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I salvatori dei bambini

CORRIERE DELLO SPORT – STADIO 22 febbraio 1992

I SALVATORI DEI BAMBINI

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Viaggio fra i missionari della Caritas

Belém – Appuntamento alla Igreja da Mercés, alla chiesa della Mercede, nel pieno del mercatone di Belém e a cento metri da dove nasce il Rio delle Amazzoni. Piove o forse no, qui d’inverno questa specie di pioggina (garola) è un fatto fisiologico e l’umidità pazzesca (il novantacinque per cento) ti infrollisce e ti impiomba. Bene, l’appuntamento con padre Giorgio è qui dai Missionari Saveriani. L’Ordine è stato fondato dal vescovo di Parma don Guido Conforti ed è ufficialmente riconosciuto dal 1912. Padre Giorgio è appunto uno dei 48 Saveriani che stanno qui in Amazzonia. Ma lui in questa chiesa ci viene solo lunedì per ritirare la posta e magari per colloquiare con chi dovrebbe aprirgli porte e portoni. Lui, padre Giorgio, opera a trenta chilometri nell’interno, nella zona di Boa Esperança, una bolgia infernale, capanne, miseria nerissima e case di piacere per i super-ricchi che schiavizzano e brutalizzano i superpoveri.

Chi è padre Giorgio Paiusco. Ha cinquantaquattro anni stupendamente portati (magliettina, bragoncini e pedalare), è di Padova e all’età di ventisei anni, lui diplomato, lavorava ancora nell’azienda del padre. Poi nel ’71 la rivelazione, insomma la decisione di farsi sacerdote e di aderire ai Saveriani. E subito via in Indonesia a fare il direttore scolastico nelle isole. «Ci sono stato quindici anni, ma un bel giorno poi mi hanno espulso. Il regime di Suharto evidentemente non poteva più sopportare che in terra islamica un prete cattolico

fosse diventato così importante e scomodo. Semplicemente non mi hanno rinnovato il visto e allora nell’Ottantotto ho chiesto io di venire qui in Amazzonia. Sono arrivato in questa città, mi sono guardato un attimo intorno e ho scelto la zona di Boa Esperança per portare avanti il mio apostolato.»

«Come ho trovato la situazione? Terrificante. Niente scuole, niente acqua, niente luce, diciotto chilometri per diciotto da percorrere e da vivere fra disumane sofferenze. E tanti bambini praticamente abbandonati. Sono stato accolto con grande diffidenza. Non portavo la tonaca, non stavo in chiesa, non ero il prete che gli anziani erano abituati a vedere. Ma poi hanno capito che potevo essere veramente il padre della povera gente e in poco tempo abbiamo realizzato grandi opere. L’acqua è ancora quella del pozzo, la luce non è ancora arrivata, l’alimentazione è una cosa allucinante, farina impastata con un frutto a colazione e quello stesso frutto impastato con farina per cena. Ma intanto ho potuto già far adottare duecentosettantotto bambini, ho incentivato l’artigianato, ho collaborato alla realizzazione di alcuni centri sociali, sono riuscito a mandare a scuola questi miei bambini. Un giorno saremo tutti più importanti, un giorno i giovani in questo Paese saranno molto diversi dai loro padri. Però è anche chiaro che nel frattempo io potrei rimetterci la pelle. Qui imperano tre cose: il carnevale, il calcio e il sesso. Il popolo viene ignobilmente sfruttato e lei crede che il governo e le multinazionali possano consentire che un pover’uomo come me voglia alfabetizzare e magari un giorno sindacalizzare i giovani? Sicuramente è per questo che già due o tre volte qualche camion ha cercato di investirmi. Qui si usa così quando qualcuno dà fastidio. Ti ritrovi con la testa fracassata e nessuno vuole sapere chi sei e chi ti ha conciato per le feste.»

Cristo Redentor – Andiamo all’inferno. Vi risparmio i dettagli. Nel villaggio ci guardano come se fossimo di un altro pianeta. Ho assoldato un autista, ma le strade sono sterrate e pare che da queste parti non passi un’auto per mesi e mesi. E

fra le capannacce ogni tanto c’è il Buon Sorriso o il Bel Ristoro o l’Amore Mio, ma non sono luoghi ameni per convittori, sono bordelli di prima classe nei quali il turista (ahinoi, particolarmente il turista italiano) convoca bimbi e bimbe per compiere stragi di cuori e di anime e di cervelli e di corpi. E se i fanciulli e le fanciulle non ci stanno e si mettono a frignare, i casi sono due: soppressione violenta di chi frigna o nella migliore delle ipotesi due calcioni nel posteriore e il bimbo che alza le mani al cielo perché gli è andata bene.

Arriviamo davanti al Centro del Cristo Redentor. Aule (si fa per dire) per tremiladuecento bambini divisi ovviamente per turni, diciassettemila famiglie assistite. Vivaddio, ognuno qui impara a scrivere il proprio nome, ognuno almeno una volta al giorno mangia da cristiano, ognuno può servirsi di un minilaboratorio di analisi e di una infermeria-astanteria.

Estella Elena Bacellar Cruz è la direttrice di questo centro. È una vedova che ha deciso di dedicare tutta la sua giornata a questa povera umanità. Qui chiaramente c’è bisogno di tutto, l’infermeria è una cosa agghiacciante, il laboratorio analisi offre le garanzie che offre. Ma ci sono tanti bambini che tentano di imparare l’abicì e dalla cucina sale un profumetto non malvagio e nello spiazzo dietro le aule c’è il terreno per edificare ancora qualche muretto.

«Guai – mi dice padre Giorgio – se io non fossi il grande rompipalle che sono. Il mio ruolo è questo e meno male che i rapporti con il vescovo di Belém sono molto cordiali. Probabilmente questi rapporti si deterioreranno nel momento in cui riuscirò a organizzare qualche sfilata di protesta del villaggio. Be’, mi si lascia fare finché non minacciamo di toccare un certo livello di guardia, lei capisce. Ma intanto con i pochi mezzi che raccogliamo abbiamo potenziato le due scuole che c’erano e abbiamo costruito due cappelle e un altro centro sociale. Io praticamente non ho un minuto libero. Finanzio questo tipo di educazione alternativa perché nelle

scuole pubbliche i professori fanno sempre gli interessi delle classi dominanti. E poi aiutiamo i bambini a studiare perché le scuole costano. E alle famiglie distribuiamo ogni mese dieci chili di riso, sei di fagioli, mezzo chilo di caffè e due litri di olio oltre a farina, quaderni, libri. Di quanto ho bisogno per poter tener botta? Mi bastano centosessanta milioni l’anno perché per adottare ognuno di questi ragazzini è sufficiente inviare cinquanta al mese, dopo venga a leggere le mie schede. Mediamente il capofamiglia qui guadagna appunto cinquantamila mensili. Ma è tutta gente che vive di espedienti e che non ha un lavoro sicuro e insomma con un biglietto da cinquantamila io riesco ad aiutare per un mese un’intera famiglia e fare studiare minimo un paio di bambini tra i tanti che ogni famiglia ha messo al mondo.»

Ci congediamo dal Cristo Redentor. La signora Estella vive qui con la vecchia mamma e con un amico giardiniere che dà una mano. Per rallegrare madama Estella in giardino ci stanno una scimmietta, un roditore, un pappagallo e un paio di galli cedroni. «Io mi riempio di gioia guardando i bambini acquistare coscienza» mi dice la direttrice. «Se non ci fosse gente così – fa padre Giorgio – qui morirebbero tutti di fame e il Governo sarebbe anche contento perché per il Governo questa gente non deve esistere, come cancellata dall’anagrafe.»

Le schede – Andiamo un attimo a casa di padre Giorgio. Vive in questo inferno e buon per lui che una casettina (indebitamente occupata a lire zero, mi informa) è sufficientemente confortevole, insomma c’è il bagnetto e c’è un lettino a dimensione d’essere umano. «Lei osserverà che vivo appena un po’ meglio dei miei – chiamiamoli così – parrocchiani. Loro non hanno nemmeno riparo dalla pioggia perché lei avrà visto che qui piove spesso e l’acqua piovana entra nelle case e si mescola all’acqua del pozzo che a sua volta si mescola con i liquami di queste persone perché il cosiddetto gabinetto è un buco lì dove ci sta il pozzo.»

In casa padre Giorgio è aiutato da un segretario, un bambino che è cresciuto con un minimo di alfabeto e di consapevolezza. Guardiamo insieme le varie adozioni. Se ci si rivolge alla Caritas di Parma e si inviano le cinquantamila mensili, poi la Caritas provvede a inviare il denaro alla cassetta postale della chiesa della Mercede. Prendo in mano qualcuna di queste schede. Per ogni bambino c’è una piccola foto e poi l’età, le condizioni del capofamiglia e naturalmente il nome di chi adotta. Sei bambini sono stati adottati da Claudio e Andrea Taffarel (il numero uno del Parma e la sua donna), sei bambini o forse anche qualcuno di più. Ma le schede recitano che i coniugi Taffarel hanno finora adottato Anderson (9 anni), Antonia (12), Endelma (12), Fabio e Roniuldo (12 pure loro) e Louis (quattordici). Anderson è il terzo di quattro figli, suo padre guadagna quarantamila al mese, ma quando li guadagna veramente. Ma c’è anche Ana Cristina Miranda Da Souza di anni sei, quarta di otto figli, padre manovale stagionale, indirizzo in Passagem Fé Em Deus, Spirito Santo. La bimba non ha ancora una grande capacità di concentrazione per via che la sottoalimentazione ti toglie una certa continuità nel pensiero. Ma intanto la bimba ha già cominciato a scrivere il suo nome perché la bimba è stata adottata da una famiglia italiana e i soldini arrivano puntualmente e magari questa bimba non finirà in un postribolo, ma riuscirà un giorno a trovare un posto da cameriera all’hotel Hilton in città, chissà mai.

Anarosa – Rifuggo dalle scene strazianti, non voglio stringermi ai bimbi più di tanto, non voglio lanciare biscotti e formaggini come se fossi lo zio Sam. Cerco di mantenere il mio distacco, ma non è facile. Chiamiamo i bimbi a raccolta per la foto e meno male che padre Giorgio non racconta niente e insomma non dice che qui c’è un giornalista che semplicemente vuole offrire una testimonianza toccante e che quel giornalista lavora per un giornale che ha preso a cuore

questa nobile causa. Sì, sono i nostri bambini, i bambini che abbiamo adottato e che adotteremo e che altra brava gente – vero? – adotterà. «Ormai la mia vita è qui – fa padre Giorgio accompagnandomi in città – e ogni tanto farò anche un salto in Italia perché a Padova ho ancora i genitori, ma l’Italia si è troppo materializzata, l’Italia è per antonomasia il Paese del grande capitale e io non mi ci ritrovo più. Io voglio vivere qui tutta la mia vita, io la sera mi mangio il tempo organizzando i corsi, assistendo i professori, galvanizzando l’ambiente. Se Dio mi dà altri vent’anni e se gli uomini non mi ammazzeranno prima, questi bambini diventeranno dei giovani con una coscienza e sarà una goccia nell’oceano, ma proprio con queste nuove classi qui forse qualcosa potrà cambiare.»

Sì, ma Anarosa? Ecco, facciamo conto che una di queste bimbe che ancora muoiono di fame e non sono state adottate da nessuno si chiami Anarosa. Già, Anarosa ha un cervellino perché non mangia, Anarosa non sa né leggere né scrivere, Anarosa ha dieci anni, il suo papà è una specie di bruto senza scrupoli, la sua mamma ha altri dieci figli da non mandare in malora. Anarosa un giorno o l’altro finisce sul bel sofà del Divino Amore, là dove un garimpeiro o un fazendeiro o un italianuzzo che ricicla denaro sporco la stuprerà insieme ad altre piccole anime mentre la megera cercherà di addolcire la cosa con una schifosissima caramella di limao e con una spremutina del frutto della passione, che passione.

Ma se ci spicciamo, almeno Anarosa la salviamo. Anarosa ci aspetta, vi aspetta.

Nella pagina accanto: una visita alla scuola fondata da padre Giorgio dei Missionari Saveriniani in Amazzonia che toccò profondamente il cuore del Civ.

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