Come quella volta al Minghetti, durante l’ora di chimica del professor Gualandi, quando il bidello bussò alla porta della nostra aula per comunicargli che, in segreteria, c’era una telefonata per me. Era Gianfranco che mi chiedeva se nel pomeriggio avrei potuto fare un salto a Ravenna per un’amichevole del Torino: «È il Toro, caro Beccantini, e sa cosa significa per il nostro giornale».
A ogni dicembre partoriva un libro. Li ho quasi tutti, sparsi nello studio come le sue ceneri sui colli di Bologna, libri di calcio, ma anche di basket, di teatro, di cultura. Raccontandosi, raccontava il vasto mondo che aveva navigato e i suoi protagonisti, dai più colti ai più pittoreschi. Come faccio a dimenticare il giorno in cui, all’Olimpiade di Monaco, entrai
nella sua camera e mi trovai davanti a un plotone di mele? O tutte le volte che, a Bologna, mi spediva ai pranzi ufficiali di questa o quella società perché la tavola proprio non la reggeva? A Basilea, il giorno in cui con Fabio Monti ci trovammo tutti a caccia di Socrates, il “filosofo” brasiliano che, nel mirino della Roma, sarebbe poi passato alla Fiorentina, ci dettò addirittura i tempi: «Bei passeroni, avete mezz’ora, non un minuto di più».
Con l’età, un po’ ponte e un po’ muro, ci siamo staccati. Non però allontanati. Lo chiamavo sotto Natale, implacabile, e ci scambiavamo opinioni, battute, facevamo le pulci a tizio e a caio. Ci divertivamo. Lo leggevo sul “Corriere dello Sport – Stadio” e leggerlo era come telefonargli. C’è chi avrebbe parlato di pigrizia e chi (gentile eufemismo) di malizia. Non ho dubbi come l’avrebbe chiamata lui: paraculismo.
Bologna e il Bologna, la televisione e la radio. La Virtus, di cui era tifoso, ma anche la Fortitudo, Peppino, con il suo negozio di bigiotteria in via Clavature, ombelico di ogni gossip cestistico (e non), Aza Nikolić con la sua giacca di camoscio e Dan Peterson con il suo slang da aspirante stregone. Le arringhe dell’avvocato Gianluigi Porelli, i foulard di Giuseppe Brizzi, presidente di un Bologna non proprio memorabile: erano i cavalli di battaglia di Gianfranco, montati con il disincanto del cowboy che non intende patteggiare con il rodeo delle sue idee. E che aveva, dell’ironia, lo stesso concetto che emerge dalla storia del romanziere David Foster Wallace: «La vera ironia si usa solo in casi d’emergenza. L’uso prolungato la fa diventare la voce di gente in gabbia che ha finito per amare le proprie sbarre».
Sono stato fortunato, molto fortunato. A quei tempi, i miei tempi, se un giornalista cambiava testata veniva sostituito. Oggi, si stapperebbe champagne. E lo sono stato ancora di più perché la mamma, pur piangendo davanti allo specchio della sua camera, non mi disse resta, mi disse vai. Già, la mamma.
Di primo pomeriggio, mentre dormicchiavo nella poltrona del tinello, rito che ho coltivato con lo zelo del chierichetto che fui a San Cristoforo, nel cuore della Bolognina, talvolta squillava il telefono. Rispondeva lei. Se era una zia, continuavo a ronfare, beato. Ma se l’approccio suonava più o meno: «Buongiorno, dottore. Glielo passo subito», sapevo chi era. E sapere che era lui, mi dava un brivido (sarò all’altezza delle richieste?), ma era bello, oh sì, era proprio bello.