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Addio campione

CORRIERE DELLO SPORT – STADIO 14 novembre 1993

ADDIO CAMPIONE

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Andiamo tutti a vedere che forse passa il Rex. Sì, laggiù al mare c’è anche un po’ di foschia, ma forse il Rex come d’incanto apparirà in questo piccolo porto delle nebbie, chi lo sa. E intanto qui in Piazza Grande migliaia di riminesi portano l’ultimo saluto-omaggio al loro dilettissimo concittadino, al ragazzo che in un’alba del Trentanove prese il trenino e salutò la sua impagabile compagnia.

Nella sala delle Colonne in piazza Cavour c’è la bara con un grande fascio di rose rosse (“la tua Giulietta”) e accanto al feretro c’è una donna che piange in solitudine. È Valentina Cortese che non è Gelsomina e che non è Cabiria e che non è nemmeno Giulietta degli Spiriti, ma che fu sempre così felliniana nei suoi comportamenti e nelle sue espressioni più vitali.

Nel mentre sfilano tutti e sono mille, cinquemila, diecimila, ma che importanza può avere fare numeri a casaccio quando ci sono tanti giovani che ai tempi dei Vitelloni non erano nemmeno nati, tanti giovani e giovanissimi che evidentemente hanno il culto delle memorie storiche? Poi arrivano anche i politici, ma sì, il signor sindaco, il presidente della Regione, il riminesissimo Renato Zangheri, il patròn del Grand Hotel Pietro Arpesella e quant’altri e la partecipazione è così compita e composta com’è nelle abitudini di gente che sa sempre come e cosa fare.

Si sfila – dicevamo – e si lasciano messaggi. Ognuno ci tiene a vergare di suo pugno un semplice pensiero, un ghiribizzo di penna, una riverenza in forma di prosa. E al momento

della cerimonia solenne, nella piazzola si accalcano in mille o duemila, anche qui vietato fare la conta esatta. Il vescovo di Rimini Mariano De Nicolò benedice la salma e accanto a Sergio Zavoli (riminese illustre che ha avuto l’onore di fare l’orazione funebre) ci sono il poeta Tonino Guerra, l’amico inseparabile di sempre Titta Benzi e c’è pure Maddalena Fellini con tutte le autorità togate (basta, nessuna citazione) e ovviamente non c’è Giulietta carissima perché lei il suo Fellini l’ha già salutato a Roma con quel gesto straziante che dovrebbe metterci un’angoscia infinita perché Fellini aveva una donna che l’ha salutato così e chissà quanti di noi non hanno e non avranno nessuno.

Il sindaco Giuseppe Chicchi ricorda e si indirizza anche a un’Italia deteriore che fa stridente contrasto con il suo Genio Migliore. E parimenti il signor sindaco dà notizia di tutto ciò che sarà fatto in onor suo di lui Fellini. Una piazza, una clinica riabilitativa e una fondazione sul cinema intitolate al Maestro. Nei prossimi giorni si deciderà in sede di Giunta Comunale di chiamare piazza Federico Fellini la piazza già Indipendenza, quella che racchiude il Grand Hotel e il porto. E siccome poi Fellini voleva regalare alla sua città un centro specializzato di fisiatria, si procederà anche in questa prospettiva. E infine poteva Rimini città dell’immaginario felliniano non dar corpo a una Fondazione Fellini, luogo di ricerca e di studio dell’Opera di lui? Il museo sarà ricavato dentro palazzo Valloni, un’antica struttura nel centro storico che ospita ancora il cinema Fulgor, laddove la mitica Gradisca andava a godersi i film con Clark Gable e occhieggiava e si faceva occhieggiare, perché no.

E quindi Zavoli, davvero l’uomo giusto per questo tipo di Grandi Orazioni. Zavoli non va per il sottile quando denuncia il bigottismo e il settarismo che inquinarono i rapporti di certa cultura (o culturame?) che prendeva le distanze dal miglior Fellini (per esempio quello de La dolce vita) in nome

di un’arte retrograda e passatista che non voleva arrendersi al nuovo. Fu così anche con Picasso e con Stravinskij – dice Zavoli – e troppi non vollero accorgersi che anche questi artisti ci proponevano un mondo nuovo e migliore. Zavoli punta l’indice pure sui vecchi sepolcri imbiancati che in questi giorni hanno avuto l’impudenza di riciclarsi per esaltare chi avevano sbertucciato in modo così codino e manicheo. Ma poi Zavoli tocca altri versanti, ricorda che dopotutto Fellini fu ed è il sogno di un sogno e le parole di Zavoli planano su una platea che sottolinea con applausi molto misurati e sorvegliati i passi più incisivi e le scansioni più struggenti nell’evocare e nel magnificare senza una virgola di caduta. E dopo Zavoli c’è Tonino Guerra, grandissimo poeta, che racconta del suo amico Fellini e della necessità per tutti noi comuni mortali di vivere una vita “verticale” perché Fellini amava scalare le vette della poesia e solo vivendo una vita verticale noi tutti potremmo un giorno incontrare il maestro. «L’altra sera sono venuto qui in visita per dare a Federico la buona notte – conclude Guerra – e stamattina sono tornato per dargli il buongiorno. Io mi ricordo che una volta gli ho chiesto: “Ciao Federico, ma a te la morte non fa paura?”. E lui mi ha risposto: “Ma guarda che forse è il godimento di un lungo viaggio”».

La partecipazione si fa più massiccia, anche il mondo dello sport (il Rimini calcio e le squadre di basket e di pallavolo) offre la sua testimonianza e proprio per ricordare il versante “sportivo” di Fellini porto un mio personalissimo ricordo. Eravamo al ristorante Pappagallo di Bologna, Fellini aveva invitato Nereo Rocco perché voleva dargli un ruolo da protagonista in Amarcord. Noi attendevamo fuori dalla porta, lui ci chiamò per un pezzo di torta. Rocco scuoteva il testolone e Fellini ci disse: «Bei ragazzuoli, non c’è proprio un cazzo, nel senso che io di calcio non so un cazzo e per ora il vostro Rocco non mi ha risposto un beneamato cazzo».

Io non sono felliniano, diceva sempre Federico agli intimi e in questo senso e magari senza nemmeno saperlo ricalcava Marx che a un interrogante parigino aveva detto: «Monsieur, mais je suis pas marxiste». Fellini era l’uomo del Borgo di San Giuliano e dopo l’orazione funebre si passa tutti per piazza Tiberio e io non so se Don Valosa, Ovo Galvanina, Mario Plita e Gradisca ci sono o no, ma sì, mi pare che comunque ci siano e che ci siano anche tutti quelli dei Vitelloni, Francone e Franchino, la Leonora, Albertone, Riccardo, Leopoldo, il vecchio Achillaccio e Franco-Moraldo che poi partì per la tangente.

Rimini si è cosparsa di manifesti (il Maestro in atteggiamento di meditazione) e di locandine con Fellini che ha la ciliegia sul naso. La salma viene tumulata attorno alle cinque della sera nella cappella di famiglia e la gente di Rimini torna a lavorare in silenzio. Echeggiano ancora nella piazza le note immortali di Nino Rota, un tutt’unico con le immagini di Cabiria o di Gelsomina o di Casanova o di Ginger & Fred o della Nave che va e della Luna che ha quelle Voci.

Quando Fellini stava male ed era ricoverato a Rimini, disse a Dorina (a proposito: l’adorata-infermiera è qui anche lei): «Io non capisco come mai tutti mi vogliono tanto bene. Devo aver fatto qualcosa per la mia città, ma non mi ricordo proprio cosa». Andiamo, ragazzi, andiamo giù al mare a vedere passare il Rex.

Mercoledì sera hanno proiettato per noi tutti I Vitelloni. Moraldo-Federico alla fine lascia il borghetto e parte per Roma. Ma adesso Moraldo-Federico è tornato. In via Chiavica e in via Padella, nel cuore del Borgo, la gente si toglie il cappello. E al Bar Auto per cinque minuti la smettono di parlare di Baggio e di quel patacca di Sacchi. Andiamo e spicciamoci sennò il Rex non lo vediamo mai più.

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